sabato 1 dicembre 2007

l’Unità 1.12.07
Il Consiglio comunale romano ha all’ordine del giorno la delibera per istituire il Registro. I laici premono su Veltroni
Unioni civili, spina tra Vaticano e Campidoglio
di Mariagrazia Gerina


I pasdaran capitolini delle Unioni civili la chiamano «bozza Garavaglia». A sottolineare «l’autorevole contributo» della cattolicissima vicesindaco, Maria Pia Garavaglia, storico braccio destro capitolino di Veltroni, già Dc e presidente della Croce Rossa. «Il suo è stato solo un contributo tecnico», si affrettano a correggere i suoi collaboratori. E però in suo nome sinistra e radicali si dicono pronti ora a salire sulle barricate per difendere l’ultimo faticoso approdo capitolino in materia. La proposta di delibera n 261/2007 è all’ordine dei lavori dell’Aula Giulio Cesare dal 28 novembre. Una sintetica paginetta che, a prima firma Gianluca Quadrana (Rnp), recita: «È istituito presso il Comune di Roma un Registro denominato “Registro delle Unioni civili”». E specifica che tale oggetto «è tenuto presso la Presidenza della Commissione Consiliare Immigrazione Nuovi Diritti e Multietnicità». Non presso l’anagrafe capitolina, come suggerisce invece la delibera di iniziativa popolare promossa dai radicali e supportata da oltre 10mila firme, inserita anch’essa in coda all’ordine dei lavori, ma fin qui scavalcata nel dibattito (e nel consenso) dalla delibera di mediazione.
E però, anche così, apriti cielo. Avvenire, il quotidiano dei Vescovi, ha lanciato il suo avvertimento a sei colonne: «Unioni civili, a Roma qualcuno cerca il caso». Con sottolineatura del voto contrario annunciato dal vicecapogruppo del Pd Amedeo Piva e dall’Udeur. E il giorno dopo, ricevendolo in Vaticano, monsignor Tarciso Bertone avrebbe ottenuto dal sindaco di Roma impegnative rassicurazioni a riguardo.
Veltroni sul tema è sempre stato molto cauto, lasciando scivolare in cantina delibere e archiviando la questione come «materia di governo». Ma una volta diventato leader del Pd, la sinistra romana ha ripreso a incalzarlo con altri argomenti. Non più di un mese fa, uscendo da un incontro riservato con lui, i segretari cittadini di Prc, Sd, Verdi e Pdci, hanno annunciato soddisfatti: «Entro l'anno, la delibera per i diritti civili». E subito si sono messi a lavorare insieme ai radicali e alla vicesindaco alla famosa bozza. «Ora un passo indietro farebbe pensare male», avverte il segretario romano del Prc Massimiliano Smeriglio, alla vigilia dell’incontro con i capigruppo di maggioranza, che Veltroni, incalzato dal pressing partito dopo la visita in Vaticano, ha fissato per lunedì. La nuova ipotesi di mediazione sarebbe un ordine del giorno. «L’istituzione del registo d’altra parte non avrebbe alcuna conseguenza pratica», fanno notare il più veltroniano dei consiglieri Pd, Paolo Masini, insieme all’ex Dl Giulio Pelonzi. Ma se i Verdi sembrano possibilisti, il resto della sinistra si dice contraria. «Svenduta la Roma laica», titolano già i radicali, che annunciano per oggi una conferenza stampa con Pannella: «Veltroni-Bertone una coppia di fatto?».

l’Unità 1.12.07
«Da ateismo e illuminismo solo macerie»
La “Spe salvi” di Ratzinger attacca le ideologie: «Non è la scienza che redime l’uomo ma l’amore»
di Roberto Monteforte


FALLITO L’ILLUMINISMO Condannato dalla storia il marxismo. In crisi l’idea di un futuro di progresso affidato allo sviluppo della scienza, è alla speranza cristiana che l’uomo contemporaneo deve affidarsi per guardare con fiducia ad un futuro di giustizia e vero sviluppo. Coniugando fede e ragione. È la sfida che lancia Benedetto XVI con la sua seconda enciclica «Spe salvi» (Nella speranza siamo salvati) presentata ufficialmente non a caso ieri, giorno di sant’Andrea, all’inizio dell’Avvento in Vaticano dai cardinali «teologi» Albert Vanhoye e Georges Cottier oltre che dal direttore della Sala Stampa, padre Federico Lombardi.
Quello che manca all’uomo contemporaneo, schiacciato dalla fatica del vivere, sarebbe proprio la speranza. Sarebbe la stessa idea di futuro ad essere ormai in crisi, così come sono fallite le grandi ideologie, l'illuminismo, il marxismo e lo scientismo, che hanno sorretto lo sviluppo dell’umanità, costituendo l’idea stessa di modernità. Sarebbe fallita l’idea di un progresso indicato come orizzonte assoluto, come destino positivo ineluttabile basato sull’auto-sufficienza dell’uomo. Stesso destino per i costruire una nuova giustizia umana. Per papa Benedetto XVI avrebbero lasciato alle loro spalle solo cumuli di macerie e portato l’umanità sulla soglia dell’abisso. È il pessimismo ratzingeriano. Senza Dio, senza l’incontro con Cristo e con il suo amore universale non c’è futuro. Senza un proficuo dialogo tra la cultura contemporanea e il cristianesimo, con la speranza ed i valori di cui è portatore, senza un proficuo rapporto tra fede e ragione all’uomo contemporaneo resta solo un destino di solitudine e di disperazione. Ne è convinto papa Ratzinger. Tra teologia e filosofia, tra citazioni delle lettere di san Paolo, di sant’Agostino e dei «profeti» della scuola di Francoforte, Adorno e Horkheimer di cui usa i richiami critici alla degenerazioni del progresso e della scienza, richiama il pensiero di Emmanuel Kant e i suoi giudizi sull'illuminismo che aveva finito per emarginare nella sfera insignificante del privato la «fede ecclesiastica», sostituita dalla «pura fede religiosa» che aveva al centro esclusivamente l’uomo alla fine avrebbe potuto portare «alla fine perversa di tutte le cose». Cita la lezione di Friedrich Engels e di Karl Marx per cui ha anche parole di elogio. Ne riconosce «l’acutezza dell’analisi e la chiara indicazione degli strumenti per il cambiamento radicale», come pure come abbia affascinato e affascina tutt’ora» la sua promessa di liberazione, ma il suo errore resta: il materialismo, l’aver immaginato che bastasse questo per assicurare una nuova giustizia umana. «La rivoluzione proletaria si sarebbe lasciata dietro di sé una distruzione desolante». Vi è la libertà individuale da salvaguardare. Occorre formare le coscienze ed questa è la forza della speranza cristiana, non solo annuncio ma anche trasformazione. Il Papa dà forza al suo ragionamento citando le testimonianze di vita e di perdono di santi e martiri della fede come la ex schiava sudanese portata all’onore degli altari da papa Wojtyla, Giuseppina Bakhita, il cardinale vietnamita Van Thuan per 13 anni prigioniero nella carceri comuniste e del connazionale Paolo Le Bhao Rhin torturato a morte nel diciannovesimo secolo. Cita Lutero e la filosofia di Bacone. Il suo orizzonte, come nella famosa lezione di Ratisbona, è la cultura della vecchia Europa. È la terra da recuperare al Cristianesimo. Per Ratzinger è lì che si decide il futuro dell’umanità.
Nelle sue sessantasette pagine densissime lancia il suo affondo a tutto campo contro la cultura individualista che ha finito per contaminare anche la Chiesa. Invita gli stessi credenti a riflettere sul senso della speranza cristiana e su quel «plusvalore» - usa un termine marxiano - dell’amore di Dio, sul bisogno di comunità e di solidarietà. Invita ad accettare la sofferenza, ineliminabile malgrado ogni indispensabile e doveroso sforzo. Mette in guardia da una società che punti a nasconderla, sarebbe «disumana».
Critica affondo l’Ateismo il papa tedesco. Anche se ne capisce la ragione «morale»: la presenza intollerabile di male e ingiustizia nel mondo. «Come è possibile che un Dio buono possa permettere questo?» è la domanda cui Ratzinger risponde con una critica: questo non può portare l’uomo a sostituirsi a Dio, ad imporre una sua giustizia valida per tutti, è così si sarebbero create le peggiori «crudeltà e ingiustizie». Richiama alla responsabilità e alle verità di fede papa Ratzinger. Torna ad invitare all’autocritica anche i cristiani, che attenti al presente, sarebbero distanti dalla prospettiva della «vita eterna». Una prospettiva che senza un’adeguata spiegazione potrebbe risultare addirittura «noiosa». Il papa teologo chiarisce e aiuta a riflettere. Ricorda a tutti che il Giudizio universale di Dio, inesorabile, cadrà su ciascuno proprio per una ragione di giustizia. Ribadisce l’esistenza di Inferno, Purgatorio e Paradiso. «Non ci sarà un colpo di spugna». Vi sarà per tutti una giustizia divina. «È impossibile infatti che l'ingiustizia della storia sia l'ultima parola» conclude, ricordando che il «cielo non è vuoto».

l’Unità 1.12.07
Lucio Villari. Lo storico è deluso: testo culturalmente datato. L’uomo può avere speranza anche senza cercare Dio, cercando valori semplicemente umani
«La Ragione ha insegnato alla Chiesa il valore della libertà»
di Andrea Carugati


«In questa enciclica non avverto il soffio della grande novità, mi pare un testo culturalmente datato. Non colgo la grande speranza che ha contraddistinto la «Rerum Novarum» di Leone XIII, la «Pacem in Terris» di Giovanni XXIII e la «Populorum Progressio» di Paolo VI». Lucio Villari, professore di Storia contemporanea all’Università di Roma, commenta a caldo la seconda enciclica di Papa Benedetto XVI. «C’è la cristallizzazione di un rifiuto per alcuni passaggi cruciali nella lotta dell’uomo per la conquista della libertà di pensiero, delle libertà politiche e civili: l’illuminismo, la rivoluzione francese, il liberalismo e anche il socialismo solidaristico. Accanto a riflessioni condivisibili sui rischi del mondo moderno, mi pare che ci sia un tentativo di chiusura verso alcuni temi portanti del Concilio: a partire dall’ apertura a un cristianesimo più duttile negli aspetti normativi, e più capace di scendere nell’essenza del rapporto degli uomini fra loro, di rappresentare un messaggio di socialità».
Partiamo dall’illuminismo. Il Papa scrive che l’Europa illuminista ha guardato «affascinata» alla rivoluzione francese, poi di fronte ai suoi sviluppi «ha dovuto riflettere in modo nuovo su ragione e libertà».
«È probabile che questa Europa illuminista sia servita anche alla Chiesa per riflettere sul rapporto tra ragione e libertà, facendole scoprire l’importanza di questi valori che aveva per secoli negato. Dalla Controriforma fino alla rivoluzione francese la Chiesa ha negato il valore della libertà dell’uomo. Se dunque il Papa può giustamente rivendicare il valore della speranza, non può negare che nel mondo moderno nato dalla rivoluzione francese questa speranza trovò legittimità etica e culturale proprio nella libertà illuministica. Basti pensare all’opera di Kant e alla sua esaltazione dell’autonomia e della moralità dell’uomo, fondate sulla ragione e sulla libertà».
Benedetto XVI. Scrive che «un regno dell’uomo solo, realizzato senza Dio, si risolve inevitabilmente nella “fine perversa” di tutte le cose descritta da Kant».
«La solitudine kantiana dell’uomo è innanzitutto fondata sulla sua coscienza morale, che è non solo un valore metafisico e “religioso” e un presupposto della vita morale, ma è l’unico percorso che l’uomo può fare per raggiungere, se vuole, anche la fede».
C’è anche un passaggio sul marxismo: il suo vero errore è aver ridotto l’uomo alla sua mera condizione materiale.
«Condivido il messaggio evangelico secondo cui non si vive di solo pane. Ma il concetto di materialità non può essere riferito solo al dato economico, perché è materialità anche la limitazione della libertà dell’uomo e della sua coscienza in nome di principi imposti, come il principio di autorità e i dogmi religiosi. Un uomo costretto all’ubbidienza religiosa è schiavo al pari di un uomo sottoposto alle leggi dell’economia».
Il Pontefice invita anche a cogliere i rischi della scienza. «È solo l’amore a redimere l’uomo», «la scienza può anche distruggere il mondo».
«L’evoluzione dell’uomo moderno comporta dei rischi di un eccesso di certezza e sicurezza date dalla scienza. Quando la scienza assume forme dogmatiche, diventa pericolosa quanto i dogmi ideologici e religiosi. Dunque l’avvertimento del Papa è giusto, ma in questo senso: il valore positivo e socratico del dubbio deve essere rivendicato anche nei confronti dei dogmi della scienza. Su amore e speranza sono d’accordo. Questi valori sono il fine ultimo cui tendere, un uomo che non li perseguisse sarebbe un mostro. Ma tutto questo passa attraverso difficoltà, conflitti, dubbi, che vanno rivendicati all’interno del libero agire dell’uomo. Il Papa, invece, nega all’individuo la libertà di procedere nella sua esistenza senza avere l’obiettivo di Dio».
L’uomo ha bisogno di Dio, altrimenti resta privo di speranza, dice Benedetto XVI.
«È giusto che lo dica. Ma credo che l’uomo possa avere speranza anche senza cercare Dio, cercando valori semplicemente umani. Rivendico il principio dell’umanesimo integrale come una speranza laica, altrettanto importante di quella religiosa».

l’Unità 1.12.07
Oliviero Diliberto. Il segretario Pdci: non ci sono problemi a sinistra.
I simboli non si inventano, evitiamo troppa discontinuità

«Falce e martello. E non si chiami Cosa rossa»
di Federica Fantozzi


Mossa «sleale», iniziativa «propagandistica». A sinistra sono ancora tutti furibondi per lo strappo del Pdci sul welfare, onorevole Diliberto?
«Io francamente non ho compreso la fibrillazione. Noi abbiamo mandato un messaggio al governo, non certo ai nostri alleati. Del resto avevamo annunciato che sui provvedimenti avremmo valutato singolarmente».
A giudicare dalle reazioni, Rc, Sd e Verdi non sembravano aspettarselo.
«Con le ripicche non si va da nessuna parte. Io avrei potuto protestare per l’abbandono della Commissione Lavoro, che ho trovato sui giornali e non era stato concordato. Ma Rifondazione è un partito e decide da sola. Non siamo ancora nella fase in cui c’è un vincolo di alleanza tra noi».
Messa così, sembra una ripicca per la mancata difesa del presidente Pagliarini che appartiene al suo partito...
«No, no. Ripeto: era un messaggio al governo che mi pare sia stato recepito».
Quindi incidente chiuso?
«Ieri sera (giovedì, ndr) alla riunione dei segretari c’era un clima assai disteso».
Non ci saranno conseguenze sul cammino della Cosa Rossa?
«La Cosa Rossa è un brutto nome: mi richiama infauste memorie. Porta jella: la Cosa Uno, Due, Tre... Mai una che sia andata bene. Cambiamo nome subito».
Come la chiamiamo?
«L’unità della sinistra».
A che punto siete sul simbolo?
«Avremo un simbolo comune alle principali elezioni amministrative per avviare una sperimentazione. È un fatto politico molto importante».
E come sarà il nuovo simbolo?
«È ancora in corso la discussione. Io continuo a sostenere che debba trattarsi di un simbolo nuovo e visibile che però contenga anche i riferimenti ai simboli dei partiti che fanno parte della “confederazione”. Per due motivi: identitario ed elettorale».
È un po’ il dilemma veltroniano tra ulivismo e discontinuità.
«Un simbolo per affermarsi ci mette molto tempo. Se lo immaginiamo totalmente nuovo e poi prende pochi voti, finisce che l’intero progetto di unità della sinistra va a farsi benedire».
Insomma, terrebbe la falce e il martello?
«Sì, è la mia opinione. Ma anche il Sole che Ride. I simboli di tutti i 4 partiti«.
Non c’è il rischio caleidoscopio?
«Ci sono mille soluzioni grafiche adatte».
Conferma che sul welfare al Senato non ci saranno incidenti?
«Lì si vota solo la fiducia. Noi siamo persone serie».
Qual è il messaggio che ha voluto mandare al governo? Cosa si aspetta il Pdci dalla verifica?
«Ci aspettiamo fatti. Supponiamo che la verifica si faccia, perché da qui a gennaio c’è un sacco di tempo, la verifica è una riunione. Bene: sul welfare gli emendamenti erano stati concordati in una riunione e poi il governo se ne è fottuto, i lettori perdonino l’espressione, e li ha cassati».
Fatti concreti, dunque. Quali?
«Cosa aspettano a dare un segnale sui precari? Il governo presenti un ddl su questo tema angosciante che comprende gli interinali, così disperati da aspirare a diventare precari. Persino Draghi ha scoperto che i salari sono troppo bassi».
Un ddl da presentare prima della verifica? Sotto Natale?
«Anche come regalo della Befana...».
Come valuta l’ipotesi di un rimpasto?
«Se si tratta di tagliare il numero dei ministri sono d’accordissimo. Poi ripeto: il governo vari un’agenda a favore dei ceti più deboli e la attui. Per ora, siamo rimasti scottati».
Come è andato l’incontro con Veltroni?
«È stata una bella discussione politica, come non mi riusciva da un po’ di tempo con esponenti del Pd. Un incontro che giudico molto positivo».

l’Unità 1.12.07
Comitato nazionale di bioetica, si dimette la «laica» Elena Cattaneo


Ancora polemiche all’interno del Comitato nazionale di boetica. Ieri ha sbattuto la porta e si è dimessa Elena Cattaneo, direttrice del laboratorio cellule staminali dell’università di Milano. La decisione, spiega la ricercatrice, si deve all’assenza di risposte in seguito al «dimissionamento forzato» dei tre vicepresidenti del Cnb, dei quali faceva parte. Riguardo alle motivazioni addotte dal presidente del Cnb Casavola, circa «problemi di rapporti personali tra presidente e vicepresidenti», Cattaneo rileva che «precedentemente al dimissionamento forzato non vi è mai stata alcuna conflittualità, da me osservata o percepita, tra i vicepresidenti e il presidente». «Non posso accettare quanto è accaduto perchè ingiustificato e lesivo» spiega Cattaneo. «Pur manifestando la mia ammirazione per la gran parte dei colleghi del Cnb, in questi mesi ho purtroppo dovuto rendermi conto di quanto difficile e ridotta fosse, su alcuni argomenti, l’analisi scientifica e responsabile di aspetti che toccano la ricerca biomedica e che sono così vicini alle esigenze umane. Anche per questo preferisco tornare a spendere quanto più del mio tempo per la ricerca scientifica». Dopo la polemica tra Casavola e alcuni membri «laici» del Cnb, il presidente, d’intesa con Prodi, ha sostituito i suoi tre vicepresidenti (oltre a Cattaneo, Cinzia Caporale e Luca Marini) e aveva nominato nuovi vicepresidenti Lorenzo D’Avack, il rabbino capo della Comunità di Roma, Riccardo Di Segni, e Laura Palazzani. I tre vice destituiti avevano definito l’avvicendamento «non motivato».

l’Unità 1.12.07
Il convegno. Oggi e domani a Roma alla Protomoteca del Campidoglio per capire il nuovo «Disagio della Civilità»
Dopo Freud, la cura della sofferenza con le «relazioni»
di Bruno Gravagnuolo


Una teoria messa sempre sotto accusa e che invece mostra grandi capacità di rinnovarsi

A ondate ricorrenti la psicoanalisi viene data per spacciata. In nome delle scienze cognitive, del «comportamentismo», della psicologia relazionale, oppure di approcci neuropsichiatrici, validati da nuove scoperte farmacologiche. E tra le accuse più diffuse v’è anche quella di incarnare una modellistica «datata» dei rapporti umani. Toppo incentrata su individui e famiglie tradizionali, quelli inscritti nel crepuscolo della grande società borghese di fine secolo e novecentesca. Accusa che fa il paio con l’altra: troppo chiuso e individualistico il setting. Astratto dalle dinamiche sociali in evoluzione, che hanno liquidato le figure tradizionali dell’autorità e quelle consolidate dall’antica gerarchia tra i sessi.
Una sfida a cui la psicoanalisi ha reagito, integrando al suo interno molte delle alternative che le si oppongono, incluse le scienze cognitive. E anche allargando i suoi quadri clinici e interpretativi. Superando impostazioni ingenuamente «pansessualiste» o «catartico-vitaliste», ricodificando l’inconscio in chiave di linguaggio e forme simboliche. Potenziando l’idea di cura come «relazione» emotiva, e quindi il transfert come leva operativa, per rivivere emozioni e ridislocare «affetti» nella mente del paziente. Indagando la «relazione originaria» alla madre e la fase «pre-edipica», come aree integranti della «soggettivazione» e della creatività. Insomma la psicoanalisi moderna ha tentato da un lato di collegarsi alla scienze, senza restar prigioniera dello «scientismo». E dall’altro di «risignificare» il freudiano «Disagio della civiltà». Dove le mutazione dei grandi fattori «metapsichici» e «metasociali» - istituzioni, valori, modelli identificativi - è decisiva per leggere la sofferenza umana psichica e porvi rimedio.
Un esempio eloquente della capacità di misurarsi con questo livello della sfida sulla sofferenza - in epoca di nomadismo, anomia, crisi della famiglia e omologazione - ce lo offre il convegno che inizia stamane a Roma alla Protomoteca del Campidoglio. Due giorni di lavori fino a metà mattina di domenica, su Generi e generazioni. Ordine e disordine nelle identificazioni, a cura del Centro Psicoanalitico di Roma e della Società Psicoanalitica italiana. Dal quale abbiamo tratto una parte della relazione introduttiva di Reneé Kaës, psicoanalista e professore emerito di psicologia clinica e patologica all’Università Lumiére Lyon II. Convegno che vedrà tra i protagonisti studiosi e psicoanalisti come Bastianini, Giuffrida, Chianese, Di Ciaccia, Manuela Fraire, Lea Melandri (introdotti da Patrizia Cupelloni, direttrice scientifica dei «Quaderni» del centro). Qual è la posta in gioco, senza aver identificato la quale la «cura» non può esservi e fallisce? Esattamente questa: la «trasmissione delle alleanze inconsce». Quella tra paziente ed analista, certo. Ma ancor più, e a monte, quella tra le generazioni, nell’accelerazione del divenire storico. E il punto drammatico sta qui. Perché la dissoluzione planetaria degli «ordini simbolici» tramandati, inframezzata dalle grandi tragedie del novecento coi suoi lutti spaventosi, infligge continue «ferite narcisistiche» a individui e gruppi. Lasciandoli alla mercé di rotture e fluttuazioni sociali che ne minano la capacità autorappersentativa. E il paradosso è nel fatto che proprio l’immenso potenziale liberatorio della tarda modernità, nello «sciogliere» gli individui e nel disporli alla libertà sogettiva, li rende anche orfani e sradicati. Incapaci di elaborare da sé un ordine simbolico accettabile, figurabile e rassicurante. È come un’interruzione del flusso vitale tra generazioni. Un incepparsi della catena «narcisistica», fatta di osmosi e scambi tra genitori e figli. Una crisi generale di identificazione tra generazioni, che si ribalta in crisi generale del riconoscimento tra tutti i soggetti. Di qui un soggetto «desogettivato» e incapace di investimenti affettivi: narcisisticamente regressivo, onnipotente, risentito. E magari fagocitato dall’irrealtà omologante dell’immaginario di massa e dei suoi miti. In altre parole, un individuo senza futuro e senza progetti, che non sa riguadagnare né «reinvestire» ciò che ha ereditato dai padri e dalle madri. È una patologia che tracima al di là del setting e invade le strutture del vivere comune. E la psicoanalisi oggi è in prima linea nel rivelarcela. E nel tentare di arginarla nell’unico modo ad essa consentito. Ripristinando emozioni e «relazioni».

Repubblica 1.12.07
Intervista. Dall’Inquisizione alle atrocità dell’Olocausto
Un romanzo storico racconta attraverso i secoli gli effetti perversi del fanatismo e le forme attraverso le quali si manifesta
Julia Navarro
di Alessandro Oppes


MADRID. Storia, avventura, mistero, intrighi. Ancora una volta, ci sono tutti gli elementi che hanno già coinvolto milioni di lettori in tutto il mondo. Ma dopo il successo strepitoso dei primi due romanzi, La fratellanza della Sacra Sindone e La Bibbia d´argilla, il nuovo libro di Julia Navarro, Il sangue degli innocenti, ha un elemento in più: uno sguardo attento e accorato sull´attualità di un mondo minacciato dai fanatismi e dal terrore. L´occhio rivolto alle insidie di oggi senza dimenticare un passato non meno nefasto: dalle follie dell´Inquisizione alle atrocità dell´Olocausto. «Un progetto molto ambizioso», come riconosce lei stessa, per poi definirlo con orgoglio «il mio romanzo più bello, quello nel quale ho messo più impegno».
Come nasce l´idea del libro?
«Il sangue degli innocenti è un libro sul fanatismo. Il fanatismo non solamente religioso, perché io credo che il fanatismo religioso sia sempre accompagnato da interessi politici ed economici. Credo che questo libro nasca dall´impatto che ha avuto in me l´attacco alle Torri Gemelle o, dopo, l´attentato alla stazione di Atocha di Madrid».
Quale dei due ebbe un impatto più forte?
«Quello di Madrid logicamente, che tra l´altro ho seguito come giornalista. Tutto ciò mi ha portato a riflettere su che cosa può portare un essere umano a uccidere un altro essere umano semplicemente perché pensa in modo diverso, perché prega in un altro modo, perché vede il mondo in una maniera differente. E questo è un po´ il germe de Il sangue degli innocenti. Ho scelto tre momenti nei quali si visualizza abbastanza bene l´iniquità dei fanatismi. Si comincia con la persecuzione dei catari, che segnò l´inizio dell´obbrobrio dell´Inquisizione. In secondo luogo, una manifestazione terribile del fanatismo che è il nazismo. E poi si passa alla epoca attuale, con il fanatismo di radice islamica, che sta provocando i disastri che conosciamo. Quel che accade è che appaiono più evidenti gli effetti del fanatismo islamico, ma io non posso dimenticare quando Bush diceva che pregava tutti i giorni prima di cominciare le riunioni con i suoi collaboratori, prima di dare il via a nuovi bombardamenti in Iraq. E questa è un´altra forma di fanatismo».
Lei è giornalista. In alcuni libri ha raccontato l´attualità politica spagnola e i suoi protagonisti. Anche questo libro nasce dall´esigenza di raccontare i tempi in cui viviamo. Perché in forma di romanzo?
«Io sono una giornalista che scrive romanzi. E indubbiamente nei miei romanzi si riflettono le mie preoccupazioni, come cittadina e come giornalista. Per me è difficile spogliarmi della mia professione, di quel che sono, di ciò a cui ho dedicato la maggior parte della mia vita».
Il fatto di essere giornalista la aiuta?
«Credo di sì. A volte mi chiedono: perché si leggono tanto i tuoi libri? Penso che sia perché utilizzo lo stile diretto che utilizziamo noi giornalisti».
Lei ha detto che questo è stato in assoluto il suo progetto più ambizioso. Forse è perché abbraccia varie fasi della storia dell´umanità?
«Mi sono mossa un po´ sul filo del rasoio. Volevo trattare un tema così attuale come è il fanatismo islamico, però allo stesso tempo volevo evidenziare che ci sono fanatici dappertutto. Che il fanatismo non è esclusiva di una religione o di un gruppo sociale o di una regione del mondo. E che ci sono fanatici anche tra noi».
Si può dire che sia un romanzo con una morale?
«Io cerco di fare in modo che i miei romanzi raccontino una storia che possa appassionare il lettore. Tento poi di mettere sempre nei miei libri alcuni elementi di riflessione sulle cose che accadono, sui temi che mi preoccupano. Suppongo che questa sia una deformazione professionale, giornalistica».
Se dovessimo cercare una morale, potremmo dire che gli essere umani non apprendono mai dai loro errori?
«Già, purtroppo non impariamo. Penso che siamo andati migliorando nel corso della storia dell´umanità. Però le grandi passioni e i grandi difetti sono eterni. Anche le grandi virtù lo sono, a essere sinceri. Il fanatismo, l´egoismo, la mancanza di umanità si ripetono nel corso della storia dell´umanità. Ma questo vale anche per la solidarietà e le generosità».
Non sembra esserci molto spazio per l´ottimismo...
«In realtà io sono ottimista. Tra il bene e il male, è chiaro che il male è molto più evidente: e per questo si può combattere e cercare di sconfiggere. Quando, ad esempio, milioni di persone si sono riversate nelle strade di tutto il mondo per protestare contro la guerra, era un modi combattere qualcosa che ci sembrava ingiusto».
Crede che esista un rischio concreto, in questo momento, di uno scontro di civiltà?
«Io sono sempre favorevole a perseguire un´utopia. Per questo aderisco all´idea di una Alleanza di civiltà lanciata da Zapatero. Preferisco sposare questa utopia piuttosto che risolvere i contrasti con le cannonate. Questo non significa non difendere i valori della società in cui viviamo, della società occidentale, collocando la libertà e la democrazia al di sopra di tutto, come dev´essere. E questo lo dico con grande convinzione anche perché sono donna: le conquiste che abbiamo raggiunto come donne nel mondo occidentale sono irrinunciabili. Ciò non esclude che ci possiamo sedere pacificamente intorno a uno stesso tavolo per cercare di capire le ragioni degli altri, di un mondo che è diverso dal nostro».
Una visione molto diversa rispetto alla "rabbia" e all´"orgoglio" di Oriana Fallaci...
«Oriana Fallaci era una grande giornalista ma anche una grande provocatrice. Il fatto è che a volte trattiamo i musulmani come fossero bambini. La libertà d´espressione è qualcosa di fondamentale: è sbagliato pensare che ci dobbiamo autocensurare, che dobbiamo rinunciare a esprimere le nostre idee per timore d´irritare il "bambino musulmano". Posso non essere d´accordo con le tesi della Fallaci, ma non mi sarei mai sognata di chiederle che rinunciasse a esprimere le sue convinzioni».

Repubblica 1.12.07
Carceri. "Fine pena mai" è sciopero del cibo dietro le sbarre
di Alberto Custodero


Contro l'ergastolo inizia oggi in cinquanta penitenziari di tutta Italia la rivolta di 755 detenuti a vita Il tam-tam si è immediatamente diffuso in Rete: "Non abbiamo niente da perdere, se non le nostre catene"

Nell'elenco di chi protesta anche boss della mafia, della camorra e terroristi islamici Raccolte altre 10 mila adesioni
Ma il governo non intende intervenire Il sottosegretario Manconi: "La questione non è all'ordine del giorno"

Contro il carcere a vita, per protestare contro il "fine pena mai", centinaia di ergastolani cominciano da oggi uno sciopero della fame. E per 50 istituti penitenziari italiani è rischio paralisi. I 755 reclusi che hanno annunciato l´astensione dal cibo, avranno diritto all´assistenza sanitaria di medici che dovranno tenere sotto controllo costantemente le loro condizioni di salute. Per i 40 che hanno deciso di scioperare ad oltranza si prospetta una situazione etica di non facile soluzione: potrà il direttore del carcere costringerli a nutrirsi? A questo dilemma risponde la senatrice Maria Luisa Boccia, fra i pochi politici a sostenere i detenuti "fine pena mai" in lotta e per questo da loro battezzata la "fata rossa degli ergastolani". «I detenuti a vita - ha dichiarato la senatrice Boccia - hanno diritto di fare lo sciopero della fame. E i direttori delle carceri non hanno alcuna facoltà di impedirglielo con la nutrizione coatta».
L´organizzazione della protesta è affidata al sito Internet dell´associazione di volontariato fiorentina "Pantagruel". È proprio su questo network del detenuto italiano che approda il tam-tam carcerario e consente a chi sta in prigione di «mettersi in rete», pubblicando tutto ciò che la censura gli consente: racconti, poesie, lettere. Ma anche denunce di condizioni disumane di vita.
L´idea di organizzare uno sciopero della fame l´ha avuta un ergastolano di Spoleto, Carmelo Musumeci: la sua lettera, pubblicata su Internet («consapevole che le cose non si ottengono solo con la speranza, ho deciso di fare qualcosa: non mangiare»), ha fatto ben presto il giro dei lunghi corridoi delle prigioni. E in poche settimane sul sito sono comparse le risposte, centinaia di adesioni da tutte le carceri italiane. Con un testo sempre uguale: «Per il rispetto dell´articolo 27 della Costituzione secondo cui le pene devono tendere alla rieducazione del condannato, dichiaro che dal primo dicembre 2007 inizierò uno sciopero della fame ad oltranza a sostegno dell´abolizione dell´ergastolo».
Lo slogan dello protesta Internet degli ergastolani è «Non abbiamo niente da perdere, se non le nostre catene». E a dimostrazione che l´ergastolo sia spesso davvero una condanna a vita, c´è la storia di Giuseppe Sanzone, 58 anni, in cella dal 3 febbraio del 1969. Pur fra alterne vicende, compreso un delitto commesso durante un´evasione, è lui il «nonno» degli ergastolani: aveva 21 anni quando entrò in carcere, ne ha trascorsi dentro 38, attualmente si trova a Milano Opera. Altri due uomini risultano imprigionati - anch´essi con storie complesse alle spalle - dal 1970, Angelo D´Auria e Vito D´Angelo, entrambi a Favignana.
Per gli ergastolani la fine della pena, sulla sentenza, è indicata non con una data, ma con un avverbio: «mai». Da qui lo spunto per chiamare provocatoriamente la loro campagna per l´abolizione dell´ergastolo con il titolo del film del regista Irvin Kershnre, «Mai dire mai». Lo spirito che anima questa mobilitazione carceraria è contenuto nella lettera di uno dei più "anziani" detenuti a vita, Antonino Marano - in carcere da 30 anni - scritta dall´Ucciardone. Diventata, se così si può dire, il manifesto politico del movimento "ergastolani in lotta".
«All´ergastolo - dice Marano - preferisco la pena di morte. Ma mi devono fucilare loro, perché io, da vero siciliano, considero il suicidio un atto di vigliaccheria. E non lo farò mai». Lo sciopero della fame è stato sottoscritto non solo dai 750 ergastolani, ma anche da altre 10 mila persone, fra familiari, detenuti comuni, politici. Fra questi anche il deputato di Rc Francesco Caruso. Nell´elenco di chi ha aderito alla protesta spiccano boss del calibro di Carlo Greco, uno dei 16 mandanti, secondo la Corte d´Assise d´Appello di Catania, delle stragi del ‘92 in cui furono uccisi i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Compaiono anche Domenico Belfiore, condannato per l´omicidio del procuratore torinese Bruno Caccia, e Bernardo Riina, l´uomo che poteva raggiungere direttamente il covo di Bernardo Provenzano. Ma c´è anche il re delle evasioni Klodjan Ndoj, protagonista di una fuga rocambolesca, nell´aprile del 2005, da San Vittore. E Angelo Nuvoletta, accusato dell´omicidio del giornalista Giancarlo Siani. La protesta anti-ergastolo ha provocato, in carcere, un fenomeno del tutto nuovo sotto osservazione ora da parte dell´Ucigos: la solidarietà ai carcerati in sciopero della fame da parte di alcuni detenuti accusati di terrorismo islamico. Anche Yamine Bouhrama, sospettato insieme ad altri sei magrebini di far parte del "Gruppo Salafita per la predicazione e il combattimento", rifiuterà da oggi il cibo.
È difficile, tuttavia, che dopo le polemiche sollevate dall´indulto, il governo metta all´ordine del giorno una discussione parlamentare per l´abolizione dell´ergastolo. «Le proteste dei detenuti - ha dichiarato Luigi Manconi, sottosegretario alla Giustizia - evidenziano un problema reale. Sono favorevole al superamento della pena a vita, anche perché non ha la minima relazione con le esigenze di sicurezza dei cittadini. Ma non è questo l´orientamento del ministro e del governo che non ritengono attuale la questione». Premesso ciò, per Luigi Manconi «lo sciopero della fame dei carcerati è uno strumento legittimo di manifestazione della propria opinione, come tale va rispettato. E, nei limiti del possibile, ascoltato».

Repubblica 1.12.07
Intervista con l'analista francese René Kaës
Il peso del passato
di Luciana Sica


A nostra insaputa spesso siamo eredi dei traumi irrisolti di chi ci ha preceduti
Romanzi familiari tinti di nero ma anche fratture irreversibili come la Shoah

ROMA. È possibile o impossibile dimenticare? All´origine di biografie disastrate, ma anche di grandi tragedie collettive, ci sono i traumi di un passato che non passa. Non solo ferite individuali, romanzi familiari tinti di nero, ma fratture irreversibili con i genocidi del Novecento di cui la Shoah è stato il paradigma più osceno. Siamo comunque eredi, spesso servitori, non sempre allegri beneficiari della vita di chi ci ha preceduto.
È il tema centrale di questa intervista con il francese René Kaës, mente brillante della psicoanalisi contemporanea. Ha settantadue anni, è professore emerito presso l´università Lumière di Lione, ha scritto numerosi saggi tradotti in italiano - quasi tutti - da Borla (il più recente è Un singolare plurale, legato al suo lavoro clinico con i gruppi, «lo spazio in cui l´Io può avvenire»).
In questi giorni René Kaës è il protagonista di un convegno su "Generi e Generazioni" - voluto principalmente da Patrizia Cupelloni, l´attuale segretario scientifico del Centro psicoanalitico di Roma. La sua dotta relazione su "la trasmissione delle alleanze inconsce" è senz´altro destinata agli studiosi, ma qui l´analista francese tenta di comunicare il suo pensiero a un pubblico colto, forse semplicemente curioso, senz´altro più ampio.
«Ciò che permane non è il ricordo, ma le tracce», scrive Pontalis. Sono queste tracce, che diventano sintomi, angoscia senza nome?
«L´inconscio non dimentica nulla, conserva tutto quello che ha percepito, provato, può compensare i punti ciechi e le sordità, o anche creare delle rappresentazioni di ciò che ad esempio non è stato attraverso allucinazioni o gesti, "passaggi all´atto". Il ricordo può in effetti svanire, ma non la traccia che resta senza figura né senso quando prevalgono la negazione e il rigetto. Sono queste tracce senza memoria che diventano sintomi, terrori senza nome, pensieri bianchi».
Cosa sono i pensieri bianchi, professore?
«Alludono alla psicosi quando si esprime appunto nell´incapacità di pensare, generando una forma di vuoto. Ma quello che è traccia senza senso per un soggetto può attivare tracce in un altro, accade spesso attraverso il sogno. È quanto osservo nelle terapie di gruppo o anche nelle terapie familiari fondate su un dispositivo psicoanalitico, e che le giustifica ampiamente come una modalità di accesso all´inconscio».
All´inizio degli anni Novanta, lei, la Faimberg e un altro paio di analisti firmavate un libro ormai considerato un classico: s´intitola Trasmissione della vita psichica tra generazioni. Un tema che implica un interrogativo di fondo: è davvero impossibile dimenticare?
«Intanto non è solo la vita psichica che viene trasmessa, vale a dire quanto sostiene e assicura una continuità positiva dell´esistenza umana come il mantenimento dei legami intersoggettivi. Spesso si tratta di formazioni mortifere. È anche la morte psichica che si trasmette, una condizione che impedisce di "simbolizzare" gli stati interni e i rapporti con gli altri. Nelle mie ricerche, sono stato particolarmente attento alla "trasmissione del negativo", a tutto quel che non si contiene, non si trattiene, non si ricorda: gli oggetti perduti di cui non si è elaborato il lutto, il senso di colpa o della vergogna, i traumi rimasti tali e quali... Comunque, sì, ci sono delle situazioni in cui è impossibile dimenticare».
In che senso allora si considera l´oblio la forza viva della memoria?
«L´oblio non è solo la forza viva della memoria, ne è la condizione. Vede, ogni lutto che segue a un trauma è un lavoro doloroso, ma nel segno della creazione: in genere bisogna identificarsi con le parti "buone" e riconoscere quelle "cattive" dell´altro. Si tratta di una faticosa ricostruzione assolutamente necessaria per rigenerarsi, per non rimanere appunto inchiodati al lutto... Questo però non toglie che esiste la dimensione dell´indimenticabile».
Una dimensione che si traduce in un uso ossessivo della memoria?
«Non si dimentica ciò che rimane incollato al trauma, inelaborato, che esige quindi la ripetizione, e senz´altro un uso ossessivo della memoria. Una scena ci assedia, ci invade, occupa il nostro spazio psichico. E´ lì stampata nella mente, e nulla mai si trasforma. Così si conserva la presenza costante dell´avvenimento traumatico, con tutto il suo terrore devastante ma forse anche con una forma di parossistico godimento».
"Transgenerazionale": è un termine difficile, seppure ormai di uso comune nel linguaggio psicoanalitico. Allude a un processo di natura inconscia attraverso cui entriamo in contatto con un´esperienza non vissuta in prima persona, estranea alla coscienza. È così che lei lo intende?
«Sottoscrivo pienamente questa definizione di transgenerazionale, del tutto distinta dalla nozione di intergenerazionale che rimanda invece alle relazioni dirette tra due generazioni o all´interno di una stessa generazione... Qui si parla di ciò che ereditiamo a nostra insaputa: episodi reali e spesso traumatici, che sono stati oggetto di negazione o di rigetto da parte di chi li ha vissuti, si depositano nella psiche dei discendenti creando quelle che Nicolas Abraham e Maria Torok hanno chiamato "cripte", luoghi che accolgono fantasmi, oggetti grezzi, enigmatici, bizzarri, inassimilabili, impensabili, indicibili... Sono questi i processi più arcaici che formano lo zoccolo originario dell´inconscio».
In stanza d´analisi o nei gruppi, come si affronta una materia così oscura, misteriosa?
«Dal punto di vista clinico, il problema è comprendere come il soggetto s´impadronisca di quanto gli viene trasmesso in questo modo, di quel che eredita senza poterne diventare realmente l´erede, perché non ha potuto iscriverlo nella propria storia. Cito spesso una frase di Goethe che piaceva molto anche a Freud: "Quello che hai ereditato dai tuoi padri, allo scopo di possederlo, devi guadagnartelo". Appropriarsi dell´eredità è possibile solo quando s´intraprende un processo profondo di soggettivazione, sciogliendo quelle che definisco "alleanze inconsce". È un uso vivo della memoria che dice: ricorda, recupera il tuo passato, fai di te una persona tra le altre, ma che rimane singolare e distinta. Strada facendo, potrai separare ciò che è tuo da ciò che non lo è. Tuttavia, dovrai ammettere che questa memoria ritrovata è una costruzione e ti parla dell´avvenire: è anche una memoria del futuro».
In che rapporto sta la memoria individuale con quella collettiva?
«È una questione davvero complessa: storici, antropologi, psicoanalisti l´affrontano da diverse angolazioni. Assolutamente centrale è il valore della testimonianza: la messa in forma di racconto d´immani tragedie epocali, come nel caso della Shoah o delle dittature genocide. La memoria collettiva, come quella individuale, è selettiva: si forma sulla base delle rimozioni dei membri di un gruppo proteggendo i loro interessi. Ciò che definiamo revisionismo è la faccia emersa di questi patti di negazione collettiva che mutilano la memoria. Anche se quello che viene cancellato, "torna nel reale", secondo la concezione di Lacan».
«I morti non sono degli assenti, sono degli invisibili»: Anne Schutzenberger ricorre a una citazione di Sant´Agostino ne La sindrome degli antenati (Di Renzo), un libro che lei conoscerà senz´altro... Ma è un´immagine convincente?
«Francamente la trovo molto ambigua, fuorviante. I morti non sono degli spettri che non possiamo percepire con i sensi, vanno accettati - integrati - come assenti perché sono "passati", e non possono tornare. Sono però anche molto presenti dentro di noi e tra di noi, sul piano della memoria, dell´eredità, delle identificazioni...».
Ricordare per dimenticare è un´immagine che la convincerà di più. È anche il titolo di un librino bellissimo a firma Janine e Vahram Altounian (anticipato su queste pagine il 3 novembre scorso): il diario di un padre sfuggito al genocidio armeno, la dolorosa testimonianza di sua figlia, un´intellettuale molto in vista - è lei che ha supervisionato la traduzione delle opere complete di Freud in Francia. Ma è vero che è stata sua paziente?
«Sì... Janine Altounian è una persona che mi è davvero carissima».

Corriere della Sera 1.12.07
Scienza Bartocci e Odifreddi confutano unitarietà e universalismo della disciplina
La matematica è un'opinione. «Dipende dalla tradizione e da contaminazioni sociali»
di Giulio Giorello


«Oh, o-oh… numeri, cifre… nient'altro che guai! Come vorrei che la matematica non fosse mai stata inventata! ». Così Donald Duck (1959), ovvero Paolino Paperino, in un disegno animato poi tramutato in fumetto: si trova di fronte all'improvviso un gigante che lo rimprovera: «Ho udito le tue parole, microscopico essere! Io sono lo spirito della matematica! Porto la fiaccola del progresso da quando è nata la civiltà!». E il nostro eroe: «Mi tremano tutte le penne!». Non dovevano tremare invece a Claudio Bartocci e Piergiorgio Odifreddi quando hanno concepito, per i tipi dell'editore Einaudi, La matematica, un'ambiziosa descrizione della materia che hanno affidato a specialisti di tutto il mondo. È comparso il primo volume, consacrato ai Luoghi e tempi; ne sono annunciati altri tre dedicati ai grandi problemi e ai quadri concettuali della ricerca, alle relazioni con le discipline umanistiche (arte, letteratura e musica) e infine alle connessioni con le scienze della natura.
Si è trattato di rapporti fecondi, realizzatesi — come scrivono i curatori nella Premessa dell'opera — in una sorta di incessante «gioco di specchi». Ma l'immagine della crescita della conoscenza matematica che ne risulta è un po' diversa da quella concezione delle «magnifiche sorti e progressive» che ancora animava il severo personaggio che impartiva la dovuta lezione a Paperino. Avvisano infatti Bartocci e Odifreddi che il sapere matematico, più che essere il culmine di «un processo evolutivo lineare avviatosi nella Grecia classica"» appare «come il fragile esito di stratificazioni concettuali complesse, di tradizioni di pensiero radicate nel tessuto storico e sociale, di contaminazioni che scaturiscono da scambi e incroci culturali ». Insomma, esso non è altro che «il frutto incerto delle trasformazioni di idee pensate più volte nella storia dell'umanità, in luoghi e tempi diversi, che nascono e tramontano nell'alterna vicenda di memoria e oblio». Le stesse tradizioni di ricerca, prodotte da questa o quella scuola, ammettono «voci molteplici, non di rado dissonanti che danno corpo a un'elaborata polifonia».
È stata una mossa accorta quella di cominciare un'opera intitolata semplicemente La matematica con I luoghi e i tempi. I curatori hanno brillantemente evitato gli opposti estremismi dell'idealismo matematizzante e dello scientismo positivista: figure e numeri non sono «gabbie platoniche» in cui imprigionare il flusso mutevole della realtà, né la scienza matematizzata costituisce il paradigma di ciò che non può più essere rimesso in discussione. Opportunamente premettono che «la matematica non è unitaria, e nemmeno universale, se non nello stesso senso (e in maniera altrettanto misteriosa) in cui lo è il linguaggio: non sono infatti universali né i suoi metodi, né le finalità che gli scienziati si prefiggono o le motivazioni che li guidano, né i contesti culturali nei quali essi si trovano ad agire». E, come mostrano i vari saggi del volume, tutto ciò non è un difetto ma un'occasione.
La matematica si rivela così il banco di prova della libertà dell'intelligenza, come diceva nell'Ottocento il creatore della teoria dei numeri infiniti, Georg Cantor. Tutto questo potrà sembrare strano a chi sui banchi di scuola è stato vittima di un insegnamento autoritario e dogmatico, o a chi faccia proprio il pregiudizio di alcuni filosofi, come Horkheimer e Adorno, i quali scorgevano nella struttura logica delle teorie matematiche solo «coazione e gerarchia». La ricognizione dei luoghi e dei tempi mostra proprio il contrario, rivelando connessioni inaspettate: dalla «cultura statale di impronta matematica» prodotta nell'antica Uruk e poi dagli altri centri della Mesopotamia, alle città della Grecia e dell'Italia meridionale nell'Età classica, dalle grandi capitali dell'Ellenismo alla rinascita del sapere matematico nella civiltà arabo-islamica, per non dire dell'India. Senza questo «variegato mosaico» sarebbe forse impensabile la fioritura matematica dell'Occidente — dalla grande algebra italiana del Cinquecento alla geometria di Galileo e dei suoi discepoli, dalla Francia di Viète e di Cartesio al «miracolo» del newtonianesimo nell'Inghilterra del Seicento. E quali sono oggi i punti di irradiazione del sapere matematico che possono rivaleggiare con l'Uruk o con la Babilonia di un tempo, con la Siracusa di Archimede o l'Alessandria di Euclide? Il lettore non avrà che il felice imbarazzo della scelta: dalla Princeton di Einstein e di Gödel alla Oxford della seconda metà del Novecento, dalla Parigi di Bourbaki alla Normale di Pisa, dalle scuole rivali di Mosca e di San Pietroburgo ai vari centri del Giappone contemporaneo… «Conta di più il genio individuale o l'ambiente culturale?» è la domanda posta nel saggio iniziale del volume da Michael Atiyah (uno dei maggiori matematici di Gran Bretagna). Non si comprende l'uno senza l'altro. Del resto, non diversamente dall'arte, «la matematica è una costruzione intellettuale custodita nella mente collettiva dell'umanità». Aggiunge Atiyah: «Non siamo ancora stati sostituiti dal computer». Ma questo non significa demonizzare la tecnica: i progressi dell'informatica stanno oggi riducendo i vincoli di spazio e di tempo, permettendo così che quel particolare tipo di libertà possa avere «piena fioritura in ogni angolo della Terra».

Corriere della Sera Roma 1.12.07
Herbert List
«Uno sguardo sulla bellezza» gli scatti del grande fotografo nella Roma degli anni '30
di Lauretta Colonnelli


«L'obiettivo non è dotato di obiettività », osservava Herbert List nel 1941. L'obiettivo al quale si riferisce è quello della macchina fotografica che List, nato ad Amburgo nel 1903 e avviato dal padre alla carriera commerciale, sceglie definitivamente a metà degli anni Trenta per seguire a Parigi e a Londra la fotografia e la sua strada artistica.
Visione romantica
Lo scrittore Luigi Malerba, vedendo le immagini di List esposte nella mostra ai Musei Capitolini, conferma l'osservazione del celebre fotografo e aggiunge: «Molti luoghi di Roma che appaiono in questa mostra mi sono addirittura familiari per continuità topografica alla casa dove abito da molti anni. Nonostante questo, esse esercitano su di me il fascino della scoperta, come se le vedessi qui per la prima volta. Nel caso di List, cioè di un fotografo artista, si pone il problema non più della semplice mediazione bensì dell'interpretazione. Le sue foto sono già di per sé uno specchio interpretativo della realtà e come tali propongono un'immagine delle cose nuova anche per chi queste cose le conosce da lunga data».
L'esposizione, che si intitola «Uno sguardo sulla bellezza», organizzato con la collaborazione di Zetema e dell'agenzia Contrasto, propone per la prima volta, oltre agli scatti su Roma, una selezione delle immagini riprese da List in Italia dagli anni Trenta agli anni Cinquanta, quando, percorrendo l'Europa con la sua macchina fotografica, l'artista creò una visione del Mediterraneo elegante, erotica e romantica.
La prima stampa, rigorosamente vintage come tutte le altre, rappresenta una finestra aperta sul mare, con il luccichio dell'acqua intorno a una barchetta a vela, essenziale come quelle disegnate dai bambini. Poi scorrono davanti agli occhi le vedute di piazza del Popolo vista dal Pincio, con lo sguardo che vola oltre l'obelisco su una via Cola di Rienzo deserta di auto, fino a piazza Risorgimento. Deserta anche piazza San Pietro, con l'immagine suggestiva delle ombre degli apostoli proiettate ai piedi della scalinata.
Continuando il percorso, si ha l'impressione di vedere un'altra città, diversa da quella a cui siamo abituati. Una città dove le strade respirano e prendono vita al passaggio delle figure umane. Perfino la facciata di un brutto condominio di periferia assume l'aria di un'opera d'arte, con la scansione geometrica e perfetta delle finestre e dei balconi. C'è poi la serie degli scatti effettuati a Trastevere, che raccontano la vita quotidiana dei suoi abitanti, con le bambine che giocano per strada, il ragazzino che rincorre un copertone d'auto, le venditrici ambulanti accanto a miseri banchetti ai lati delle strade, le massaie sedute davanti alla porta di casa sotto il filo dei panni stesi.
Gesti rivelatori
In mezzo, le vedute della stazione Termini durante e dopo la costruzione, con prospettive che hanno il sapore dei quadri di Giorgio de Chirico. E i primi piani di artisti come lo stesso De Chirico e Giorgio Morandi, di attrici come Anna Magnani, di scrittori come Pier Paolo Pasolini, di registi come Vittorio De Sica, uno dei maestri del neorealismo dai quali List imparò ad osservare l'umanità nei suoi momenti spiccioli ma significativi, nei suoi gesti rivelatori, nei suoi sguardi più profondi.

MUSEI CAPITOLINI, Palazzo Caffarelli, piazza del Campidoglio, tel. 06.82059127. Fino al 17 febbraio, tutti i giorni dalle 9 alle 20, chiuso il lunedì. Ingresso: 8 euro.

Il Mattino 1.12.07
Il pensiero di Kant per avvicinarsi al regno di Dio
di Giovanna Chirri


Città del Vaticano. Tra filosofia e teologia la nuova enciclica di Benedetto XVI è intrisa di Sant’Agostino, si fonda sulle più importanti lettere paoline (dai Romani agli Ebrei), si muove da Bacone alla scuola di Francoforte cercando i motivi della crisi della ragione, a partire dalla fiducia nel progresso, e denunciando i limiti del marxismo. Si confronta con la teologia protestante e chiede al cristianesimo moderno di fare autocritica. Con il riferimento a Kant, Engels e Marx, Horkheimer, Adorno e la scuola di Francoforte è tutto tedesco il filone filosofico principale. C’è Marx e le rivoluzioni comuniste, c’è Lenin, ma non c’è Ernst Bloch e la sua utopia marxista; né c’è la teologia della speranza di Moltmann. C'è invece il cattolico De Lubac. Il confronto con la teologia protestante passa attraverso la critica che Koester, protestante anche lui, ha fatto di Lutero. Il Papa, inoltre, prende le mosse dalla lettera ai Romani, ma non cita Karl Barth. Tra i pensatori cristiani antichi si riferisce a Gregorio Nazianzeno, Ambrogio e Bernardo di Chiaravalle. Non mancano, infine, richiami a Dostoevskij e Platone. La fede intrecciata alla speranza è uno dei concetti di partenza, e muovendo dalla lettera agli Ebrei il Papa arriva a Lutero, al quale, osserva Ratzinger, questa epistola paolina «non era in se stessa molto simpatica». La moderna esegesi protestante, rimarca l'enciclica, si è distaccata da Lutero, la cui posizione è stata definita «insostenibile» dal teologo protestante Koester: «la fede non è soltanto un personale protendersi verso le cose che devono venire ma sono ancora totalmente assenti», la fede «attira dentro il presente il futuro», afferma Benedetto XVI. Agostino permea l’enciclica con l’idea della «connessione tra amore di Dio e responsabilità per gli uomini», ma c’è un accenno che spiega molto del legame del Papa con il grande di Ippona: Agostino, rimarca Benedetto XVI, aveva l’intenzione di «trasmettere speranza, quella che gli veniva dalla fede e che, in totale contrasto con il suo temperamento introverso, lo rese capace di partecipare decisamente con tutte le forze all’edificazione della città». Ai tempi del Santo di Ippona, come oggi, «se le anime inselvatichiscono, non riesce nessuna positiva ristrutturazione del mondo». Adorno e la scuola di Francoforte vengono presi a riferimento per la critica alle degenerazioni del progresso e della scienza. Di Kant il Papa ha preso «il passaggio graduale dalla fede ecclesiastica al dominio esclusivo della pura fede religiosa» come «avvicinamento del regno di Dio». Per Marx parole d’elogio: «grande capacità analitica», «acutezza dell’analisi e chiara indicazione degli strumenti per il cambiamento radicale», «la sua promessa ha affascinato e affascina tuttora sempre di nuovo». Il suo errore è stato «il materialismo».

Liberazione 1.12.07
È nato il modello Veltrusconi
Così si spartiranno il potere
Meglio di così non poteva andare
di Angela Mauro


Meglio di così non poteva andare. A sentire l'uno, Veltroni, e l'altro, Berlusconi, si può persino trovare un motivo per cui i due cognomi fanno rima. Più di uno. Perchè di convergenze nel colloquio tra il leader del Pd e il leader di Forza Italia sulle riforme ce ne sono tante. E non solo sulla legge elettorale. Berlusconi questa volta compie un passo in più. Continua, per carità, a parlare al suo pubblico: «La maggioranza non è all'altezza della crisi del paese, meglio tornare al voto». Ma non pone il ritorno alle urne quale «pregiudiziale» per il dialogo sulle riforme, come invece aveva fatto subito dopo il fallimento della spallata al governo in Senato. Lo specificano sia lui che lo stesso Veltroni, nelle due affollatissime conferenze stampa in un Palazzo Montecitorio che ieri - venerdì, nessuna seduta in Aula - era popolato solo da giornalisti, fotografi e cameramen. Fissare una data per nuove elezioni dunque non è più il tarlo del leader di Fi: «A Napolitano spetta il compito di sciogliere le camere», se la cava Berlusconi. E Veltroni apprezza, ne fa un importante punto della sua soddisfazione per un incontro "storico" che, secondo lui, inaugura in Italia l'era di una «democrazia moderna», fatta di «conflitto politico, ma anche di dialogo per riscrivere le regole istituzionali». Sì, perchè non c'è solo la bozza Vassallum, quel misto di tedesco corretto in salsa spagnola (voto per piccole circoscrizioni, non per circoscrizione unica come in Germania), a convincere Berlusconi «più di quanto ci saremmo aspettati», raccontano i collaboratori del leader del Pd. L'ex premier è disponibile a convergere anche sulla proposta Franceschini di riforma dei regolamenti parlamentari per impedire che nascano nuovi gruppi di formazioni non elette alle urne. E si comprende che da qui al dialogo su tutto il pacchetto di riforme istituzionali, che sta a cuore a Veltroni, il passo è breve. Anche su questo punto Berlusconi usa toni diversi rispetto a soli pochi giorni fa. Si dice innanzitutto «d'accordo sul merito» delle riforme e pur concedendosi una leggera stoccata da leader di opposizione («La sinistra ha abrogato le nostre...»), non pronuncia un no a tutto tondo. Solo dubbi sui tempi, perchè - torna a parlare ai suoi - «questa maggioranza è finita, non avrà il tempo di fare le riforme». Ma in fondo l'atteggiamento dell'ex premier è: intanto fare la legge elettorale («C'è la volontà per riuscirci», sostengono sia lui che Veltroni) e poi, se il governo Prodi continua a vivere, si può pensare di allargare il discorso alle riforme istituzionali. E se Prodi casca? Governo istituzionale? A domanda, Berlusconi non risponde. Certo è che un'altra cosa che si trovano a condividere lui e il leader del Pd sono i rapporti non proprio splendidi con il professore. Che continua a temerli.
Con Veltroni c'è una «antica frequentazione», sfoggia Berlusconi, «nell'85 lui scrisse un libro su di me: "Io e Berlusconi". Io andai al congresso dei Ds e poi ne cinque anni del governo della Cdl abbiamo avuto una grande attenzione per la città della quale è sindaco». Così non è con Prodi che, racconta ancora l'ex premier, non l'ha nemmeno chiamato dopo le nuove minacce di Bin Laden, al contrario del leader del Pd gli ha manifestato la sua «solidarietà» nell'incontro sulle riforme. Fin qui niente di sorprendente. Ma non sfugge che la telefonata tra Veltroni e Prodi, dopo il colloquio con Berlusconi, non deve essere andata granchè bene. «Veltroni mi ha detto di essere soddisfatto», è il freddo commento del premier da Bologna. Nonostante le ripetute rassicurazioni del leader del Pd («Il governo e il dialogo sulle riforme sono due cose separate. La durata del governo è una condizione per fare le riforme») la puzza di inciucio continua ad aleggiare intorno a Palazzo Chigi. Non è difficile ammetterlo nemmeno per gli uomini di Veltroni: «Prodi continua a temere che il dialogo possa diventare un problema per lui...». E infatti il presidente del Consiglio ha persino rotto il silenzio sulla legge elettorale per provare a disturbare il campo. Come spiegare sennò quell'uscita di due giorni fa sul ritorno al Mattarellum? Un modo per "marcare il territorio", perchè si sa che quel modello elettorale non ha chance nel dialogo tra i due maggiori partiti, Pd e Forza Italia. «Certo è migliore del Calderolum, ma prevede un 75 per cento di maggioritario e un 25 per cento di proporzionale - dice secco Veltroni - qui si sta discutendo su un'altra base: quella proporzionale. Ci sono varie soluzioni, sceglierne una spetterà al Parlamento», cui ora passa la palla per le riforme. E Prodi? «Ha più volte ribadito che serve un bipolarismo nuovo», taglia corto il leader del Pd.
Berlusconi lo descrive così questo bipolarismo nuovo: ruota intorno a «due grandi partiti», è fatto di «competizione non ideologica, ma di rispetto reciproco», di «alleanze omogenee», di un governo che abbia la «forza per attuare il programma». E può anche contemplare scenari da grande coalizione, in caso di vittoria con maggioranza risicata. «In questa legislatura è stato il centrosinistra a rifiutarla», dice il leader di Forza Italia che (come Veltroni) parla di intesa su un modello di «proporzionale con sbarramento» e senza l'indicazione delle alleanze prima del voto («Veltroni mi ha ribadito la sua contrarietà»). Il punto è invece caro a Gianfranco Fini che, dopo il faccia a faccia Veltroni-Berlusconi, si becca un'altra "sconfitta" a vantaggio dell'ex alleato, mentre Casini benedice il dialogo.
Ma, assicurano sia Veltroni che Berlusconi, il confronto avverrà nel «rispetto di tutti». Tanto che, ci tiene a raccontare il leader del Pd, Berlusconi voleva che l'incontro di ieri avvenisse nella stanza degli ex premier alla Camera. Si è invece usato lo studio di Franceschini, pari trattamento per tutti, almeno nella logistica. Per il resto, ammette Veltroni, è chiaro la riforma elettorale cui si approderà «non potrà soddisfare il cento per cento degli interlocutori...». Visto che c'è la volontà politica dei due maggiori partiti per fare la riforma elettorale, dovrebbe essere scongiurato il rischio referendum. Berlusconi dice che nell'incontro con Veltroni non se n'è nemmeno parlato «a dimostrazione del fatto che davvero si vuole riuscire nella riforma». Anche Veltroni dice di voler accelerare per evitare la consultazione cara a Parisi, ma, specifica, «il problema non è depotenziare il referendum, che non è un obiettivo negativo. Il punto però è fare la riforma».
Finita l'epoca «dei veleni e dell'odio», per dirla con Veltroni, resta una punta di diffidenza nel confronto con Berlusconi. Dalle parti di Veltroni non si dimentica che fine fece fare alla Bicamerale di D'Alema. Ma al momento l'asse regge, a dispetto di tutti gli alleati.

Liberazione 1.12.07
Yaltina
di Stefano Bocconetti


Yaltina. Una Yalta piccola piccola. Forse anche un po' grottesca. Che non cambierà la storia. Ma danni sì, quelli potrà farli. Certo, anche se col diminutivo, anche se con molti diminutivi, il paragone con l'incontro che ridisegnò il mondo alla fine della seconda guerra mondiale, potrà sembrare irriverente. Fuori luogo. Lì, in Crimea, cominciò la guerra fredda, che avrebbe bloccato tutto e provocato guerre e lutti. Qui al massimo si garantirà il futuro a due partiti che fino ad ora hanno vissuto solo di sondaggi e che non sono mai passati al vaglio degli elettori.
Yaltina però - una Yalta infinitesimale - più che agli effetti, si riferisce alla volontà dei due protagonisti. Veltroni e Berlusconi. L'incontro di ieri - accompagnato dalle luci dei riflettori come neanche quello "storico" fra Occhetto e lo stesso Berlusconi, ormai tredici anni fa - proprio questo ha raccontato. I due si trovano d'accordo su tante cose. Su quasi tutto. Ma soprattutto si trovano d'accordo sulla filosofia che ispira le loro scelte. Voglio spartirsi la politica. Tutte e due usano termini che tenteranno di imporre al linguaggio della politica. Blaterano di «nuova stagione del bipolarismo». Che poi significa un modello dove contano, contano molto più degli altri, due partiti. I loro. I democratici e quello del popolo.
Vogliono spartirsi le istituzioni, il Parlamento. Al di là delle regole di cui hanno discusso - e sono in molti a pensare che il divieto a costruire in Parlamento gruppi che non si siano presentati alle elezioni stia alla crisi della politica un po' come le caramelle stanno alla polmonite; senza pensare che nessuna delle formazioni che ieri pretendevano di rappresentare avrebbe oggi possibilità di essere presente alle Camere -; al di là delle norme concrete di cui hanno discusso, si diceva, pensano a come occupare tutto ciò che è occupabile. Senza dover rendere conto a nessuno.
Vogliono spartirsi gli elettori. Con una legge contorta, che ridisegnando i collegi strapperebbe probabilmente anche un timido consenso alla Lega, di là, e a Mastella di qua. Ma che eviterebbe la rappresentanza, la rappresentanza politica e sociale di tanti. Una legge che imporrebbe la cultura del «voto utile», che pagherebbero solo le forze intermedie. La sinistra.
Vogliono spartirsi il paese. Magari è anche vero che non hanno parlato di governo di larghe intese - come giurano e rigiurano gli staff dei due leader - ma forse a quel punto nessuno dei due ne avrebbe più bisogno. I loro "blocchi" sociali, gli interessi che si sono aggregati attorno alle due nuove formazioni avrebbero comunque la garanzia di essere al governo. Vinca l'uno, o vinca l'altro. E avrebbero la garanzia di fare davvero quello che hanno in mente, visto che i due si riconoscono reciprocamente il "diritto" d avere più potere quando arriveranno a Palazzo Chigi.
Una Yaltina, allora. Una minuscola Yalta. Realizzata da due protagonisti che però, forse, non hanno le stesse responsabilità.
Uno, quello di destra, fino a ieri si limitava a predicare la spallata e quando non gli è riuscita ha tirato fuori dal cilindro un nuovo partito. Che aveva finito per spaccare l'opposizione. Era in difficoltà, insomma, come mai forse era stato in questi mesi. Ora invece è uscito dall'angolo. L'altro, il sindaco, all'angolo vorrebbe mandarci tutti gli altri. Soprattutto gli alleati. Parla di clima politico sereno - un'assoluta novità, dice, per il nostro paese - che si è riusiti a costruire da un mese a questa parte. Da quando c'è lui alla guida dei democratici. Parla di un clima nuovo che "lui" è riuscito a costruire. Sbeffeggiando chi in questi mesi ha dovuto subire l'oltranzismo di un'opposizione che fino a qualche mese fa neanche riconosceva i risutati elettorali. Lodando soprattutto l'ultimo mese di attività politica: quello che ha visto i democratici distruggere la coalizione e imporre al centrosinistra una sostanziale "continuitàà" con le scelte del governo precedente.
Le loro responsabilità non sono uguali. Ma conta poco adesso tutto questo. Di più conta che insieme vogliono ridisegnare la politica italiana. E si sono dati anche un termine: dodici mesi. Montezemolo, evidentemente, non può aspettare di più. Ma se ci si pensa bene questi dodici mesi sono anche un tempo sufficiente per far saltare questo progetto di monocolore che chiamano "nuovo bipolarismo". Può saltare. Anche perché i protagonisti sono quello che sono. Ed è difficile che i libri di storia si ricorderanno di loro.

Aprile on line 1.12.01
Il marxismo? geniale!
di Carlo Patrignani


Politica e morale
Metter insieme illuminismo e marxismo non regge dal punto di vista storico: né si può dar la colpa a Marx per le mancate rivoluzioni non riuscite. Nicola Tranfaglia e Salvatore Bonadonna riflettono sull'ultima enciclica papale

Siamo arrivati con un bel fiatone agli Stati Generali dell'8- 9 dicembre, l'appuntamento decisivo per il nascituro ‘soggetto politico' della sinistra, chiamato a costruire un nuovo socialismo, quello del 21° secolo. Una sfida enorme sul ‘socialismo possibile' che in molti da tempo danno per morto: voglio pensare allora che tuoni e saette di Benedetto XVI contro il marxismo e l'illuminismo, contro la scienza, senza spendere una parola sul feroce nazismo ed il suo ispiratore Martin Heidegger, siano puramente casuali. Ma poi il dubbio: e' proprio cosi'? O quel che accade nel mondo politico non sfugge alla Chiesa, a cominciare dal neo Pd? E da quel che viene avanti nella ex-Casa delle Libertà?
Il marxismo ha lasciato "dietro di se una distruzione desolante" ci racconta Ratzinger e l'errore di Marx è "aver dimenticato l'uomo, la sua libertà: credeva che una volta messa a posto l'economia tutto sarebbe stato a posto. Il suo vero errore è il materialismo". E l'illuminismo? "Il progresso è ambiguo, offre nuove possibilità per il bene ma apre anche possibilità - ci avverte il Papa - abissali di male, possibilità che prima non esistevano. Sappiamo che il progresso in mani sbagliate può diventare ed è diventato, di fatto, un progresso terribile nel male". Ergo, "l'uomo ha bisogno di Dio, altrimenti resta privo di speranza".
Vero, falso? Per Silvio Berlusconi tutto vero quel che il Papa ha detto. "Il socialismo reale ha rappresentato solo apparentemente la felicità ma in realtà è stato solo un
falso paradiso - ha scritto sul sito ratzingeriano papanews.it - l'economia non può prevalere sulla libertà, la gente ha il diritto a professare liberamente le sue idee, ha diritto al culto, la libertà religiosa è fondamentale e non si può barattare con un piatto di lenticchie. Tanto più che non mi sembra che nella vecchia Russia la popolazione nuotasse precisamente nell'oro e nella felicità". E pare che lo sia anche per il leader del Pd, Valter Veltroni.
E per la sinistra radicale? E' importante avere le idee chiare se vuole portare avanti una tormentata gravidanza: è già sofferente per una rilevante crisi d'identità che non può permettersi un aborto che sarebbe esiziale per la sua esistenza.
"Metter insieme illuminismo e marxismo non regge dal punto di vista storico: né si può dar la colpa a Marx per le mancate rivoluzioni non riuscite", osserva, allora, lo storico Nicola Tranfaglia. "Nell'enciclica del Papa c'è un grosso limite - nota - non si condanna mai la sola teoria che nella storia dell'umanità ha elevato l'uomo a Dio perseguendo la razza eletta, cioè il nazismo, la rivoluzione nazional-socialista ispirata da filosofi come Martin Heidegger". E' sbagliato storicamente metter sullo stesso piano illuminismo e marxismo: perché? "L'illuminismo non è una dottrina, tant'è che non si preoccupa minimamente di economia né tanto meno eleva l'uomo a Dio: la sua ambizione fu il progresso e la laicità, per l'oppressione molto forte della Chiesa e del potere temporale di allora", risponde lo storico che rivendica "la mia formazione azionista" di quel nobile filone politico che annovera tra i tanti i fratelli Rosselli, Ernesto Rossi, Ferruccio Parri, Riccardo Lombardi, l'ingegnere ‘acomunista' che fece del ‘riformismo rivoluzionario' la sua grande battaglia teorica e pratica.
"Il marxismo o meglio gli Stati che si ispirarono al marxismo come la Russia, con la rivoluzione bolscevica, avevano già risolto la questione religiosa - nota Tranfaglia - e proprio con quella sintetica frase di Marx: la religione è l'oppio dei popoli". E poi, Marx, "fu un filosofo, sociologo e analista della società contemporanea, non fu il fondatore di Stati e di Repubbliche: non può, dunque, essere incolpato di alcunchè. Certo, la rivoluzione bolscevica - chiarisce lo storico - non ha realizzato un comunismo sostenibile, non è da santificare, ma non può essere addebitato ciò al marxismo, la cui grande passione fu di voler cambiare il mondo". Pertanto, "quando il Papa parla di esperienza devastante - prosegue Tranfaglia - è un'affermazione fatta per una questione di fede e non per una questione teorica: e va ribadito che Marx ebbe sempre presente l'uomo l'essere umano e non pensò mai all'Uomo-Dio, su cui invece si fondò il nazismo e la teoria di Heidegger", conclude lo storico per il quale il nascituro ‘soggetto' della sinistra radicale deve recuperare un rapporto stretto tra cultura e politica, tra etica e politica.
"Marx? Geniale - precisa Salvatore Bonadonna, senatore di Rifondazione Comunista - mise l'uomo al centro di ogni cosa, della sua ricerca, per primo si occupò di realtà umana: questa sua intuizione è attualissima, e la dimensione che gli diede non fu né trascendente né divina, mentre diversamente sono andate le cose per le rivoluzioni fatte in nome del marxismo".
Altro errore è parlare di fallimento del marxismo sulla scorta del fallimento reale delle rivoluzioni (russa, cinese, cubana) non riuscite fatte in suo nome, ben noto fin dagli anni '30 con il patto Ribbentrop-Molotov e '50 con le invasioni dell'Ungheria e della Polonia per giungere nel '69 a Praga.
E allora, perché questo errore storico? Che al Papa in fondo interessi ‘cancellare' il pensiero di Marx? Quello dei Manoscritti, in cui legò l'alienazione dell'operaio a quella del credente? Non a caso per Marx l'alienazione che l'operaio della società capitalistica vive sul piano economico ha il suo equivalente sovrastrutturale in quello che accade al credente sul piano religioso. "L'operaio si viene a trovare rispetto al prodotto del suo lavoro - diceva Marx - come rispetto ad un oggetto estraneo". Estraneo perché, pur essendo la merce un suo prodotto, non gli appartiene, essendo a lui separata giuridicamente la proprietà della fabbrica. Questa alienazione materiale - spiegava Marx - trova il suo riflesso in quella spirituale della religione, la quale recepisce e giustifica, modificando continuamente i suoi contenuti, l'estraniazione materiale del capitalismo. Così "quante più cose l'uomo trasferisce in Dio, tanto meno egli ne ritiene in se stesso", ammoniva Marx. Un legame così esplicito di capitalismo e religione sarà ricorrente in tutta l'opera marxiana, anche se mai sviluppato in maniera analitica. Nel capitalismo, quindi, persino la ‘legge naturale' dello sviluppo industriale che dovrebbe portare direttamente sul piano spirituale all'ateismo, diventa motivo di perpetuazione dell'alienazione religiosa. Nel senso che se è vero che "i miracoli divini diventano superflui a causa dei miracoli dell'industria", aggiungeva Marx, "è altresì vero che col capitalismo i miracoli dell'industria tornano a vantaggio solo di poche persone proprietarie, mentre ai lavoratori non resta che continuare a sperare - come vuole la religione - nei miracoli divini, almeno sino a quando essi non si accorgeranno che non gli dèi, non la natura, ma solo l'uomo stesso può essere questo potere estraneo al disopra dell'uomo". Questa è una delle ragioni per cui, secondo Marx, "la critica della religione" va considerata come "il presupposto di ogni critica". Cioè l'operaio può iniziare a criticare il capitalismo partendo dalla critica della ‘religione': Lenin non avrà bisogno di questo passaggio intellettualistico, in quanto per lui il capitalismo andava criticato per le proprie contraddizioni interne, e questo allo scopo di organizzarne un superamento di tipo politico. La ‘critica della religione' è sempre stata considerata da Lenin un aspetto di secondaria importanza, anche se proprio lui pretendeva da parte del partito una propaganda ateo-scientifica: cosa che in Europa occidentale i partiti comunisti non hanno quasi mai fatto.
Diversa, insomma, l'analisi sulle rivoluzioni fatte e non riuscite in nome del marxismo: "qui la constatazione storica è il loro fallimento - afferma Bonadonna - non c'è dubbio: ma l'atto più violento e blasfemo per l'umanità resta il nazismo e la filosofia di Martin
Heidegger per aver teorizzato e praticato la razza eletta". E sul quale non si ritrova una parola che sia una. Perché mai? "E' un elemento, l'assenza di critica al nazismo e ad Heidegger che ci deve far riflettere tutti", risponde Bonadonna. Dopodiché, oggi, sul marxismo, che ‘non muore più di noia', si può' "riflettere, discutere, approfondire, ma non con quell'impostazione viziata da vecchio ideologismo - conclude Bonadonna - per cui il pensiero di Marx viene appiattito, mescolato, messo assieme alle esperienze successive a Marx e fatte in suo nome".

il manifesto 1.12.07
Il senso del dissenso nella storia di Pietro Ingrao
Ricordi e riflessioni sullo scontro con il gruppo dirigente del Pci nel dialogo con Claudio Carnieri «La pratica del dubbio», appena pubblicato da Manni
di Valentino Parlato


La memoria di Pietro Ingrao è una miniera ricchissima, direi inesauribile, e Claudio Carnieri si rivela un abile minatore. Il prodotto è un agile libretto che continua, ma anche arricchisce, il più voluminoso Volevo la luna. Nelle poco meno di ottanta pagine di Pietro Ingrao. La pratica del dubbio. Dialogo con Claudio Carnieri (pp. 80, euro 10, Manni) emergono fatti, personaggi e problemi e lo scontro tra Ingrao e il gruppo dirigente del Pci, forse in termini più netti che non in Volevo la luna. Nelle prime pagine - come già in scritti di Aldo Natoli - emerge la figura straordinaria di Bruno Sanguinetti. Siamo negli anni '30, quando il fascismo aveva una faccia modernizzante e attraente, gli anni nei quali Pietro Ingrao diventò amico di Gianni Puccini e frequentò il Centro Sperimentale di cinematografia, dove lavorava Umberto Barbaro che fu maestro di cinematografia dopo la caduta del fascismo. L'altro filone riguarda il maturare del dissenso con il gruppo dirigente del Pci prima e dopo il famoso XI congresso, di cui, nel dialogo tra Ingrao e Carnieri, quasi non si parla. Sintomatico il rifiuto di Ingrao di tornare a fare il presidente della Camera e poi, quasi di conseguenza, il suo passaggio alla direzione del Centro per la riforma dello stato. E a me pare che di fronte alla rottura tra Cina e Urss (un capolavoro di Nixon) e al decadere dell'Urss, Ingrao abbia sentito forte l'attrazione delle socialdemocrazie europee, penso soprattutto a Olof Palme (Aldo Garzia ci ha scritto un bel libro), a Willy Brandt e anche a Bruno Kreisky. Questa attenzione alle socialdemocrazie di quegli anni (oggi il vecchio Pci si è autobattezzato democratico e basta) è stata per Ingrao (almeno a mio parere) un segno di realismo e anche l'emergere di un dubbio (La pratica del dubbio è il titolo di questo scritto), fecondo e positivo. Il dubbio era di Cartesio. «Ma - Ingrao dice a Carnieri - il dubbio per me non significava povertà: anzi apertura di orizzonti, audacia nel cercare. Sì, vivevo il piacere del dubbio. E avvertivo anche una ricchezza per quell'interrogarsi, cercando. Come se il mondo - nella sua problematicità - si dilatasse attorno a me».
Certo, lo stimolo del dubbio, che peraltro ha buoni genitori nel pensiero europeo, e, insieme, l'allargarsi del mondo. Per Ingrao la scoperta dell'Asia è molto importante e l'allargarsi dell'orizzonte concorre ad accrescere la fecondità del dubbio. E - ricordo - la questione del dubbio ebbe molto peso nel Pci di quegli anni. Ricordo bene l'aspra polemica di Giorgio Amendola contro i «cacadubbi» in nome di una necessità dell'agire, di non farsi sorpassare dal tempo. Cose serie che avrebbero chiesto più meditazione, e invece ci fu scontro. E debbo dire - allora consideravo Giorgio Amendola un mio maestro - che fui dall'altra parte. Prevalse, e prevale ancora in me la massima on s'engage et puis on voit, che - debbo aggiungere - è l'insegna della compagnia dei traghetti sullo stretto di Messina. Certo, puis, ho visto cose non tanto belle, ma fu, nel lontano 1969, questa massima - allora lavoravo a Rinascita - a convincermi di seguire l'impresa dei compagni promotori del manifesto.
Scrivo questo per dire che La pratica del dubbio è pieno di stimoli a rivedere il passato e sforzarsi di intravvedere il futuro. Certo nella situazione di profondo malessere nel quale è oggi la sinistra il dubbio è inevitabile e forse fecondo, ma non si può rimanere nel dubbio; non c'è tempo. Occorre mettersi in gioco. Anche San Paolo diceva che bisogna buttare il cuore oltre l'ostacolo. Tanto più che cuori verranno dopo il nostro che, oltre l'ostacolo, potrebbe anche marcire.

venerdì 30 novembre 2007

l’Unità 30.11.07
Sul welfare va in scena la «Cosa Rotta»
Il Pdci lascia l’aula e non vota. Rifondazione, verdi e Sd: «Una scelta sleale verso il processo unitario»
di Simone Collini


SUL WELFARE il governo non cade ma la «Cosa rossa» inciampa pericolosamente. Tanto che Fausto Bertinotti deve intervenire con un richiamo all’unità della sinistra, che il presidente della Camera definisce «una necessità esistenziale in questa fase». Succede che il giorno dopo la fiducia, quando si tratta di votare il testo del disegno di legge, il Pdci si sfila: votano a favore soltanto Oliviero Diliberto e il capogruppo Pino Sgobio, mentre tutti gli altri deputati del gruppo lasciano l’aula. Ma se Palazzo Chigi non si preoccupa della mossa dei Comunisti italiani («singoli aspetti non prioritari»), Rifondazione comunista, Verdi e Sinistra democratica assistono con un misto di stupore e rabbia alla scena. Di lì a poco è fissato in agenda un incontro per preparare gli stati generali della Sinistra dell’8 e 9 dicembre, e attorno al tavolo si ritrovano Franco Giordano, Alfonso Pecoraro Scanio e Fabio Mussi. Diliberto arriva con un po’ di ritardo e gli sguardi che lo accolgono nella stanza di Montecitorio vanno dal gelido al furibondo. La porta che si chiude alle spalle viene riaperta una manciata di minuti dopo. Cos’è successo? «È stata una discussione breve», dice Diliberto andandosene. Il fatto è che quei pochi minuti sono bastati per far salire la tensione alle stelle. «Questo è un modo scorretto di comportarsi», attacca Giordano, «la vostra è stata una decisione puramente strumentale», dice Mussi, «una mossa incomprensibile che ora ci devi chiarire», incalza Pecoraro Scanio. Diliberto si alza e se ne va. Poco dopo viene diffusa una nota congiunta siglata dai tre sul non voto del Pdci: «È una scelta sleale verso il processo unitario in corso e la collaborazione in atto tra i gruppi parlamentari della sinistra. È stata una iniziativa propagandistica, assunta sapendo che comunque non avrebbe avuto effetti sulla coalizione e sul governo».
Nelle ore che seguono le voci si rincorrono, si ipotizza anche che saltino gli stati generali di dicembre, poi che si faranno senza il Pdci. L’unico segnale di distensione arriva per bocca di Bertinotti, per il quale «l’unità è per tutte le forze di sinistra una necessità esistenziale di questa fase storica, per cui non può subire alcuna alterazione dalle contingenze o da qualsiasi elemento di turbativa piccola o grande che sia». È necessario un incontro in serata per far tornare la situazione come era prima del voto della mattina, ma solo per quanto riguarda l’appuntamento dell’8 e 9: si farà e parteciperanno tutte e quattro le forze. Per quanto riguarda i sospetti e le reciproche accuse, invece, il colpo di spugna non riesce. La risposta di Diliberto arriva tramite una nota della segreteria in cui si dice che l’obiettivo era «mandare un segnale politico di grave disagio al governo» e che il Pdci «non polemizza con la sinistra». Ma nel partito il malumore per il Prc è forte: «Per caso loro ci hanno consultato prima di chiedere la verifica?», è uno dei tanti sfoghi. E l’umore dentro Rifondazione non è migliore. Giordano è furibondo. Il leader del Prc si trova a gestire un partito in sofferenza, in cui a chiedere di uscire dal governo non sono più soltanto le minoranze ma anche consistenti fette della maggioranza, come dimostra la proposta di votare no alla fiducia presentata da Ramon Mantovani, che ha incassato il parere favorevole di quasi un terzo dei deputati. E una spinta a distinguersi come quella di Diliberto sembra fatta apposta per creare una più profonda spaccatura nel Prc. Che arriva proprio nel momento in cui Salvatore Cannavò si prepara a lasciare il partito e lancia la proposta di una costituente a sinistra della “Cosa rossa”.

l’Unità 30.11.07
Sicurezza. Rc al governo: «O si fa come diciamo noi o non voteremo il decreto»


Riprenderà martedì la discussione in Aula al Senato sul decreto sulle espulsioni. Si va verso un accordo con la sinistra, soprattutto sul punto che riguarda i Cpt, ma Rifondazione avverte il governo: «Sul decreto sicurezza, in aula nessuna modifica dell'impianto del testo in senso razzista e nessuna concessione alle destre altrimenti votiamo no». Ieri il gruppo si è riunito per mettere a punto la «tattica d'aula» visto che la commissione Affari costituzionali non è riuscita a licenziare un testo per l'aula, dove martedì inizierà il voto sugli emendamenti. Giovanni Russo Spena, avverte: «Visto che il decreto arriva in aula senza un relatore, il problema che ci poniamo ora è il governo. noi chiediamo che di fronte agli emendamenti che noi presenteremo l'esecutivo non si rimetta all'aula, ma dia parere favorevole così che i centristi della maggioranza che si tengono “le mani libere” si rendano conto che se dicono no ai nostri emendamenti non votano contro rifondazione, ma contro il governo».
Rc non chiede la fiducia sul testo ma «se il governo in aula si esponesse molto sui nostri emendamenti, questo per noi sarebbe una sorta di fiducia».

Repubblica 30.11.07
Diliberto strappa, lite nella Cosa rossa Bertinotti evita la rottura in extremis
L'8-9 dicembre Pietro Ingrao agli stati generali del soggetto unitario della sinistra
di Umberto Rosso


ROMA - Cosa rossa sull´orlo di una crisi di nervi. L´intervento di Bertinotti, che dietro le quinte fa il pompiere, scongiura il peggio. Ma la casa comune della sinistra vacilla pericolosamente, dopo lo smarcamento a sorpresa del Pdci che vota la fiducia al governo ma non il welfare. Scelta a freddo, che Diliberto non preannuncia agli altri tre soci, e così quando nel primo pomeriggio il segretario comunista si presenta al vertice dei segretari (convocato in precedenza, per decidere sul simbolo comune), scoppia il finimondo. Il più arrabbiato è Giordano, che si sente scavalcato a sinistra, ma anche Mussi e Pecoraro sono furibondi. Tutti quanti puntano l´indice: «Oliviero sei stato sleale». Poi si alzano e se ne vanno. Fine della riunione. Seguono ore frenetiche, con le sorti della Cosa rossa appese ad un filo. Tocca al presidente della Camera rimettere insieme i cocci. Un pubblico ammonimento, «l´unita della sinistra non può subire turbative, piccole o grandi che siano», e un paio di telefonate. Risultato: il quartetto si ricompone, e alle otto di sera finalmente prendono posto attorno al tavolo i leader di Prc, Pdci, Sinistra democratica e Verdi (manca Pecoraro, per un impegno, rimpiazzato dal capogruppo Bonelli). Sbollita l´ira, si tenta di scongiurare lo strappo plateale e chiudere l´incidente ma il clima resta pesante. Diliberto giura che trattasi di equivoco. «Il nostro no al welfare è un segnale al governo mica un voto contro il resto della sinistra». Però gli altri tre gli rinfacciano l´uscita a sorpresa, e anche le ultime sortite personali, tipo «la verifica di governo non serve a niente». Scintille soprattutto con Rifondazione. Sleali e furbetti? Nient´affatto, è la replica del Pdci. «Siamo rimasti da soli in commissione Lavoro a difendere il nostro presidente mentre il Prc pensava ai propri emendamenti. E pure sulla richiesta di verifica, Giordano l´ha lanciata senza consultarci». Botta e risposta, una lunga lista di sgarbi e sgambetti da chiarire. Faticosamente, si tenta di ricucire lo strappo, e i quattro parlano anche della questione del simbolo, accantonata dopo la rottura. In palio, la sopravvivenza della casa a quattro.
Giordano, fra un vertice mancato e l´altro, aveva convocato d´urgenza la segreteria del partito. Seduta ad alta tensione, anche qui. Refrain più gettonato: «Basta con questo giochino del Pdci a fregarci a sinistra». Con il dubbio di un possibile doppiogioco di Diliberto, che potrebbe puntare ad uscire al momento buono dall´operazione, «spaccando Rifondazione, marcando invece il proprio profilo comunista e il simbolo della falce e martello, che nel nuovo partito non ci sarà più». Alla fine passa la linea decisionista del segretario, con la benedizione di Bertinotti: avanti tutta sulla Cosa rossa, con o senza il Pdci. Stop alla telenovela sul simbolo, ai diktat di Diliberto, prendere o lasciare: la "Sinistra", con l´arcobaleno che piace ai Verdi. Lunedì in direzione Giordano chiederà perciò all´intero stato maggiore di dare via libera alla «forte accelerazione», chiamando se necessario alla conta. E siccome nel partito in questo momento si balla e i dissensi non mancano, si annunciano scintille. Ma il segretario può contare sull´asse con Fabio Mussi, sconcertato dal comportamento di Diliberto, e deciso anche lui a traghettare comunque la Sd nella Cosa rossa, anche se la fronda dei sindacalisti minaccia di allargarsi: dopo Nerozzi, anche altri importanti esponenti della Cgil come Panini o Podda potrebbero sfilarsi dall´ex correntone ds. E i Verdi? Pecoraro sconfessa Diliberto, «incomprensibile, non voglio la rottura ma serve un chiarimento», e insiste per andare «oltre la Cosa rossa» e a dare a tutta l´operazione anche un chiaro e visibile segno ambientalista. A cominciare proprio dalla convention romana dell´8-9 dicembre, da battezzare "Stati generali della sinistra e degli ambientalisti". Una linea verde che il ministro vuole rispecchiata anche nel simbolo, e al tavolo sforna bozzetti e variazioni sul tema. Corsa contro il tempo ma, dopo la tempesta scoppiata, perfino il rischio che salti l´intero progetto e non solo il simbolo. Pietro Ingrao, il grande vecchio della sinistra chiamato ad aprire gli stati generali, spera che questa sia la volta buona.

Corriere della Sera 30.11.07
Valori In Campidoglio al voto il registro delle coppie, duello nell'Unione
Il Vaticano riceve Veltroni «Attenti alle unioni civili»
Il sindaco rassicura Bertone: approvazione difficile
di Monica Guerzoni

L'incontro sollecitato dal segretario di Stato della Santa Sede: il faccia a faccia è durato un'ora

ROMA — Giusto una settimana fa era toccato a Silvio Berlusconi e ieri, a mezzogiorno, Walter Veltroni ha varcato i confini della Città del Vaticano per incontrare il Segretario di Stato, Tarcisio Bertone. L'invito, stando ai bollettini ufficiosi del Campidoglio, è partito da Oltretevere indirizzato al sindaco di Roma e non al leader del Pd. Ma non è un mistero l'attenzione del cardinale per la scena politica e i suoi protagonisti, soprattutto quei leader che, come Berlusconi e Veltroni, hanno fondato nuovi partiti o ristrutturato i vecchi. E infatti il senatore ex cristianosociale Giorgio Tonini, un esponente della segreteria di Veltroni che vanta ottime conoscenze Oltretevere, sintetizza così l'esito dell'incontro: «È andato molto bene, c'è grande interesse per il Pd».
Richiesta urgente
Eppure è facile immaginare che non solo del nuovo Ulivo abbiano parlato Bertone e Veltroni nell'ora di faccia a faccia. La conversazione ha spaziato dal complesso quadro politico ai temi sociali ed etici e a quel punto, non per caso, è andata a posarsi su una questione che molto sta a cuore al numero due del Vaticano: i diritti per le coppie di fatto, anche dello stesso sesso. Uno di quei provvedimenti che Papa Ratzinger, quando l'Italia si spaccava sui Dico, ebbe a definire «contro la natura umana».
Bertone dunque non si è limitato a girare al sindaco una preoccupazione fortemente sentita dalle gerarchie, ma ha rivolto al leader del Pd una richiesta che, calendario del Campidoglio alla mano, assume i caratteri dell'urgenza. Il 5 dicembre il consiglio comunale dovrà votare una delibera che istituisce nella Città Eterna un registro delle unioni civili già approvato in 30 comuni d'Italia e che riguarda anche le coppie omosessuali.
Il monito di Avvenire
Giorni fa il severo monito di Avvenire e ieri l'accorata preghiera di Bertone a Veltroni perché scongiuri il peggio, cioè l'approvazione di un testo di iniziativa popolare, presentato dalla Rosa nel pugno, sul quale i Radicali hanno raccolto e depositato 10.263 firme.
La maggioranza che sostiene Veltroni è spaccata, nell'aula di Giulio Cesare sarà una conta all'ultimo voto e il partito di Marco Pannella sta facendo pressing sul sindaco perché sposti il suo peso dalla parte del sì. Eventualità assai improbabile, viste le rassicurazioni che Veltroni ha offerto al porporato: «Non se ne farà nulla». Promessa impegnativa, eppure Veltroni confida di mantenerla se è vero che i suoi stanno provando a stoppare la delibera ancor prima che giunga in aula.
L'interesse di Walter
Nella Chiesa il livello di allarme è altissimo e il sindaco non ha alcun interesse a incrinare un buon rapporto di vicinato che fatica a diventare un'amicizia. «Il registro civile a Roma e una cosa inaccettabile — avverte la senatrice teodem Paola Binetti —. Benedetto XVI si è espresso contro e se passa, qualcuno penserà che Veltroni non può governare la città del Papa».
Monica Guerzoni

Corriere della Sera 30.11.07
Ora non è più la Cei l'unico interlocutore della politica italiana
di Massimo Franco


Nei rapporti fra la politica italiana ed il Vaticano sta affiorando una novità vistosa. L'uscita di Camillo Ruini dal vertice della Cei e l'arrivo del segretario di Stato, Tarcisio Bertone al posto di Angelo Sodano, hanno lentamente spostato gli equilibri del potere nella Chiesa. Lo fanno capire le visite oltre Tevere dei capi dei maggiori partiti. Qualche giorno fa era toccato a Silvio Berlusconi andare da Bertone per spiegare il profilo ancora nebuloso del Partito delle libertà. Ieri è stato il turno di Walter Veltroni: anche, ma non solo per chiarire che cosa sarà e farà il Partito democratico. Nel Pd si accredita apertamente la Segreteria di Stato come l'interlocutore obbligato, in questa fase: anche se il nuovo leader del centrosinistra è stato ricevuto nella veste di sindaco di Roma.
È un dettaglio indicativo: induce a pensare che la discussione sia stata più sfaccettata di quanto non dicano i brandelli di notizie uscite subito dopo. I rapporti con le istituzioni e le forze politiche, sembra di capire, non sono più appannaggio quasi esclusivo del presidente della Conferenza episcopale italiana, come era avvenuto nella lunga stagione ruiniana. Almeno in apparenza, ora vengono condivisi dalla Cei e dalla Segreteria di Stato. Si tratta di un'evoluzione poco notata, e che viene registrata dopo mesi di silenzioso braccio di ferro fra i vertici vaticani e l'episcopato italiano. D'altronde il successore di Ruini, il neocardinale Angelo Bagnasco, è arcivescovo di Genova ed è costretto a fare la spola tra la Liguria e la capitale; e questo spiega almeno in parte il viavai da Bertone.
Inoltre, Ruini è tuttora Vicario di Benedetto XVI a Roma e non rinuncia ad esercitare la sua influenza. Ma lo spostamento del baricentro dell'attenzione salta agli occhi. E segna un cambiamento che fino a qualche mese fa pochi consideravano scontato. La sensazione è che lo stesso colloquio fra Bertone e Veltroni vada al di là della visita «privata» di cortesia: una di quelle che il Vaticano ufficialmente non conferma né smentisce. Fonti ufficiose del palazzo Apostolico hanno fatto sapere che l'incontro si è concentrato sulla situazione italiana e su alcuni temi internazionali. La notizia è stata data dal Campidoglio, però, non dal Pd. E si è saputo che la data era stata fissata da tempo. Significa che Veltroni si è presentato come «primo cittadino» della capitale.
È probabile che al segretario di Stato premesse anche capire le mosse del sindaco di fronte alla prospettiva di un registro delle unioni civili presso il Comune di Roma: un'iniziativa di radicali e socialisti. Si tratta di un tema sul quale una parte del centrosinistra è intenzionato a misurare a breve il tasso di laicità di Veltroni: magari soltanto con una delibera simbolica del consiglio comunale. Ma l'iniziativa viene considerata lacerante per la maggioranza capitolina; e potenzialmente rischiosa anche per il Pd nazionale, nel quale i rapporti con l'universo cattolico rimangono un punto interrogativo. A livello locale le resistenze partono dal vicesindaco, Maria Pia Garavaglia. Riflettono tuttavia un malessere che cova anche a livello nazionale. Si tratta di un problema non nuovo, per Veltroni, che il doppio incarico ingigantisce.
Anche in passato si era parlato di un registro che il Comune doveva istituire. Alla fine, però, non se n'era fatto nulla: sia per i contrasti nell'Unione che per le pressioni arrivate dal Vaticano e dalla Cei ruiniana. All'inizio di dicembre la questione potrebbe riproporsi, con un carico di tensioni dovute al fallimento del referendum sulla fecondazione artificiale del 2005; e all'insabbiamento della legge sui Dico alle Camere. Ma la sensazione è che l'operazione non andrà in porto. Possono cambiare gli interlocutori: su certi temi l'atteggiamento di vescovi e cardinali non cambia. Ma non sembra incline a modificare il suo neppure Veltroni, sia nel ruolo di «primo cittadino» della capitale, sia in quello di segretario del Pd. Il profilo che vuole dare al nuovo partito tende ad aprire una breccia nell'elettorato moderato; e ad evitare, fin quando ci riesce, una collisione con la Santa Sede.

Liberazione 30.11.07
La Cosa rossa va. Pdci di traverso
Prc-Sd-Verdi: «Sleale non votare il welfare»
di Angela Mauro


Un'imboscata, tattica militare dal fuoco tutto amico. La decisione del Pdci di non partecipare al voto finale sul welfare alla Camera (hanno votato sì solo Diliberto, Sgobio e Pagliarini per «lealtà» al governo) ha colto a dir poco di sorpresa gli "alleati" della sinistra. Titti Di Salvo di Sd la racconta così: «Appena si è sparsa la voce su quello che stavano per fare i Comunisti Italiani, mi sono precipitata in Aula, ho chiesto chiarimenti al loro capogruppo Sgobio, mi ha detto: "tranquilla, tutto tranquillo...". E poi la non partecipazione al voto...senza dir niente a nessuno». Caos e delirio. Furiosi il Prc, Sinistra Democratica e i Verdi. «Scelta sleale verso il processo unitario in corso». In una nota, Franco Giordano, Fabio Mussi e Alfonso Pecoraro Scanio condannano il gesto senza mezzi termini. «Iniziativa propagandistica, assunta sapendo che comunque non avrebbe avuto effetti sulla coalizione e sul governo». Infatti, pare che la conta i Comunisti Italiani se la siano fatta all'ultimo momento: maggioranza certa, via allo sgambetto che per Diliberto era indirizzato «a Prodi, un segnale», ma che inevitabilmente colpisce a sinistra. E' vertice, dei quattro leader. Ore 15 al gruppo del Prc alla Camera, in concomitanza con una riunione tecnica convocata da tempo in vista dell'assemblea unitaria dell'8 e 9 dicembre. Diliberto arriva che Giordano, Mussi e Pecoraro stanno già formulando la nota per la stampa. Glielo dicono, con trasparenza, e per il segretario del Pdci il vertice dura pochi minuti. Abbandona, mentre i suoi pure lasciano la riunione tecnica sull'assemblea dell'8 e 9 dicembre, che viene sospesa. Nuovo vertice dei leader in serata (ci va anche Diliberto). Il pomeriggio passa tra incontri (la presidenza per Sd, la segreteria per Rifondazione), tensione, voci sui possibili scenari. Innanzitutto, il Pdci non se la tiene e risponde a stretto giro di posta: «I segretari degli altri partiti della sinistra non ci hanno capito, non polemizziamo con la sinistra...».
Se senti Venier, ti racconta che «nemmeno Giordano quando ha chiesto la verifica a Prodi a gennaio ci ha informati del fatto che avrebbe parlato a nome di tutta la sinistra». E infatti Diliberto continua a non voler sentir parlare di verifica. Quasi a dispetto degli ex coinquilini del Prc. Ma dietro sembrerebbe esserci una strategia bell'e buona, non dichiarata alla luce del sole, appunto tattica militare dal segno identitario cavalcata un po' alla volta soprattutto dal 20 ottobre in poi, giorno della manifestazione di una buona parte del popolo di sinistra a Roma.
L'idea che si è fatta strada nella dirigenza di Rifondazione, ma anche di Sd e dei Verdi, è che l'obiettivo vero di Diliberto sia quello di far saltare il banco unitario, a partire dall'assemblea unitaria di dicembre. Il fine: tenersi il proprio simbolo con la falce e martello, puntando ad acquisire i rifondaroli scontenti del processo unitario a sinistra. E infatti, anche dopo lo strappo, il Pdci se la rivendica l'autonomia: «Così deve essere anche nella confederazione che stiamo costruendo», dice senza imbarazzi Galante. Insomma, i Comunisti Italiani tentano la forzatura, anche se al momento non è per niente chiaro con quale legge elettorale si andrà al voto. Ad ogni modo, se il loro obiettivo fosse davvero far saltare il banco, la controffensiva di Giordano, Mussi e Pecoraro sarebbe di confermare comunque l'appuntamento dell'Immacolata, anche senza il Pdci. Per andare comunque avanti nel processo unitario, che, interviene anche Fausto Bertinotti, resta una «necessità esistenziale di questa fase storica, non può subire alcuna alterazione dalle contingenze o da qualsiasi turbativa piccola o grande che sia».
Dalla segreteria del pomeriggio di ieri, Rifondazione esce con la netta convinzione di riconvocare al più presto il tavolo tecnico sull'assemblea unitaria. «Dobbiamo farla con tanto di carta d'intenti e simbolo unitario», spiega Michele De Palma, responsabile Movimenti in segreteria. «Il comportamento del Pdci esce dalla consensualità, è sleale nei confronti di tutti. Nessuno vuole cacciare nessuno, ma certe cose non si possono ripetere. Per fare la sinistra, ognuno deve mettere in comune delle scelte: bisogna consolidare un patto». Se chiedi a quelli di Sd, ti spiegano che loro non hanno avuto dubbi a sostenere l'idea di Giordano di chiedere la verifica a Prodi. «Non servono bandierine, il percorso unitario deve essere sforzo comune e soccorso reciproco», sostengono.
Lo stesso hanno fatto i Verdi, forse i più contenti ieri dello strappo del Pdci che, se fatto fino in fondo, risolverebbe la diatriba sul simbolo unitario tra falce e martello e l'aggettivo "ecologista" cui il Sole che Ride non vuole rinunciare. Quanto a Sinistra Democratica, Mussi ha già i suoi problemi interni da risolvere, con Nerozzi della Cgil sempre più battagliero verso la leadership del ministro dell'Istruzione: qualcuno, fuori da Sd, racconta che gli stia addirittura raccogliendo le firme contro tra i militanti. Il sindacalista smentisce, ma conferma che non sarà presente all'assemblea dell'8 e torna a criticare il processo unitario: «Ci sono nodi politici da sciogliere, come il rapporto tra sinistra e sindacato».
Non ci vuole la sfera di cristallo per capire che il travaglio maggiore è nel Prc, se i cuginastri del Pdci dovessero tenersi la falce e martello. La dirigenza del partito ha comunque chiarito a più non posso che la linea di marcia è quella del percorso unitario a sinistra. Una linea che dovrà anche passare la prova della verifica con Prodi a gennaio. I quadri di Rifondazione si sono disposti in attesa degli eventi: si riscontra una disponibilità da Palazzo Chigi, ma certo non si può predeterminare l'esito del confronto sin da ora, è il ragionamento. Tutte le opzioni restano dunque in campo per risolvere i problemi con un governo che delude sempre più (lunedì ne discuterà la direzione). Fiduciosi che Prodi «recupererà a sinistra» sono sia Mussi che Pecoraro. Ma se dovesse accadere che a gennaio Rifondazione si ponesse davvero la "domanda proibita" esplicitata da Liberazione con due editoriali (l'ultimo ieri), cioè quella sull'opportunità di restare al governo, cosa succederebbe nella "Cosa rossa"? Se Mussi risponde con un «vediamo, certo non posso dire ora che rompo», Pecoraro non ha dubbi: «Nulla quaestio: consegneremmo il paese a Berlusconi. Io non sto al governo solo per il welfare...». Che non si apra una verifica nella verifica?

Liberazione 30.11.07
Scienza, troppo business abbassa la qualità della ricerca
di Luca Tancredi Barone


"Etica, conoscenza scientifica, comunicazione", un convegno di due giorni che si conclude oggi a Roma, organizzato dalla Fondazione diritti genetici di Mario Capanna. Tra gli ospiti, Marcello Cini, Elena Gagliasso, Ermanno Bencivenga

L'intreccio fra mercato, scienza, informazione, etica si fa sempre più soffocante e la società della conoscenza a cui punta l'Europa più lungimirante per battere economicamente la crescita dei colossi asiatici dovrà farci i conti ogni giorno di più. L'era della scienza pura, disinteressata, di tutti e programmaticamente scettica è finita da un pezzo per lasciare spazio al business, ai diritti di proprietà intellettuale, agli uffici stampa più aggressivi e seducenti, alla ricerca commissionata dal finanziatore di turno. Soprattutto nel campo della ricerca biomedica, che costituisce la quasi totalità della ricerca scientifica che incontriamo ogni giorno.
Il tema "scienza e società" è caro alla Fondazione Diritti genetici che sta dedicando il suo quarto congresso a "etica, conoscenza scientifica, comunicazione" in una due giorni a Villa Piccolomini a Roma (dalle 9 alle 17, con reading finale sul mondo della sofisticazione alimentare).
Mario Capanna, che ieri ha aperto i lavori, si è scagliato contro quelli che lui ha definito gli scienziati "profittuali", quelli cioè che «millantano certezze incrollabili» per compiacere i loro finanziatori. E in particolare, in Italia, contro Umberto Veronesi per la sua propaganda non disinteressata a favore degli organismi geneticamente modificati. Perché - si è chiesto Capanna - se 3 europei su 4 sono contro gli ogm e in dieci anni l'ingegneria genetica è riuscita a modificare solo 4 varietà vegetali commerciabili, e quasi sempre solo con un gene per la tolleranza agli erbicidi, ci si ostina a volerli imporre in Europa?
E visto che la ricerca scientifica si è fatta merce come tutte le altre - niente scandalo, basta saperlo: sia gli scienziati, sia i cittadini - il problema, dice Capanna, non è solo di incrementare il finanziamento pubblico alla ricerca. Ma anche migliorare il controllo democratico sul suo impiego e rendere i ricercatori più consapevoli eticamente.
Il problema però non è solo quello, ormai noto, del conflitto di interessi dei ricercatori che si trovano invischiati, spesso anche in buona fede, in una rete di aspettative di chi paga la loro ricerca, i loro laboratori, le loro borse di studio e che li spingono a interpretare i risultati più benevolmente di quanto non dovrebbero. Spesso gli stessi ricercatori non ne sono consapevoli: benché il 70% delle ricerche mediche pubblicate siano finanziate dalle case farmaceutiche, e ben un terzo degli autori più importanti abbia degli interessi economici nella propria ricerca, solo poco più dell'1% dei ricercatori dichiara di esserne influenzato.
Ma il fatto più grave, come ha efficacemente sottolineato l'ex direttore del British Medical Journal (una di quelle che i giornalisti definiscono "prestigiose" riviste mediche) Richard Smith, è che è la qualità della ricerca a essere troppo spesso scadente. La stragrande maggioranza delle ricerche biomediche pubblicate ormai non risponde a criteri di validità scientifica e clinica. E quel che è peggio, è lo stesso meccanismo della peer review (il giudizio anonimo di altri ricercatori), su cui si basano il metodo scientifico e le riviste scientifiche, a non funzionare più efficacemente. Spesso, ha raccontato Smith, i revisori non si accorgono degli errori presenti nelle ricerche. In uno studio recente, a 300 revisori è stato sottoposto un testo di 600 parole contenente 8 errori: nessuno è stato in grado di individuarne più di cinque, e un quinto addirittura non ne ha riconosciuto nemmeno uno. Per non parlare del fatto che ormai le riviste scientifiche pubblicano soprattutto i risultati più sexy, come si dice, cioè quelli che quasi sicuramente andranno sui giornali a scapito di quelli scientificamente più robusti ma meno appealing.
La soluzione? Le riviste scientifiche open access, come Plos (Public Library of Science), accessibili e condivisibili on line gratuitamente per tutti (oggi Smith lavora per Plos). Ed è proprio Plos che sta sperimentando nuove forme di peer review: l'ultima nata, Plos One, lascia che la revisione degli articoli venga fatta dai lettori, altri scienziati, che si qualificano e commentano l'articolo scientifico in un vero e proprio blog pubblico, in pieno spirito web 2.0.
«È giusto sperimentare un po' queste forme alternative al copyright delle riviste, che ti chiedono di cedere loro i diritti e poi rivendono su web il tuo articolo a 40 dollari», ci spiega la filosofa e giurista Mariachiara Tallacchini, presente al congresso. «Ma il fatto è che gli autori esitano a usare l'open access: temono di mettere a repentaglio il requisito della novità per il brevetto, da cui ormai non si può più prescindere». E non basta: «bisogna imparare a integrare anche i saperi esperienziali nella scienza "accademica", come è stato sottolineato nel dibattito. Talvolta un contadino di Aleppo può conoscere meglio dello scienziato la modalità di coltivazione migliore di certi semi».
Il tema che ha toccato Tallacchini nel suo intervento è stato quello dell'etica, «che viene utilizzata - spiega - in maniera surrettizia per fare una specie di outsourcing dei valori: anziché basarsi sulle vere fonti del diritto - come le leggi, la costituzione, i trattati internazionali, i parlamenti - in Europa la tendenza è stata negli ultimi anni quella di delegare le decisioni eticamente sensibili a commissioni che dipendono dal potere esecutivo. In questo modo si evitano le presunte lungaggini del diritto, ma si legittimano delle etiche di stato, delle etiche su commissione dei governi e non dei cittadini». Ieri sono stati fatti esempi di cattiva scienza diventata norma a proposito degli ogm in Europa (ma basta pensare anche alla legge 40 in Italia). «Una volta che diventa norma, non si può più parlare in termini di "cattiva scienza": non se ne può più discutere, ma si maneggia come uno strumento giuridico. Ecco perché è fondamentale definire dei meccanismi di trasparenza per la scienza che entra nelle decisioni pubbliche: chi sono gli scienziati che siedono nelle commissioni, che interessi hanno, su quali ricerche si basano le decisioni che diventano poi leggi».

il manifesto 30.11.07
La psicoanalisi al confronto con l'inconscio generazionale
Due giornate di convegno al Campidoglio, per indagare la trame dello spazio comune in cui si annodano i legami inconsci fra soggetti, generi, famiglie, istituzioni
di Alberto Luchetti

È noto che Freud individuò nella sessualità il perno intorno a cui si costituisce quello che egli battezzò l'«apparato dell'anima» dell'essere umano: aveva scoperto, infatti, che il bambino sperimenta - nelle sue relazioni precoci con gli adulti - una sessualità «allargata», che precede quell'istinto sessuale finalmente attivo a partire dalla pubertà. Dunque, ciò che rende possibile nell'essere umano una vita psichica articolata, permettendogli conquiste al tempo stesso meravigliose e terribili, è anche - notava ancora Freud - ciò che fa dell'individuo soltanto «un episodio in una successione di generazioni»; niente altro che «il detentore temporaneo» di un patrimonio destinato a sopravvivergli.
Questa duplice condizione di creatura singola indipendente e di membro fugace di una successione di generazioni, inevitabilmente costituisce una fonte di conflitto per l'Io, che tuttavia può costruirsi solo sul suo delicato e tagliente crinale: solo collocandosi nel flusso delle generazioni l'essere umano può riconoscersi ed essere riconosciuto come soggetto singolare; ma solo conquistandosi una propria individualità può inserirsi nella catena generazionale.
Dentro una eredità culturale
È un paradosso, questo, al quale è affidata anche la continuità dei legami sociali e il perpetrarsi della civiltà e della cultura in cui ogni individuo si inserisce. Se è vero che la società assegna a ogni nuovo nato, identificandolo, un posto nel gruppo e lo consegna all'eredità culturale delle precedenti generazioni, è non meno vero che la società ha bisogno del riconoscimento dei singoli per mantenersi e rigenerarsi.
A ogni nuova generazione la civiltà trasmette i risultati delle rimozioni effettuate dalle generazioni che le hanno precedute, e anche all'ultima è imperativamente richiesto - scrive Freud - di «effettuare le medesime rimozioni se vuole mantenere quella civiltà». Dunque, a ciascun individuo che nasce si chiede di confermare le alleanze inconsce che ha ereditato e che costituiscono la trama dello spazio comune in cui si annoda l'ordito dei legami fra soggetti, famiglie, gruppi e istituzioni; ma da lui al tempo stesso si esige l'affrancamento dall'autorità genitoriale che quelle generazioni rappresentano e tramandano. L'individuazione dell'essere umano poggia sulla differenza tra i sessi e sulla successione delle diverse generazioni, e la sua identificazione si gioca fra identità sessuale e inserimento generazionale: non a caso, è in questo crocevia che Freud ha situato il complesso di Edipo, considerandolo il nucleo delle nevrosi.
Intorno a questo tema denso di conflittualità, si svolgerà sabato e domenica a Roma, alla Protomoteca del Campidoglio, un convegno organizzato dal Centro Psicoanalitico di Roma. Dedicato per l'appunto a «Generi e generazioni. Ordine e disordine delle identificazioni», questo incontro è l'approdo di un anno di lavoro scientifico a più voci raccolto nel volume Genealogia e formazione dell'apparato psichico, appena pubblicato da Franco Angeli, e segna una tappa nella preparazione delle prossime «Giornate Italiane» della Società Psicoanalitica Italiana, dedicate a «Identità e cambiamento».
Negli ultimi decenni, la psicoanalisi ha guardato con sempre maggiore attenzione al ruolo della trasmissione generazionale nello sviluppo dell'apparato psichico, essendosi reso evidente come particolari processi inconsci di concatenazione tra le generazioni possano disturbare, o profondamente ostacolare, i processi di identificazione dell'individuo, fino a determinare sintomatologie complesse. Sono state, in particolare, i disagi osservati nei discendenti di persone sopravvissute a genocidi, o a operazioni di esilio forzato, o a eventi traumatici sociali ma anche interni alla famiglia a rendere ancora più lampante come spesso ai figli sia affidato il compito di affrontare questi traumi giacenti nell'inconscio tramandato di generazione in generazione, e come l'impossibilità di elaborare eventi tanto dolorosi possa tradursi in impossibilità di nominarli e di renderli oggetti del pensiero nelle generazioni successive; pur restando - proprio in quanto traumi - potentemente e subdolamente attivi.
Talvolta, per affrontare le patologie di una persona è necessario dunque risalire ai pesi iscritti nella sua storia familiare e sociale, quei pesi che gravano sulla sua psiche e nel ricostruire i quali viene attivato un processo rivelatore della importanza delle condizioni sociali, culturali e intersoggettive della vita psichica. Da decenni la psicoanalisi ha aperto il proprio campo alla esplorazione dei gruppi, della famiglia, delle istituzioni, e questi studi appaiono tanto più cruciali quanto più le trasformazioni dei rapporti sociali e culturali accelerano e si fanno prepotenti, rendendone opache le strutture e incerti e instabili i fondamenti. La trasmissione generazionale sembra incepparsi, perché - come dirà René Kaës al convegno - si sono indeboliti nel tempo quelli che egli chiama i «garanti metasociali» - ossia le matrici simboliche di una cultura condivisa, i sistemi di rappresentazione, i valori di riferimento collettivi - e i «garanti metapsichici», ossia le interdizioni, le leggi fondamentali, i punti di riferimento costitutivi dei processi di identificazione.
La diagnosi e la prognosi di queste trasformazioni sono variabili e necessiteranno di tempi lunghi per essere più consistentemente delineate. Quel che tuttavia si rende già da tempo tangibile è il divario sempre più marcato che separa le generazioni e ne opacizza la comunicazione reciproca, nonché l'acuirsi dello iato fra l'imperativo all'autodeterminazione e all'affermazione individuale e la progressiva e incalzante anonimizzazione di persone che appaiono schiacciate tra una impossibile intimità personale e una parallela esclusione della prossimità con l'altro. Eppure, è proprio all'incrocio tra l'intimo e l'insieme che diventa possibile appropriarci del nostro corpo e del nostro destino.
Aprirsi all'ascolto
Il rapporto tra il disagio del mondo moderno nell'assicurarci un «luogo dove mettere quanto troviamo» e la sofferenza psichica individuale che ne deriva - nota giustamente Kaës - non è semplicemente un oggetto di studio per la psicoanalisi; perché arriva fino a metterne in discussione lo statuto epistemologico. E forse proprio qui risiede attualmente per la psicoanalisi la possibilità non solo di aprirsi all'«ascolto di complessità collettive», come suggerisce l'organizzatrice del convegno Patrizia Cupelloni, ma anche di ritrovare e rinnovare la propria fonte, la specificità del suo oggetto e del suo metodo e, infine, la sua stessa ragion d'essere.