lunedì 31 dicembre 2012

La Stampa 31.12.12
Verso il 2013, il Centrosinistra
Primarie,successo delle donne
Renziani battuti, Gori accusa
Un milione ai seggi del Pd. Bersani: partecipazione straordinaria
di Carlo Bertini


C’è chi è soddisfatto, perché un milione di votanti nel periodo natalizio «è una partecipazione straordinaria», gongola colui che le ha volute queste primarie dei parlamentari, cioé Pierluigi Bersani. Chi tutto considerato è «abbastanza contento» come Romano Prodi che ha votato a Bologna. E chi invece avrebbe preferito scardinare il porcellum con il referendum firmato da oltre un milione di cittadini, cioé Arturo Parisi, che le considera «utili» ma non sufficienti a risarcire i cittadini «dal furto di democrazia» e mette piuttosto in luce «la scarsa affluenza». Di sicuro non ha aiutato il week end festivo, se si considera che in quasi tutte le province è andato a votare un terzo dei partecipanti alle primarie di un mese fa e anche la corsa a ostacoli dei candidati non ha giovato: molta gente lamenta di non aver avuto tempo e modo per informarsi sui candidati da scegliere per lo scarso tempo a disposizione. Fatto sta che se il dato politico che emerge a caldo da questa tornata è «il bilancio magro» dei renziani schiacciati dall’apparato loro ostile, il dato sociologico è il notevole successo delle candidature femminili: non solo quella piuttosto scontata della Bindi che supera il 60% dei voti in quel di Reggio Calabria, o di Anna Finocchiaro che dovrebbe avercela fatta a Taranto, o di Barbara Pollastrini, la più votata in assoluto a Milano; ma piuttosto quelle di volti meno noti e giovani leve che si affermano in giro per l’Italia: in Piemonte, dietro Cesare Damiano, si piazzano tre donne, Paola Bragantini, Francesca Bonomo e Annamaria Rossomando, che superano due parlamentari conosciuti come Pietro Marcenaro e Fabrizio Morri. A Salerno conquista 9 mila voti Angelica Saggese sostenuta dai lettiani e destinataria della solenne investitura di Bersani come «simbolo del rinnovamento del partito. Perché la gente ha buon senso e se può incoraggiare un giovane o una donna lo fa sempre e chi ha lavorato ha avuto il suo premio». A Caserta, la giovane deputata anti-camorra Pina Picierno, del gruppo di Franceschini, sbanca con oltre 5 mila preferenze, così come a Imperia vince Donatella Albano, ex consigliera comunale di Bordighera, che denunciò le infiltrazioni della criminalità organizzata. E anche a Monza, dove il rottamatore Pippo Civati arriva primo, riescono a piazzarsi dopo di lui due donne, Lucrezia Ricchiuti e la deputata uscente Alessia Mosca. Insomma, i primi dati delle primarie del Pd sembrano confermare che «ha funzionato la doppia preferenza di genere con grandi successi per molte giovani donne», commenta Enrico Letta.
Discorso a parte per i renziani che oltre i cinque sicuri in Lombardia, altri 5 o 6 in Toscana e una decina in giro per l’Italia non esultano certo, ma confidano di poter incassare alla fine dei conti una ventina di candidature da queste primarie; e altrettante nel «listone bloccato», portando così a casa «una dignitosa compagine» di una quarantina di seguaci del sindaco di Firenze nelle liste del Pd. Ma se perfino un personaggio come Giorgio Gori risulta in bilico essendo arrivato quarto a Bergamo e addossa la colpa anche «al silenzio di Renzi» che ha indotto gran parte del nuovo elettorato del Pd a «volgere lo sguardo altrove», si può capire quanto abbia penato Roberto Giachetti, in bilico a Roma dove se l’è vista con Stefano Fassina, Matteo Orfini e Roberto Morassut che sono passati.

La Stampa 31.12.12
L’amarezza del sindaco “Non sono scappato Bersani mi coinvolga”
“Non potevo sostenere i miei, ma sono andati bene”
di Jacopo Iacoboni


«Era impensabile che mi mettessi a fare campagna collegio per collegio»

Matteo Renzi non è fuggito, non s’è ritirato, dopo la battaglia delle primarie. Semplicemente, ha fatto una cosa non comune in Italia: ha rispettato la promessa di tenersi defilato, qualora avesse perso le primarie. «Ma non scappo affatto. In questa fase ho perso, in futuro... vedremo».
Questo riserbo è innanzitutto un atto di rispetto verso il segretario del partito democratico, Pierluigi Bersani. «Io gli sono leale, per questo motivo sono rimasto distante dalla scena pubblica dopo le primarie. Questo non significa che non abbia delle osservazioni da fare, o che la mia battaglia per il rinnovamento sia finita, o che mi tenga appartato in chiave polemica: nulla di tutto questo. E’ solo che l’avevo detto, sarei rimasto un passo indietro. Non mi ritraggo affatto, questo voglio dirlo. Lo so, per molti commentatori è una cosa difficile da capire; in Italia che qualcuno mantenga una parola data purtroppo fa notizia. Io però sto solo rispettando quello che avevo assicurato ai miei elettori».
Così, nell’ultima domenica dell’anno - una domenica passata regolarmente al lavoro da sindaco, in visita ad asili tra iniziative varie del Comune - Renzi accetta una conversazione informale con La Stampa, non un’intervista, semmai un segno - se qualcuno ne avesse bisogno che lui c’è, e qualche indizio di cosa pensi. In primo luogo sulle primarie: «Non solo sono state un’esperienza bellissima, ma ho apprezzato particolarmente che la scelta delle primarie sia stata ripetuta anche per i parlamentari».
In molti altri paesi, forse dappertutto, un uomo che ha il 40 per cento dei voti del primo partito italiano, e dunque - se si considera che alle primarie votavano anche elettori di Sel potrebbe viaggiare intorno al 45 per cento dei consensi democratici reali, sarebbe non solo ascoltatissimo, ma potentissimo. Verrebbe probabilmente blandito, ricercato, contattato. Renzi è invece qui, a Firenze. Gira su Lungarno in bici. Sta in famiglia con i figli e Agnese. Lavora da sindaco. La battaglia per il rinnovamento s’è un po’ eclissata? Alla fine la mancata candidatura di Ichino col Pd è un evento che pesa, anche simbolicamente.
Renzi però resta fiducioso: «Guardate bene: non è affatto vero che i renziani, uso una parola che non mi piace, scompaiono e non sono difesi, anzi, alla fine in queste primarie una quarantina, forse cinquanta eletti risulteranno vicini alla nostra impostazione. Ma è ancora più importante che il rinnovamento stia passando tra i bersaniani, ci sono tantissime persone giovani. Credo sia anche merito mio. Faccio un esempio: guardate il caso di Brescia, dove la prima eletta è una trentenne; poi c’è l’ex sindaco Corsini, e poi il terzo e quarto sono due vicinissimi a me. Succede così in tanti posti».
Il sindaco non fa nessuna polemica con i dinosauri, se è per quello, ne ha fatte abbastanza. Sa benissimo che non sempre il risultato della fase attuale è incoraggiante, dal punto di vista dell’innovazione, vedi collegi blindati e certe elezioni al sud. Ma oggi preferisce vedere i segni buoni. E a chi gli rimprovera un’eccessiva distanza dalla campagna elettorale per le primarie dei parlamentari, risponde così: «Non c’è nessun distacco, ma era impensabile che dopo la corsa per le primarie mi mettessi a fare campagna elettorale collegio per collegio, per i candidati». Ragiona da leader. «Ciò non vuol dire che me ne stia per i fatti miei, anzi. L’altro punto che vorrei sottolineare è che non è assolutamente nella mia cultura e nella mia mentalità mettermi a trattare posti nel partito. Queste cose non le faccio, è una parte importante della mia idea di rinnovamento».
Insomma, uno stare alla finestra relativo, se possiamo dire così. In futuro, ragiona un Renzi assai sereno, «è interesse più di Bersani che mio coinvolgermi». Certo l’assenza va bene, ma deve - come per certi grandi tipo Battisti - diventare una forma di più forte presenza: «Naturalmente, ma bisogna saper trovare le forme». Senza steccare, impostandosi su una corsa di medio termine.
E le congetture su chi lo vorrebbe in uscita? Paiono del tutto sballate. Renzi starà fuori dal Parlamento, non dal Pd. Per Mario Monti ha «il massimo rispetto», ma non si arruola con nessuno, né giudica faticose coalizioni in via di formazione.
Chi lo conosce un po’ sa che la sfida, anche se rinviata da adesso a domani, è soltanto sua.

Repubblica 31.12.12
Ora Bersani lavora alla superlista Pd
In corsa Mucchetti, in arrivo c’è una pattuglia di intellettuali e docenti
di Giovanna Casadio


ROMA — Effetto sorpresa. Bersani ce l’ha già tutto in mente il “listino” — la quota dei garantiti in lista — ma centellina i nomi. «Li tirerà fuori a uno a uno», dicono i collaboratori del segretario del Pd. Quindi, dopo Piero Grasso, il procuratore Antimafia (e relative polemiche), è la volta di un’altra carta sul tavolo della partita elettorale: Massimo Mucchetti, vicedirettore del Corriere della sera, esperto di questioni economiche. L’annuncio arriva con un tweet. Enrico Mentana, il direttore del TgLa7, twitta a sua volta: «Mucchetti è un grande giornalista e il Pd è un partito serio. Ma resto della mia idea: per noi giornalisti entrare in politica è un controsenso ». La discussione è aperta.
Poco però interessa al leader democratico, che ha come preoccupazione e obiettivo di mettere in campo una squadra forte che distacchi nelle urne i montiani. Sono molto corteggiati in queste ore i cattolici Emma Fattorini, Alberto Melloni, e la docente di diritto del lavoro Luisa Corazza. Melloni, storico della Chiesa, è il più restio a farsi convincere. «L’importante è non indebolire la presenza dei cattolici nel partito, e mantenere il pluralismo culturale che è la cifra del Pd», osserva Antonello Giacomelli. Ma anche rafforzare la presenza di personalità della società civile. Quindi, certi sembrano essere lo storico Miguel Gotor, consigliere di Bersani nella campagna per le primarie; Carlo Galli candidato in Emilia; il filosofo Mario Tronti. Nutrito il gruppetto degli economisti, bisognerà poi vedere chi resterà nella rete: tra questi, Emilio Barucci, Massimo D’Antoni, Pietro Reichlin, autore con Aldo Rustichini di una riflessione proprio sul futuro della sinistra (“Pensare la sinistra”, Laterza). Scontate poi le candidature di Alessandra Moretti, vice sindaco di Vicenza e portavoce del comitato per Bersani alle primarie, di Roberto Speranza e Tommaso Giuntella. In pole position anche Chiara Geloni, direttore di Youdem, e Claudio Sardo, direttore dell’Unità. Certa la candidatura dell’ex segretario della Cgil, Guglielmo Epifani. E c’è la pattuglia renziana, non ancora definita. Nell’ultimo incontro però, Renzi ha consegnato a Bersani una ventina di nomi, tra cui quello dello scrittore Alessandro Baricco e del fondatore di Slow Food, Carlo Petrini. Si parla anche di Oscar Farinetti, il patron di Eataly, candidatura meno sicura. Come dell’attrice Ottavia Piccolo.
Nonostante la polemica sui magistrati in politica, un appello è stato lanciato ieri dal Forum per la legalità e la sicurezza di Firenze, perché sia candidata nel listino Silvia Della Monica, senatrice, ex pm, vice di Pier Luigi Vigna. È stato sottoscritto da
1.033 persone, e inviato a Bersani. «Troppo presto parlare della quota nazionale», commenta Maurizio Migliavacca, il coordinatore della segreteria. Già il 2 gennaio tuttavia, con i risultati delle parlamentarie acquisiti, si decideranno i capilista. Bersani pensa a giovani segretari regionali come il toscano Andrea Manciulli, ma anche a Franco Marini in Abruzzo, a Beppe Fioroni, a Rosy Bindi in Calabria, a Andrea Orlando in Liguria insieme con Lorenzo Basso.

Corriere 31.12.12
Mucchetti e il Pd «Vi spiego perché ho deciso di candidarmi»
di Federico Fubini


Quando l'hai deciso?
«Subito prima di Natale, tra il 22 e il 24 dicembre. E non è stato facile, né comodo. Mi sento giornalista fino in fondo e parte integrante del Corriere. Ma prima di tutto sono un cittadino della Repubblica».
Massimo Mucchetti, 59 anni, editorialista e vicedirettore ad personam di questo giornale, si gode sui campi di sci di Ponte di Legno la domenica di passaggio dalle vesti di giornalista a candidato del Pd alla Camera, nel listino di Pier Luigi Bersani.
Lo sai cosa si dirà ora, no? Enrico Mentana sostiene già che entrare in politica, per i giornalisti, è un controsenso.
«La storia della politica è piena di giornalisti, a cominciare dal Corriere. Da Luigi Einaudi allo stesso Monti, che scrisse cose importanti prima dell'incarico. Da Spadolini a Luigi Albertini, entrambi senatori. Enrico ha una sua sensibilità, rispettabile, ma ce ne sono anche altre».
Fra gli elettori c'è chi penserà che esiste un mondo a vasi comunicanti fra le cosiddette élite, siano esse della magistratura, dei media, degli affari o del palazzo.
«È un tema che non mi tocca: sono figlio di un calzolaio e i miei amici sono persone normali. Il travaso va male se fatto in conflitto d'interessi. Se avviene in modo pulito — la politica disinteressata, diversamente da quanto dice il cardinale Bagnasco, non è appannaggio di un solo uomo né di un solo partito — il travaso può portare competenze ed esperienze. A patto che le élite vengano selezionate per merito e non per censo, per origini familiari o di consorteria».
Ora sei un candidato di partito. Trovi che in Italia la distanza fra i media e gli altri poteri sia sufficiente?
«Bersani mi propone come indipendente, ma accetto di essere considerato di parte. Dovrebbe farlo anche Monti. Altrimenti si fa come il ministro degli Interni, Cancellieri. Ciò detto, la distanza tra i media e i poteri non è mai sufficiente, in particolare verso il potere economico, che oggi è quello principale».
Ti infastidisce l'idea di entrare in Parlamento con il Porcellum, in un listino blindato del segretario?
«Il Porcellum è una cattiva legge e in questa legislatura non si sono create le condizioni per cambiarla. Ma a questo punto, più che provare imbarazzo, mi sono chiesto: se le regole del gioco sono queste, al momento di poter passare dalle parole all'azione che fai, fuggi o ci provi?».
Appunto, è l'ora del fare: meglio l'Agenda Monti o l'Agenda di Stefano Fassina, responsabile economico del Pd?
«Meglio l'Agenda Bersani. L'Agenda Fassina non è scritta da nessuna parte, mentre da tempo il Pd ha la sua che è in rete e tutto sommato non è così diversa da quella del premier».
In cosa si distingue?
«Non sui grandi impegni dell'Italia verso l'Europa e i mercati. Un punto di distinzione è il welfare e il rapporto con il mondo del lavoro. Le pensioni saranno un problema non per il sistema, messo in sicurezza ormai, ma per i pensionati. La propensione di Monti per i fondi pensione mi lascia perplesso. La mia pensione integrativa in mano ai Ligresti o ai fondi cogestiti da industriali e sindacati? Meglio l'Inps. In ogni caso, mi si faccia scegliere. Ho dubbi anche sulle aperture di Monti ai fondi sanitari privati. Meglio mettere le mani dentro il Servizio sanitario nazionale per metterlo a posto, senza buttare il bambino con l'acqua sporca. E invece di dividere i sindacati in buoni e cattivi come faceva Berlusconi, sarebbe meglio attuare gli articoli 39 e 40 della Costituzione».
Qualche mal di pancia all'idea di dover fare i conti con una «Agenda bis» di Vendola?
«Non viviamo di fantasmi. In Puglia, Vendola ha dimostrato cultura di governo. Senza case a Montecarlo. In realtà, il centrosinistra può aiutare Monti a essere più coraggioso. Da commissario Ue, lo fu verso le multinazionali Usa, assai meno verso il duopolio Rai-Mediaset e gli elettrici italiani aiutati a spese dei consumatori. Da premier, non è stato un cuor di leone con la Fiat e non si è assunto le proprie responsabilità di azionista su Finmeccanica. Rispetto Monti, ma non è l'uomo della provvidenza. Sogno un Paese che non ha bisogno di eroi».
Da giornalista hai argomentato la logica delle cosiddette operazioni di sistema, Intesa-Unicredit o Fs-Alitalia. Da politico, le incoraggerai?
«Nessuna operazione è uguale all'altra, vanno tutte discusse nel merito, vedendo quali sono le alternative e chi trae vantaggio e svantaggio da cosa. E certo non mi piacciono tutte. Per esempio, il salvataggio di Alitalia del 2008 fu pessimo».
Hai scritto che le banche fanno bene a comprare sempre più titoli di Stato: ti pare la soluzione per far tornare il credito a famiglie e imprese nel 2013?
«No. Per incoraggiare il credito, indispensabile all'economia e tuttavia fonte di crescenti perdite per le banche, serve altro. Per esempio, una più ampia deducibilità sulle sofferenze bancarie. E tuttavia tenere in Italia gli interessi sui titoli pubblici aiuta».

La Stampa 31.12.12
Nando Dalla Chiesa “Voglio bene a Ingroia ma sta sbagliando”
L’ex parlamentare: non doveva candidarsi
Lo scontro con Grasso: «È stato un buon magistrato Divisioni incomprensibili per la gente normale»
di Paolo Colonnello


Sono parole sofferte, da amico, ma definitive: «Con tutto il bene che gli voglio, con tutto quello che tutti noi dobbiamo a uno come Ingroia, credo che la scelta di candidarsi sia stata un errore. Non la condivido. Non la approvo». Nando Dalla Chiesa ha una storia che parla da sola. Non soltanto perché ha avuto la sua dose di sofferenza personale nella lotta alla mafia - suo padre, generale dei carabinieri e Prefetto di Palermo venne ucciso nella solitudine dei servitori dello Stato - ma perché ha sempre cercato di rimanere in prima fila. Docente di sociologia alla Statale, presidente della comitato antimafia al Comune di Milano e, infine, presidente onorario dell’associazione “Libera”, che proprio l’altro ieri Antonio Ingroia ha dichiarato di voler rappresentare, tra gli altri, con la sua candidatura, Dalla Chiesa è soprattutto il simbolo, nonché il fondatore, di quella Società Civile con le maiuscole di cui spesso si sente la mancanza.
Potremmo partire da qui, da questo cappello messo su “Libera”. Un passo falso di Ingroia?
«In campagna elettorale ognuno cerca di accreditarsi come crede. Ma “Libera” è sempre rimasta fuori dai perimetri dei partiti. Non è vero che appoggeremo Ingroia semplicemente perché libera è fatta da 1.600 associazioni cui aderiscono migliaia di simpatizzanti che votano ciascuno come crede».
Perché lei non condivide la scelta del magistrato palermitano?
«Intanto vorrei chiarire che penso che Ingroia abbia mille meriti sul piano dell’impegno professionale contro la mafia. Però, proprio per ciò che rappresentava e per la sua obiettiva esposizione, che ha richiesto a molti di difendere la natura giuridica - e non politica - del suo operato, sarebbe stato meglio per lui, per la magistratura e per il movimento antimafia che non ci fosse stato questo passaggio alla politica».
In che senso?
«Perché il prossimo Ingroia che dovesse esserci in magistratura, il prossimo pm che farà un’inchiesta contro un potente, si sentirà rinfacciare che lo fa perché poi aspirerà a un seggio in Parlamento; che lo fa perchè le sue indagini sono strumentali a una candidatura. E noi cosa risponderemo? Sono cose che vanno messe sul piatto della bilancia».
Eppure non è la prima volta che un magistrato entra in Parlamento.
«Certo, e contrariamente a ciò che si pensa, c’è sempre stata equa distribuzione di toghe sia a destra che a sinistra. Ma Ingroia non è un magistrato qualsiasi. E il rischio è che poi uno si chieda: ma allora Contrada cosa è stato? E Dell’Utri? E l’inchiesta sulla trattativa Statomafia? Proprio perché sei stato su un terreno così minato devi garantire agli occhi di tutti una personale condizione di terzietà. Per svolgere bene una funzione istituzionale, bisogna proteggerla».
Tra i primi atti politici di Ingroia, c’è stato l’attacco all’ex procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, definito “uomo di Berlusconi”.
«Anche questo non è bello. Sono divisioni che per le persone normali risultano incomprensibili. Grasso ha fatto bene il procuratore antimafia e non ha interferito con le indagini più scomode, anche quelle di Ingroia. E dire che è stato scelto da Silvio Berlusconi è davvero ingeneroso. Io c’ero nella commissione giustizia che lo nominò. E’ vero, venne scelto dal Pdl per fare un dispetto a Giancarlo Caselli che nella testa di certi deputati doveva “pagare” il processo ad Andreotti. Ma alla prima audizione di Grasso in commissione, pensai “vi sta bene! ”. Per dire che se pensavano di avere il “loro” magistrato, si sbagliavano».
Peraltro, anche Grasso si è candidato. Che ne pensa?
«Sono perplesso anche di questo. E’ vero che da anni non è più in prima linea ma è pur sempre un simbolo. La cosa migliore sarebbe stata che Bersani dicesse: se vinciamo le elezioni sarà il ministro della Giustizia. Stop. Quella era la via maestra».

Repubblica 31.12.12
Grasso: “Liberiamoci dalle piccole beghe di quartiere e pensiamo a battere la mafia”
“È Ingroia che mi ha aggredito nessun favore da Berlusconi”
“La storia del premio a Berlusconi? Equivoco banale, l’ho criticato. E poi, con chi mi sono candidato alla fine?”
di Enrico Bellavia


ROMA — Procuratore Grasso, Antonio Ingroia l’attacca, Giancarlo Caselli ricorda di aver subito una legge “contra personam” che spianò a lei la strada di procuratore nazionale. Insomma, cambiano i ruoli, ma siamo all’ennesima lite nell’antimafia?
«La lite è una contesa verbale aspra e violenta tra due o più persone. Io non sto litigando con nessuno, semmai, ho subito un’aggressione».
Da Ingroia?
«La cosa che sta venendo fuori è che gli scontri tra magistrati, le diversi visioni sul modo di fare il nostro lavoro o i rancori personali, possano essere riportati sul piano politico. Questo spaventa i cittadini».
Come impedirlo?
«Io non scenderò su questo terreno. La politica dovrebbe essere qualcosa di alto, io parlo di progetti importanti e condivisi che ho sempre cercato di realizzare, suggerendoli da tecnico ai politici e che adesso spero di contribuire a realizzare da politico».
La contesa elettorale privilegia la polemica, è ottimista sul futuro?
«Bisognerà liberarsi da queste piccole beghe di quartiere. Non ci si confronta con attacchi e scontri scriteriati. Ho sempre difeso il lavoro dei magistrati, ho cercato di unire e non di dividere. Ho riconosciuto a Ingroia che è un collega valoroso, che abbiamo bisogno di schiene dritte: è tempo di progettare e di ideare gli strumenti, le risorse umane e materiali per consentire ai magistrati e ai cittadini di combattere la mafia. Su questo c’è la possibilità di aprire colloqui con chiunque».
Ingroia dice che lei fu scelto da Berlusconi. In politica è un’accusa che vale il doppio, non crede?
«Se dovessi dare ascolto a queste cose perderei tempo».
Ma la legge anti Caselli fu fatta e lei divenne capo della Dna...
«Non escludo che sia stata fatta una legge per bloccare Caselli ma è certo che non è stata fatta per favorire me».
Però l’idea che lei non sia stato sgradito ai berlusconiani ritorna e poi c’è quella scivolata del premio a Berlusconi...
«Ero in una trasmissione radiofonica dal tono scherzoso e mi è stata attribuita una frase che non ho detto: il premio a Berlusconi lo proponeva chi faceva la domanda, non io. In quella, come in altre occasioni, ho criticato aspramente molte delle scelte e delle omissioni del governo Berlusconi: dal contrasto al riciclaggio alla corruzione, al falso in bilancio e al voto di scambio. Se anni di impegno sono annullati da una battuta scherzosa e se questa è la politica siamo messi male. E poi, insomma...».
Insomma cosa?
«Sono candidato nel Pd, non con Berlusconi. Mi pare basti».
Ha presentato le dimissioni e chiesto l’aspettativa. Perché?
«La mia parola è una: le dimissioni sono irrevocabili, ma la procedura per l’accoglimento è lunga. Per non andare incontro a all’ineleggibilità mi è stata consigliata anche l’aspettativa».
Cambia mestiere...
«Potevo restare in magistratura altri 7 anni ma la possibilità di incidere sul piano antimafia è conclusa. Il mio mandato in Dna sta per scadere. Quando Falcone lasciò Palermo per Roma, ho visto, perché ero con lui, cosa si può fare sul versante della legislazione antimafia. Lui fece quella scelta perché gli fu impedito di lavorare, per me si è esaurita la funzione in quel ruolo. Ho preteso di non candidarmi in Sicilia per un fatto etico, nonostante sia una grossa privazione».
Aprirà una segreteria?
«O mi ospitano al Pd o metto un banchetto a piazza Navona».

l’Unità 31.12.12
È essenziale un maggiore coinvolgimento dei cittadini oggi ai margini della politica
Gli «ultimi» salvano la democrazia
di Carlo Buttaroni

Presidente Tecnè

La politica, nelle forme in cui la conosciamo, è questione recente nella storia dell’uomo. Fino alla nascita degli Stati moderni si configurava prevalentemente su questioni che interessavano la difesa dei confini, la gestione dell'ordine pubblico, le relazioni tra chi deteneva il potere. Molti aspetti della vita quotidiana erano affidati a principi regolatori iscritti spesso su un piano teologico o filosofico. Oppure a quelli che, oggi, sarebbero definiti interessi «privati». Solo con l'epoca moderna comincia ad affermarsi una politica che contempla grandi questioni pubbliche che riguardano le relazioni tra le classi sociali, i diritti civili, i temi dello sviluppo, edificando intorno ad essi apparati ideologici per grandi masse di cittadini.
Un processo che ha il suo apice nelle ideologie e nei partiti di massa del Novecento e che entra in crisi con l’affermarsi di una società de-ideologizzata, senza rilievi e contorni di tipo sociologico, sfuggente a ogni sforzo interpretativo basato sui paradigmi precedenti. La crisi delle grandi teorie politiche che avevano ispirato la partecipazione per oltre mezzo secolo ha, oggi, il suo riflesso in una società dalle identità collettive rarefatte, caratterizzata da una convivenza a bassa intensità sociale e dal recedere delle forme legate alla tradizionale partecipazione politica delle fasce di popolazione socialmente più periferiche.
LA PARTECIPAZIONE DEBOLE
Per questo motivo, le riflessioni sul rapporto tra cittadini e politica sollevano, oggi più che mai, questioni relative alla natura e alla qualità della democrazia come si è venuta configurando dalla seconda metà del Novecento. I livelli attuali di partecipazione dei cittadini alla vita politica sono molto al di sotto degli standard descritti negli apparati normativi del diritto pubblico e nei principi iscritti nella Costituzione. Non solo i giovani, ma i cittadini in generale, non partecipano come dovrebbero. C’è chi ritiene che tali livelli siano, in larga misura, fisiologici e analoghi in quasi tutte le democrazie contemporanee e difficilmente modificabili, almeno nel breve periodo. Ma c'è anche chi vede nel deficit di partecipazione di alcune fasce di popolazione la prova che le democrazie contemporanee inadeguatea governare la complessità della società di oggi, pur conservando margini perfettibili che passano proprio attraverso la (ri)scoperta di nuove forme di partecipazione. La qualità della democrazia potrebbe, cioè, migliorare con un più esteso e intenso coinvolgimento dei cittadini, che tenga però conto delle diversità espressive della società attuale, che esprime a gran voce la voglia di partecipare per ricostruire la «cosa pubblica».
Bisogna chiedersi, però, cosa significa realmente «partecipare»? E dove vanno collocati i confini tra l’ambito politico e le molte sfere del comportamento politico indiretto, che ha l’obiettivo di diffondere e affermare valori come «bene comune» e «solidarietà sociale»? Per molti, prendere parte alla vita di un'associazione equivale a vivere un’esperienza politicamente rilevante, mentre per altri il sentimento di estraneità e distanza dalla politica viene vissuto anche nell’atto più «classico» di partecipazione qual è il voto. La gamma delle modalità di partecipazione può comprendere attività individuali o di gruppo, attinenti alla sfera privata o a quella pubblica, in forme convenzionali e non, a tutela di interessi particolari o generali. Essa si associa comunque sempre alla consapevolezza di un gesto e di un’appartenenza collettiva, al perseguimento di un obiettivo e all’affermazione di un principio o di un valore universale.
Una maggiore partecipazione rende i cittadini più informati e competenti, dando voce ai valori e agli interessi di settori della popolazione magari non adeguatamente rappresentati, lasciando minor spazio all' azione dei gruppi di pressione portatori d’interessi particolari. E anche la sanzione sociale, come quella nei confronti delle degenerazioni che hanno segnato l’ultima stagione politica, ne uscirebbe in questo modo rafforzata. Partecipazione come parola chiave della terza repubblica, quindi, perché dal rapporto tra cittadini, partiti e istituzioni dipende la qualità stessa e il futuro della democrazia.
Perché, allora, questo desiderio di entrare a far parte del cambiamento, coinvolge più attivamente alcune fasce sociali, mentre altre rimangono ai margini della vita politica della loro comunità? Da un lato, la presenza o assenza di caratteristiche socioeconomiche, facilita o inibisce il coinvolgimento dei cittadini nella sfera politica. Il grado di centralità o marginalità sociale è, infatti, un elemento determinante. Chi è istruito, ha un reddito medio-alto ed è inserito in una rete di rapporti, ha più facilità ad avvicinarsi alla sfera politica, mentre a scoraggiare i cittadini è spesso l’estraneità rispetto a una politica che vive lontano dalla loro quotidianità, aperta a forme di partecipazione che non producono effetti diretti sulla decisioni. L'apatia politica nasce, cioè, anche come effetto in chi, pur disposto a partecipare, ritiene che farlo non modificherebbe sostanzialmente né le decisioni che riguardano la società, né le risposte ai suoi bisogni concreti. In sostanza, quindi, partecipa attivamente alla vita politica chi ha (o ritiene di avere) possibilità di incidere.
Per questo motivo, da tutte le analisi emerge con chiarezza una configurazione piramidale della partecipazione politica che corrisponde alla configurazione sociale, dove, partendo dal basso e salendo verso il vertice, sono coinvolte quote di popolazione progressivamente sempre minori. Al vertice di questa piramide c'è un nucleo piuttosto ridotto di cittadini che, alla luce di diversi indicatori di partecipazione, sono effettivamente e fortemente impegnati nella sfera politica. Subito al di sotto si trova una seconda e più ampia fascia di persone che costituisce quella che si può definire «l'opinione pubblica attenta», meno coinvolta del vertice, ma che segue con attenzione i dibattiti sulle questioni politiche. Un terzo e quarto livello, ancora più ampio, è composto da quei cittadini socialmente marginali, che rappresentano settori della popolazione generalmente poco informati, scarsamente interessati e solo occasionalmente coinvolti nelle vicende della vita politica.
LA SFIDA DELL’INCLUSIONE
La sfida della società contemporanea è a questi due ultimi livelli e riguarda anche (e soprattutto) il futuro della democrazia. Una sfida che può vincere soltanto una politica capace di ricostituirsi in «agenzia di senso», mobilitante anche per quella parte periferica della società, dalla voce inascoltata, che esprime un’ansia di riscatto, d’identità e di appartenenza a un futuro condiviso. Perché nella periferia sociale, anche se inespresso, o sottaciuto, o sussurrato, si
sente comunque il bisogno di una politica che sappia farsi interprete dei bisogni dei cittadini più fragili, lontani da quel centro sociale cui la politica, negli ultimi anni, è sembrata interessarsi in maniera esclusiva.
In passato, la presenza di reti politiche territoriali, costituivano agenti di mobilitazione capaci di fornire occasioni di partecipazione anche a quelle fasce di popolazione meno portate a essere coinvolte. Oggi queste reti non ci sono più o sono notevolmente indebolite, ma la chiave delle prossime elezioni sarà legata proprio alla partecipazione di quei cittadini che sono scivolati ai margini della politica perché questa non è stata più in grado di rappresentarne i bisogni. D’altronde, un’organizzazione sociale piramidale e una politica orientata su quella parte di popolazione che si colloca ai vertici della società, inevitabilmente tende a ridurre i livelli di partecipazione, mentre, al contrario, una rinnovata attenzione alle fasce di popolazione marginalizzate, permetterebbe di allargare il perimetro politico. Ed è su questa capacità d’inclusione e di coinvolgimento che si gioca il futuro della democrazia.

Repubblica 31.12.12
L’Italia moderata
di Guido Crainz


LA “salita in politica” di Monti pone con grandissima serietà una questione centrale: esiste realmente un'Italia moderata e al tempo stesso riformatrice, capace di mettere al primo posto l'interesse del Paese e di allearsi a tal fine con le forze del centrosinistra? Ed è sufficientemente estesa e capace di esprimere una classe dirigente credibile, estranea alle degenerazioni e al logoramento del sistema dei partiti e al tempo stesso disposta ad impegnarsi in un rinnovamento radicale della politica? Da questi nodi dipende in parte non irrilevante il futuro stesso del Paese.
È svanita presto l'illusione di un rapido dissolversi dell'aggregazione berlusconiana. Altro che Popolo della Libertà: al primo richiamo all'ordine hanno abbandonato residue illusioni di autonomia l' umiliato e succube Angelino Alfano, l'ormai sbiadito Quagliariello, l'ineffabile Cicchitto, l'intramontabile Gasparri e altri personaggi buoni solo per le imitazioni di Maurizio Crozza e di Neri Marcoré. Hanno ripreso fiato le cricche che innervavano il “sistema” coordinato da Denis Verdini ed esulta Daniela Santanché.
Questa è la destra smoderata del nostro Paese: in caduta libera, sembrerebbe, ma forse ove la Lega si accodasse, e grazie alle perverse alchimie del Porcellum - capace comunque di intralciare un governo limpidamente alternativo. Di questo si discuteva sino a domenica scorsa, su questo si intrecciavano conteggi e ipotesi che talora rimuovevano non solo il “fattore Grillo” ma anche un'astensione giunta in Sicilia al 53%. E sembravano considerare irrilevante quella ampia parte degli elettori che avevano creduto nell'illusionismo berlusconiano ed ora sono fortemente esposti alle differenti pulsioni del disincanto conservatore, del rancore, dell'arroccamento nel “particulare”.
Anche a questi elettori - poco disposti a dare credito al Centro attuale o al Centrosinistra -Monti si è rivolto di fatto nella sua conferenza stampa, contrastando in modo aperto la disperata voglia di rivincita del padrone di Mediaset (e della Rai, talora sembrerebbe). Opponendo la propria autorevolezza e la propria “pedagogia” ad una lettura del nostro recente passato falsificata sino al grottesco. Lo ha fatto con grande generosità (altro gli poteva suggerire, naturalmente, la “convenienza personale”) e in piena coerenza: quasi vent'anni fa, ad esempio, al primo profilarsi della discesa in campo e delle fantasmagoriche promesse di Berlusconi, Monti aveva segnalato con forza la “irresponsabilità finanziaria” e la “demagogia” di chi proponeva grandi riduzioni delle tasse senza indicare “il profilo di contenimento della spesa pubblica” e “le voci di spesa che si vogliono contenere” (Questione fiscale tra voto e rigore, Corriere della Sera, 5 gennaio 1994). Al tempo stesso Monti appare più credibile - e più sensibile - dei partiti esistenti nel porre in agenda alcune misure chiare e nette di riforma della politica e di “drastica riduzione” dei suoi costi. Ed è stato credibile e realista anche nella sua iniziale incertezza, che è sembrata a molti un punto debole. Ogni ipotesi di riforma sarebbe infatti impraticabile se non vi fossero al Centro forze ben più ampie delle attuali, e ben più svincolate dall'eredità deleteria di una “partitocrazia senza partiti” precocemente invecchiata. Sarebbe altrettanto impraticabile, infine, se il centrosinistra - soggetto decisivo del mutamento possibile - facesse prevalere il fuoco di sbarramento sulla capacità di dialogare in modo costruttivo con l'idea di società e con la cultura di governo che connotano la proposta di Monti. Questo è invece il terreno centrale: indubbiamente infatti molti limiti nell'azione del suo governo non sono dipesi solo dal fortissimo condizionamento del centrodestra o dalla drammatica emergenza con cui si misurava. Spesso quei limiti rimandavano alla forte sottovalutazione della necessaria equità sociale (o ad un'idea riduttiva e limitata di essa), e forse anche ad una visione algida dell'economia: una visione che prescinde dall'importanza delle speranze e delle passioni, cioè dalla necessità di un vero “moto di popolo” per avviare una Ricostruzione reale. O dalla necessità di considerare assolutamente irrinunciabili i diritti, e fondamentali gli atti simbolici che si compiono, o non si compiono, in questa direzione: chi si candida a riformare il Paese non può accettare di prender la parola in una fabbrica da cui è escluso il principale sindacato italiano.
Per queste ragioni sarà importantissima la risposta che verrà dal Pd, dopo l'iniziale incertezza: sarà decisiva la sua capacità di proporre in positivo un superamento convincente dell'Agenda Monti. E naturalmente di corroborarlo con il proprio rinnovamento e con una franca vittoria elettorale: due elementi strettamente connessi.

Repubblica 31.12.12
Follini: “Si fronteggiano due torti, ma attenti a non rompere il dialogo tra i Democratici e l’area Monti”
“Unica via d’uscita è un’alleanza”
di Goffredo De Marchis


ROMA — Nella polemica a tutto campo tra Bersani da una parte, Monti e Casini dall’altra, vede un rischio non per i partiti ma per il Paese. «Mi viene in mente una frase di Hegel: “Le più grandi tragedie della storia nascono dallo scontro tra due ragioni”. In questo caso direi che siamo di fronte a due torti», spiega Marco Follini, senatore del Pd, ex leader dell’Udc in tandem con Casini, sostenitore da sempre della necessità di un patto tra progressisti e moderati. «Che andava fatto prima del voto. E adesso si capisce
perché».
Bersani e Casini si sono cercati per mesi e ora si sfidano nella campagna elettorale con colpi bassi. Chi ha cambiato posizione in questo rapporto?
«Non voglio fare la classifica degli errori. Il Pd ha sicuramente sbagliato il passaggio dell’alleanza con Vendola che contraddice lo sbocco finale di un’intesa con il centro. Casini si è trastullato troppo nel falso schema dell’equidistanza tra Berlusconi e il Pd, ha insistito in una rappresentazione troppo geometrica di sé. Ma la situazione di emergenza in cui continuiamo a trovarci deve sollecitare un ragionamento di più ampio respiro sul governo. La sfida per i piccoli spazi elettorali da contendersi giorno per giorno sarebbe un atto di irresponsabilità».
Come si fa a rimanere sul filo di un accordo durante la campagna elettorale?
«Si parte dal Paese e dalle sue difficoltà. E si riconosce che esiste una sola via d’uscita: mettere insieme il Pd e l’area Monti, i due grandi pilastri di un’Italia europeista».
Ma il punto è: a chi tocca Palazzo Chigi?
«Lo diranno gli elettori. Per me comunque non si sfugge al dato di fondo: occorrerà un governo capace di parlare con un linguaggio matematico ai mercati e con un linguaggio sociale ai ceti più deboli».
Ci si arriverà dopo il fuoco dei comizi e della propaganda?
«Lo spazio per un’alleanza rimane anche per il dopo, a patto di condurre una campagna costruttiva e reciprocamente rispettosa».
E’ pretestuosa l’accusa a Bondi (e al premier) di non distinguere la funzione istituzionale dal ruolo politico?
«Beh, il passaggio dall’istituzione al partito mi è sembrato in questo caso repentino e non lo definirei un capolavoro di eleganza. Ma io devo mettere pace, no?».
Bersani accusa Monti di ripetere la storia dei partiti personali. Il premier accusa Vendola e la Cgil di conservatorismo. Non le ricorda vecchie sfide elettorali?
«Sì. Da un lato Bersani viene rappresentato come l’ultimo dei bolscevichi. Dall’altro il Pd assimila Monti all’esperienza berlusconiana. Se continuano così il dialogo si rompe e si può allargare l’area dei populismi che dovrebbe essere il bersaglio sia del centro sia dei democratici. Per questo parlo di due torti, per questo mi sento di fare un invito alla responsabilità».

Repubblica 31.12.12
Cercasi regista per un’alleanza
di Claudio Tito


C’È UNA singolare incoerenza in questo inizio di campagna elettorale. Le forze più responsabili del Paese, quelle presenti in Parlamento ma anche quelle che esprimono una parte della società civile più consapevole dei problemi del Paese, improvvisamente si ritrovano a sfidarsi a duello. In una contesa che sembra guardare poco al merito delle questioni e – per usare un termine ormai di moda – alle rispettive agende.
Piuttosto assomiglia a una lotta miope per occupare lo spazio lasciato libero da un Pdl sempre più in fase di disgregazione e recuperare il voto in libera uscita verso
l’astensionismo o la demagogia.
Dopo la “salita” in politica di Mario Monti, insomma, quei partiti che hanno costituito il vero architrave dell’esecutivo tecnico, l’asse che ha permesso all’Italia di uscire da quel vortice che la stava trascinando nella spirale greca del fallimento, d’un tratto hanno spezzato la loro sintonia. Il Partito democratico, i centristi di Casini e lo stesso presidente del Consiglio si sono tuffati in una competizione che a questo punto rischia di compromettere quanto di buono è stato fatto negli ultimi tredici mesi.
Il problema non è la nascita di questo agglomerato di liste centriste intorno alla figura di Mario Monti, ma le modalità con cui questa nuova realtà si sta affacciando sulla scena politica. L’impressione è che la naturale alleanza in questa fase tra soggetti che si richiamano alla cultura europeista e che nella sostanza indicano la medesima strada per la crescita del Paese, venga messa in discussione da una deficitaria capacità di dare ordine alla loro collaborazione. La comune responsabilità assunta nell’arco del 2012 avrebbe dovuto consigliare una regia altrettanto “comune” nelle scelte elettorali. Coordinare per tempo la “salita” in campo del Professore con le decisioni assunte dal partito di Bersani, avrebbe probabilmente consentito di schivare lo scontro che si è aperto in questi giorni. Era ad esempio semplice prevedere che dar vita ad un nuovo soggetto politico dopo le primarie del Partito democratico non poteva che avere un unico effetto: lanciare il guanto di sfida al candidato premier indicato da quasi due milioni di cittadini. Le modalità e soprattutto i tempi per la nascita del Centro, insomma, non sono stati certo ottimali. Manca una “regia”. Manca l’interprete di un’alleanza che nell’ultimo anno ha dimostrato di funzionare. Certo, in occasione della nascita del governo Monti, le funzioni del “regista” sono state svolte dal presidente della Repubblica Napolitano. Il suo compito istituzionale, del resto, era esattamente quello di garantire il buon funzionamento dell’esecutivo tecnico e assicurare il salvataggio della scialuppa-Italia. Ora quel compito non può più essere ricoperto dal capo dello Stato. E infatti si sta giustamente tenendo lontano dalle conflittualità tipiche della campagna elettorale.
Ma la mancanza di un “coordinatore” sta deflagrando con tutta la sua forza. Se il Professore e il segretario democratico non intervengono rapidamente
rinnovando una qualche forma di concerto, le conseguenze ricadranno sull’intero sistema politico e sulla sorte della prossima legislatura. Il centrodestra di Berlusconi, per ora senza fiato, avrà la possibilità di prendere una boccata d’ossigeno. I movimenti più demagogici come quello di Grillo potranno nuovamente urlare al pastrocchio. In questo quadro inevitabilmente l’apparato del Pd si sentirà legittimato ad assecondare la potente forza inerziale impressa dal successo delle primarie. E i centristi autorizzati ad affidarsi al motto “competition is competition”.
I detriti di una pesante campagna elettorale, però, non si potranno disperdere il 25 febbraio. Il polo progressista e quello moderato devono aver chiaro che a urne chiuse le ferite dello scontro non si chiuderanno immediatamente. E il senso della coalizione (senza la destra berlusconiana) sperimentata nell’ultimo anno con il sostegno più convinto al ministero dei tecnici, rischia di naufragare ben prima del voto. Tenendo presente che uno scontro senza regole, senza l’ambizione di concordarne il perimetro, può produrre un effetto pericolosissimo per entrambi gli schieramenti: schiacciare a sinistra il blocco bersaniano e spingere a destra quello montiano. E in effetti i nuovi moderati sembrano muoversi su un confine piuttosto scivoloso, attenti a rimanere equidistanti rispetto al centrosinistra e al Pdl. Il miraggio di una resurrezione Dc sembra incoraggiare un’imparzialità che sorprende soprattutto alla luce del bilancio vergognoso conseguito dal ventennio berlusconiano e in considerazione delle ingiustificabili (e spesso contraddittorie) provocazioni compiute in questi giorni dal Cavaliere. Eppure nessuno come il premier sa quanto sia stata disastrosa l’azione di Berlusconi sul piano economico e culturale. Quale saldo l’Italia debba ancora pagare. E quanto sia stato ed è ancora dannoso il leader del centrodestra per l’immagine del Paese all’estero. Quanto la sua figura venga percepita in Europa come una calamità.
Proprio le emergenze che gli italiani devono affrontare, la fame di lavoro, la richiesta di equità, la necessità di ristabilire un ordine nelle priorità del futuro, dovrebbero indurre i capi degli schieramenti progressista e centrista a cercare “prima” delle elezioni almeno un coordinamento, un patto di non belligeranza, per realizzare “dopo” una vera collaborazione di governo. Perché senza una convenzione tra le forze di centrosinistra e i moderati, il Paese difficilmente uscirà dal tunnel costruito dalla destra populista e demagogica, e la lunga transizione italiana non troverà ancora una conclusione.

La Stampa 31.12.12
Verso la Prima Repubblica
di Luca Ricolfi


Come sarà il 2013? Ce lo chiediamo in molti, perché un anno come quello che ci lasciamo alle spalle non vorremmo si ripetesse mai più.
Un dato riassume bene quel che è cambiato: le famiglie che non riescono ad arrivare alla fine del mese, e quindi sono costrette a fare debiti o ad attingere ai risparmi, sono raddoppiate. Erano circa 3 milioni e mezzo un anno fa, oggi sono 7 milioni: quasi una famiglia su tre.
In questa situazione, la politica si prepara allegramente al voto del 24 febbraio. E anche noi elettori ci prepariamo perché, comunque la pensiamo, dovremo fare una scelta, foss’anche quella di non andare a votare. Per quanto mi riguarda, il sentimento che meglio descrive il mio stato d’animo è un misto di sconforto e solitudine. Un sentimento che non sento come mio personale, ma come largamente diffuso fra la gente, ovvero in tante delle persone con cui mi capita di parlare.
Lo sconforto è facile da raccontare. Quello cui siamo costretti ad assistere è un film già visto e stravisto. Andremo a votare con il «porcellum», senza poter scegliere i candidati. Eleggeremo un migliaio di parlamentari, come sempre. La sinistra ripropone il governo dell’Unione, già miseramente fallito con Prodi nel 2006-2008. La destra ripropone Berlusconi, il demagogo che ha occupato la scena degli ultimi 20 anni. Il centro, come giustamente paventa Eugenio Scalfari nel suo editoriale di ieri, ripropone una piccola Dc, nobilitata e abbellita dal marchio Monti. Spiace doverlo ammettere (perché anch’io per un attimo mi ero illuso), ma la lista Monti – partita con le più alte intenzioni – questo è diventata alla fine: una formazione che di liberaldemocratico ha quasi nulla e di vecchia politica ha molto, se non quasi tutto. Per me, come per altri, è stato un piccolo shock, una doccia fredda. Nel giro di pochi mesi, e poi sempre più velocemente nelle ultime settimane, negli ultimi giorni, nelle ultime ore, fino alla decisiva «riunione in convento» di venerdì scorso, sono cadute tutte le ipotesi più coraggiose e innovative di cui si è parlato negli ultimi tempi. Ancora due mesi fa, sembrava possibile una lista liberaldemocratica, che saldasse «Italia Futura» e «Fermare il declino», i movimenti di Montezemolo e Giannino. Poi, caduta quell’ipotesi, pareva rimasta in piedi quella di una lista Monti «unica» (senza apparentamenti), molto aperta alle forze esterne, molto selettiva verso la vecchia politica, molto severa con i politici condannati. Era questa la missione affidata al ministro Passera, era questo – credo – ciò che aveva attirato nell’area montiana politici di grande valore come Pietro Ichino. Anche questa ipotesi è caduta: alla Camera chi sceglierà Monti dovrà tenersi Casini e Fini, con tutto il seguito di vecchie glorie della seconda Repubblica. E chi avesse qualche simpatia per «Fermare il declino», il movimento liberaldemocratico di Oscar Giannino, non ne troverebbe traccia nella lista Monti. Strano: Monti ha voluto presentare la sua agenda come aperta, ma non ha ritenuto di rispondere alla lettera aperta che Giannino e i fondatori di «Fermare il declino» gli hanno indirizzato dieci giorni fa. Comportamento legittimo, ma in totale dissonanza con le ripetute dichiarazioni di attenzione alla società civile e ai suoi movimenti.
Piccole cose, piccole beghe, dettagli irrilevanti, diranno i paladini di Monti e della sua agenda. E in effetti la si può pensare così. Se si è preparati ad assistere, 40 anni dopo, all’edizione aggiornata del compromesso storico fra comunisti e democristiani,sognato da Enrico Berlinguer nel 1973, la via è tracciata e ci si può accomodare serenamente in prima fila, in attesa che inizi lo spettacolo. Certo, non sappiamo ancora chi, fra Bersani e Monti, farà il presidente del Consiglio, ma è estremamente probabile che – dopo il 24 febbraio – a governarci sia comunque la santissima trinità Monti-BersaniVendola. Perché, contrariamente a quanto qualcuno vorrebbe farci credere, le distanze fra Bersani e Monti sono minime. Lo dicono innanzi tutto coloro che vedono con simpatia le rispettive agende: «l’agenda Monti ha il merito di mostrare che l’imposizione sui patrimoni non è soltanto una mania delle sinistre», molto lucidamente osservava ieri Stefano Lepri su questo giornale. E ancora più esplicitamente, nel già citato editoriale di ieri, scriveva Eugenio Scalfari: «C’è anche un’agenda Bersani. (…) Tra l’agenda Bersani e quella Monti non vedo grandi differenze, anzi non ne vedo quasi nessuna». Il giudizio mi sembra sostanzialmente corretto, anche se qualche differenza non del tutto marginale io invece la vedrei. Appena concluso il patto con Monti, Casini ha subito enunciato il punto fondamentale del suo programma: il quoziente familiare. Per chi non conoscesse il senso di questa oscura espressione, traduco così: se ci sono risorse per abbassare le tasse, le usiamo per alleggerire la pressione fiscale sulle famiglie in cui la donna non lavora e accudisce i figli. L’esatto contrario di quel che i politici e gli studiosi di matrice liberale raccomandano: aiutare le donne inoccupate a trovare un lavoro, detassando il lavoro femminile. Per non parlare di un’altra differenza, forse ancora più importante: in materia di federalismo, nonostante tutto, il partito di Bersani è più sensibile (meglio: meno insensibile) alle istanze del Nord di quantolo siano i partiti del Terzo polo, profondamente radicati nel Mezzogiorno e perennemente tentati da logiche assistenziali.
Il fatto è che, nell’arcipelago Monti, il peso del mondo laico e liberale è ormai al minimo, mentre quello del moderatismo cattolico è massimo, specie dopo che il ministro Passera è stato costretto al passo indietro, e la rappresentanza della cosiddetta società civile è stata interamente appaltata a Verso la terza Repubblica, il movimento scaturito dalla confluenza fra Italia Futura e innumerevoli sigle dell’associazionismo cattolico. Ecco perché, all’inizio, parlavo di sconforto ma anche di solitudine. Oggi, chi avrebbe voluto cambiare decisamente rotta, lasciandosi alle spalle la vecchia classe politica, imboccando risolutamente la strada delle riforme liberali – meno spesa, meno tasse, meno Stato – è disperatamente solo. E, quel che più dispiace, è solo non perché siamo in pochi, ma perché siamo in tanti ma senza rappresentanza. Nella lista Monti le istanze genuinamente liberali contano poco. I radicali, nonostante gli scioperi della fame (o a causa di essi?), sono quasi scomparsi dalla scena politica. Giannino e il suo movimento sono sostanzialmente ignorati dai media. Renzi è stato sconfitto e i suoi uomini sono tenuti ai margini del Pd. Gli elettori non contano nulla, perché i giochi si faranno dopo, in Parlamento, come ai tempi di Craxi, Forlani e Andreotti. In breve, se non vogliamo né Grillo né il ritorno del grande demagogo, la scelta è fra Pci e Dc. Anzi non c’è vera scelta, perché Bersani e Monti governeranno insieme. Che dire?
Buon anno, e ben tornati nella prima Repubblica.

Corriere 31.12.12
Quei dubbi nella Chiesa dopo il sostegno al premier

Le posizioni
Le parole della Cei, i silenzi del cardinale Scola, le perplessità di Ruini
di M. Antonietta Calabrò


ROMA — La Lombardia sarà decisiva per la composizione del futuro Parlamento e per il ruolo dei cattolici italiani. E il silenzio del Cardinale di Milano, Angelo Scola, tanto più rimarca la sua distanza dalla posizione ufficiale espressa dal presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, e dall'Osservatore Romano: cioè quella di una sorta di endorsement a favore del premier Mario Monti. Ma lo stesso Bagnasco l'altro ieri, sabato 29 dicembre, ha parlato a lungo con il ministro Andrea Riccardi e gli ha espresso tre preoccupazioni che sono via via andate crescendo e di cui Bagnasco si è fatto interprete. La prima riguarda il problema dei cosiddetti «temi sensibili o valori non negoziabili». Interpellato su di essi venerdì 28 dicembre Monti, pur dicendosi «grato» per il sostegno del Vaticano, ha tenuto a sottolineare che al riguardo è «molto importante rispettare la libertà di coscienza» individuale. Insomma, quelle che ha chiamato «questioni etiche» sono state escluse dal perimetro ideale e programmatico della lista che egli capeggerà. E questo ha fatto scattare il campanello d'allarme. Le altre due preoccupazioni espresse dall'arcivescovo di Genova a Riccardi sono state da una parte la scarsa attenzione mostrata dalla lista Monti nei confronti di esponenti cattolici del Pdl e il timore di una possibile irrilevanza della lista in relazione ai reali equilibri che usciranno dalle urne.
Con un approccio diverso, e per tempo, si è mosso Scola. Già dal 27 novembre, proprio per non essere tirato per la giacca a favore di questa o quella formazione politica, il Consiglio Episcopale della Diocesi di Milano, presieduto dal cardinale, ha sollecitato i cattolici all'impegno per il bene comune, ma ha elaborato un documento il cui cuore è costituito proprio dalle «questioni etiche». «Un clima di fiducia sarà realizzabile — afferma il documento — se insieme si lavorerà per salvaguardare dall'erosione dell'individualismo le questioni etiche rilevanti, promuovendo i valori ispirati alla retta ragione e al Vangelo». E ancora, continua la dichiarazione della Diocesi: «Per questo i cattolici faranno riferimento ai principi irrinunciabili dell'insegnamento del Magistero della Chiesa sulla famiglia, aperta alla vita, fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, sul rispetto per la vita dal suo concepimento al termine naturale, sulla libertà religiosa, sul diritto alla libertà di educazione dei genitori per i propri figli, sulla tutela sociale dei minori e delle vittime delle moderne forme di schiavitù, sullo sviluppo di un'economia che sia al servizio della persona e del bene comune, sulla giustizia sociale, sul ruolo da riconoscere ai principi di solidarietà e di sussidiarietà».
Ore di prudenza anche Oltretevere, dove si giudica come «esagerata» la valutazione unanime fatta da analisti politici e mass media circa l'endorsement a favore di Monti dell'Osservatore Romano. «Nessuno ha detto — si spiega in Vaticano — che Monti sia l'unica possibilità per un cattolico: lo si guarda con simpatia e rispetto, ma non è che sia stata lanciata una maledizione sui cattolici che si presenteranno nel Pdl, pur restando i problemi che ci sono con la persona del leader; anzi, speriamo che le scelte per la composizione delle liste di quel partito facciano premio per i cattolici». Del resto, l'articolo dell'Osservatore dentro la stessa Curia non è piaciuto affatto ad alcuni cardinali importanti e rischia di riaprire le ferite della lotta interna sfociata nel caso Vatileaks e dintorni. Anche l'ex vicario del Papa, cardinale Camillo Ruini, «il dottor Sottile» della Chiesa, si sussurra che giudichi la «corsa» a salire sul carro di Monti affrettata e non adeguatamente preparata. L'arcivescovo di Ferrara Luigi Negri, uno dei discepoli di don Giussani, ha dichiarato apertamente: «Non credo che il Papa si voglia esprimere nel senso di appoggiare un determinato partito o candidato. Quelli che sono a mediare tra lui e il resto della Chiesa e della società dovrebbero vivere con molta più prudenza questa responsabilità». Secondo Negri, per la Chiesa non c'è «meramente un problema di persone o di analisi strettamente politiche, ma di chiarezza su alcuni criteri per giudicare correnti, posizioni, programmi. Questi sono i valori non negoziabili». Dunque, «un uomo politico può ricevere un appoggio significativo soltanto nel momento in cui si impegna a fare di essi il punto di vista di tutta la sua azione di governo».

Repubblica 31.12.12
Il paese liquido torna a sperare
di Ilvo Diamanti


VIVIAMO tempi liquidi. Ricorro alla metafora – nota e fin troppo usata – di Zygmunt Baumann. Il quale, per descrivere i cambiamenti del nostro tempo, ha liquefatto tutto. Dalla società alla modernità. All’amore. Tuttavia, nessun’altra definizione mi pare altrettanto efficace per riassumere i dati di questa XV indagine di Demos (per Repubblica), dedicata al rapporto fra gli Italiani e lo Stato. Anni liquidi.
PER il logoramento subìto dai principali riferimenti sociali. Le istituzioni: hanno perduto credibilità e fiducia fra i cittadini, negli ultimi anni. A partire dalle più accreditate: le Forze dell’ordine e il Presidente della Repubblica. La stessa magistratura arranca (10 punti in meno negli ultimi due anni). E poi i governi territoriali: Comuni e Regioni, fino a poco tempo fa simboli del federalismo, alternativi al centralismo statale. Cedono anch’essi. In misura significativa. Come le associazioni di rappresentanza economica — sindacali e imprenditoriali. Per non parlare delle banche. Per definizione, istituti di “credito”… In costante perdita di “credito”.
È come se la società non riuscisse a salvaguardare i suoi argini, le sue radici. Sotto i colpi della crisi economica, ma non solo. E divenisse (appunto) sempre più liquida. D’altronde, la fiducia negli attori della democrazia rappresentativa è ridotta a livelli minimi. Non parliamo solo dei partiti ma, soprattutto, del Parlamento. È inquietante vedere come solo il 7% degli italiani lo ritenga credibile. Non sorprende, dunque, che oggi solo il 22% esprima fiducia nello Stato. Circa 7 punti meno di un anno fa. Nell’insieme, dal 2005 ad oggi l’indice medio di fiducia degli italiani verso le istituzioni politiche e di governo, è sceso dal 42% al 29%. Quello verso le istituzioni economiche e sociali dal 35% al 22%. Difficile non dirsi d’accordo con Sabino Cassese e Barbara Spinelli, quando — utilizzando prospettive diverse — definiscono l’Italia una “società senza Stato”.
Anche se, in questa fase, neppure la società e le sue istituzioni se la passano troppo bene. Non solo le associazioni imprenditoriali e sindacali, come abbiamo già detto. Anche la fiducia verso la Chiesa non è mai stata tanto bassa: 44%. Quasi 20 punti meno di dieci anni fa. L’unica istituzione in ripresa è l’Unione Europea. Si è attestata al 43%. Un rimbalzo di sette punti rispetto a un anno fa. Tuttavia, il consenso nei suoi confronti era già declinato sensibilmente negli anni scorsi, visto che ancora nel 2008 si aggirava intorno al 58%. Si tratta, peraltro, di un atteggiamento ambivalente. La Ue, infatti, viene accettata “nonostante”. Suscita insoddisfazione, ma la gran parte degli italiani pensa che “senza” o “fuori” di essa sarebbe molto peggio. Un sentimento analogo a quello verso i servizi. Sanità, scuola, trasporti. L’insoddisfazione nei loro confronti è, infatti, cresciuta anche nell’ultimo anno. Soprattutto riguardo a quelli pubblici. Tuttavia, solo una piccola porzione di cittadini — due su dieci — ritiene opportuno allargare lo spazio del privato.
Anni liquidi. Si è logorata perfino “l’arte di arrangiarsi”. La loro (nostra) “consumata” capacità di adattarsi. Di reagire alle difficoltà — e di creare, innovare — usando le risorse disponibili, nella società e nell’ambiente. Si sta “consumando” (Demos per Intesa Sanpaolo, novembre 2012). Così “non ci resta che la famiglia”. L’unica istituzione e l’unico riferimento in cui gli italiani si riconoscano. A cui si aggrappino. In questi anni liquidi.
Eppure, alla fine del 2012, il più liquido di tutti, il Paese si scopre — se non proprio più ottimista — un po’ meno pessimista di prima. Secondo il 37% degli italiani, infatti, il 2013 sarà migliore di quello che stiamo lasciando. Mentre il 25% ritiene che sarà peggiore. Un anno fa il quadro appariva rovesciato: gli ottimisti erano il 27% e i pessimisti il 42%. Ancora: cresce la fiducia nella capacità del Paese di sfidare i propri vizi storici. Per prima: la lotta all’evasione fiscale. Mentre si rafforza la convinzione che l’economia riprenderà slancio. E che l’immagine e la credibilità internazionale dell’Italia migliorerà. Infine, occorre sottolineare come, secondo l’indagine di Demos per Repubblica, la partecipazione sociale non sia calata nell’ultimo anno ma sia, invece, cresciuta sensibilmente rispetto a cinque anni fa (dal 54% al 60%). Segno di una diffusa disponibilità a — e volontà di — cambiare.
Da ciò un quesito. Un dubbio. Com’è possibile coltivare un — per quanto tiepido — sentimento di ottimismo in tempi tanto liquidi? Affaticati dalla crisi — economica e politica? Tenendo conto che si tratta di un sentimento nuovo e diverso, rispetto agli ultimi anni.
È possibile — anzi, probabile — che i due atteggiamenti si spieghino reciprocamente. Che la destrutturazione del passato alimenti la speranza di strutturare il futuro. In fondo, questo è l’anno di Monti (come emerge dal sondaggio di Demos). Al di là dei giudizi sul suo operato e sul suo ruolo: è il “dopo Berlusconi”. Così come Grillo: “attore” della messa in scena (anti) politica. Entrambi, sintomi e simboli di un cambio d’epoca. Una svolta. E se è vero che Silvio Berlusconi è ritornato, ancora una volta. Se invade gli schermi con gli stessi proclami di 5-10-20 anni fa. È, tuttavia, difficile non percepirlo come un segno del passato. Il passato. L’icona liquida di un Paese liquido. D’altra parte, solo una minoranza circoscritta degli italiani (intorno al 13-16%) pensa che Berlusconi possa vincere le elezioni e diventare premier. La maggioranza prevede —ragionevolmente — il successo del Centrosinistra (44%) e scommette sul primato di Bersani (28%). Al più: di Monti (il 27% lo vorrebbe premier).
L’idea che il 2013 possa essere migliore del 2012 e degli anni precedenti non costituisce, dunque, un auspicio rituale (dettato, magari, da disperazione.) Riflette, piuttosto, la sensazione diffusa che l’anno trascorso segni la fine di un ciclo. Un cambio d’epoca. E ciò suscita inquietudine ma anche attesa. Perché se il passato è scritto e de-scritto, il futuro è un libro con molte pagine bianche. Non ancora scritte. Che noi stessi possiamo scrivere. Almeno in parte. Allora, tanti auguri! E buon anno (liquido).

Corriere 31.12.12
Salari scesi sotto i livelli del 2000
In cinque anni persi 1,4 milioni di posti. Pressione fiscale fino a oltre il 51%
di Enrico Marro


ROMA — Guadagniamo meno che nel 2000. Le retribuzioni nette di fatto sono scese, a prezzi correnti, sotto quelle di dodici anni fa: in media nel 2012 il salario netto annuo era di 20.786 euro contro i 20.877 del 2000. Rispetto all'inflazione, nello stesso periodo, la perdita cumulata di potere d'acquisto è stata in media di 5.338 euro. Se a questa somma si aggiunge la mancata restituzione del fiscal drag, cioè delle maggiori imposte pagate per effetto dell'aumento nominale dei redditi (che fa scattare aliquote Irpef maggiori senza che sia aumentato il potere d'acquisto), i salari hanno perso mediamente 8.154 euro in dodici anni. E per il 2013 si può prevedere un'ulteriore perdita. Tutto questo non farà che confermare la posizione di coda occupata dall'Italia nelle classifiche Ocse (organizzazione dei Paesi industrializzati) sui salari, dopo Regno Unito, Germania, Francia e perfino Spagna. Sono questi i principali dati contenuti nel nuovo Rapporto sulle retribuzioni a cura dell'Isrf-Lab della Fisac-Cgil, curato da Agostino Megale come quello del 2010 (allora targato Ires). Il rapporto, questa volta, approfondisce l'impatto della crisi sul mercato del lavoro e sulle dinamiche retributive. Un impatto pesante.
Innanzitutto sull'occupazione. In termini di giornate lavorative a tempo pieno, le unità di lavoro (Ula) sono diminuite di oltre 1,4 milioni rispetto al picco registrato tra la fine del 2007 e l'inizio del 2008. Insomma anche se il numero delle persone occupate è sceso «solo» di mezzo milione, da 23,4 a 22,9 milioni, il numero di ore lavorate e le corrispondenti Ula, che poi rilevano ai fini dell'andamento del prodotto interno lordo, sono scese molto di più. Un Pil che, non a caso, è in recessione e lo resterà anche nel 2013.
Il governo Monti, dice la Cgil, ha certamente fatto bene sul piano del recupero del prestigio internazionale dell'Italia e della riduzione dello spread, il differenziale con i tassi di interesse sui titoli di Stato tedeschi, che è sceso da un picco di 575 punti, toccato nel novembre 2011, ai 320 punti di venerdì scorso, facendo scendere la spesa per interessi sul debito pubblico italiano. Ma su tutti gli altri parametri, aggiunge Megale, dal Pil ai salari, dall'occupazione alla produzione, il bilancio è negativo.
I lavoratori perdono potere d'acquisto. Sommando l'inflazione del triennio 2010-2012 si ottiene un aumento dei prezzi dell'8%, le retribuzioni di fatto invece, al netto di tasse e contributi, salgono solo del 4,5%. Questo significa, dice il rapporto, che i salari hanno perso in media 70 euro al mese rispetto ai prezzi, ai quali se ne aggiungeranno altri 35 nel 2013. Alla fine la perdita cumulata annua sarà di 1.300 euro. Le retribuzioni nette sono basse anche per colpa di una eccessiva pressione fiscale. Nel 2010 era pari al 42,1% per le famiglie e del 46,9% per i single, rispettivamente 12,3 punti e 10,2 punti in più rispetto alla media dei Paesi Ocse. Per effetto delle manovre 2011 e 2012, la pressione fiscale salirà nel 2014 al 46,8% per le famiglie e addirittura al 51,3% per i single. Il maggior prelievo sul lavoro in Italia rispetto alla media Ocse si traduce in un minor salario netto di 1.380 euro l'anno, calcola l'Isrf-Cgil.
Secondo il sindacato guidato da Susanna Camusso, la riforma del modello contrattuale del 2009, che la Cgil non ha condiviso, ha contribuito a peggiorare la situazione, tanto è vero che la perdita di potere d'acquisto è stata netta negli ultimi due anni (-1,2 e -2,1 punti). Colpa dell'Ipca, cioè l'inflazione attesa al netto della componente energetica importata, parametro guida per l'adeguamento delle retribuzioni. Un indice ora superato dall'ultimo accordo sulla contrattazione, anche questo non firmato dalla Cgil. I salari non solo sono rimasti bassi, ma sono anche aumentate le sperequazioni. Nel 2010 un amministratore delegato, si legge nel rapporto, ha percepito in media 110 volte la somma intascata da un lavoratore dipendente. Ma anche tra i lavoratori dipendenti le differenze esistono. L'Isfr calcola che rispetto a un lavoratore standard una donna ha uno stipendio più basso del 12%, il dipendente di una piccola impresa (fino a 20 addetti) del 18%, uno del Sud del 19%, un immigrato del 25%, un lavoratore a termine del 26%, un giovane del 27% e un collaboratore del 33%.
È evidente però che i salari sono bassi anche perché la produttività è scarsa. Il rapporto conferma che l'Italia è agli ultimi posti nelle classifiche internazionali. Il valore aggiunto reale prodotto per addetto è rimasto più o meno fermo dal 1995 a oggi mentre nel Regno Unito, in Germania e in Francia è aumentato di circa il 25%. Ma ciò è dovuto, secondo il rapporto, soprattutto al fatto che in questi Paesi la dimensione media d'impresa è maggiore. È questa che fa la differenza, non le ore lavorate per addetto che nel 2011, secondo l'Ocse, sono state in Italia di più rispetto a quelle lavorate dagli inglesi, francesi e tedeschi, anche se in questi Paesi sono molti di più coloro che lavorano. Solo che dove ci sono imprese più grandi si fanno più investimenti in innovazione e ricerca e la produttività sale e così anche i salari. «Se avessimo aziende con in media 13 dipendenti come in Germania anziché 3,5 come da noi — afferma Megale — la produttività in Italia aumenterebbe del 40%. Ma nulla è stato fatto per promuovere la crescita dimensionale delle imprese. Bisogna ripartire da qui e dalla riduzione del carico fiscale sulle retribuzioni, per rilanciare da subito la domanda».

Corriere 31.12.12
In un triennio 154 mila statali in meno


Il numero dei dipendenti pubblici, nel 2011, si è fermato a 3 milioni 283 mila, segnando il terzo ribasso consecutivo. Dal 2008 al 2011 i travet sono diminuiti di quasi 154 mila unità, circa il 5%, l'equivalente degli abitanti di un capoluogo come Cagliari, Foggia o Ravenna. È quanto emerge dagli ultimi dati della Ragioneria dello Stato. «Quando la spending review avrà prodotto tutti i suoi effetti saremo sotto i tre milioni di lavoratori, seppur lievemente al di sotto della media Ocse», ha detto il ministro per la Pubblica amministrazione, Filippo Patroni Griffi

l’Unità 31.12.12
Pubblico chiude. Giornalisti in rivolta


Una bruttissima notizia: ad appena tre mesi dalla nascita Pubblico, il quotidiano fondato da Luca Telese, chiude i battenti, oggi è l’ultimo giorno in cui esce e dal primo gennaio non sarà più in edicola e 30 persone, tra giornalisti e poligrafici, vanno a casa. A raccontare le ultime vicende del giornale sono i suoi redattori, «furiosi e indignati», in una lunga lettera pubblicata sul sito del quotidiano con il titolo «Cronaca di un giornalicidio».
A meno di un salvataggio in extremis oggi è stato l’ultimo giorno di lavoro della redazione, che ha poi tenuto una conferenza stampa. Il giornale in questi tre mesi ha conquistato un nocciolo di quattromila lettori, «la metà scrivono di quel che serve per stare nei conti». Sbagliate le previsioni e le scelte per evitare il peggio, è l’accusa all’editore ma anche al direttore.
Già il 28 dicembre i redattori avevano annunciato un giorno di sciopero in vista dell’incontro dell’assemblea dei soci che avrebbe dovuto decidere il destino dei 30 lavoratori.
Sfumata la ricapitalizzazione di Pubblico srl, società che edita il quotidiano, sarà messo in liquidazione. «Domani oggi per chi legge l’ultimo numero. La nostra vicenda racconta molto di questo Paese: dall’approssimazione alla fuga di fronte alla responsabilità. Dalla resa davanti alle prime difficoltà fino all’ipocrisia squadernata ai precari», scrivono i giornalisti aprendo il comunicato sulla «Cronaca surreale di un giornalicidio». Non solo mancanza di fortuna, ma «soprattutto la storia di un disastro imprenditoriale» a tre mesi dalla partenza il 18 settembre sospinti dall’orgoglioso motto: “Dalla parte degli ultimi e dei primi”. Tre mesi dopo quel giornale spietatamente scompare dalle edicole», prosegue il racconto, a quota 4000 lettori circa» su una previsione di almeno il doppio. La «non azienda», scrivono «che non ha saputo sostenere il prodotto, che ha assistito all’erosione del capitale (appena 748mila euro) e che pur non avendo nemmeno un euro di debiti precipitosamente decide di chiudere baracca e burattini».
L’accusa non risparmia Luca Telese: «Il direttore del giornale è tra i principali fondatori e promotori di questa azienda, così come l’amministratore delegato -Tommaso Tessarolo -. Eppure né l’uno né l’altro hanno saputo arginare le scelte strategiche che hanno portato al disastro».
Dal capitale troppo esiguo all’iniziale prezzo troppo alto in tempo di crisi alla «totale assenza» di una campagna pubblicitaria pensando che «bastasse il tam-tam digitale per farsi strada», né un’indagine di mercato che si fa anche per vendere «un dentifricio». Quarto, la totale mancanza di un “piano B” nel caso in cui le cose fossero andate male.
I giornalisti infine accusano l’azienda di aver tagliato «orizzontalmente» la tiratura iniziale molto alta, senza fare una mappatura delle vendite in edicola. Un tentativo di salvataggio da parte di un grande stampatore, « è penosamente naufragato per motivi sconosciuti», ma i giornalisti hanno capito che «sono stati i primi a decidere di non ricapitalizzare, ce lo hanno detto in modo brutale» prima l’ad poi Telese. Tutti a casa, insomma anche «senza scuse» da chi ha sbagliato.

Repubblica 31.12.12
“Tasse più alte ai ricchi per rilanciare l’economia” Ecco la ricetta di Obama II
Legge sull’immigrazione e crescita gli obiettivi del mandato
di David Gregory


PRESIDENTE Obama, cominciamo dalla domanda più scontata: scivoleremo nel precipizio fiscale?
«Nelle prossime ore sapremo che cosa deciderà il Congresso. Alla mezzanotte dell’ultimo dell’anno, se il Congresso non agirà, le tasse aumenteranno per tutti gli americani. Per la famiglia media potrebbe voler dire una riduzione del reddito di 2.000 dollari. Per l’economia in generale vorrà dire che i consumatori avranno molti meno soldi per fare acquisti, che le imprese avranno molti meno clienti e saranno meno propense ad assumere e che l’economia potrebbe subire un rallentamento proprio quando stava cominciando a ripartire. Se vogliamo seriamente ridurre il disavanzo di bilancio dobbiamo fare in modo che i più ricchi paghino un po’ di più e combinare questi incrementi delle tasse ai ricchi con tagli alla spesa».
Quanta responsabilità ritiene di avere nel cattivo funzionamento delle istituzioni politiche nazionali?
«Penso che chiunque direbbe oggettivamente che abbiamo proposto un compromesso ragionevole. È molto difficile per me dire a un anziano, a uno studente, alla madre di un bambino disabile: «Dovrete arrangiarvi con meno perché non vogliamo chiedere a
milionari e miliardari di fare di più». Ho il dovere di garantire che il fardello della riduzione del deficit non ricada interamente sulle spalle degli anziani. Ho il dovere di fare in modo che le famiglie della classe media non paghino tasse più alte quando milionari e miliardari non vengono obbligati a pagare tasse più alte. C’è un’equità di fondo in tutto questo, e il popolo americano è consapevole».
Qual è la sua massima priorità per il secondo mandato? Nel primo mandato era la riforma sanitaria.
«Ce n’è più di una: correggere lo stato disastroso del nostro sistema di leggi sull’immigrazione è in cima alla lista. In secondo luogo voglio stabilizzare l’economia e assicurare la crescita. Ma il problema più immediato è fare in modo che le famiglie della classe media non debbano pagare più tasse».
Dopo la strage di Newtown non ha più parlato di nuove leggi per il controllo delle armi da fuoco...
«Penso che chiunque abbia parlato con i genitori e le famiglie di Newtown sia consapevole che è indispensabile un cambiamento di fondo. Tutti noi dobbiamo fare un esame di coscienza, anche io come presidente, per aver consentito una situazione in cui 20 bambini piccoli, 20 bambini bellissimi sono stati ammazzati da un uomo armato in un’aula scolastica. Quello è stato il peggior giorno da presidente e non voglio che possa ripetersi. Vorrei riuscire a far approvare queste leggi nel primo anno di mandato».
Parliamo di politica estera: dopo l’attacco di Bengasi c’è bisogno di maggiore attenzione perché non succeda nuovamente? Adesso sapete chi c’era dietro quell’attacco?
«Innanzitutto devo dire che la commissione d’inchiesta ha fatto un lavoro molto accurato: ha individuato falle gravi nei meccanismi di sicurezza per le nostre sedi diplomatiche e ci ha fornito una serie di raccomandazioni. Il segretario di Stato Hillary Clinton ha dichiarato che le applicherà tutte quante. Il mio messaggio al Dipartimento di Stato è che risolveremo questo problema, un problema di enorme rilevanza. Sono state individuate responsabilità individuali e risolveremo il problema per essere sicuri che non succeda di nuovo. Riguardo ai responsabili di quell’azione, c’è un’indagine in corso: l’Fbi ha inviato degli agenti in Libia; abbiamo indizi molto attendibili, ma in questo momento non posso parlarne».
Signor presidente, in questo inizio di secondo mandato, pensando all’eredità che lascerà, ai suoi obiettivi, quanta frustrazione prova per i suoi difficilissimi rapporti con il Congresso?
«Tutti ci sentiamo frustrati. L’unica cosa che vorrei puntualizzare è questo concetto del «tutti e due gli schieramenti sono egualmente indisponibili a collaborare ». È una falsità. Se guardiamo i fatti, abbiamo una situazione in cui il Partito democratico, nel bene e nel male, e di sicuro io, nel bene e nel male, abbiamo fatto costantemente del nostro meglio per cercare di mettere al primo posto l’interesse del Paese e per cercare di lavorare insieme a tutti i soggetti coinvolti con lo scopo di fare in modo che l’economia possa crescere, per tutti, con lo scopo di garantire la sicurezza del Paese. Rimango fiducioso — sono un ottimista congenito — che alla fine la gente vedrà la luce. Winston Churchill diceva che noi americani prima di fare la cosa giusta proviamo tutte le altre opzioni. Succederà anche per il «baratro finanziario ». In un modo o nell’altro, supereremo il problema.
©NBC, Meet The Press

La Stampa 31.12.12
Charlie Hebdo ci riprova Vita di Maometto a fumetti
Francia: il settimanale in edicola mercoledì, timori per le reazioni
Il direttore: «Non c’è nulla di blasfemo I testi sono stati scritti da un sociologo musulmano»
di Alberto Mattioli


Parigi. Profeta a fumetti, parte seconda. «Charlie Hebdo» non lascia, anzi raddoppia: dopodomani sarà in edicola con un numero speciale intitolato «La vita di Maometto», facendo a strisce il fondatore dell’Islam e, con ogni probabilità, irritando i suoi fedeli e anche parecchio. Si tratta dello stesso settimanale satirico che nel novembre 2011 uscì in edicola con un altro hors série, «Charia Hebdo»: allora, la redazione fu incendiata da una bottiglia Molotov, il sito del giornale piratato e il direttore minacciato di morte.
Questo kamikaze della satira si chiama Stéphane Charbonnier, in arte Charb, e dice tutto tranquillo che si tratta di una biografia «perfettamente halal». Cioè, direttore? «Cioè non è né una caricatura né una satira. Si tratta proprio di una vita di Maometto scritta da Zineb, un sociologo musulmano franco-marocchino e disegnata da me con il mio stile abituale. Nessuno ci potrà rimproverare nulla. È dal 2006, dal famoso episodio delle vignette su Maometto pubblicate da un giornale danese, che penso che Maometto sia, alla fine, un personaggio molto poco noto. Quindi mi sono detto: prima di scherzare su qualcuno, bisogna conoscerlo».
Soprattutto, Charb non vuol sentire la parola «provocazione», anche se sa benissimo che per molti musulmani rappresentare il Profeta è blasfemo. «Ma è solo una tradizione. Nel Corano non c’è nulla sull’argomento. E, in ogni caso, per noi non cambia nulla. Riconosco a chiunque il diritto di arrabbiarsi, ma pretendo che venga riconosciuto il mio di disegnare quello che voglio. Nego che ci sia della provocazione. Non vedo perché non si possa leggere la nostra Bd (bande dessinée, ndr) come al catechismo si legge la vita di Gesù».
Però dopo il putiferio per il numero sulla sharia e, più recentemente, per altre vignette che hanno provocato una mezza crisi diplomatica con alcuni Stati arabi, si pensava che voi di «Charlie» sareste diventati più prudenti... La replica è pura Edith Piaf: «Non, je ne regrette rien», no, non rimpiango niente. «Rifarei tutto. Molta gente ha giudicato i contenuti del giornale prima ancora di averlo fra le mani. E devo dire che, più dei musulmani che si sono sentiti in dovere di manifestare, mi ha dato fastidio l’atteggiamento di alcuni uomini politici, che forse dimenticano che la Francia è uno Stato laico e repubblicano che tutela la libertà di espressione».
Tutela anche la sicurezza di Charb e dei suoi giornalisti. Il direttore vive sotto scorta da più di un anno, la redazione è sorvegliata e, c’è da giurarci, mercoledì sarà più facile entrare nel caveau della Banca di Francia che nelle stanze di «Charlie Hebdo».
Però, Charb, l’impressione è che lei se le vada sempre a cercare. Si sarà chiesto se c’è un limite alla satira e, se sì, dove comincia... «Certo che me lo sono chiesto. E la risposta che mi sono dato è che l’unica cosa che dobbiamo assolutamente vietarci è di cominciare a censurarci».

l’Unità 31.12.12
Rita Levi Montalcini
La Signora della scienza
Se n’è andata una donna che rimarrà nella storia
Senatrice e neuroscienziata ha avuto una vita lunga e densa
Nel 1986 fu premiata con Stanley Cohen per aver scoperto la proteina che regola lo sviluppo del sistema nervoso
di Pietro Greco


«LA MIA GEMELLA PAOLA E IO SIAMO NATE A TORINO IL 22 APRILE 1909, LE PIÙ GIOVANI DI QUATTRO FIGLI. I NOSTRI GENITORI ERANO ADAMO LEVI, INGEGNERE ELETTRICO E ABILE MATEMATICO, E ADELE MONTALCINI, PITTRICE TALENTUOSA ED ESSERE UMANO SQUISITO». Con queste parole Rita Levi Montalcini, unica donna italiana che ha vinto un Premio Nobel in una disciplina scientifica, inizia l’autobiografia consegnata nel 1986 alla Fondazione che a Stoccolma le ha appena assegnato il prestigioso riconoscimento.
Rita – senatrice della Repubblica, grande neuroscienziata ed «essere umano squisito» – è deceduta ieri, all’età di 103 anni. Difficile riassumere in poche righe una vita così lunga e così densa, vissuta quasi sempre un passo più avanti degli altri. Iniziò da giovane a manifestare questa sua propensione, convincendo il padre, Adamo, a farla studiare e laureandosi nel 1936 in medicina presso l’Università di Torino, mentre la gemella Paola seguiva le orme della madre. Fin dal primo anno di università lavora, come internista, nell’Istituto diretto da Giuseppe Levi, biologo di grande valore e unico maestro, in Italia, a poter vantare tra i suoi allievi ben tre premi Nobel. Oltre a Rita, gli altri due sono Salvatore Luria e Renato Dulbecco. Il bello è che i tre si conoscono e si frequentano, diventando amici strettissimi, fin dal primo anno di università. Ciascuno di loro vincerà il Nobel per lavori realizzati negli Stati Uniti d’America e per motivi indipendenti.
Dopo la laurea, Rita inizia il corso di specializzazione in Psichiatria e Neurologia. Ma ecco che, nel 1938, Mussolini vara le leggi razziali. Lei, di origine ebrea, è costretta a emigrare in Belgio, insieme al suo maestro. A Liegi continua a lavorare con Giuseppe Levi. Ma poi inizia la guerra e la Germania nazista invade il Belgio. Lei e il suo maestro riparano prima a Bruxelles poi tornano a Torino. Dove continuano a fare ricerca insieme, allestendo un piccolo laboratorio casalingo. E proprio in casa Rita inizia a studiare il sistema nervoso degli embrioni di pollo. Scopo della ricerca è cercare di individuare delle non meglio definite «forze induttive» che spinge i neuroni a formare, nel cervello, la loro estesa e complessa rete di relazioni, attraverso la formazione di quei lunghi filamenti chiamati assoni.
Lo studio è interessante, ma nella sua città Rita non è al sicuro. Durante il conflitto lei e Levi cercano di pubblicare: all’estero, perché in Italia agli ebrei è impedito l’accesso anche alle riviste scientifiche. Nel mentre Rita deve trova rifugio, prima nella campagne vicine alla sua Torino, poi è costretta a spostarsi a Firenze, dove prende contatto con le forze partigiane e, infine, opera come medico in un campo profughi al servizio delle Forze Alleate.
A guerra finita torna a Torino e riprende la sua attività di ricerca, finché nel 1947 accetta l’invito di Viktor Hamburger e si reca negli Stati Uniti, presso la Washington University di Saint Louis. L’uomo è un noto neuroembriologo, che ha letto gli articoli di Rita e di Giuseppe Levi. Ed è proprio a Saint Louis che la ricercatrice italiana, nel 1954, insieme al suo collaboratore Stanley Cohen, scopre una di quelle «forze induttive» a lungo cercate: il Nerve Growth Factor (Ngf), la proteina che regola lo sviluppo del sistema nervoso. È per questa scoperta nel 1986 Rita Levi Montalcini e Stanley Cohen otterranno il Premio Nobel.
Si tratta di una scoperta davvero importante. Non solo perché – come recita la motivazione del Premio – rende improvvisamente chiaro un quadro fino ad allora caotico. Ma anche perché, grazie alla scoperta del Ngf quell’insieme di discipline che oggi chiamiamo neuroscienze e che hanno per oggetto di studio il cervello assumono una grande importanza centrale nel panorama delle scienze naturali.
Sebbene la parte prevalente della sua vita scientifica sia ormai negli Stati Uniti, Rita Levi Montalcini non dimentica l’Italia. Tra il 1961 e il 1962 crea a Roma un centro di ricerca sull’Ngf e nel 1969 fonda e dirig
Pietro Greco e (fino al 1978) l’Istituto di biologia cellulare preso il Cnr. Dal 1979 si trasferisce definitivamente in Italia. Nel 2002, a 93 anni, fantastico esempio di longevità scientifica, fonda, sempre a Roma, l’Ebri, l’European Brain Research Institute.
Come molti dei grandi scienziati, Rita Levi Montalcini svolge un’intensa attività sociale e politica. Tra i tanti impegni, ne ricordiamo tre. Nel 1989 accetta l’invito del fisico Vittorio Silvestrini ed è tra i soci che danno vita alla Fondazione Idis che a Napoli realizzerà la Città della Scienza, il più grande museo scientifico di nuova generazione del nostro paese. Nel 1998 fonda la sezione italiana della Green Cross International, la Croce verde internazionale che si occupa di ambiente è riconosciuta dalle Nazioni Unite ed è presieduta da Michail Gorbaciov. Nel 2001 è nominata senatore a vita: non è un incarico prestigioso, ma nominale. Rita Levi Montalcini frequenta Palazzo Madama e mostra una fierezza e anche un coraggio fisico niente affatto comuni quando gruppetti di estrema destra, dentro e fuori il Parlamento, la fanno, inopinatamente, oggetto di dileggio. Evidentemente non riescono a capire chi hanno di fronte.
Ma le sue attività principali, fuori dal laboratorio, sono quella pubblicistica – scrive una quantità imponente di libri di divulgazione, anche per ragazzi – e quella per i diritti delle donne. In uno degli ultimi volumi afferma: «Ho appena scritto un libro dedicato ai ragazzi, l’ho pubblicato con una casa editrice per giovani. Ne sono fiera. L’abbiamo intitolato Letueantenate. Parla di donne pioniere. Quelle che hanno dovuto lottare contro pregiudizio e maschilismo per entrare nei laboratori, che hanno rischiato di vedersi strappare le loro fondamentali scoperte attribuite agli uomini, che si sono fatte carico della famiglia e della ricerca».
Ecco, Rita Levi Montalcini è stata una donna, scienziata e pioniere. Che ha indicato un percorso di riscatto al suo genere e a tutto il suo paese.

La Stampa 31.12.12
L’intervista inedita
«Non temo l’ingegneria genetica ma la manipolazione culturale»
di Piero Bianucci


Rita Levi Montalcini Nell’intervista inedita rilasciata nel 1988:
«Da bambina cercavo modelli di donna con capacità intellettuali: Gaspara Stampa, Vittoria Colonna e Saffo erano le mie tre eroine»
«Il livello a cui è tenuta la donna è il barometro della civiltà: più alte sono le potenzialità aperte alle donne, più alto sarà il grado della civiltà»
Il sì all’eutanasia: «Penso che ognuno di noi ha il diritto di decidere della propria vita»

Sono pochi gli scienziati che nella propria vita hanno sempre riservato uno spazio all’impegno politico e alla riflessione etica. Rita Levi Montalcini apparteneva a questa minoranza. L’intervista inedita che segue risale a due anni dopo il premio Nobel per la Medicina, assegnatole nel 1986: parla non la ricercatrice, ma la donna che difende i valori civili e morali.
Professoressa, che cosa significa oggi essere antifascisti?
«Significa mantenere vivi quei valori che si stanno perdendo da parte dei revisionisti. Oggi non c’è da opporsi a una persecuzione, a una privazione della libertà come avveniva sotto il fascismo. Antifascisti dovremmo esserlo tutti. Purtroppo non è così. Il fascismo è stato la distruzione di tutti i valori morali. Un revisionista per esempio è lo storico Renzo De Felice. Per lui siamo stati tutti uguali, tutta brava gente, tanto vale passare una spugna su tutto. Un momento: io dico no, ci sono i bravi e i cattivi. Primo Levi è stato formidabile nel denunciare il revisionismo. Le cose vanno ancora peggio in Francia. De Felice afferma che l’Italia è fuori dall’ombra dell’olocausto. Non è affatto vero. Sono amareggiata da queste affermazioni. Oggi, nel 1988, antifascismo è avere dei principi etici».
Teme ancora il razzismo?
«Il razzismo è sempre in agguato. In molte parti del mondo si assiste a persecuzioni non diverse da quelle che abbiamo avuto in Europa mezzo secolo fa. Ci sono ritorni di antisemitismo, persino in Italia. Tutto ciò denota un basso livello di valori etici. I razzisti sono persone frustrate, che pensano di rivalersi perseguitando persone che ritengono inferiori. Questi rigurgiti del passato non mi toccano, ma mi addolorano».
Da giovane per dedicarsi alla ricerca scientifica ha dovuto lottare. Come giudica i movimenti femministi fioriti dagli Anni 70 in qua?
«Non ho simpatia per quel tipo di propaganda che si esprime negli slogan femministi tipo “Il corpo è mio e lo gestisco io”. Neppure mi piacciono le chiacchiere sull’emarginazione e sulle sofferenze delle donne. Ho invece enorme simpatia per le donne impegnate. Penso che nel futuro il ruolo della donna sarà decisivo. Più volte mi è capitato di dire che il livello a cui è tenuta la donna è il barometro della civiltà: più alte sono le potenzialità aperte alle donne, più alto sarà il grado della civiltà. La donna è stata repressa in tutte le epoche passate, e lei stessa ha accettato questa situazione, come sempre fanno le vittime: pensi agli ebrei. Da bambina cercavo modelli di donna con grandi capacità intellettuali, da Gaspara Stampa a Vittoria Colonna a Saffo: erano le mie tre eroine. L’8 marzo, Festa della Donna, quando Nilde Jotti mi ha invitata, sono andata alla Camera a tenere un discorso. Ma non ho mai amato gli schiamazzi femministi. I diritti ci sono, vanno difesi, le donne devono impegnarsi nel difenderli. Tuttavia occorre riconoscere le differenze: il cervello femminile dal lato ormonale differisce da quello maschile. Tra uomini e donne c’è parità di capacità: ciò non significa che non esistano differenze biologiche».
Quale ruolo possono avere gli scienziati nel difendere la pace?
«Sono diventata contraria alle piccole manifestazioni alle quali prendevo parte in passato, alle firme sui manifesti. Piccoli rimedi non servono per grandi mali come la guerra. Il ruolo degli scienziati per la pace consiste innanzi tutto nel non collaborare a progetti bellici, come invece succede, per esempio, al Livermore Laboratory, negli Stati Uniti. Ma a parte i fisici, che possono essere implicati direttamente in armi totali, il ruolo degli altri scienziati non differisce da quello di tutti i cittadini. Bisogna individuare i punti deboli del potere e riuscire ad avere una voce. Per questo, ad esempio, sono andata all’incontro tra Mitterrand e 70 premi Nobel. C’erano anche Willy Brandt, Henry Kissinger. Disgraziatamente gli scienziati e i cittadini hanno contro le industrie che fanno miliardi fabbricando armi».
Che cosa pensa da un lato dell’eutanasia e dall’altro lato dell’accanimento terapeutico con cui spesso si difende a oltranza la vita del malato anche al di là di ogni speranza?
«Sono stata molto attaccata per essermi espressa a favore dell’eutanasia. Personalmente penso che ognuno di noi ha il diritto di decidere della propria vita. C’è chi distingue tra eutanasia attiva ed eutanasia passiva. La passiva si limita a non eccedere nei rimedi terapeutici. Io sono per l’eutanasia attiva».
Vede dei rischi nell’ingegneria genetica?
«No. A tutt’oggi ha portato soltanto dei vantaggi all’umanità. Invece è immenso il pericolo della manipolazione culturale. Basta pensare ai mass media, all’influsso della televisione sui bambini. Mentre va aumentando in maniera smisurata il pericolo della manipolazione culturale, mi sembra assurdo preoccuparsi della manipolazione genetica».
La ricerca della verità scientifica è un grande valore. Ma è un valore assoluto o deve sottostare a valori gerarchicamente superiori?
«Sono per la libertà della ricerca. Non si può mettere un lucchetto al cervello umano. Naturalmente deve essere una ricerca fatta bene, onestamente. Ma in libertà. I valori etici, ma anche i valori politici e sociali, devono invece ispirare le applicazioni dei risultati della ricerca. Non tutto ciò che tecnicamente può essere fatto deve necessariamente essere fatto».

Repubblica 31.12.12
L’eredità della Montalcini
di Umberto Veronesi


A noi ora il compito di capire a fondo questa eredità, per renderla eterna, superando il senso di perdita che prova oggi il paese, e prova ancor di più chi, come me, ha avuto il privilegio di averla come amica e alleata in tutte le grandi battaglie della vita. Il primo caposaldo del suo messaggio è l’amore per la scienza e la fiducia incondizionata nella capacità del pensiero razionale di costruire il progresso della civiltà.
«La totale dedizione e il chiudere gli occhi davanti alle difficoltà: in tal modo possiamo affrontare problemi che altri, più critici e acuti, non affronterebbero». Così Rita stessa ha descritto la passione scientifica che, dal dubbio come metodo, porta al nuovo sapere e alla soluzione dei dilemmi. Questa passione, che abbiamo sempre condiviso, ci ha condotto a lottare per l’idea di una scienza al servizio della società: per la libertà di ricerca scientifica, per il sostegno finanziario e culturale alla ricerca, per il diritto di autodeterminazione della persona e le libertà di scelta che ne derivano. Il suo contributo personale all’amata scienza è noto: ha ampliato la nostra conoscenza del cervello e del sistema nervoso, tanto da farle meritare il Premio Nobel per la Medicina nel 1986 per la scoperta del NGF (fattore di crescita nervoso). Ha dimostrato che il cervello è plastico e si può modificare, offrendo nuove prospettive per la cura delle malattie neurologiche.
Il secondo caposaldo del suo messaggio la vede ancora protagonista in prima persona: la valorizzazione delle donne, patrimoni intellettuali e capitali umani inespressi o dimenticati. Cito ancora le sue parole: «Il futuro del pianeta dipende dalla possibilità di dare a tutte le donne l’accesso all’istruzione e alla leadership ». Rita si è iscritta a Medicina a Torino in un periodo, che io ho vissuto di persona e ricordo molto bene, in cui una donna medico era una rarità, per non dire uno scandalo. Ha lottato contro i pregiudizi maschilisti, contro la persecuzione nazista, contro l’antiscientificità del nostro Paese, che ha dovuto lasciare per fare ricerca negli Stati Uniti. Ha dimostrato con i fatti che una donna, se ha accesso al sapere, può ottenere risultati pari e migliori di un uomo. È una delle sole dieci donne che hanno avuto il Nobel per la medicina (gli uomini sono quasi 200) e la sola donna ad essere ammessa alla Pontificia Accademia delle scienze. Non ha mai voluto, però, essere una eccezione; al contrario si è impegnata perché il maggior numero di donne, ovunque nel mondo, possano avere accesso ad un percorso potenzialmente come il suo. In Africa, ad esempio, la sua Fondazione, in collaborazione con la mia, è impegnata per la salute e la lotta all’emarginazione delle donne.
Il terzo caposaldo è la forza dei valori del pensiero laico: la libertà, a cui ho già accennato, la tolleranza, la solidarietà, la pace. Rita ha vissuto sulla pelle gli orrori della guerra, della shoah, del nazismo, e, come me, si è dedicata ad estirpare le cause di queste follie con la forza del pensiero scientifico. Un pensiero che ci insegna che le razze non esistono, ma tutti gli uomini appartengono alla stessa specie, che geneticamente uomo e donna sono identici, che la parte cognitiva (e non arcaica) del nostro cervello si evolve e può progredire continuamente.
Il suo messaggio è quindi di fortissima fiducia nel futuro. «L’Italia è un paese ricco di giovani capaci, nessun paese ha la ricchezza in termini di capitale umano del nostro. Dico ai giovani: non pensate a voi stessi, pensate agli altri. Pensate al futuro che vi aspetta, pensate a quello che potete fare, e non temete niente». Rita Levi-Montalcini ha fatto così, entrando per sempre nella storia.

l’Unità 31.12.12
Le favole di Gramsci
Dal carcere l’intellettuale inventava storie per i figli
di Manuela Trinci


«A ME PIACE LEGGERE, O SCRIVERE: M’INCANTA. HO VOLUTO PORTARE MIA FIGLIA IN QUESTO INCANTO, PERCHÉ È UN BEL POSTO DEL MONDO, PER ME...» racconta Bruno Tognolini (in Leggimi forte, Salani). Certo, un padre un po’ speciale che scrive, racconta, gioca con le parole e con le parole trasmette il senso della vita, la sua preziosità.
Caro Delio, Caro Giuliano, scriveva dal carcere Antonio Gramsci rivolgendosi ai figli. Per loro inventava storie, pescava dal suo repertorio di ricordi infantili, trasmetteva tra documentazione e affetti le esperienze, sfidando così l’usura del tempo e il «velo della memoria». Caro Delio, narrava nell’indimenticabile Albero del riccio (Editori Riuniti) «i fringuelli... non bisogna afferrarli per le ali o per le gambe, che sono delicate e possono rompersi o slogarsi...». E ancora, questo grande affabulatore, intellettuale comunista, rievocava, sollecitando l’immaginazione, falchi, barbagianni, un cavallo con la coda solo nei giorni di festa... nonché i ricci...i ricci, o meglio una laboriosa famiglia di ricci osservata nel pieno di una inconsueta raccolta delle mele, orchestrata tutta a suon di irti aculei, zampette e musetti intraprendenti!
Una calligrafia minuta, quella gramsciana, precisa, tanto che pare trattenere nell’inchiostro l’emozione di una «paternità vivente», costretta all’esilio. E forse in quei fogli di carta dove la tenerezza mai si disgiunge dall’impegno e dalla lotta contro l’oppressore fascista, Gramsci dettava il suo testamento per una morale quotidiana e un’etica futura.
Aveva già tradotto, sempre in carcere, tra il 1929 e il 1931, ventiquattro fiabe dell’intero corpus dei fratelli Grimm, una delicatissima traduzione riproposta dall’editore Robin con il titolo Favole di libertà (pagg.192, Euro 12) che da Cappuccetto rosso sino a meno note «novelline», avrebbero potuto essere utili a tutti i bambini per
districarsi in questo mondo «grande e terribile». Un’attenzione all’infanzia a partire dal suo territorio: il mondo immaginifico e iridiscente della fiaba, della leggenda, della natura, delle esperienze vissute. Racconti ponte fra ieri oggi e domani, quelli di Gramsci, illuminazioni preziose, sostenute dalla speranza.
Un bambino dorme. Accanto a lui, pronto per il suo risveglio, un bricco di latte che, invece, si berrà un topo. Il bambino, svegliandosi, esigerà strillando il suo latte, il topo correrà dalla capra che avrà bisogno di erba. Ma all’erba servirà l’acqua...e così via. In un concatenarsi di richieste si arriverà alla montagna. Lì avverrà allora un sublime dialogo: la montagna, infatti, dappertutto mostrerà al topo le sue ossa senza terra, tanto è stata ferocemente disboscata dagli speculatori. Sarà necessario credere che il bambino, crescendo, pianti di nuovo alberi, dando voce a un rinnovato equilibrio naturale. Ancora una storiellina attinta alla tradizione sarda, una novella ecologica, straordinariamente attuale, questa che Gramsci aveva affidato a Giulia (in una lettera del 1931) così che lei la «svolgesse» a Delio e a Giuliano. Con disegni di Marco Lorenzetti, l’editore Carlo Gallucci l’ha recentemente proposta nel titolo Il topo e la montagna (pagg. 26, Euro 13,50).
Sicuramente, oggigiorno, ai figli le storie si possono raccontare anche in altri modi, anche arditi, anche originali com’è, ad esempio, nel Papà tatuato, di Daniel Nesquens, con le incantevoli illustrazioni di Sergio Mora (Orecchio Acerbo, pagg.48, Euro 15, traduzione di Francesca Lazzarato). In questo caso il padre affida il suo alternarsi di assenza e di presenza in famiglia al racconto espresso dai tatuaggi sparsi sul suo corpo, dalla testa ai piedi. E per il suo bambino leggere, sfiorando, i suoi tatuaggi diventa più divertente che qualunque libro di racconti. Perché lì, tigri elefanti gorilla uccelli soprannaturali serpenti attorcigliati, ragni, razzi, strani marchingegni..., si trasformano in storie strane: come quella di un topo che mise un sonaglio a un gatto, o quella di una principessa...o di una anaconda, o di un circo con un grande tendone.
Sono libri, questi, tutti belli, che «mettono in cielo le stelle», perché risulta chiaro che se Papàfamondo (il delizioso racconto antigeppettiano di Bruno Tognolini, Ed. Carthusia), per fare un bambino ci vogliono tante storie, una mamma e tanto amore.

La Stampa 31.12.12
Aiuto, sbarcano i cannibali che ci mangiano la lingua
di Guido Ceronetti


TOTALITARISMO MORBIDO L’inglese impone il suo dominio a poco a poco sull’insegnamento dalle elementari alle università
L’IDIOMA DI SHAKESPEARE Bisogna impararlo bene, anche per dargli la caccia meglio dove insidia le altre parlate europee

Da spread aspending review, da entrance ahigh tech, il nostro italiano vittima della violenza anglomaniaca. Ma la perdita dell’identità linguistica è una sconfitta nazionale che si traduce in orfanità dell’esserci Il disegno è di Alberto Ruggieri
Non sprechiamo passione civile, di cittadini, per l’Italia che muore per abdicazione alla lingua, al suo uso corretto, mancanza di scudi sulle mura. Non per politica scellerata, non per diritto imbrattato di crimine (iusque datum sceleri ), non per sventure e colpe economiche: quella che viviamo è morte di una nazione che arrivata con sanguinosi sforzi all’unità linguistica, in cui tutto esiste e consiste, l’ha buttata, la sta buttando ogni giorno, nelle pattumiere, nelle discariche, nelle latrine. Poiché ne porto, per mia sventura, il lutto, e lo grido dalle colonne di un giornale, vuol dire che di passione civile non mi sono ancora sbarazzato del tutto.
Ma lo vorrei; perché la passione civile, in Italia, è un malvivere e un mal-di-vivere di troppo.
Avendo votato, per due volte, inutilmente, Matteo Renzi, vorrei dirgli, poiché resta sindaco di Firenze, qualcosa che avrei detto allo sperato (nell’ignoto giace sempre la speranza) presidente del Consiglio. Renzi, per favore, fa’ sparire da Firenze, primo sindaco in Italia, anche se ritardatario, l’arrogante turpitudine del bilinguismo anglo-italiano e dell’unilinguismo, vincente e dilagante in tutto, anglo-americano. Valga anche qui la parola sublime di Machiavelli: «A ognuno puzza questo barbaro dominio», e dai alle sue e alle altre ossa in Santa Croce un po’ di vendetta e di pace. Lode su tutti gli altari alla lingua di Shakespeare e della Bibbia di Re Giacomo, di Lewis Carroll e di Herbert George Wells, di Malthus e di Keynes, ma dev’essergli contrastata e in tutti i modi ostacolata la penetrazione irresistibile, la pervasività insolente qui dove gloves vorrebbero essere guanti, shoes scarpe, e impatto con la sua ignobile prole verbale ( impattare) tarla le corde vocali, entrance spiccante sulle porte di tutti gli autobus offende l’intelligenza comune.
Appena si è messo a vagire nelle predicazioni il controllo dello spesone pubblico appestante, subito l’italiano si è arricchito di una nuova bestia: spending review! È forza ormai rotolarsi in media emediatico, insostituibili e assimilabili; però chi fa uno step è uno scemo, e fare shopping, andare in giro per acquisti, vale soltanto se detto ironicamente. (Anche business, pronunciato ironicamente bu-si-ness, con pronuncia italiana, si riscatta). Ma spread? Vorrei mettergli il morso, la museruola, ormai lo ripetono anche i merli... Attualmente è il suono più ansiogeno di questa povera penisola: tentiamo di spegnerlo usando al suo posto differenza ?
L’anglomania teleguidata lavora a macchia d’olio su quasi tutto il linguaggio bancario e finanziario. Inglese è già tutta l’espressione informatica, a partire dalla parola stessa, e tutti i problemi sono problematiche, i metodi metodiche, una metodica che richiede sforzo per comprenderla è High-Tech. Come un’ideologia totalitaria morbida, l’inglese a poco a poco va imponendo il suo dominio sull’insegnamento scolastico, dalle elementari, dov’è un aggravamento inutile per menti verdi, ai corsi universitari politecnici, le lezioni più importanti impartite direttamente in inglese sono per la lingua patria come una marcatura veterinaria su un animale da macello. Autorizzarli è un gesto di dispregio che ci disonora. Punirei costoro con ben mirati graffiti: «Il Rettore Tale permette corsi direttamente in una lingua straniera». Se siamo scudi di Termopili degni dell’epitaffio di Simonide, non mettiamoci i gloves contro l’invasore persiano. Ricordiamoci: la perdita dell’identità linguistica è sconfitta nazionale, che si traduce in orfanità dell’esserci.
Se si debba o no studiare l’inglese, ovvia è la risposta: va studiato bene, e non con corsi celeri più una settimana di turismo. A me duole di non averlo imparato, un articolo facile mi fa sudare, non sono mai andato beyond the Channel, però del tempo di Vittoria mi sembra di saper tutto, per morbosità intellettuale. Bisogna impararlo bene per patrimonio mentale, e per dargli la caccia meglio dove insidia lingue europee che non ne sono da meno! E poi perché a non metterlo nel curriculum giovani e ragazze non li assum e r e b b e un cane. Una parentesi. Nell’imperversare di barbarismi e di improprietà da grido, quando si pluralizza curriculum si usa compuntamente il latino dei manuali: curricula, che suona ridicolo, buffonesco... Ma curriculum è parola italianatissima, non sottolineabile, e vale sia al singolare che al plurale. Perciò usiamo «i» curriculum senza timore: è correttissimo, non fa una grinza.
Aiuto! A Lampedusa stanno sbarcando, da Performland, i Performanti! Sono cannibali, mangiano lingua bollita - lingua italiana, vecchia di otto secoli, ma per i loro gusti non male...
Sul numero 5 del bimestrale Vita e Pensiero, non sprecata rivista dell’Università Cattolica, trovate una conferma di quanto dico nel saggio di Georges Prevélakis sull’erosione della cultura greca e il suo fatale decadimento, a partire dal 1981, per follia economica, abbandono della lingua, snervamento degenerativo dello stesso carattere nazionale. Il parallelismo con la situazione italiana è evidente, ma l’autore non accenna alle possibili devastazioni prodotte dall’incrostarsi dell’anglofonia e dell’anglografia su una lingua che si vale tuttora, fortunatamente, di un alfabeto diverso dall’europeo, con effetti semantici difformi e spesso discordanti dai nostri. Grecia è Oriente, e insieme madrina di tutto l’Occidente: lasciar morire la sua cultura (subisce tagli su tagli, come da noi) è far perire nello stesso tempo la sua economia strascicata. Siamo due lingue naufraghe, allo sbaraglio, vittime di stupro, su entrambe le sponde.

Corriere 31.12.12
Perché il rosso è il colore del cambiamento
di Armando Torno


Il rosso attira l'attenzione. È uno tra i colori primari additivi. Indica la vita, il calore, il fuoco. È quello del sangue; a volte simboleggia il Cristo risorto, altre volte è stato posto accanto all'inferno. Ma più di ogni altro si trasformò, grazie anche al Romanticismo, nel colore degli innamorati. Rimanda al cuore e fa sognare taluni peccati dei sensi. Un mazzo di rose rosse equivale a una esplicita dichiarazione. La «grande prostituta Babilonia» dell'Apocalisse di Giovanni vestiva «porpora e rosso scarlatto»: per tale motivo diventò anche il contrassegno cromatico delle vesti delle meretrici. Certo, è utile a chi desidera lanciare un allarme: in tal caso evoca, tra i molti, gli «uomini rubizzi» della Cina che fu, mariti — così credeva la saggezza popolare — seriamente provati dalla vita matrimoniale e prossimi alla fossa. Il rosso è aggressivo, energico, ottimo per evidenziare e lasciare traccia; dalla metà dell'Ottocento diventò simbolo di socialismo, rivolta, rivendicazione. Del resto, le ghigliottine della Rivoluzione francese sovente erano dipinte di rosso per incutere terrore. Garibaldi lo esaltò con le camicie dei suoi uomini. I toreri sanno che è indispensabile alla loro trucida arte. Ha continuamente valore negativo quando è inchiostro: in tal caso segnala un debito (e lo sa bene chi ha i conti in rosso). Ma perché è diventato sinonimo di auguri per un nuovo anno? Forse a causa di tutte le ragioni che abbiamo elencato, più o meno modificate dalle circostanze epocali, e per altre ancora. Inconsciamente ci ricordiamo che per gli alchimisti era uno dei simboli della creazione: quando si affaccia un nuovo periodo, nel quale il tempo sembra ricrearsi, il nostro spirito pesca nella memoria che tace per propiziarsi il futuro. Gli auguri sono rossi perché devono recare un po' d'amore. Si indossa qualcosa di scarlatto per il medesimo motivo: tutti speriamo di trovare un sorriso in più. E si brinda alla vita. La quale, se dovesse scegliere un colore-simbolo, non si porrebbe soverchi dubbi: rosso.

Repubblica 31.12.12
Scoprite la filosofia del “quasi-niente”
Il mondo di Jankélévitch, grande pensatore francese, in una monografia
di Pier Aldo Rovatti


Vladimir Jankélévitch, chi era costui? Eppure si continuano a pubblicare in Italia le sue opere: nel 2009 il grande volume su La morte, nel 2010 la nuova edizione del suo libro chiave Il non-so-che e il quasi- niente, nel 2012 la splendida conversazione intervista con Béatrice Berlowitz Da qualche parte nell’incompiuto (Einaudi, con l’appassionato interesse di Carlo Bonadies, e a cura di Enrica Lisciani- Petrini). Jankélévitch è morto nella sua Parigi nel 1985, un anno dopo Foucault. La tonalità morale è quella che lui stesso attribuisce alla propria filosofia, che è comunque un pensiero a tutto campo alla ricerca, ostinata e sempre inevitabilmente “incompiuta”, di un fondo tanto “semplice” quanto inarrivabile dell’esperienza del pensare e del vivere.
La musica, per esempio, e quanto vi attinge per dare colore e perfino spessore al suo singolare modo di far filosofia: è uscita anche la riedizione di Debussy e il mistero (edizioni SE) e bisogna ricordare un altro testo-chiave, La musica e l’ineffabile, tradotto già nel 1985 proprio da Lisciani-Petrini, poi riapparso nel 1998 (da Bompiani). Enrica Lisciani-Petrini, studiosa napoletana, ha legato al nome di Jankélévitch più di trent’anni del suo lavoro: è lei che lo ha “scoperto” e adesso raccoglie gli esiti di una lunghissima fatica nel saggio Charis, una monografia compatta su Jankélévitch (Mimesis), la prima di tale impegno e penetrazione. Charis, cioè grazia, la nota giusta per entrare in questo pensiero senza tradirlo immediatamente.
E allora perché tanta difficoltà? Basta leggere una pagina di Jankélévitch per capire che tra lui e l’attuale dibattito, dal sapore sempre più neo-illuministico, c’è moltissima distanza, quasi un’incompatibilità. Prendiamo solo qualche battuta dal citato libro-conversazione (Da qualche parte nell’incompiuto): «Per un po’ mi sento meno inquieto quando, dopo aver girato a lungo tutt’intorno alle parole, mi rendo conto che non posso andare oltre. La pretesa di toccare un giorno la verità è un’utopia dogmatica, quel che importa è andare fino in fondo, e siccome ciò che cerco esiste appena, siccome l’essenziale è un quasi- niente, una cosa leggera fra tutte le cose leggere, questa ricerca forsennata tende soprattutto a mostrare qualcosa di cui si può intravedere l’apparizione, ma non verificarla perché svanisce nell’istante stesso in cui appare».
E così che lui reinventa la lezione del maestro Bergson, e un’intera generazione di intellettuali francesi ha fatto tesoro del suo insegnamento alla Sorbona e una folla di studenti e studiosi ha trattenuto nelle orecchie parole come queste. Oggi il nostro orecchio sembra meno adatto: abbiamo fretta di correre alla verità, quasi nessuna pazienza di girare e rigirare le parole per orientarle a un obiettivo che subito si preannuncia deludente. Jankélévitch aborriva gli “insipidi itinerari del turismo filosofico”, chiedeva tempo e pazienza. Attenzione, però: niente a che fare con una grigia filosofia accademica, ma, al tempo stesso, niente a che fare con un pensiero sfumato e vago.
Anzi, lui riprende in modo sorprendente l’adagio di Husserl, strenge Wissenschaft, scienza rigorosa, intendendo con esso l’incessante interrogazione, l’andare fino in fondo anche se l’oggetto sfugge per definizione e scompare proprio quando credi di averlo catturato nella rete della speculazione: il tema della “morte” è per eccellenza un simile oggetto, ma tutti quelli lavorati da Jankélévitch sono simili oggetti. Già, cosa dobbiamo intendere per “rigore”? A che titolo considerare poco rigoroso un modo di pensare che, sulla linea di Agostino e di Bergson, ci mette di fronte all’ineffabilità dell’esperienza del tempo? È più rigoroso stringere in una formula questa esperienza, oppure accorgersi che stringerla in una simile formula è un trucco per tradirla, mentre essa chiede il rigore di un’incessante apertura, il riconoscimento della sua essenza “misteriosa”? Inoltre, questo inabituale rigore deve coniugarsi, secondo Jankélévitch, con il ritrovamento della semplicità: è la fatica (“forsennata”, dice) di conquistare una semplicità che tutti sentiamo a portata di mano, quasi intuitiva, ma che ogni volta ingombriamo di discorsi opachi e alla lettera viziosi.
Il mio incontro con il pensiero di Jankélévitch è avvenuto attraverso un suo vecchio saggio sull’ironia (1936, tradotto dal Melangolo, 1987) che ho letto come un “elogio della litote”: un’antiretorica del “meno”, l’abbassamento del tono come risultato di una “buona coscienza” di tipo ironico. È questo il filo che ci può portare a far nostra la “grazia” che respira in tutte le sue pagine, a non fraintendere l’insistenza sullo charme, in cui lui sposa filosofia e musica mostrando che il “silenzio” è un operatore decisivo del pensare, un tono basso contro i toni alti di tanta filosofia. Ecco dunque un altro pensatore che sembra diventare col tempo sempre più inattuale e che lo rimarrà, necessariamente, finché sarà così invadente e frenetico il nostro desiderio di impadronirci della verità, una volta per tutte.

Il Giornale 31.12.12
Ma il "nuovo realismo" perde di vista la realtà
Gli esempi che Maurizio Ferraris adduce per una diversa visione del mondo considerano il reale come un male da cui emanciparsi
di Marcello Veneziani

qui

Corriere 31.12.12
Scoperto un autografo di Boccaccio


Il manoscritto Harley 5383, conservato alla British Library di Londra e contenente una quasi completa copia del XIV secolo dell'«Historia Langobardorum» di Paolo Diacono, è stato vergato dalla mano di Giovanni Boccaccio (1313-1375). La scoperta, pubblicata sul periodico online «Scrineum-Rivista», è opera di Laura Pani, docente di paleografia del Dipartimento di studi umanistici dell'Università di Udine. (n.c.)

La Stampa 31.12.12
Omaggio a Gaber su Rai5


Omaggio a Giorgio Gaber, domani alle 14,45 su Rai5, nel 10° anniversario della scomparsa. Lo spettacolo, che si intitola Un certo Signor G e ha per protagonista Neri Marcoré, si ispira a vari momenti dell’universo gaberiano: dalle prime esperienze teatrali degli anni 70, come Dialogo tra un impegnato e un non so eFar finta di essere sani , fino all’ultimo disco del 2003. Tra i tanti brani ripresi nella messinscena, L’ingranaggio , Il dilemma, Io non mi sento italiano eQuello che perde i pezzi .