sabato 1 febbraio 2014

il Fatto 1.2.14
Soldi e politica
Ecco chi paga Renzi
I misteri del tesoro di Renzi. Quattro milioni e associazioni opache
Il successo del sindaco di Firenze si fonda anche sulla capacità di raccogliere risorse
La cassaforte è in mano ai fedelissimi: Bianchi, Carrai, Boschi e Lotti
Con la benedizione di Denis Verdini
di Davide Vecchi


La vera storia dell’intreccio di fondazioni e società su cui il leader Pd ha costruito la sua scalata dalla provincia al potere nazionale. Sponsor anonimi, l’aiuto di Verdini e la regia della trimurti dei fedelissimi Carrai, Boschi e Bianchi. I bilanci delle associazioni segrete con cui ha raccolto 4 milioni in cinque anni. E le uscite molto superiori alle entrate

Tutto in cinque anni. Dal 2009 a oggi. Tanto è durata la scalata al potere di Matteo Renzi che da assistente di Lapo Pistelli, poi insediato nel 2004 dalla coalizione di centrosinistra alla guida della Provincia di Firenze, è riuscito a sfidare tutti. Centrodestra e centrosinistra. E a vincere. In cinque anni Renzi è riuscito a sostenere quattro campagne elettorali. Due nel 2009 (primarie e amministrative a Firenze), una nel 2012 e un’altra nel 2013, entrambe per la segreteria del Pd. Il tutto senza sostegno economico da parte del partito, rimborsi elettorali né fondi pubblici.
La coppia dei fund raiser Bianchi & Carrai
Come ha finanziato la sua attività politica? Attraverso quali canali è riuscito a creare un tale consenso in appena cinque anni? Qualcuno lo ha aiutato a costruire il suo bacino elettorale? E come? Nel tentativo di rispondere a queste domande abbiamo ripercorso a ritroso l’ascesa del rottamatore, arrivando al 2007. Abbiamo individuato associazioni, società, comitati e rapporti (alcuni finora sconosciuti) che ruotano attorno a Renzi come l’universo copernicano attorno al sole. Al suo fianco solo due pianeti: Marco Carrai e Alberto Bianchi. Il primo sin dal 2007, il secondo dal 2009. Sono i fund raiser, i “raccoglitori di soldi”. E sono bravi, perché complessivamente hanno messo insieme oltre quattro milioni di euro per coprire le spese della corsa alla guida del Paese del loro amico Matteo Renzi.
Bianchi e Carrai oggi fanno parte del consiglio direttivo della Fondazione Open, cioè l’evoluzione della Fondazione Big Bang a cui lo scorso novembre è stato cambiato nome e composizione: Renzi ha azzerato il vecchio consiglio, confermando solo Bianchi e Carrai, inserendo LucaLotti e Maria Elena Boschi, nominando quest’ultima segretario generale. Nel 2013 la fondazione ha raccolto 980 mila euro di donazioni, 300 mila euro in più rispetto all’anno precedente. Nel 2012 aveva chiuso il bilancio con una perdita di 535 mila euro dovuta a debiti ancora da estinguere e, stando ai resoconti che il Fatto ha potuto leggere, nel corso del 2013 la perdita si è assottigliata a poco più di 300 mila euro e le entrate sono aumentate del 30 per cento. Prima la Fondazione Big bang non esisteva, è stata fondata il 2 febbraio 2012 dall’allora presidente Carrai di fronte al notaio Filippo Russo.
La fideiussione e il mutuo della Festina Lente
Negli anni precedenti l’attività politica di Renzi passa attraverso due associazioni: Link e Festina Lente, di cui nessuna comunicazione è mai stata data. Non hanno mai avuto siti internet né rendicontazione pubblica. Praticamente sconosciuta in particolare la Festina Lente. Anche qui figurano Carrai e Bianchi. Fondata nel giugno 2010 cessa le sue attività di fund raising nel maggio 2012. L’ultimo evento che organizza è una cena di raccolta fondi per Renzi nel gennaio 2012 al Principe di Savoia di Milano. Raccoglie 120 mila euro e ha ancora all'attivo circa 40 mila euro. Questa associazione è citata solamente una volta: nel resoconto delle spese elettorali sostenute da Renzi per le amministrative del 2009.
Il comitato dell'allora candidato sindaco dichiara di aver speso 209 mila euro, 137 raccolti tra i sostenitori e gli altri 72 mila euro che mancano all'appello coperti da un mutuo acceso e garantito dalla Festina Lente. Mutuo concesso dalla banca di credito cooperativo di Cambiano (presieduta dal potente sostenitore Paolo Regini e usata anche per le ultime primarie) con a garanzia una fidejussione firmata da Bianchi. È il maggio 2009 e la Festina Lente nasce solo l'anno successivo. Si fa carico del mutuo e lo estingue immediatamente accendendone però un altro (oggi in via di rimborso) per avviare le attività di fund raising. Complessivamente però questa associazione organizza solamente due eventi, oltre alla cena milanese, in due anni.
Da dove sono arrivati i 750 mila euro di Link?
Ben più attiva la Link. Nasce nel 2007, quando Renzi era presidente della Provincia di Firenze. Con il solito Carrai nell’atto costitutivo figurano buona parte di quelli che ancora oggi sono al fianco del rottamatore. C’è Lucia De Siervo, direttore della cultura ed ex capo segreteria di Renzi, figlia di Ugo, presidente della Corte Costituzionale, e moglie di Filippo Vannoni, presidente di Publiacqua. C’è poi Vincenzo Cavalleri, ora direttore servizi sociali di Palazzo Vecchio e Andrea Bacci, oggi presidente della Silvi (società pubblica partecipata dal Comune), intercettato nel dicembre 2008 al telefono con Riccardo Fusi (ex patron del gruppo Btp condannato a due anni in primo grado per i lavori alla Scuola marescialli e imputato per il crac del Credito cooperativo fiorentino di Denis Verdini e indagato per bancarotta
fraudolenta) per organizzare un viaggio in elicottero a Milano per Renzi. Poi però saltato. Per ben due volte. Infine, a firmare l'atto costitutivo della Link, c’è anche Simona Bonafè, ex assessore oggi onorevole e il presidente Marco Seracini. L’associazione ha la propria sede in via Martelli civico 5, dove poi nascerà la fondazione Big Bang. I primi due anni di vita chiudono con un resoconto finanziario in avanzo di 22 mila euro, a fronte di una raccolta complessiva di circa 200 mila in 24 mesi.
Tutt’altra musica nel 2009, anno delle primarie e delle amministrative, quindi fondi che vanno ad aggiungersi a quelli dichiarati dal Comitato. Link spende 330 mila euro e chiude con una perdita di 154 mila. Che viene in parte appianata nel 2010 attraverso erogazioni liberali ricevute per 156.350 euro e in parte nel 2011, ultimo anno di vita dell'associazione Link che termina la sua esistenza con una perdita di 3.500 euro. Complessivamente questa associazione raccoglie e investe nell'attività politica di Renzi circa 750 mila euro. Da dove arrivano queste “erogazioni liberali”?
Abbiamo cercato per giorni inutilmente il presidente Marco Seracini sia nel suo studio, dove venne registrata l’associazione, sia al cellulare. Ci siamo rivolti a Carrai che pur rispondendo molto gentilmente al telefono e rendendosi inizialmente disponibile a incontrarci, ha poi preferito non rispondere né in merito alla Link né ad altro. Cavalleri, infine, ha risposto. Al telefono, non alle domande sui donatori dei quali, ha detto, “non so niente”. Però ci ha spiegato che “l’associazione è una delle scatole a cui ho partecipato, non ho molte informazioni, non ho mai neanche partecipato agli incontri che organizzava”. Che tipo di incontri? “Raccolta fondi ma non solo, non faceva attività politica però, erano incontri sociali diciamo”. Sociali? “Sì, eventi promozionali per diciamo sviluppare le idee di cui Renzi era portatore”. E cene elettorali? “Non ricordo”.
L’amico Verdini, quando la destra era d’aiuto
Nel 2009, dopo aver vinto le primarie, Renzi partecipò ad alcune iniziative organizzate anche da Denis Verdini, all’epoca coordinatore regionale di Forza Italia e oggi colui che deve scegliere il candidato sindaco da contrapporre a Renzi per le prossime amministrative di maggio. Nel 2009 l’allora rottamatore sedette al tavolo d’onore insieme a Verdini e consorte alla festa de Il Giornale della Toscana. Presenti tutti i parlamentari forzisti dell’epoca: Mazzoni, Parisi, Bonciani, Amato e altri. E mesi dopo partecipò a un evento organizzato dalla signora Verdini, Maria Simonetti Fossombroni. Molti del Pdl ricordano inoltre che la scelta di candidare sindaco nel 2009 l’ex calciatore Giovanni Galli fu considerato un “r e g alino” al giovane prodigio Renzi. Che lo asfaltò. Verdini non ha mai negato la propria simpatia per il rottamatore.
Dal centrodestra sono mai arrivati fondi alle associazioni di Renzi? Gentile e disponibile quanto Carrai si dimostra anche Alberto Bianchi, che come Carrai alla domanda non risponde. Da dove arrivano i fondi e come ha coperto il mutuo Festina Lente? E come è riuscito ad appianare il debito della Fondazione e a raccogliere il 30 per cento in più l’anno successivo? Neanche a queste domande riceviamo risposte. Una cosa è certa: l’imprenditore e l'avvocato fanno benissimo il loro lavoro di fund raiser. Sempre dall’ombra, mai in prima fila.
La società di Carrai e i lavori di Eataly a Firenze
Meno si parla di loro meglio è. Per dire: la cena di finanziamento di Renzi a Milano nell’ottobre 2012 che passò come un evento organizzato da Davide Serra in realtà è stata opera esclusiva di Carrai. L’amico di Renzi mal sopporta la pubblicità, i suoi interessi sono nel privato. Ha affiancato Renzi nel 2009 solamente per tre mesi. Oggi è, fra l’altro, presidente di Aeroporto Firenze, della C&T Crossmedia, della Cambridge Management Consulting e della D&C, mentre giovedì ha lasciato la carica di amministratore delegato della Yourfuture srl. Inoltre è socio dell’impresa edile di famiglia Car.im, società che ha realizzato la trasformazione della storica libreria fiorentina Martelli in un negozio Eataly, proprio davanti alla sede della Fondazione Open. Ma certo, sono affari privati.
d. vecchi@ilfattoquotidiano.it  

Corriere 1.2.14
L’Italicum passa il primo test Manciata di franchi tiratori
Una ventina i voti «fuori linea»
Renzi: bene così Alfano: sindaco protagonista o il governo non va avanti
di Dino Martirano

 
-->
ROMA - «Bene, abbiamo tenuto, ora avanti, si fa...», dice Matteo Renzi dopo avere incassato il primo voto segreto sulla legge elettorale che, comunque, ha prodotto una differenza di 34 deputati in più rispetto al voto palese, tra cui una ventina di «franchi tiratori» (una decina del Pd): «È andata comunque di lusso», commenta il super renziano Dario Nardella che non si meraviglia più di tanto per lo slittamento all’11 febbraio del round decisivo alla Camera. Eppure Pd, FI e Ncd hanno chiesto formalmente di velocizzare l’iter ma poi si sono dovuti arrendere: la prossima settimana, infatti, ci sono altri decreti in scadenza da convertire (dopo la terra dei fuochi, arrivano le carceri e destinazione Italia) e il dibattito sul messaggio con cui il capo dello Stato ha affrontato il tema dell’emergenza carceri. Dopo il successo, dunque, il segretario del Pd avrebbe scelto di togliere momentaneamente il piede dall’acceleratore in vista della curva pericolosa rappresentata dai 400 emendamenti sulla legge elettorale: l’obiettivo è anche quello di «far abbassare la tensione», in modo da approvare il testo entro sabato 15 febbraio. Quel giorno, come da tabella di marcia imposta da Renzi, dovrebbe vedere la luce il ddl di riforma costituzionale del Senato che trasforma Palazzo Madama in camera alta (non elettiva? con quali funzioni?) non più abilitata a votare la fiducia al governo.
Un po’ di tempo in più, poi, serve anche per consentire a Pd e FI di capire se i «franchi tiratori» emersi ieri dal voto segreto siano l’inizio o la fine di un fenomeno. In realtà, il dissenso nascosto nell’urna assomiglia per ora a un’armata assai variopinta. Dai 34 «traditori» (al voto segreto erano 154 i sì alla pregiudiziale di costituzionalità, mentre allo scrutinio palese le luci verdi erano scese a 120), infatti, vanno sottratti i voti ballerini dei Popolari per l’Italia (una ventina, oscillanti tra l’astensione e il no) e i 4 deputati del Centro democratico che nello scrutinio palese si sono astenuti. Fino ad arrivare ad un’«area critica» che si aggira su una ventina di deputati. I centristi non hanno mai nascosto le loro critiche al testo di legge. Lorenzo Dellai (Popolari) ha detto comunque di «non aver dato ordine di scuderia ai suoi», Rocco Buttiglione (Udc) è stato visto pasticciare con i pulsanti, Dorina Bianchi (Ncd) ha voluto chiarire che il partito «ha votato contro per senso di responsabilità» mentre il suo leader Angelino Alfano è tornato a proporre il solito mantra: «Siamo per le preferenze e non ci rassegniamo. Occorre che Renzi sia protagonista della nuova fase del governo: se non lo è, noi non crediamo che si possa andare avanti».
Per scovare i veri «franchi tiratori» occorre quindi vedere cosa succede in casa di FI e Pd: tra gli azzurri, ci potrebbe essere qualche maldipancia per l’ascesa di Giovanni Toti mentre nel Pd la questione potrebbe essere un sintomo diverso, se collegata agli emendamenti della minoranza interna. Enza Bruno Bossio (Pd) ha dichiarato che così com’è la legge è indigeribile. Mentre la pattuglia dei deputati dem della I commissione (Lauricella, Lattuca, Giorgis, Bindi, Cuperlo e D’Attorre, che, comunque, ieri è intervenuto in Aula per la dichiarazione di voto a nome di tutto il partito) aspetta che il gruppo torni a discutere sugli emendamenti presentati a titolo personale. Eppure, il clima tra i banchi del Pd era rilassato. Enzo Lattuca racconta di aver fatto finta di votare verde (cioè sì alle pregiudiziali del M5S) per vedere se qualcuno era appostato a controllare: «Sono stato ripreso dal collega Verini, ma ha subito capito che stavo scherzando». Mesta, invece, l’atmosfera in casa dei piccoli partiti che sentono la morsa del maggioritario: «Se saltano i princìpi restano solo le macerie. Sulla legge elettorale sono state violate le garanzie previste dalla Costituzione», ha detto Pino Pisicchio (Cd).

Repubblica 1.2.14
Il Pd supera indenne la prima prova ma la sinistra prepara la battaglia su sbarramento, preferenze, salva-Lega
Fronte trasversale delle donne per la parità degli eletti
di Giovanna Casadio


ROMA — «Siamo stati compatti noi del Pd, una falange ... perché vogliamo migliorare la legge elettorale, non vogliamo la palude. Ora c’è una settimana di tempo per discutere cosa cambiare e aprire il dibattito in aula». Gianni Cuperlo, il leader della sinistra dem, lancia un doppio messaggio: rassicura e avverte. Il Pd ha evitato di fare harakiri: lo spettro dei “franchi tiratori” del partito si è ridotto a poca cosa nel primo dei voti sull’Italicum. Se ne contano 4 o 5, oltre a 20 assenti, ma quasi tutti per malattia o missione: queste le defezioni. Dietro lo slogan “miglioriamo la legge”, c’è però la corsa a ostacoli a cui la minoranza dem obbligherà Renzi. Non solo per i 35 emendamenti prima ritirati e ora “scongelati” per l’aula. Ma anche per tutti quei punti che non voteranno: ad esempio, il “salva Lega” imposto da Berlusconi.
I renziani temono la «tattica del trabocchetto». I cuperliani parlano di giusta discussione, che non c’è stata in commissione e quindi ora «ben venga un po’ di respiro e poi si approfondisca in aula». Le trappole sono certo in agguato. Disseminate. La soglia per i piccoli partiti, ad esempio. Nico Stumpo, bersaniano, fa notare che «lo sbarramento al 4 invece che al 4,5% è possibile che passi in aula: lo vogliono tutte le minoranze, i piccoli partiti». I cuperliani lo voteranno. Al massimo potrebbero essere convinti a soprassedere, avendo la garanzia che poi al Senato si cambia. Su una cosa comunque, non c’è da attendere. È la norma per la parità di genere, che nell’accordo tra Renzi e Berlusconi può essere aggirata.
Sembra poca cosa. Però Roberta Agostini, cuperliana, è riuscita a coinvolgere anche le deputate forziste, malgrado lo stato maggiore di Forza Italia faccia resistenza. Stefania Prestigiacomo, Mara Carfagna, Renata Polverini, Elena Centemero hanno firmato gli emendamenti dem, con le parlamentari di Sel, di Scelta civica, del Nuovo centro destra. Il Pd su questo non può fare marcia indietro. È partita anche una petizione on line lanciata dalla vice presidente del Senato, Valeria Fedeli. L’offensiva della minoranza del Pd ha aperto una infinità di fronti. Giuseppe Lauricella non ha mai ritirato, né intenderà farlo, un emendamento che - spiega - «mette in garanzia il percorso delle riforme».
Prevede infatti che la nuova legge elettorale entri in funzione solo quando sarà abolito il Senato. «Non può essere diversamente, altrimenti sarebbe più pericolosa del Porcellum, creando uno scompenso - chiarisce Lauricella - Alcune modifiche sono indispensabili se si vuole una legge seria, democratica e coerente». La battaglia è appena cominciata.
Cuperlo ha posto il paletto delle primarie per legge. Delle liste bloccate infatti la sinistra del Pd non vuole sentire parlare. Quindi quel punto va cambiato. Come? Sui collegi uninominali Renzi ha fatto intendere che non ci sono aperture da parte dell’altro contraente del patto, ovvero Berlusconi, e neppure sulle preferenze. «Una strada va trovata», ripete Alfredo D’Attorre. Francesco Sanna chiede di dare più tempo al governo per riscrivere la mappa dei collegi: almeno 3 mesi. E questa viene considerata una blindatura per il premier Letta. Il “salva Lega” vede una contrarietà nel Pd che tracima, va oltre la minoranza. Stumpo annuncia: «È proprio sbagliato che si crei un pezzo di territorio, la Padania, e si premi una forza politica in base a questo». Ma soprattutto a rendere ancora più insidiosa la navigazione dell’Italicum ci sono gli emendamenti sul conflitto d’interessi presentati dai vendoliani, da Pino Pisicchio e dal M5S. «Intanto ci godiamo la compattezza del primo voto», tira un sospiro di sollievo Ettore Rosato, renziano. I Dem dicono di avere scoperto un “franco tiratore” in Rocco Buttiglione (Pi), a cui si è incastrata la pallina nella tastiera svelando, sostengono, che nella votazione segreta avrebbe detto sì alla pregiudiziale di costituzionalità.

dopo quella salva-Lega
La Stampa 1.2.14
Già pronta la norma “salva-Sel”: seggi al miglior perdente
Potrebbe essere inserita al Senato. Ieri primo ok alla Camera, solo 30 franchi tiratori
di Carlo Bertini

qui

Corriere 1.2.14
La frecciata di D’Alema: le regole non riguardano soltanto i due leader
di Luca Angelini

-->

CASTENEDOLO (Brescia) — La strana coppia si ritrova a cena in una pizzeria di Castenedolo. Gianfranco Fini e Massimo D’Alema. In mezzo a loro, di rosso vestita, la giornalista Maria Latella. Che scherza sul titolo del libro di Fini: «Non è che, adesso, ve ne ritroverete un altro, di ventennio berlusconiano?». «Chiedetelo a Renzi» ribatte l’ex presidente della Camera. D’Alema trova il tempo di portare la sua solidarietà alle deputate Pd insultate dai grillini ed esprimere «preoccupazione per un movimento che pare aver preso una piega violentemente anti-istituzionale». Poi, a cena finita (pizza, spigola, carpaccio di pesce e vino Lugana), tutti nella vicina chiesa sconsacrata dei Disciplini, per presentare, con Antonio Polito e l’ex sindaco di Brescia e senatore Pd Paolo Corsini, Il Ventennio. Io, Berlusconi e la destra tradita, firmato dall’ex leader di An. Che non si rimangia il «Che fai, mi cacci?» a Berlusconi: «Anzi, ci aggiungerei anche qualcosa. Certo, non immaginavo che mi avrebbe preso in parola: oltretutto, quella sulla mia incompatibilità è stata l’unica votazione democratica mai fatta nel Pdl». Quanto a D’Alema, non risparmia una frecciata all’altra strana coppia, Renzi-Berlusconi: «La legge elettorale non riguarda certo due sole persone, oltretutto non parlamentari». Ma quando Fini dice che «il verbo preferito di Berlusconi non è convincere, ma comandare» e la Latella, ricordando il caso-Cuperlo, gli chiede se non valga anche per Renzi, D’Alema nega: «Lo stile potrà dar fastidio, ma il Pd non è un partito padronale». Quanto alla parabola di Fini, D’Alema la riassume così: «Ha cercato di fare della destra italiana una destra normale e non c’è riuscito». L’ex presidente della Camera si appella alla galanteria del tempo, poi affonda: «Certi giornali mi hanno dipinto come il traditore della destra, ma se la destra è innanzitutto legalità, i traditori dovrebbero cercarli altrove». Alla fine, però, concede: «Indietro non si torna e non si rimettono insieme i cocci. Non mi ricandido e non fondo partiti. Chi voterò alle Europee? Deciderò dopo aver visto programmi e candidati». «La verità è che voi e i vostri partiti avete perso la battaglia politica di questo ventennio» chiosa Polito rivolto ad entrambe le metà della strana coppia. Sipario.

Corriere 1.2.14
Confalonieri non vede inciuci: Silvio e Matteo due anticonformisti
di Francesco Verderami

 
-->
Nella versione di Confalonieri, quella di Berlusconi e Renzi è la storia di «due anticonformisti» costretti a fare i conti con i conformismi di destra e di sinistra. È una vicenda che rischia di esser male interpretata per via di «vecchi luoghi comuni» e «nuovi vezzi». di Francesco Verderami Nella versione di Confalonieri, quella di Berlusconi e Renzi è la storia di «due anticonformisti» costretti a fare i conti con i conformismi di destra e di sinistra. È una vicenda che rischia di esser male interpretata per via di «vecchi luoghi comuni» e «nuovi vezzi». Quello di Berlusconi e Renzi è un rapporto che viene rappresentato dai media con «enfasi eccessiva», mentre andrebbe raccontato come «un primo segnale della cosiddetta casta, che cerca attraverso una serie di riforme di cambiare il Paese». Al segretario del Pd, il patron di Mediaset dà atto di aver «rotto con gli schemi della sinistra», incontrando il Cavaliere. Ma la novità non sta nell’incontro in sé, «perché già nel ‘95 Berlusconi venne invitato a parlare al congresso del Pds. Solo che allora c’era un complesso di superiorità verso il leader di Forza Italia». Un atteggiamento che si ritrova ancora oggi «negli articoli del direttore di Repubblica» come «nelle dichiarazioni dell’editore di Repubblica»: «Per vent’anni, tutti, da D’Alema a Scalfari, hanno visto in Berlusconi un paria, un baluba. Renzi no. Ecco la novità. Una sorta di Bad Godesberg per la sinistra italiana».
Ma da questo punto in poi la versione di Confalonieri sul capo dei democrat non collima con l’entusiastico approccio di chi, nel mondo del centrodestra, ha elevato il «giovin Matteo» a beniamino: «Eh no, così si dà l’idea di riprodurre l’inciucio, se pur in forma nobile». Ed è un errore, secondo il presidente del Biscione, che tiene a separare le due metà campo della politica: «Renzi e Berlusconi staranno pure insieme sulle riforme ma sul resto no. Sul resto c’è una profonda differenza, e bisogna essere chiari». Perciò non gli piace il «vezzo» che sta prendendo piede nell’universo berlusconiano, fatto di politici, intellettuali, giornalisti. E per parlare a tutti preferisce rivolgersi a un imprenditore: «Caro Briatore, anche a me piace Renzi per come interloquisce, ma non mi piace il suo job acts. La verità è che Renzi è di sinistra, ha delle cambiali da pagare con il suo mondo. Si è messo pure a fare il filo a Landini della Fiom».
È un modo per avvisare che il processo di osmosi rischia di produrre un salasso di consensi al centrodestra. Per questo Confalonieri tira una riga e si schiera con l’amico di una vita, che «ha spiazzato tutti con le foto al Sunday Times, dove ha restituito nobiltà alle rughe. Lui, che si pasticciava la faccia, ha sottolineato il valore dell’esperienza e della saggezza. Senza nulla togliere alla necessità del rinnovamento, ha fatto capire che serve l’entusiasmo dei giovani ma che i vecchi sono temprati. E che vecchi, alla fine, si diventa tutti». Serve dunque un mix, che poi è la ricetta del Cavaliere per Forza Italia: «Berlusconi ha presentato Toti, persona valida, un buon elemento. Capisco quanti non vogliono essere trattati da pensionati, ma se hanno detto di avere totale fiducia nel loro leader, al punto da assegnargli pieni poteri, dovrebbero stare sereni ora che li esercita».
Nella versione di Confalonieri non c’è però traccia del conformismo con cui i fedelissimi del Cavaliere sostengono che «i voti sono di Silvio», e che perciò comanda lui. Un approccio che il patron di Mediaset definisce «banale, per certi versi volgare»: «Quelli sono i voti di un popolo a cui Berlusconi ha dato dignità. Sono un pezzo di Paese che per decenni la cultura cattolica e quella marxista ha ghettizzato, mentre in America le persone che aspirano ad esser ricche, a comprarsi un Suv o una seconda casa per la villeggiatura, vengono valorizzate. Non trattate come delinquenti. Certo, il Papa fa bene a predicare la solidarietà, anche se lo sento un po’ da quella parte... E comunque, senza mischiare il sacro con il profano, Berlusconi in politica fa bene a rappresentare questa parte d’Italia. Vuole continuare a farlo. Infatti è rinato, come un’araba fenice».
Ecco il punto che — dopo la diaspora nel Pdl — marca la distanza tra Forza Italia e il Nuovo centrodestra di Alfano, secondo cui, se l’ex premier è tornato in scena accettando la sfida delle riforme, lo deve al fatto che «grazie a Ncd» la legislatura è proseguita. E che dunque il Cavaliere ha commesso «un errore» passando all’opposizione, facendo il gioco di chi nel Pd — con il voto sulla sua decadenza da senatore — lo voleva anche fuori dalla maggioranza di governo. «Nella storia di Berlusconi — dice Confalonieri — c’è un momento di spaccatura, una sorta di black out dopo la sentenza di condanna per il caso Mediaset. Bisognerebbe stare nei suoi panni dopo quel... vabbè, non chiamiamolo colpo di Stato, parliamo di verdetto tremendo e ingiusto. Ora però ha ripreso, sta sul pezzo, lavora per consegnare al Paese un centrodestra vincente».
Per essere vincente dovrà tornare unito, e non potrà riuscirci senza aver posto fine allo scontro tra gli alfaniani, che sostengono di essere stati vittime di una «rottura premeditata», e i berlusconiani che parlano di «tradimento preparato». Per superare lo strappo, il capo del Biscione offre la sua versione della storia, dove torti e ragioni vanno divisi. Spiega che «non si comprende Berlusconi se non si comprendono le dinamiche tra un monarca e la sua corte. E le corti hanno avuto sempre un’influenza sulle scelte del monarca. Poi, ricordiamoci, eravamo ai tempi del black out. Respingo quindi la tesi secondo cui Alfano è un traditore. Semmai la sua scelta mi fa tornare in mente il discorso funebre di Antonio, celebrato nel Giulio Cesare di Shakespeare: “Sono venuto a seppellire Cesare, non a farne l’elogio”». E siccome non ci sono nè traditori nè morti, «è necessario che il centrodestra si compatti perché solo così avrà la possibilità di contendere la vittoria al centrosinistra». Se il futuro è sulle gambe di Giove, il presente è attraversato «dalla preoccupazione, dall’ansia», sulla sorte giudiziaria del Cavaliere: «La discrezionalità del magistrato è amplissima. Potrà decidere di assegnarlo ai servizi sociali, o confinarlo agli arresti domiciliari. Non so immaginare il leader dell’opposizione ridotto al silenzio», dice Confalonieri. Che immagina invece quali potrebbero essere gli effetti sulla politica e sul processo delle riforme: «La giustizia era e resta il convitato di pietra. Lo fu ai tempi della Bicamerale, lo è anche oggi».

l’Unità 1.2.14
Pd, clima più sereno in vista della direzione
di V. Fru.

 
-->
Superato il primo esame sull’Italicum adesso Renzi e il Pd possono iniziare a guardare al futuro meno immediato. Quello che riguarda il governo Letta. È vero che il passaggio alla Camera della riforma elettorale non è stato particolarmente complesso e che i veri nodi s’annunciano sugli emendamenti dove il voto segreto potrebbe pesare di più che sulle pregiudiziali di costituzionalità. Ma se ne riparlerà fra una decina di giorni. Nel frattempo, pur mantenendo sotto osservazione il percorso delle riforme, il segretario del Pd ha intenzione di dare una scossa anche al programma di governo. Ovviamente la premessa rimane la solita: se vanno avanti le riforme (dopo quella elettorale, l’impegno è di presentare la proposta di superamento del Senato e riforma delle Regioni entro metà febbraio), va avanti anche la legislatura. In caso contrario si ferma tutto e si va al voto. Tuttavia il clima adesso s’è particolarmente rasserenato sia nei rapporti con Letta sia con la minoranza Pd. Una situazione che dovrebbe essere certificata dalla direzione convocata per mercoledì pomeriggio. E che sarà chiamata a discutere (e votare) l’agenda di governo.Omeglio le proposte che il Pd metterà sul tavolo di Letta e degli alleati per il programma Impegno 2014 che dovrebbe caratterizzare l’azione dell’esecutivo almeno fino al prossimo anno: dal piano per il lavoro (jobs act), alla scuola, dalle unioni civili allo ius soli. L’ipotesi di elezioni anticipate infatti sta svanendo. Di certo non potranno svolgersi in contemporanea con le europee del 25 maggio. I 45 giorni dati al Viminale per ridisegnare i nuovi collegi dell’Italicum lo escludono. Anche se rimarrebbe aperta la possibilità di votare dopo. A fine giugno. Un timore forse infondato che tuttavia continuano a coltivare sia a Palazzo Chigi, dove infatti vorrebbero avere almeno tre mesi di tempo per stabilire i nuovi collegi, sia in una parte del Pd visto che fra i vari emendamenti all’Italicum c’è anche quello che rinvia l’entrata in vigore della nuova legge elettorale a dopo la riforma del Senato. Ma il voto a giugno, cioè durante il semestre di presidenza italiana della Ue, pur tecnicamente possibile (come ha ricordato lo stesso Renzi pur specificando che non sarebbe auspicabile) è politicamente improbabile vista la nota avversità di Napolitano. Insomma al momento Renzi ha davanti a se’ almeno un anno prima di eventuali corse alla premiership e quindi sta guardando ad altre scadenze. A cominciare dal suo primo test elettorale da segretario che sono le elezioni regionali in Sardegna. Renzi non sarà a Cagliari domenica, ma il 14 per la chiusura nel capoluogo e a Sassari col candidato del centrosinistra alla presidenza della Regione Francesco Pigliaru. Il giorno prima invece volerà a Bruxelles per incontrare (assieme alla responsabile esteri Federica Mogherini) il presidente del parlamento europeo Martin Schulz in preparazione del congresso del Pse a Roma di fine mese che segnerà l’ingresso del Pd e l’ufficializzazione dello stesso Schulz alla presidenza della Commissione Ue alle europee del 25 maggio.

l’Unità 1.2.14
Matteo Orfini
«Se Grillo vuol rifare la resistenza prima smetta di imitare i fascisti»
«Dai grillini comportamenti gravissimi. Preoccupa la sottovalutazione di tanti intellettuali. Il governo? Così non va, ma non è questione di nomi»
di Maria Zegarelli

 
-->
ROMA. Ha letto cosa dice Alessio Villarosa?
«Ne ha dette tante. L’ultima qual è?».
Matteo Orfini, l’onorevole Villarosa, M5S, dice che infondo i partigiani al tempo del fascismo hanno fatto molte più cose di loro per difendere la democrazia.
«Chi vuole richiamarsi alla resistenza dovrebbe cominciare non utilizzando parole e modi che usavano i fascisti. In questi giorni abbiamo assistito a comportamenti mai visti nella storia di questo Paese. Quando si cerca di impedire a chi è stato eletto dal popolo di svolgere la funzione per cui è stato eletto, occupando fisicamente le commissioni, si fa qualcosa di molto simile a quanto avviene dove ci sono le dittature. Capisco il tentativo strumentale di raccontarla in altro modo ma noi siamo di fronte ad un atteggiamento para eversivo da parte del Movimento. E preoccupa la sottovalutazione che c’è in alcuni ambienti intellettuali del Paese».
Dal sondaggio di Weber per Agorà emerge che il38% degli elettori in fondo ritiene legittima la richiesta di impeachment. Cosa sta succedendo nel Paese? Anche il Colle è oggetto dell’insofferenza degli italiani?
«Questa richiesta di messa in stato d’accusa del Presidente della Repubblica è priva di legittimità e aggiungo che ogni giorno di più Napolitano dimostra di essere un baluardo della democrazia. Ma l’esito di quel sondaggio non mi sorprende perché in una situazione così drammatica per il Paese, soprattutto per la crisi economica che non vede la fine, la rabbia e il rancore nei confronti delle istituzioni crescono ogni giorno. Alle luce di ciò sono ancora più gravi i comportamenti di questi giorni perché la politica, compreso il M5s, ha il dovere di dare delle risposte e di contenere quella rabbia e quel rancore, non di alimentarli per biechi interessi elettorali. Mi sembra evidente che questa è la cifra che assumerà il M5s da qui alle elezioni europee, un comportamento davvero pericoloso per i danni che può produrre alla nostra democrazia. Circostanza questa, che chiama in causa sia il Pd sia il governo per le risposte urgenti che vanno date».
Sembra una sfida tra Highlander: alla fine resterà solouno tra Renzi e Grillo.
«La sfida non è tra Renzi e Grillo ma tra la politica e l’antipolitica. Noi abbiamo bisogno che la buona politica, che il Pd sa interpretare, sconfigga l’antipolitica. Come? Agendo come la politica deve agire. Mentre Grillo riuniva senza streaming i suoi parlamentari, che disertavano l’Aula, in un albergo, noi alla Camera approvavamo il decreto sulla Terra dei fuochi grazie al lavoro del ministro Andrea Orlando. Un decreto che dà risposte concrete a uno dei problemi più drammatici di questo Paese. Tanto più si alza il livello dello scontro, tanto più la politica deve reagire non accettando la lotta nel fango ma rispondendo con atti concreti».
Una delle insidie che può mettersi sul percorso della legge elettorale è il conflitto di interessi che il M5ssi prepara a cavalcare. Berlusconi la prenderebbe come una sfida contro di lui. Il Pd che farà?
«Noi la sfida a Berlusconi l’abbiamo lanciata quando abbiamo rotto una maggioranza di governo, provocando anche la rottura del suo partito, il Pdl. Non siamo alleati con Berlusconi».
Ma ammetterà che il conflitto di interessi può rappresentare un problema?
«Non lo so. Noi dobbiamo fare quello che è utile al Paese e se tra le misure urgenti decidiamo di inserire norme anti trust e i conflitti di interessi, perché non c’è solo quello di Berlusconi, si farà una legge in tal senso. Ma adesso dobbiamo approvare nel minor tempo possibile la legge elettorale, anche per dare una risposta ai fatti di questi giorni, cercando di migliorarla ulteriormente».
Quindi la minoranza Pd voterà la legge?
«La minoranza del Pd voterà come deciderà il Pd perché siamo un grande partito dove si discute, ma poi ci si comporta unitariamente e lealmente come si è dimostrato anche con il voto segreto sulle pregiudiziali di costituzionalità all’Italicum».
Il prossimo nodo è il Patto 2014.
«Credo che la prima cosa da fare sia quella di registrare il rapporto tra il governo e il Parlamento perché il ricorso alla decretazione d’urgenza deve essere limitato a ciò che è effettivamente urgente, cercando di evitare i decreti omnibus e penso, ad esempio, al decreto Destinazione Italia che contiene anche le norme sulle assicurazioni. E poi va invertita la rotta, perché il governo così come è non sta funzionando e il tema non sono i nomi, sono le scelte di fondo. Non possiamo continuare a praticare le politiche di austerità rimandando quelle che cambierebbero davvero la vita delle persone. Vogliamo privatizzare le poste italiane? Bene, ma allora le risorse che ne derivano le destiniamo all’occupazione, alla ricerca, alla politica industriale e non alla riduzione del debito pubblico».
Come deve contribuire il Pd al Patto 2014? Dettando l’agenda e lasciando la pratica dei ministri a Letta?
«Il punto su cui dobbiamo misurare la capacità del Pd di incidere è la definizione del patto di governo e attorno a quel patto dare vita ad un esecutivo credibile ed efficiente. È chiaro che prima di tutto viene il patto, che deve essere davvero innovativo, ma è necessaria anche una squadra più forte, autorevole e rinnovata, tenendo ciò che c’è di buono in questo governo ma avendo il coraggio di cambiare ciò che non funziona».
I Giovani turchi si danno in quota maggioranza ed i lei si dice che è pronto a entrare in segreteria. Cosa c’è di vero?
«Non siamo né in avvicinamento né interessati a entrare in segreteria. Riteniamo che Renzi vada sfidato sul terreno dell’innovazione e dei contenuti. Credo che al Pd non serva una minoranza pregiudizialmente ostile, ma una dialettica costruttiva. Per intenderci, non mi sento meno innovativo di Renzi, anzi a volte il segretario mi sembra si fermi di fronte agli equilibri reali di questo Paese e su questo intendo sfidarlo lealmente».

il Fatto 1.2.14
Squadristi e caveau
di Antonio Padellaro


“Nuovi Squadristi” (Corriere della sera). No, “Strategia del caos” (la Repubblica). Macché, “Strategia del suicidio” (La Stampa). Gonfia di istituzionale sdegno, l’informazione di sua maestà biasima e stigmatizza i deputati Cinquestelle e grida al fascismo dei manganelli (all’armi!) dopo i cruenti fatti di Montecitorio. Anche se, a voler sottilizzare, l’unico ceffone della Marcia su Roma 2.0 se l’è beccato la grillina Lupo a opera del molto sobrio onorevole Dambruoso, questore dell’elegante Scelta Civica. Ma fa niente, pure a noi questi sboccati portavoce di M5S piacciono poco (si sa, dalle parolacce all’olio di ricino la strada è breve), anche se Grillo Zedong incita alla rivoluzione che com’è noto non è un pranzo di gala né una festa letteraria o un disegno o un ricamo ma un’invettiva sui pompini.
Resta un punto: chi ci guadagna e chi ci perde? Con il loro ostruzionismo casinista e aggressivo, tra un boia chi molla e l’altro, i pentastellati hanno comunque centrato l’obiettivo di far comprendere a milioni di italiani ciò che l’informazione di sua maestà, così sensibile alle buone maniere, aveva occultato. Che dentro il decreto Bankitalia si nasconde un enorme regalo alle banche (Intesa San Paolo e Unicredit tra tutte, neanche a dirlo) quantificabile in 4,2 miliardi di euro. Ora, nella speciale classifica delle categorie più odiate e disprezzate, i banchieri vengono subito dopo i politici, il che spiega la crescita nei sondaggi del Movimento che Emg-La7 quantifica al 23,6 per cento, quasi come nei giorni del boom elettorale.
Detestati dagli elettori del Pd che, come tutte le persone normali di questo Paese, sono stufi di versare sangue e tasse per sanare i buchi e gli imbrogli per esempio di Mps, i banchieri sono invece sommamente amati dai vertici di questo partito che si trasformano in banchieri essi stessi con un prodigioso fenomeno di transustanziazione (vedi Chiamparino). Per questo l’altra sera, mentre le squadracce grilline sferravano le ultime manganellate contro il Bankitalia decreto, dai banchi piddini intonavano “Bella ciao”, simbolo sublime della nuova Resistenza che si combatte non sulle montagne, ma nei caveau.

Corriere 1.2.14
Quella rivolta contro la Legge Truffa per un premio che non vinse nessuno
di Antonio Carioti

-->

Il premio di maggioranza era analogo, assegnava alla coalizione vincente un 15 per cento di seggi in più. Ma la soglia da raggiungere per ottenerlo era ben più elevata rispetto al 37 per cento di cui si parla oggi. La riforma elettorale voluta da Alcide De Gasperi nel 1953, che è passata alla storia come «legge truffa», richiedeva infatti la maggioranza assoluta: l’alleanza di partiti apparentati che avesse superato il 50 per cento dei voti avrebbe ottenuto alla Camera il 65 per cento dei seggi.
La legge fu approvata in via definitiva dal Senato il 29 marzo 1953, in un clima di violenta contrapposizione. Quel giorno l’aula di Palazzo Madama divenne un autentico campo di battaglia, con i parlamentari socialisti e comunisti all’assalto e i commessi a fare da baluardo per proteggere dall’aggressione il presidente Meuccio Ruini, un anziano liberaldemocratico di scuola prefascista, nato nel 1877. Volava di tutto: penne, calamai, libri, rotoli di carta delle macchine stenografiche. Ruini venne colpito alla fronte da un pezzo di tavoletta di legno, ma portò a termine il compito che la coalizione governativa gli aveva assegnato: far passare la legge negli ultimi scampoli della legislatura, in tempo per applicarla alle successive elezioni.
Facciamo un passo indietro. Nel 1948 la Democrazia cristiana aveva ottenuto un successo enorme e aveva potuto governare stabilmente insieme a socialdemocratici, repubblicani e liberali. Ma poi il quadripartito aveva perso consensi: Pci e Psi si erano ripresi dalla disfatta, ma soprattutto l’elettorato di destra, che nel 1948 aveva puntato sulla Dc per battere i comunisti, aveva preso a orientarsi verso i monarchici e i neofascisti del Msi. I risultati delle elezioni amministrative nel biennio 1951-52, con una forte avanzata delle opposizioni, facevano temere che alle politiche la Dc e i suoi alleati avrebbero perso i numeri necessari per governare. Fu allora che De Gasperi, contrario all’ipotesi di un’intesa con le destre, giocò la carta della riforma elettorale, che fu subito bollata come «legge truffa» dalle opposizioni. Pci e Psi dissero che violava il principio costituzionale di uguaglianza dei cittadini, poiché attribuiva al voto di alcuni elettori un peso superiore rispetto al suffragio degli altri italiani. Ma il progetto era inviso anche a monarchici e missini, perché li avrebbe resi del tutto irrilevanti rispetto agli equilibri di governo. Per bloccare la riforma venne adottata una tattica di agguerrito ostruzionismo, cui De Gasperi rispose ponendo la questione di fiducia. Alla Camera la proposta passò il 21 gennaio 1953, dopo una seduta fiume di 70 ore, segnata da gravi incidenti.
Per l’approvazione definitiva al Senato era rimasto un tempo esiguo e il presidente di Palazzo Madama, Giuseppe Paratore, cercò una mediazione. Poi suggerì di sciogliere il Parlamento e andare alle urne con le regole vigenti. Ma De Gasperi non cedette e Paratore si dimise. Al suo posto fu eletto Ruini, che affrontò la tempesta di cui si è detto. Le sinistre sostennero che la legge, in quella baraonda, non era stata approvata in modo regolare, ma il presidente della Repubblica Luigi Einaudi la promulgò e sciolse le Camere. Nello scontro i partiti laici avevano subito importanti defezioni. Ferruccio Parri lasciò il Pri e Piero Calamandrei ruppe con il Psdi: contrari alla «legge truffa», crearono insieme la lista di Unità popolare. Dopo una campagna elettorale arroventata, il premio di maggioranza non scattò per un soffio. Il 7 giugno 1953 Dc, Psdi, Pri e Pli ottennero insieme il 49,8 per cento, appena 54 mila voti sotto il quorum richiesto. Si apriva un periodo d’instabilità governativa: la «legge truffa», ormai ritenuta inutile, fu cancellata nel 1954.

La Stampa 1.2.14
Bankitalia, tutti i perché di una rissa
Cosa c’è davvero nel provvedimento che ha scatenato le critiche di M5S,
Fi e Fratelli d’Italia? Come funziona all’estero? Ecco i punti controversi
di Stefano Lepri

qui

La Stampa 1.2.14
Il confronto
L’economista: “No ai dividendi alle banche”
L’Abi: “Nessun regalo, così si è evitata l’Imu”
di Francesco Spini

qui

il Fatto 1.2.14
Non solo Bankitalia pioggia di regali alle banche amiche
Dalle nuove regole sui crediti inesigibili all’aiutino sui derivati e ora alla rivalutazione delle quote di Via Nazionale
Per la finanza i soldi ci sono sempre
di Marco Palombi


Fabrizio Saccomanni è “addolorato”. Dice che sulla questione delle quote Bankitalia sono state diffuse “falsità, cattive informazioni e distorsioni”. Si riferisce, con ogni probabilità, all’espressione “regalo alle banche” che Il Fatto Quotidiano ha usato fin dall’approvazione del decreto, lo scorso 30 novembre. Ci perdonerà il vizio giornalistico dell’espressione gergale o colorita, il ministro dell’Economia, che oggi abbandoniamo: il sostegno pubblico al sistema bancario non è un regalo, cioè un fatto episodico e connesso ad alcune circostanze, ma la politica economica stessa del suo governo e di ogni altro governo d’Europa.
Nel giorno in cui si scopre che l’Inps non è in grado di anticipare alle regioni i soldi per la Cassa integrazione perché il Tesoro non assicura le coperture, è bene mettere in fila tutte le decisioni con cui l’esecutivo Letta è venuto incontro alle difficoltà del sistema bancario, difficoltà causate da credito erogato male e operazioni finanziarie troppo rischiose prima ancora che dalla crisi. La reazione dei governi occidentali e delle loro banche centrali è stata di aiutare le banche a rimanere in piedi. Il prezzo richiesto in cambio? Nessuno, nemmeno l’innocua stretta sullo stock option o gli stipendi del management delle banche sussidiate. Enrico Letta e l’addolorato Saccomanni non hanno fatto eccezione, soprattutto in vista dei nuovi requisiti di bilancio europei che verranno richiesti alle banche. Ecco un breve riassunto.
FISCO AMICO. Le sofferenze, vale a dire i crediti che si considerano irrecuperabili o giù di lì, sono esplose durante la crisi toccando in Italia la cifra record di circa 140 miliardi di euro. La legge consente di ottenere uno sgravio fiscale su questi “crediti non performanti”: Giulio Tremonti aveva stabilito che l’ammortamento avvenisse in 18 anni, Saccomanni nella Legge di Stabilità li ha ridotti a cinque. Sicuramente ha fatto bene il ministro, ma – come ha scritto lui stesso nella relazione tecnica alla manovra – questo fatto comporterà vantaggi fiscali per le banche pari a 20 miliardi dal 2015 al 2022.
IL CASO BANCA D’ITALIA. Col decreto che aboliva la seconda rata dell’Imu 2013, il governo – senza che nessuno glielo avesse chiesto e in contrasto con una legge del 2005 che prevedeva la ripubblicizzazione dell’istituto - ha anche rivalutato le quote della banca centrale da 156mila euro a 7,5 miliardi. Gli effetti di questa decisione sono indubitabilmente favorevoli agli istituti di credito, azionisti di Bankitalia. In cambio di un gettito di 900 milioni per l’erario – frutto della tassazione della plusvalenza - le banche incassano all’ingrosso tre cose: un aumento potenziale dei dividendi annuali da 70 a 450 milioni, un miglioramento dei loro requisiti patrimoniali nei prossimi bilanci e - alcuni istituti - addirittura l’ingresso immediato di soldi freschi nelle loro casse. Funziona così. Nessuno potrà avere più del 3 per cento di Bankitalia, dunque è facoltà della stessa banca centrale acquistare le quote eccedenti e poi rivenderle con tutta calma: ne beneficeranno i due azionisti più grandi, Intesa e Unicredit, che incasseranno circa 3,5 miliardi, mentre agli altri (Inps, Generali, Carige, Cassa di risparmio di Bologna) andranno all’ingrosso 700 milioni.
DERIVATI. Nella manovrina per riportare il deficit del 2013 sotto il 3 per cento è stata inserita la garanzia statale sui derivati stipulati dalle banche sui titoli di stato. Ovviamente questo comporta che le garanzie patrimoniali degli istituti di credito migliorino istantaneamente così come probabilmente farà il loro rating, visto che gli investimenti in debito pubblico nazionale sono stati ingenti ed eventuali perdite in quel settore sarebbero alla fine – cioè in caso di insolvenza della banca – pagate con la liquidità messa a disposizione dal Tesoro.
CDP. Attraverso Cassa depositi e prestiti – sempre con un emendamento alla manovra – lo Stato ha offerto la sua garanzia per i crediti erogati alle imprese. Non solo: Cdp potrà anche acquistare direttamente quei crediti appositamente cartolarizzati dalle banche. Se la cosa non vi è chiara si tratta in sostanza di un meccanismo che permette di lasciare gli eventuali utili agli istituti di credito e accollare le perdite alla collettività. Anche le privatizzazioni effettuate attraverso la Cassa potrebbero portare vantaggi al mondo finanziario: in caso di introiti che sfocino in un maxidividendo, questo sarebbe distribuito per l’80 per cento al Tesoro e per il 20 alle fondazioni bancarie, azioniste di Cassa depositi.
VARIE ED EVENTUALI. Anche se non riguarda questo governo si cita - per puro dovere di cronaca - la vicenda dei quattro miliardi statali prestati a Monte dei Paschi di Siena prima da Tremonti e poi da Monti, ma l’atteggiamento di favore e verrebbe da dire di sudditanza psicologica nei confronti del mondo finanziario non finisce qui. L’esecutivo Letta, nonostante pressioni dello stesso Pd, si è rifiutato di rivedere la tassa sulle transazioni finanziarie (la cosiddetta Tobin Tax) per far pagare anche le banche, escluse da Mario Monti, come pure ha bocciato in Senato la proposta del Movimento 5 Stelle di tornare a vietare le commistioni tra banche che raccolgono il risparmio e banche d’investimenti. Fu un divieto adottato in tutto il mondo dopo la grande crisi del 1929, forse non è un caso che questo nuovo tracollo sia avvenuto pochi anni dopo la sua abolizione (in Italia ci pensò Massimo D’Alema).

Il Sole 31.1.14
Duello sulla legge elettorale /1
Io idealista? Tu fuori dai modelli dell'Occidente
di Giovanni Sartori


Da tempo D'Alimonte ed io dissentiamo sui sistemi elettorali. Secondo lui, io sarei un idealista (e pertanto un irrealista) mentre lui sarebbe un realista. Ora, è noto da tempo che io sostengo (in prima scelta) il semi-presidenzialismo fondato sul doppio turno che esiste da tempo in Francia, e che dunque è una realtà. Mentre l'Italicum di Berlusconi si fonda su un premio che trasforma una minoranza in maggioranza; un meccanismo che non esiste (che io sappia) in nessun Paese dell'Europa liberaldemocratica.
Pertanto non convengo sulla distinzione tra idealista (io) e lui (realista).
La distinzione è che io sono uno studioso che cerca di spiegare e di proporre soluzioni esatte (realistiche o no), mentre D'Alimonte bada al fattibile e preferisce fare il consigliere del Principe.
Ma il punto sul quale davvero dissento con D'Alimonte è sulla equiparazione del sistema uninominale diciamo di tipo inglese al premio di maggioranza Italicum. No. Il principio del maggioritario è "first past the post" e cioè che vince chi sorpassa, anche se di un solo voto, gli altri contendenti. E questo non è un premio ma la nozione stessa di maggioranza. In dannatissima ipotesi potrebbe anche accadere, in Inghilterra, che i due maggiori partiti ottengano esattamente lo stesso numero di voti in ciascuna circoscrizione. In tal caso non ci sarebbe nessun premio e si dovrebbero indire nuove elezioni.
Tornando al nostro premio Italicum, quel premio è precalcolato sulle previsioni dei sondaggisti. E siccome io persisto nell'essere, a detta di D'Alimonte, un "idealista" persisto anche nel ritenere che la vituperatissima legge truffa di Ruini non fosse per niente tale, visto che assegnava un premio di maggioranza a chi aveva già ottenuto una maggioranza elettorale; ma che è una «truffa», come si strillò a torto allora, ma che è una truffa (ripeto, ignota in tutti i paesi seri dell'Occidente) quando si trasforma una minoranza precalcolata dai nostri chiromanti in una maggioranza. E nemmeno è vero che solo l'Italicum fa sapere subito chi governerà. Anche negli Stati Uniti, anche in Inghilterra, gli elettori lo sanno subito. E mi fermo qui. A meno che mi venga consentita una divagazione per mia curiosità.
Il Grillismo è senza dubbio un movimento politico. Ma può diventare un partito politico a tutti gli effetti? Sicuramente no. Per l'articolo 67 della nostra Costituzione («ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione e esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato»). Mentre Grillo decide lui per i suoi. Segnalai subito il problema ma tutti zitti, nessuno fiatò. Ritenni che i partiti facessero i furbi (o "i realisti") contando al momento delle elezioni di pappare in quel serbatoio di voti. Mi ha stupito però il silenzio del Capo dello Stato di solito così preciso e attento alla legalità costituzionale. Forse anche per lui vige il "realismo D'alimontiano"?

Il Sole 31.1.14
Duello sulla legge elettorale /2 
Io realista, i tuoi sistemi ideali non sono attuabili
di Roberto D'Alimonte


Sì, è vero. Lo confesso. Ho il difetto di distinguere il fattibile dal desiderabile. Mi piacciono i collegi uninominali maggioritari a due turni. Ho qualche dubbio, che Sartori non ha, sul semi-presidenzialismo francese, che per altri studiosi è in realtà un iper-presidenzialismo. Ma sulla bontà dei collegi francesi non ho dubbi.
Vorrei che fossero il perno del nuovo sistema elettorale italiano. Purtroppo però sono certo che hic et nunc questo mio desiderio è irrealizzabile.
Lo è per ragioni politiche, non prive di una base empirica, che a Sartori evidentemente sfuggono.
er questo lascio perdere le sue «soluzioni esatte» e preferisco cercare di capire e di suggerire quali modifiche migliorative dello status quo siano realisticamente praticabili oggi e non domani. Perché l'Italia ha bisogno non di proposte su sistemi elettorali «esatti», ma di una riforma che, per quanto imperfetta, sostituisca il proporzionale che ci ha regalato la Consulta con un sistema più funzionale e che allo stesso tempo trovi in Parlamento i voti per essere approvato. In questo sta il mio peccato come consigliere del Principe.
Quanto alla equiparazione tra sistema uninominale di tipo inglese e il premio di maggioranza Italicum torno a quanto già scritto (si veda Il Sole 24 Ore del 28 gennaio) e che Sartori ha banalmente frainteso. Tutti i sistemi maggioritari tendono a trasformare una minoranza di voti in maggioranza di seggi. Come ho già fatto notare Tony Blair con il 35% dei voti ha ottenuto nelle elezioni del 2005 il 55% dei seggi. La differenza tra il maggioritario inglese e quello italiano è che in Gran Bretagna il premio nasce collegio per collegio, mentre da noi con l'Italicum il "first past the post" che piace a Sartori si applica in un collegio solo, quello nazionale. Chi ottiene un voto più degli altri a livello nazionale ha la maggioranza assoluta. In un turno se ha ottenuto almeno il 37% dei voti. In due turni se nessuno arriva a questa soglia. Né si capisce perché questa soglia sia precalcolata sulle previsioni dei sondaggisti. Che c'entrano i sondaggi? Non c'è verso di sapere oggi chi possa arrivare a quella soglia. La soglia serve da una parte ad accontentare la Consulta e dall'altra ad accontentare Berlusconi che spera – con una soglia relativamente bassa – di vincere in un colpo solo. Un sistema simile non esiste in altri paesi? È vero. Ma nemmeno il voto alternativo usato in Australia, che è un ottimo sistema elettorale, esiste altrove.
L'Italicum non è una novità per noi. I sistemi elettorali usati nei comuni, nelle province e nelle regioni sono tutti versioni dell'Italicum. La ragione di questa sua "popolarità" sta nel fatto che questo tipo di sistemi consente di coniugare frammentazione partitica e governabilità. Se superano le varie soglie di sbarramento i partiti hanno seggi ma per far parte delle maggioranze di governo devono allearsi prima del voto e non dopo. La coalizione che ottiene un voto più delle altre governa. Nel caso dell'Italicum occorre aggiungere che assomiglia molto al modello con cui si eleggono i sindaci nei comuni sopra i 15mila abitanti. Non è la stessa cosa, ma è vero che una volta impiantato produrrà una modifica della nostra forma di governo perché gli elettori capiranno che il loro voto servirà a decidere chi guiderà il paese. Soprattutto nel caso di ballottaggio. In tal modo ci sarà un primo ministro eletto "direttamente" dal popolo e un presidente della Repubblica eletto dal Parlamento. Meglio o peggio del sistema semi-presidenziale o iper-presidenziale di stampo francese che piace a Sartori? Questo merita discutere e non il fatto se Grillo decida lui per i suoi. Altro esempio di "irrealismo sartoriano".
© RIPRODUZIONE RISERVATA

La Stampa 1.2.14
Marino come Alemanno
Che sia neve o pioggia è sempre scaricabarile
Il sindaco: tutta colpa dei palazzi abusivi
di Gra. Lon.

qui

Repubblica 1.2.14
Il ruolo dei sindaci
Perché nelle città bisogna ripartire dalla pulizia di strade e fognature
di Mario Tozzi

geoingegnere al Cern

Quali opere devono prevedere i Comuni per prevenire i rischi?
«C’È una manutenzione urbana ovvia e necessaria: tenere puliti i tombini, rimuovere le foglie. Ma non basta». Mario Tozzi, l’esperto dell’Istituto di geologia ambientale e geoingegneria del Cnr, ha scritto un volume sui sottosuoli delle città italiane e ricostruisce il processo culturale di rimozione dell’acqua avvenuto in tante aree urbane. «In molte città, ad esempio Genova o Napoli, i fiumi sono stati dimenticati, sepolti sotto l’asfalto, stretti in argini troppo piccoli. E alla fine si prendono la loro rivincita emergendo in modo disastroso. Per evitare il pericolo bisogna tornare a dar loro spazio e rendere tutta la città più capace di assorbire l’acqua. Faccio solo un esempio. A Roma i sampietrini erano battuti con il martello e tenuti assieme con la pressione, sopra uno strato di sabbia: la pioggia si infiltrava e scendeva. Oggi sono uniti spesso con l’asfalto e l’acqua si incanala come in uno scivolo».

Repubblica 1.2.14
Il Paese ignorato
di Salvatore Settis


ANCORA una volta, l’Italia va sott’acqua. Frane, fiumi in piena, bombe d’acqua, treni che deragliano, città in stato d’allerta, scuole chiuse, tutta un’aria di emergenza come per gigantesche calamità naturali.
Una scena che si ripete a ogni inverno, anzi quasi a ogni pioggia. E se non ci sono vittime, ceri in tutte le chiese, Te Deum e processioni di ringraziamento. Questa Italia che si vuole tecnologica e si scopre incapace di badare a se stessa rivive ogni anno la stessa stagione di disastri, condita da dichiarazioni dei padri della patria che promettono immediate contromisure, elogiando l’indomito popolo italiano che sfida le avversità. Una sola cosa, a quel che pare, non viene in mente ai Soloni che affollano le aule della politica, le penombre dei partiti, le stanze dei bottoni: che bastava un po’ di prevenzione per evitare, o quanto meno ridurre, il danno. O meglio, di prevenzione si parla, ma senza poi far nulla. Per citare la voce più autorevole, è di ieri il discorso del Presidente Napolitano dopo l’alluvione delle Cinque Terre (quattro morti, ottobre 2011): «bisogna affrontare il grande problema nazionale della tutela e della messa in sicurezza del territorio, passando dall’emergenza alla prevenzione». Sagge parole, alle quali non è seguito nulla di concreto.
In preda a colpevole amnesia, dimentichiamo la fragilità del nostro territorio, il più franoso d’Europa (mezzo milione di frane censite), il più esposto al danno idrogeologico e all’erosione delle coste. Fragilità che colpiscono periodicamente, con danni gravissimi alle persone, alle attività economiche, al paesaggio, al patrimonio storicoartistico. Non sono i colpi di un destino avverso, ma eventi che dovrebbero innescare meccanismi di consapevolezza e di prevenzione: una miglior conoscenza dei territori, mappe del rischio, soluzioni possibili. E invece, rassegnati, passiamo dalla retorica della prevenzione a una cultura dell’emergenza che piange perennemente su se stessa.
Un esempio solo, ma eloquente: la carta geologica d’Italia, indispensabile per la conoscenza del territorio. La prima, al 100.000, fu voluta da Quintino Sella, ma è largamente superata, se non altro per l’enorme crescita degli insediamenti e delle cementificazioni che fragilizzano il territorio. La nuova carta, avviata da più di vent’anni, prevedeva 652 fogli al 50.000, ma solo 255 sono stati realizzati: abbiamo dunque una carta aggiornata solo per il 40% del territorio, e per completarla manca un adeguato finanziamento. Eppure, secondo il rapporto Ance-Cresme (ottobre 2012), il 6,6% della superficie italiana è collocato in frana (547 frane per Kmq nella sola Lombardia), il 10% è a elevato rischio idrogeologico, il 44% a elevato rischio sismico. I costi della mancata manutenzione del territorio sono stati valutati in 3,5 miliardi di euro l’anno (senza contare le perdite di vite umane): negli anni 1985-2001 si sono registrati 15.000 eventi di dissesto, di cui 120 gravi, con 970 morti. Nonostante questi terribili segnali di allarme, cresce ogni anno «l’abbandono della manutenzione e presidio territoriale che assicuravano l’equilibrio del territorio».
Ma che vuol dire “prevenzione”, se mai il governo volesse prendere sul serio questo tema? Vuol dire limitare il dissennato consumo di suolo che “sigillando” i suoli ne riduce l’elasticità e accresce gli effetti di frane e sismi; vuol dire incentivare l’agricoltura di qualità, massimo baluardo contro il degrado dell’ambiente e dei paesaggi, mettendone in valore l’alto significato culturale ed economico. Vuol dire porre una moratoria alla cementificazione dei suoli, rinunciando alla menzogna secondo cui le “grandi opere” e l’edilizia sarebbero il principale motore dello sviluppo. Vuol dire rilanciare la ricerca sulle caratteristiche del nostro suolo e le strategie di prevenzione. Capire che la messa in sicurezza del territorio è la prima, la vera, l’unica “grande opera” di cui il Paese ha bisogno. Secondo il rapporto Ance-Cresme, un piano nazionale per la messa in sicurezza del territorio richiederebbe un investimento annuo di 1,2 miliardi per vent’anni, che assorbirebbe una consistente manodopera bilanciando il necessario decremento delle nuove fabbricazioni: e invece negli ultimi anni gli investimenti pubblici per la messa in sicurezza del territorio sono diminuiti mediamente del 50%. Un piano come questo può generare occupazione convogliando anche risorse private, purché sia evidente l’impegno pubblico in volontà politica, risorse economiche e capacità progettuale. Il governo Letta si mostrerà capace di un’inversione di rotta come questa, per esempio spostando sulla difesa del territorio, e su connesse politiche di occupazione giovanile, una parte dei 26 miliardi di spese militari?

La Stampa 1.2.14
Resta in carcere l’uomo che uccise tre passanti a colpi di piccone


MILANO No al trasferimento in un ospedale psichiatrico giudiziario: Adam Kabobo, il giovane ghanese che lo scorso 11 maggio ammazzò a colpi di piccone tre passanti a Milano, deve restare a San Vittore. Lo hanno deciso i giudici del Tribunale del Riesame, secondo cui la casa di reclusione può garantire, allo stesso tempo, le cure necessarie all’uomo e le esigenze di sicurezza. Del resto, secondo i magistrati, si tratta di un uomo che soffre di «schizofrenia paranoide» e che potrebbe uccidere ancora.
Una decina di giorni fa, il perito Marco Scaglione, nominato dal Riesame, aveva concluso il suo lavoro con una relazione che indicava nell’ospedale psichiatrico giudiziario pg la struttura più adatta dove collocare Kabobo, sempre in regime di custodia.

Repubblica 1.2.14
I dubbi in Commissione Difesa: “Ne bastano 45, un miliardo all’anno di risparmi per armamenti”
Costano troppo, meglio gli Eurofighter il Pd dimezza l’acquisto degli F35
di Alberto Custodero


ROMA — Dimezzamento del programma F35 che, attualmente, è sospeso. Rilancio del velivolo Eurofighter made in Ue. E risparmio di un miliardo all’anno per gli armamenti del Paese. Sono questi, in sintesi, i punti principali che mercoledì prossimo saranno presentati dai 21 componenti del Pd della Commissione Difesa della Camera al gruppo parlamentare democratico. L’“Indagine parlamentare conoscitiva sui sistemi d’arma” s’è conclusa, anche se manca l’audizione del ministro della Difesa. «La ricca documentazione raccolta — ha dichiarato il deputato Pd Carlo Galli — ha dato dignità istituzionale ai tanti dubbi sulla opportunità del programma F35». «Quel che è emerso — ha aggiunto Galli — è che L’Italia a Nord è ben protetta da solide alleanze. Ma a Sud lo “stivale” affonda in una palude perché i Paesi del Nord Africa costituiscono, parafrasando il latino  mare nostrum, in un mare di guai nostri. Ecco perché è assolutamente necessario dotarci di sistemi d’arma moderni». Ma quali?
I lavori non termineranno con una relazione della Commissione, ma ogni partito utilizzerà i dati raccolti per formulare un proprio documento politico. Quello del Pd è il più atteso perché il partito di Renzi era quello che aveva voluto fortemente l’“indagine” conoscitiva, osteggiato da M5S e Sel che vedevano in quello studio il tentativo di insabbiare il problema. E invece, per la prima volta nella storia della Repubblica è stata restituita la piena sovranità alle Camere in materia di armamenti. La vera rivoluzione consiste nel fatto che il documento politico del maggior partito di governo rilancerà il progetto dell’aereo militare del consorzio europeo che era stato stoppato da due ex ministri della Difesa La Russa e Di Paola, e da quello in carica Mauro. La vera posta in gioco che si cela dietro il dibattito sull’F35, va detto, è di strategia politico-militare. L’F35 significa la totale sudditanza per il futuro ai sistemi aerei militari americani. L’Eurofighter significa puntare a costruire un sistema di difesa integrata Ue che non finirà certo nella produzione dei velivoli. Ma proseguirà, ad esempio, nel creare una logistica militare che faccia da sinergia tra i vari Paesi membri. Un esempio: che senso ha che ogni Stato disponga di un poligono quando ne basterebbe uno europeo comune per tutti? Solo con questa politica europea si potrà raggiungere lo scopo che la Commissione s’era data di risparmiare un miliardo l’anno. La proposta del Pd dunque prenderà in esame un dimezzamento dell’F35, da 90 a 45 velivoli E la rinascita dell’aereo made in Europa. Le ricadute in termini occupazionali non sono da poco. «Ogni euro per l’F35 — spiega Carlo Galli — finirà nelle casse della americana Lokheed. Inoltre, dai lavori della Commissione è emerso che i cantieri di Cameri per l’assemblamento delle ali lavoreranno in perdita». «Il progetto di aereo europeo, invece — aggiunge il deputato democratico — comporterà per noi un indubbio vantaggio economico e occupazionale, in quanto ogni euro investito, sarà restituito all’Italia dal consorzio Ue in termini di commesse».
L’“Indagine conoscitiva” ha fatto emergere, a sorpresa, quanto poco sia coesa la strategia della Difesa italiana. Dopo cinque mesi di discussione su quanto fosse obsoleta la nostra aeronautica, a spiazzare tutti è stato l’ammiraglio Giuseppe De Giorgi. Agli attoniti commissari-deputati, infatti, il comandante della Marina militare italiana ha svelato, a sorpresa, che l’emergenza è la nostra flotta, che si trova in condizioni critiche, forse peggiori di quelle dei velivoli militari. «La nave più giovane ha vent’anni», ha spiegato. E il suo allarme è stato talmente grave che il governo ha ritenuto di assegnare subito alla Marina un contributo di 5,8 miliardi di euro per i prossimi 20 anni per l’adeguamento dei mezzi navali militari.

Repubblica 1.2.14
L’immagine per l’atto di espatrio è la stessa del passaporto nelle mani della polizia italiana
La denuncia di Shalabayeva “Foto taroccata per cacciarmi”
di fabio Tonacci


ROMA — Si incontra un’altra foto taroccata nella storia infinita del caso kazako. Dopo quella di Alua, la figlia di sei anni di Mukthar Ablyazov “photoshoppata” per fabbricare un certificato di espatrio presentato in fretta e furia dalle autorità del Kazakhstan al Viminale, anche l’immagine di Alma, secondo una perizia degli avvocati difensori non ancora depositata in procura, sarebbe stata contraffatta. Entrambe le immagini sembrano provenire dal passaporto centrafricano di Alma Shalabayeva, che però in quelle ore indiavolate tra il 29 e il 31 maggio era a disposizione solo della polizia italiana, perché sotto sequestro. Come ci sono finite nelle mani dei diplomatici kazaki?
Un passo indietro. Due giorni fa Alma è stata interrogata per quattro ore e mezzo dal pm Eugenio Albamonte, nella doppia veste di indagata per detenzione di passaporto falso e vittima di sequestro di persona. Ieri, nello studio di Astolfo Di Amato, uno dei suoi legali, ha raccontato ai giornalisti: «Sto cercando casa a Roma, mi sento protetta e bene accolta. Voglio una vita normale, per me e mia figlia». La sua paura è tornare ad Astana, alla scadenza del visto di sei mesi. «C’è un regime vigliacco, potente e corrotto», dice. Anche per questo sta valutando di chiedere il diritto d’asilo all’Italia.
Intanto però i suoi avvocati continuano a lavorare. La nuova perizia, firmata dal consulente tecnico Fabio Pisterzi, dimostrerebbe l’esistenza di una «sovraesposizione di luce all’altezza degli occhi di Alma sul passaporto centrafricano» che stranamente appare anche nella foto del certificato kazako di rimpatrio, senza il quale non avrebbero potuto deportarla ad Astana. Utilizzando un aereo privato della compagnia austriaca «che quel 31 maggio — sostiene l’avvocato Di Amato — fu ingaggiata intorno alle 11 di mattina, ancor prima che si chiudesse l’udienza di convalida davanti al giudice di pace».
La sua foto - secondo il perito è stata ritoccata con scanner e photoshop anche per eliminare la stampa del timbro del governo del Centrafrica. E prima che scoppiasse il caso non giravano su Internet immagini di quel passaporto. Di cui i difensori continuano a difenderne l’autenticità, grazie a quattro certificati ufficiali delle autorità africane, consegnati a piazzale Clodio.

l’Unità 1.2.14
Fecondazione, il tempo dei diritti è adesso
di Filomena Gallo

Segretario Associazione Luca Coscioni
 
-->
LA LEGGE È UGUALE PER TUTTI?  NO, PER COLORO CHE HANNO LA VOGLIA, O LA SVENTURA NEL NOSTRO PAESE, DI VOLERE UN FIGLIO TRAMITE L’AIUTO DELLA MEDICINA. Esiste la legge 40 del 2004 sulla procreazione medicalmente assistita che da dieci anni ci ricorda che la via alla fecondazione assistita è preclusa a tante categorie di persone e coppie. Una norma discriminatoria e antiscientifica che, tuttavia, negli anni è finita sotto processo ben 28 volte: il suo testo è stato persino modificato dalla Corte Costituzionale nel 2009, mentre i vari interventi dei tribunali nazionali e non, come la Corte europea dei Diritti dell’uomo, ne hanno ridefinito la corretta interpretazione; mentre dall’altra parte dell’oceano la Corte Interamericana dei diritti umani ha configurato il diritto della persona ad accedere alla fecondazione in vitro come diritto umano meritevole di tutela.
Tornando all’Italia, in particolare è stato cancellato il divieto di produzione di più di tre embrioni e l’obbligo di contemporaneo impianto di tutti gli embrioni prodotti; è stata confermata la possibilità di crioconservare gli embrioni e la liceità della diagnosi clinica degli embrioni se richiesta dalla coppia.
Ultimo episodio è la decisione del tribunale di Roma che ha sollevato un dubbio di legittimità costituzionale sul divieto della legge 40 all’accesso alle tecniche di fecondazione medicalmente assistita per le coppie fertili. La coppia ricorrente è stata sostenuta e assistita dall’Associazione Luca Coscioni e dalle associazioni di pazienti «L’altra cicogna », «Cerco un bimbo» e «Amica Cicogna» (come già fatto per molti altri procedimenti): entrambi portatori di distrofia muscolare di Becker, chiedono di poter accedere alla diagnosi preimpianto sull’embrione per evitare l’ennesima interruzione di gravidanza di un feto malato. Richiesta negata dall’ospedale Sant’Anna di Roma a causa di quanto prescritto dalla legge 40: l’accesso al test genetico è consentito solo alle coppie infertili. I due non si fermano e ricorrono in giudizio. Il giudice Albano dunque rinvia la decisione alla Consulta perché rileva che la legge 40 violi il principio di uguaglianza, il diritto alla salute, il diritto all’autodeterminazione, sia in riferimento alla Carta costituzionale artt.2,3,32 sia l’art. 117 comma 1 e in relazione agli articoli 8 e 14 della Carta Edu. 
-->
Ma la Corte costituzionale dovrà pronunciarsi anche su altri divieti della stessa legge: il prossimo 8 aprile, infatti, è chiamata a valutare il divieto di tecniche eterologhe, la revoca del consenso e l’utilizzo degli embrioni non idonei per una gravidanza per la ricerca scientifica. In Corte Edu pende analogo ricorso per gli embrioni alla ricerca. Insomma una legge che il 19 febbraio compirà 10 anni ma che è quasi del tutto smantellata. I radicali con Luca Coscioni hanno tentato di cancellare questa legge con un referendum abrogativo totale, ma la Chiesa e le forze paternalistiche in Parlamento hanno sabotato il referendum: prima trasformandolo in quattro quesiti troppo tecnici e poco comprensibili per i cittadini, poi facendo campagna di astensione su una stampa compiacente. Il risultato? Quorum non raggiunto e attesa di anni prima che i tribunali agissero laddove non era riuscito il movimento referendario. Intanto molte coppie si sono recate all’estero per avere i figli, a loro care spese, o vi hanno rinunciato.
Chi le risarcirà? Nessuno, soprattutto coloro che fanno campagne per la vita, ma poi impediscono, paradossalmente, di accedere a quelle vie per creare una famiglia. Tutto questo si inserisce in un contesto dove i diritti individuali delle persone sono subordinati erroneamente alle priorità economiche del Paese. La tutela del singolo e la discussione pubblica sui modi per rafforzare le libertà individuali in quello che dovrebbe caratterizzarsi come uno Stato liberale non solo sono sottratti all’agenda politica e mediatica, ma altresì lasciati nelle mani di un legislatore sordo nei confronti delle istanze dei cittadini e antiliberale. Deve tornare il tempo delle grandi battaglie per i diritti civili che anni fa hanno dato slancio al nostro Paese: avere più diritti significa avere più progresso sociale, culturale ed economico. I cittadini italiani del 2014 chiedono una riforma complessiva della normativa per le persone e la famiglia, che corrisponde al codice civile libro I fermo al 1942: radicali e società civile hanno depositato in Parlamento proposte di legge di esperti e di iniziativa popolare. È arrivato il momento di dare rispetto al cuore di questo di questo Paese.

l’Unità 1.2.14
Dalle Asturie a Madrid Le spagnole contro Rajoy
Sul «Treno della libertà» contro il progetto di riforma del governo
Oggi da tutto il Paese migliaia di donne nella capitale per manifestare
di Marisol Brandolini


 
-->
Begoña Piñero ha una «fioresteria» nel centro di Gijón; il primo appuntamento in tarda mattinata è presso il suo negozio, per andare assieme alla stazione dove si sono date convegno, in quest’ultimo venerdì di gennaio, le donne che saliranno sul treno in direzione di Madrid. Begoña è la presidente della Tertulia Feminista delas Comadres de Gijón, quelle che, all’indomani dell’approvazione della proposta di riformadella legge sull’aborto da parte del governo spagnolo, hanno sentito l’urgenza di fare qualcosa e, incontrandosi con le Mujeres por la Igualdad de Barredos, località nel cuore della zona mineraria asturiana, hanno dato vita al progetto di viaggio sul «Tren de la libertad» fino a Madrid. Per difendere i diritti delle donne, incuranti della riuscita («salga como salga»). Poi le reti sociali hanno cominciato a diffondere l’informazione, l’indignazione tra le donne è montata in Spagna e fuori («le prime a darci la loro solidarietà sono state le francesi e le italiane») e hanno avuto il sostegno di associazioni di donne, femministe, partiti come il Partido Socialista (Psoe) e Izquierda Unida, i sindacati confederali. Per arrivare a Madrid entro le 14, quando chiude il Registro in Parlamento per accogliere le petizioni bisogna fermarsi per la notte a Valladolid. La coincidenza – perché di questo si tratta, giurano - vuole che proprio lì, questo fine settimana, si tenga anche la convenzione del Partido Popular (PP)sul programma di governo e le prossime elezioni europee. Cosicché, la mobilitazione delle donne spagnole contro la proposta di legge Gallardón, il ministro di giustizia autore del progetto, ha finito con l’avere un imprevisto impatto mediatico ancor prima di giungere a destinazione. Così è cresciuto «tutto questo movimento che è il Treno per la libertà», spiega Begoña Fernández, consigliera socialista a Gijón - fatto di almeno 16 treni che arriveranno nella capitale dal resto della Spagna: Catalogna, Andalusia, Valencia. Diversi autobus, macchine private, manifestazioni locali, come l’organizzazione di percorsi interni fatti su rotaie nelle isole Canarie o in alcuni Paesi del Sudamerica, presidi davanti alle ambasciate e ai consolati spagnoli in Italia, Francia, Portogallo, Inghilterra. Perché, dopo la controriforma del governo spagnolo sull’aborto «era impossibile non salire sul Treno». Un’adesione, comunque, di dimensioni e qualità che le donne asturiane non si aspettavano. Se la spiegano con il fatto che «ci sono le elezioni europee prossimamente e se non fermiamo la possibilità che la destra occupi il Parlamento europeo, è possibile che ci vadano di mezzo i diritti delle donne. Certo le donne spagnole erano state un punto di riferimento per le donne in Sudamerica e fino a un certo momento anche per quelle europee». Da Gijón le donne in partenza col treno delle14.00 sono un’ottantina, portano tutte una pettorina di color violetto con il disegno del Treno della libertà, cantano il chacha cha del Treno; a salutarle alla stazione un bel gruppo di uomini. Molti i giornalisti e le televisioni presenti, alcune ragazze girano un documentario di sostegno. Poco più tardi, alla stazione di Oviedo, al grido di «Sí, se puede», salgono altre donne; alla fine, le asturiane occupano cinque vagoni, sono circa 150; in più, dalle Asturie, sono partiti una decina di autobus. Il clima è festoso, la lotta s’impone. Nella stazione di León, approfittando della sosta, le donne provano a inscenare una manifestazione sulla banchina del binario. Il viaggio continua fino a Valladolid. «Stiamo vivendo un’atrocità – dice Paz Fernández Felgueroso, sindaca di Gijón dal ‘99 al 2011 per il Psoe– credo che la forza di migliaia di donne sarà capace di fermare questo progetto. Una parte del Partido Popular è molto scontenta». «La componente vaticana è determinante – aggiunge Carmen Veiga –. Ma il problema, per Gallardón, è che non è riuscito a fare contente né l’estrema destra né la chiesa che la considera ancora insufficiente». «È incredibile che possano decidere sul nostro corpo», s’indigna Almudena Díaz; «Perché le donne possano crescere figli liberi», dice un’altra donna, spiegando le ragioni della sua presenza sul Treno. Il treno arriva a Valladolid attorno alle 18.30. Centinaia le persone in attesa, donne e uomini, l’accoglienza è trionfante. La Coordinadora de Mujeres de Valladolid incontra le nuove arrivate e le guida in corteo per le vie della città. Per la prima volta, le donne asturiane si rendono conto di cosa hanno sollevato con il loro Treno...

l’Unità 1.2.14
Proteste anche in altri Paesi Ecco le piazze in tutta Italia

 
-->
Manifestazioni non solo in Spagna, ma in tutta Europa da Lisbona a Roma, da Parigi a Londra, da Bruxelles a Berlino fino alla Repubblica Dominicana. Tutte le proteste sono contro la proposta di legge spagnola che limita il diritto all’interruzione di gravidanza.
Una tendenza comune anche ad altri Paesi europei: lo stesso Parlamento europeo ha respinto una mozione in difesa dei diritti sessuali e riproduttivi e la legge 194 sull’interruzione volontaria della gravidanza è in Italia di fatto resa impraticabile dall’obiezione di coscienza dei medici che si è allargata ancor di più, soprattutto nel Mezzogiorno. Per tutta la giornata decine di presidi e dimostrazioni davanti alle ambasciate e ai consolati spagnoli delle varie città con un unico comune slogan «Yo decido» - «Decido io».
Ecco le città sicure: ROMA: piazza di Spagna, ore 15.00, sotto all’Ambasciata spagnola. MILANO: piazza Cavour, dalle ore 14.00. FIRENZE: via de’ Servi 13, alle 15.30, sotto il Consolato spagnolo, vestite di nero con sciarpe colorate rosse o viola. PISTOIA: arriveranno a Firenze con il vagonde la libertad per unirsi alla manifestazione al consolato. SIENA: piazza Salimbeni, ore 16:00, vestite di nero, con sciarpe viola o rosse e una rosa rossa tra i capelli. REGGIO CALABRIA: corso Garibaldi, al teatro Cilea, alle ore 16:30. COSENZA: assemblea pubblica per parlare della legge spagnola. VERCELLI: via Cavour, ore 16:00 – 17:00, organizza il Comitato Donne per le Donne di Vercelli. BOLOGNA: piazza del Nettuno, ore 15:00. RAVENNA: piazza Andrea Costa dalle 16 alle 18, organizza Casa della Donna di Ravenna. CATANIA: sotto la Prefettura, ore 11:00. CAGLIARI: via Garibaldi, ang. via Oristano, ore 16.00. Con sciarpe viola e cartello YoDecido. NAPOLI: via dei Mille 40, Consolato spagnolo, ore 11:00. MESSINA: piazza Cairoli, ore 11:00. TORINO: piazza Castello, ore 15:00 sotto il Consolato spagnolo. PALERMO: piazza Massimo, ore 15:00.

l’Unità 1.2.14
È una battaglia di civiltà per tutta l’Europa
di Valeria Fedeli


 
-->
PARTITADALLASPAGNA,COME GIUSTAREAZIONEALLAPROPOSTA DILEGGESULL’ABORTO - che limita fortemente il diritto di scelta e di autodeterminazione - la mobilitazione delle donne sta diventando un movimento europeo. Il «treno della libertà» che parte da Madrid toccherà poi capitali e città di molti paesi dell’Unione. Sono in gioco non solo i diritti delle donne, ma le condizioni di uguaglianza e le opportunità di crescita per tutti i cittadini e tutte le cittadine europee. Questo deve essere un punto chiaro della sfida nuova. «Yo decido», slogan con cui le donne spagnole hanno lanciato la protesta contro la legge Rajoy, si deve unire alla battaglia per una democrazia paritaria, che riconosca e valorizzi le differenze di genere e che fondi la capacità di innovazione e costruzione del futuro contando sul pieno contributo di donne e uomini. Aborto, contrasto a stereotipi e linguaggi sessisti, lotta alla violenza maschile, valorizzazione del capitale femminile, percorsi di carriera e equa rappresentanza in tutte le posizioni apicali dei settori pubblico e privato, conciliazione dei tempi privati e di lavoro, condivisione dei carichi di cura, leggi elettorali paritarie: abbiamo di fronte, partendo dal punto di vista femminile, un programma largo di cambiamento.
Non si tratta di rivendicare spazi e occasioni solo delle donne, o di rilanciare quelle che sono state considerate da sempre, con uno sguardo miope, questioni femminili, ma di un cambio di paradigma culturale, che metta al centro le persone, l’uguaglianza, la democrazia.
L’Europa deve diventare un modello di sviluppo sostenibile, di convivenza democratica, dove ci sia una condivisione piena di valori che sono l’essenza stessa dell’essere europei, oltre che l’unica opportunità per ritrovare un posto nel mondo.
Per fare questo è decisivo che su alcune questioni si compia una battaglia dentro tutta la Ue senza confinare valori, libertà, diritti e opportunità ai singoli stati. È in questa direzione che va la mobilitazione che parte oggi e verso la quale ci si muove anche a livello istituzionale, dopo che la bocciatura del rapporto Estrela ha riaperto il dibattito sul ruolo dell’Unione nel garantire diritti e libertà. Il 2014, anno decisivo per l’Europa - con le elezioni e il rinnovo della Commissione, e aggiungo il semestre di Presidenza italiano - deve essere l’anno in cui si afferma, in modo coerente con lo spirito dei fondatori dell’Unione, un’idea di Europa della crescita, dell’uguaglianza, dei diritti delle persone, del benessere.
Oggi al centro dell’attenzione c’è la Spagna, perché lì il governo ha dichiarato l’intenzione diretta di limitare la possibilità di una maternità scelta e consapevole, dopo che negli scorsi anni c’erano stati significativi avanzamenti grazie alle riforme di Zapatero. Ma quella stessa attenzione ci riguarda tutte e tutti. L’Italia non è certo distante da questi problemi. Sia per quel che riguarda il tema dell’aborto, con l’applicazione della 194 messa a rischio dal gran numero di medici obiettori, sia per quel che riguarda la violenza di genere o le scelte che rendano praticabili le scelte di libertà delle donne e delle giovani donne ancora di più. Anche in questi ultimi giorni abbiamo assistito ad uno spettacolo indegno, con l’uso, anche dentro i palazzi istituzionali, di linguaggi violenti e sessisti.
Mi riferisco agli insulti indirizzati alle deputate Pd dal loro collega De Rosa - la cui difesa, «ho detto quello che pensano tutti», la dice lunga sulla cultura «machista» profondamente radicata nel sentire di molti uomini - e agli attacchi dello stesso genere rivolti alla Presidente della Camera che Letta ha definito antidemocratici. Chi calpesta la dignità, chi non rispetta gli altri, chi pensa che sia giustificabile il ricorso alla violenza - verbale o fisica - contro le donne non può in alcun modo pretendere di difendere gli interessi delle persone, e ancor meno, di rappresentarli nelle istituzioni. Ecco perché c’è bisogno di un cambiamento culturale profondo, capace di modificare il modo in cui bambine e bambini guardano al mondo, le relazioni tra sessi e i processi di socializzazione. C’è bisogno di un’alleanza larga, che parta dalle scuole, che sia condivisa dai media, dai soggetti vitali della società civile e della rappresentanza economica e del lavoro. E c’è bisogno, fortemente bisogno, di una politica positiva, che costruisce, che decide e che rilanci la funzione democratica ineludibile delle istituzioni.
Siamo in campo e impegnate per questo. Spero saremo sempre di più ad agire il cambiamento. Spero e ho fiducia nelle tante donne e uomini che si stanno muovendo per dare all'Italia le risposte urgenti e necessarie per essere un Paese davvero anche per donne. E spero ci siano tanti uomini che sentano loro - leader, parlamentari, giornalisti, uomini tutti - la sfida di una società più giusta, più uguale e più libera.
*Vicepresidente del Senato

Corriere 1.2.14
Ucraina, i militari alzano la voce
Ultimatum al presidente Yanukovich
di Giuseppe Sarcina

 
L’esercito minaccia l’uso della forza. I servizi segreti schedano gli attivisti più esposti. I reparti speciali li catturano, li picchiano, li torturano. Addirittura li crocifiggono, come sarebbe successo a Dmytro Bulatov, ricomparso ieri dopo nove giorni di sequestro, con le mani bucate, quasi fossero le stigmate di questa rivoluzione così drammaticamente incerta. Eppure si continua a trattare. Andrij Parubij, un uomo sulla quarantina, alto, vestito come quasi tutti da sciatore, osserva la piazza Maidan con le mani conserte e le gambe larghe. È lui il comandante in capo. Mostra sorridendo la medaglia di latta con un bulbo color rubino che gli hanno appena regalato. Dall’asola del giaccone pendono due nastrini: uno giallo e azzurro come la bandiera nazionale; l’altro blu con le dodici stelline dell’Unione Europea. «Sì stiamo trattando — dice il comandante — andiamo avanti passo dopo passo. In pochi giorni qualcosa si sta muovendo. Il governo si è dimesso, le leggi contro le libertà sono state revocate. Adesso dobbiamo ottenere il rilascio degli arrestati senza condizioni, cominciare il processo di revisione costituzionale e a quel punto ce ne torneremo a casa».
Il comandante Parubij non si scompone neanche davanti alla notizia del giorno: un inusuale comunicato firmato dai «militari ucraini e dai funzionari del ministero della Difesa» che chiedono al presidente Victor Yanukovich «misure urgenti» per «ripristinare la stabilità» e «arrivare a un accordo in seno alla società». Non è ancora un «pronunciamento», un golpe dell’esercito. Ma poco ci manca. Nel gruppo arroccato intorno al presidente i sostenitori della mano pesante sono sempre forti. Ed è probabilmente a loro che va ricondotta anche la strategia di aggressione personale contro singoli oppositori o giornalisti ucraini (gli stranieri, per ora, non sono toccati). Secondo notizie raccolte da fonti del ministero dell’Interno, il governo si starebbe preparando a rafforzare i micidiali «Berkut», le aquile reali. Sono i reparti speciali che si sono scontrati con i manifestanti la settimana scorsa (6 vittime). Oggi i «Berkut» sono quattromila: potrebbero diventare 30 mila entro poche settimane.
Ma tutte le notizie, le buone e le cattive, sembrano planare in piazza Maidan senza alterare il respiro della cittadella barricata. Lungo il viale Khreschatyk, forse il più elegante della capitale, i negozi sono aperti, la metropolitana funziona. I militanti della formazione estremista «Settore destro» rientrano dal presidio delle barricate in fila ordinata, con gli elmetti e i bastoni. Nel centro commerciale sotterraneo, invece, la gente passeggia e guarda le vetrine. Ma quanto può durare? I più ottimisti ritengono che i «pontieri» abbiano qualche settimana di tempo per raggiungere un accordo tra la Piazza e il Palazzo. Prendono nota dei «segnali». Ieri, per esempio, il presidente malato ha trovato la forza per firmare finalmente la revoca delle leggi repressive del 16 gennaio e l’amnistia approvata dal Parlamento il 29 gennaio. Anche il quadro diplomatico internazionale è confuso. La cancelliera tedesca Angela Merkel ha subito dichiarato che i militari ucraini dovrebbero stare al loro posto, cioè nelle caserme. Oggi il segretario di Stato americano John Kerry incontrerà a Monaco i leader dell’opposizione. Da Mosca gli uomini di Vladimir Putin si esercitano nel sarcasmo (di questi tempi lo sport più praticato al Cremlino) definendo «un circo» l’iniziativa di Kerry. In Europa, invece, fa capolino l’ipotesi di applicare delle sanzioni personali a Yanukovich e al suo giro più ristretto, come chiesto ieri da Julia Tymoshenko nell’intervista al Corriere . «Piano, piano», dice il comandante di piazza Maidan, supera il mucchio dei vestiti usati e sparisce tra i baraccamenti della sua «Resistenza».

l’Unità 1.2.14
Tunisi, una Costituzione che sa di primavera
di Tania Groppi

 
-->
NELL’ANTICO PALAZZO DEL BARDO DI TUNISI SI È VERIFICATO UN EVENTO CHE RESTITUISCE SPERANZA, E NON SOLO PER IL FUTURO DELLA PICCOLA REPUBBLICA DI TUNISIA. L’Assemblea costituente, eletta nell’ottobre del 2011 come conseguenza della cosiddetta «primavera araba», ha approvato, con un’ampia maggioranza, il testo della nuova Costituzione. Una Costituzione il cui cuore è rappresentato dalla garanzia di quel catalogo di diritti (a partire dalla dignità della persona umana, la libertà di coscienza, l’uguaglianza, inclusa quella uomo-donna) che costituisce ormai l’acquis di ogni Stato democratico contemporaneo, pur tenendo presenti il contesto culturale, storico ed economico del Paese (ad esempio nella valorizzazione dei diritti collettivi). La garanzia consiste in una organizzazione dello Stato che si fonda sulla separazione dei poteri, sull’indipendenza della magistratura, sulla previsione di una Corte costituzionale, sul riconoscimento dello status supralegislativo ai trattati internazionali, sulla partecipazione popolare, su un assetto territoriale improntato ai principi del decentramento e della sussidiarietà. Non sono però i contenuti ciò che più dovrebbe richiamare la nostra attenzione, benché sia innegabile l’importanza che riveste la loro adozione in un Paese a prevalente religione islamica. Quello che più colpisce e «ci parla» è il modo con cui si è giunti a questo risultato. Attraverso un procedimento non solo negoziato tra le forze politiche, ma partecipato direttamente grazie alla presenza vigile di una opinione pubblica attenta, che, accanto alle manifestazioni di piazza, non ha esitato ad avvalersi dei social network e delle nuove tecnologie. Così, dopo un avvio assai difficile, in cui il partito islamico di maggioranza ha tentato di imporre la «sua» Costituzione, e con essa la sua visione della società e dello Stato, si è arrivati, pur in mezzo a difficoltà di ogni tipo, economiche, sociali, di sicurezza, ad un testo profondamente diverso da quello iniziale, condiviso da forze politiche laiche e religiose. La Costituzione come patto fondante della vita di una comunità: ecco a cosa ci richiamano le immagini festose di Tunisi. Ma non solo. Ci ricordano, nel silenzio che sarebbe meglio qualificare come indifferenza dei mezzi di comunicazione italiani, impegnati ad inseguire le ennesime schermaglie politiche locali, che, a meno di un’ora di volo da Roma, c’è un Paese in cammino, un Paese che guarda all’Italia non solo come trampolino per la sua emigrazione, ma come vicino col quale dialogare con fraternità. Ci ricordano che l’Italia ha nel Mediterraneo non solo una posizione geografica peculiare, ma una esperienza costituzionale unica, fatta di luci e ombre, da condividere con i Paesi della sponda sud, esperienza che, proprio per le sue criticità, si pone come un «non modello », un veicolo di confronto privo di qualsiasi velleità esportatrice. Per fortuna l’Italia non è stata assente nel processo costituente tunisino. Debbo qui ricordare, con gratitudine, l’iniziativa che la Regione Toscana, anche avvalendosi dell’Università di Siena e di chi scrive, ha portato avanti dal 2011 per supportare i lavori costituenti sul tema del decentramento e dell’autogoverno locale, favorendo la creazione di dibattito e offrendo materiali di riflessione. Da Tunisi in questi giorni ci arriva, insieme all’aria di primavera, un richiamo alla vocazione mediterranea dell’Italia, ad una rinnovata consapevolezza degli straordinari strumenti di dialogo che sono nelle nostre mani.

l’Unità 1.2.14
La storia della Maiella
Settant’anni fa nasceva la Brigata partigiana
di Carlo Troilo

 
-->
IL 5 DICEMBRE DEL1943, 70 ANNI ORSONO,SI COSTITUÌ A CASOLI LA BRIGATA MAIELLA, la sola formazione partigiana, assieme al Corpo Volontari della Libertà, decorata di Medaglia d’Oro al Valor Militare, la prima a conquistarsi la fiducia e le armi degli alleati e l’unica che, una volta liberata dai tedeschi la regione di origine, continuò a combattere a fianco degli alleati attraverso le Marche, la Romagna e l’Emilia, liberando Bologna e spingendosi fino agli altipiani di Asiago. Una brigata – è importante ricordarlo dopo i troppi libri di Pansa e dei suoi imitatori sul «sangue dei vinti» - che arrivò ad una forza di 1.500 uomini e che pure non si macchiò mai di un solo episodio di violenza verso i fascisti, al punto che gli alleati (prima gli inglesi e poi i polacchi) affidavano proprio a loro la tutela dell’ordine pubblico nei paesi e nelle città via via liberati.
Promotore della sua nascita fu mio padre, Ettore Troilo. Volontario a 18 anni nella Grande Guerra, socialista riformista, allievo di Turati a Milano e poi segretario di Matteotti a Roma, attivo avvocato antifascista durante il ventennio, Troilo raggiunse il natio Abruzzo dopo aver partecipato alla difesa di Roma a Porta San Paolo, fu catturato dalle SS, riuscì a fuggire, radunò una quindicina di uomini, quasi tutti contadini, ed arrivò a Casoli, dove chiese al comando alleato le armi necessarie ai suoi uomini per combattere contro i nazisti. Dopo molti e umilianti rifiuti (gli inglesi vedevano dovunque «communists») Troilo incontrò l’ufficiale che per primo ebbe fiducia nei montanari abruzzesi, il maggiore Lionel Wigram, una figura di straordinario interesse: grande avvocato, baronetto, autore di trattati militari usati per decenni dall’esercito inglese, amante dell’Italia e della sua cultura, Wigram si fidò subito di questo appassionato avvocato abruzzese, come lui non più giovanissimo (entrambi avevano 45 anni e «figli a carico). Purtroppo dopo solo due mesi, il 4 febbraio del ’44, Wigram cadde assieme a 11 patrioti della «Maiella» e a 4 dei suoi uomini nel tentativo di liberare Pizzoferrato ed aprire agli alleati la strada verso gli altipiani di Roccaraso e verso Roma: una impresa arditissima, per la forza della guarnigione tedesca e la posizione del paese, a 1.250 metri di altezza e con due metri di neve.
In questa importante ricorrenza, più che ricordare le vicende della «Maiella» (rimando per questo al libro di mio fratello Nicola Storia della BrigataMaiella, editore Mursia, 2011), vorrei affrontare tre temi «di contesto» che penso meritino una riflessione. Il primo riguarda l’importanza, militare e strategica, della guerra in Abruzzo. La maggioranza degli italiani ritiene che la guerra sia semplicemente «passata» nella nostra regione. E invece l’Abruzzo fu uno dei principali terreni della guerra in Italia: alla fine del ’43, in un’area per secoli tagliata fuori dalle grandi vicende della storia, vi si incrociarono i destini di Mussolini, prigioniero al Gran Sasso, del re e del suo governo, in vergognosa fuga dal porto di Ortona, e dei due capi supremi degli opposti eserciti, il maresciallo Montgomery ed il feldmaresciallo Kesselring.
Le truppe alleate furono impegnate per otto mesi nel tentativo di sfondare la linea Gustav, incontrando una resistenza dei tedeschi fortissima, agevolata da un inverno molto rigido e dalla conformazione della regione, con montagne impervie e fiumi in piena che rendevano difficile il passaggio dei mezzi corazzati e pesanti. Si parla sempre, e giustamente, della battaglia di Montecassino, ma quasi mai di quella di Ortona, caposaldo della Linea Gustav sull’Adriatico, che durò settimane, provocò la morte di un numero impressionate di civili (1.314, quasi l’intera popolazione) ed una vera ecatombe fra i soldati delle due parti. Ne sono struggente testimonianza il cimitero militare inglese di Torino di Sangro e quello di Ortona, dove riposano – assieme al maggiore Wigram - duemila soldati canadesi, che ebbero il ruolo principale nella conquista della città. Non a caso Mongomery intitolò le sue memorie Da El Alamein al Sangro. Il secondo tema riguarda la sorte terribile dei paesi dell’alto chetino, rasi al suolo all’80-90 per cento dai tedeschi per fare «terra bruciata» dinanzi agli Alleati: anche da qui, l’emigrazione di massa che nel dopoguerra caratterizzò l’Abruzzo più di ogni altra regione del centro-sud. E riguarda, soprattutto, le stragi di civili, che in Abruzzo furono tra le più atroci: migliaia di abitanti, per lo più vecchi, donne e bambini, massacrati a Pietransieri, a Sant’Agata di Gessopalena, a Onna, a Filetto, in tante altre sconosciute località, affratellati nella morte ai giovani martiri delle insurrezioni di Lanciano e de L’Aquila. E furono stragi – in particolare quella di Pietransieri, per la prima volta non motivata nemmeno con una ragione di rappresaglia - volute personalmente da Kesselring, che le riteneva il metodo più efficace, e meno «costoso » per le truppe tedesche, per scoraggiare da un lato la nascita di formazioni partigiane, dall’altro il sostegno della popolazione civile agli stessi partigiani ed ai militari alleati. Ed è questo il terzo tema di riflessione, quello di cui maggiormente avverto l’urgenza morale. Forse nessuna popolazione, in Italia, si prodigò come quella abruzzese nell’aiutare non solo i partigiani locali ma i tanti sconosciuti soldati italiani sbandati dopo l’8 settembre e le migliaia di militari alleati fuggiti dagli affollatissimi campi di prigionia tedeschi. Italiani, inglesi, americani, canadesi, australiani, neozelandesi, sud africani, indiani furono nascosti nelle case e nelle masserie - soprattutto dalle nostre donne, eroiche e silenziose - furono nutriti («si divisero il pane che non c’era», come ha scritto il Presidente Ciampi, che fu fra quei giovani ufficiali che percorsero «Il sentiero della libertà»), furono aiutati da organizzazioni spontanee a superare d’inverno i valichi nevosi della Maiella per passare le linee e raggiungere l’esercito italiano al Sud o quello alleato al di là del fiume Sangro.
In queste organizzazioni di volontari vi erano insegnanti, impiegati e operai, ma soprattutto contadini e pastori, spesso analfabeti: uomini e donne indifferenti alle consistenti taglie in danaro offerte dai tedeschi e pronti invece a sfidare i rastrellamenti e le rappresaglie, e spesso a pagare con la vita dinanzi ai plotoni di esecuzione nazisti. Le stragi furono anche una rabbiosa reazione all’opera di queste organizzazioni, ma non riuscirono a soffocare l’umanità profonda e l’indomito coraggio dei nostri conterranei. C’è una Medaglia d’Oro per la Resistenza che dovrebbe ancora essere assegnata, ed è quella al popolo abruzzese, protagonista silenzioso e modesto di una vera epopea. In nome dei caduti e dei reduci della Brigata Maiella, mi permetto di sottoporre questa proposta al Presidente Napolitano, che pochi giorni fa ha ricevuto al Quirinale una delegazione della «Maiella» ed ha ribadito, ancora una volta, il suo vivo e sincero apprezzamento per i patrioti abruzzesi e per i loro conterranei.