giovedì 27 maggio 2010

Adnkronos 27.5.10
LIBRI: AD ANCONA SARA' PRESENTATO DOMANI 'LOMBARDI E IL FENICOTTERO' DI PATRIGNANI
Ancona, 27 mag. - (Adnkronos) - Sara' presentato domani, alle 18, nella Libreria Feltrinelli di Ancona 'Lombardi e il Fenicottero', scritto dal giornalista Carlo Patrignani per i tipi de' L'Asino d'oro edizioni' e dedicato a Riccardo Lombardi, colui che e' stato definito il 'poeta del socialismo italiano', grande leader della 'sinistra socialista'. All'incontro partecipera', oltre all'autore, Antonio Giannotti, vice presidente del Circolo Lombardi. E' un testo, quello di Patrignani, ''scritto in onore di Riccardo Lombardi di cui sono stato in passato, come tantissimi altri -spiega l'autore-, un gran estimatore per l'intelligenza, la genialita', l'onesta' e la pulizia morale che ne hanno fatto uno dei migliori protagonisti della storia della Repubblica, di cui a breve ricorre il 64esimo anniversario. Il libro, per la prima volta, attraverso una lunga ricerca, parla della sua donna Ena Viatto su cui e' sceso un velo di silenzio lunghissimo da dopo la Liberazione alla sua morte, avvenuta l'11 novembre 1986. Nonostante fosse stata un fenicottero al pari di Rita Montagnana, Teresa Noce, le donne di Palmiro Togliatti e Luigi Longo, con il compito di distribuire materiale clandestino al di la' e al di qua delle Alpi''. Nel libro, ci sono inediti di Lombardi a partire dall'articolo scritto nel 1946 su quale Repubblica e Costituzione fare fino alla P2 e alla famosa affermazione ''un Psi cosi' non ha motivo di esistere''. (Ama/Pn/Adnkronos)

l’Unità 27.5.10
L’Inconscio è ancora come lo «vide» Freud? La Spi a congresso
A Taormina, da oggi al 30 le discussioni degli psicoanalisti

Il XV Congresso della Società psicoanalitica Italiana (Spi) si apre oggi a Taormina sul caposaldo della psicoanalisi: l’Inconscio. «Scoperto» da Freud è il fulcro e il motore della teoria che il padre della psicoanalisi elaborò. Il nostro inconscio è rimasto lo stesso che «vide» Freud o i cambiamenti sociali, culturali, ambientali lo hanno modificato? I lavori e la discussione che animeranno il congresso fino al 30 maggio saranno il punto di arrivo di un lungo lavoro di rivisitazione del concetto di inconscio che la società psicoanalitica, presieduta da Stefano Bolognini, ha compiuto in questi ultimi anni. Nel congrersso verrà posto l’accento non tanto sull’inconscio come «calderone ribollente», realtà ontologica, o regione della mente, ma sull’esplorazione dell’inconscio e del suo operare, tramite gli strumenti che la psicoanalisi si è data e con i quali si cimenta con la sofferenza umana: un metodo specifico di osservazione, una tecnica, una teoria. Siamo in pieno ambito della clinica e della ricerca a partire dalla clinica, dentro il lento e paziente lavoro nell’intimità dello spazio analitico come osservatorio privilegiato anche sulle trasformazioni sociali. Nel percorso del convegno si parlerà di persone con un funzionamento inconscio che risente della difficoltà dell’uomo di oggi a soffermarsi sulla propria realtà psichica. L’uomo di oggi rimuove meno, non tanto perché la rimozione non esista più, ma perché, stretto nell’illusione di una felicità rapidamente conquistabile, fatica ad avere accesso alla propria realtà psichica in cui fa capolino, non invocata, l’idea del proprio limite e quindi della propria morte. A sviluppare e confermare questa linea di ricerca e di discussione, i molti lavori dedicati all’espressione corporea del disagio psichico; si richiede all’analista di oggi un atteggiamento capace di accogliere, sviluppare e trasformare gli stati emotivi. Ampiamente rappresentata nel congresso la psicoanalisi dei bambini e degli adolescenti, a testimonianza di un interesse crescente del mondo psicoanalitico rispetto al costituirsi del soggetto e delle identità.

Repubblica 27.5.10
Se le vacanze valgono più della scuola
risponde Corrado Augias

Gentile dottor Augias, ho letto su Repubblica le opinioni della professoressa Mastrocola favorevole alla riapertura dell'anno scolastico in ottobre perché «tanto, per come è la scuola adesso, meglio starci il meno possibile». Ritengo, invece, che la scuola, quand'anche dia "solo un'infarinatura" e non faccia "cultura" (ma è tutto da discutere!) sia ancora un presidio rispetto al ciondolare presso i muretti, alla nullafacenza ai tavolini di un bar. Le estati passate a "guardarsi dentro" sono stupende! Ma, forse, va coltivata prima l'attitudine a questo "guardarsi". Tra una infarinatura e l'altra può ancora essere il piccolo risultato di mesi e anni trascorsi in classe, con qualche insegnante ancora motivato che può aver trasmesso uno straccio di attitudine a riflettere e a pensare. Il vero problema della scuola sarebbe, semmai, di migliorarne la qualità (strutture, docenti, vita quotidiana). La scuola andrebbe ripensata senza questo assillo ogni anno di piccole riforme che confondono e basta. Men che meno la "riforma" Gelmini, una applicazione della legge finanziaria che ha impoverito in modo scandaloso la scuola pubblica.
Giulia Alberico g.alberico@fastwebnet.it
Il calendario scolastico è uno dei classici argomenti che andrebbero discussi con calma, ragionando insieme, tenendo conto delle speciali condizioni del nostro Paese che da Nord a Sud copre una distanza ortodromica di oltre milleduecento chilometri. Per cominciare, bisognerebbe mettere subito da parte le povere parole del ministro Gelmini che tira in ballo i benefici per le vacanze e il turismo. Mi ha scritto la prof. Laura Kocci (lkocci@tiscali.it): «L'uscita della Gelmini ha un merito: fa capire quale sia l'idea di scuola dell'attuale governo: le vacanze valgono più della scuola». Roberto Corbella, presidente dei tour operator di Confindustria ha suggerito (su Repubblica del 25 maggio) che si potrebbe forse migliorare la distribuzione delle vacanze nel corso dell'intero anno scolastico. La lettrice Elisabetta Bolondi (bolondi@tiscali.it) che ha insegnato a lungo "nella semiperiferia romana" e dunque sa di che parla, scrive: «La mia esperienza mi porta a dire che ci vuole più scuola, più presenza di adulti responsabili che siano un punto di riferimento per ragazzi sbandati, spaesati, disorientati dall'assenza delle famiglie». Forse qui è il punto: la scuola non solo per le lezioni "frontali" ma come centro di aggregazione, di allenamento alla socialità, di scoperta della propria città o regione. Tutto ciò che in famiglia si ha sempre meno spesso. Poiché al momento i soldi non ci sono, bisognerebbe supplire con la passione. E con un po' di competenza.

Repubblica 27.5.10
Quel che rende unico ogni individuo
Perché l´individuo è alle fondamenta della democrazia
di Gustavo Zagrebelski

Sappiamo adattarci e adeguarci alle condizioni di vita più diverse
La verità della nostra umanità non sta in una filosofia ma sta dentro ciascuno di noi
Anticipiamo una parte della lezione che il giurista terrà domani a Pistoia sul rapporto tra democrazia e identità personale

«Sull´uomo», sull´essere umano. Non so immaginare come altri, intervenendo in questi "dialoghi sull´uomo", interpreteranno l´espressione e intenderanno il loro compito. Da parte mia, non andrò di certo alla ricerca di qualcosa di essenziale, di ideale, di radicale circa l´essere-uomo. Nelle cose politiche e morali, è bene diffidare delle astrazioni e delle dottrine circa l´umanità autentica, vera, non corrotta, corrispondente all´ideale, un ideale che debba essere realizzato con ogni mezzo e a ogni costo. È prudente pensare che non esista "l´uomo" o che, se esiste, non l´abbiamo mai incontrato. Ci sono "gli uomini" e non uno è per natura uguale all´altro. Per nostra fortuna è così. Altrimenti saremmo pronti ad accettare l´uomo-massa, l´uomo-gregge, l´uomo in serie. La verità della nostra umanità non sta in una filosofia, in un´antropologia; sta dentro ciascuno di noi, in interiore homine, e tutti possiamo cercare di conoscerla seguendone le tracce profonde, senza mentire a noi stessi. Conosci te stesso! E non pensare che quello che hai trovato valga necessariamente nemmeno per chi ti sta più vicino.
La storia ci mostra però che questa realtà, tanto molteplice da non poter trovare un esemplare di per sé uguale a un altro, è tuttavia massimamente plastica, cioè capace di adattarsi, adeguarsi, combaciare alle condizioni nelle quali si trova a vivere. Nessun altro essere vivente ne è altrettanto capace. Per questo, gli esseri umani sopravvivono nelle condizioni ambientali, climatiche, sociali, politiche più diverse. Non solo gli individui, ma anche le loro società sono varie e sono capaci di cambiare, come nessun´altra società di esseri viventi. I viventi non umani ci appaiono programmati per vivere nella e solo nella struttura sociale che è loro propria.
Dalle società tribali arcaiche, studiate dagli etologi, alle odierne società della comunicazione, di cui si occupano gli informatici, quante varianti, quanti tipi umani diversi: cacciatori, agricoltori, nobili e plebei, liberi e servi, cittadini e contadini, corteggiani, cavalieri e borghesi, umanisti e tecnici, imprenditori ed esecutori, proprietari e proletari, uomini di religione e uomini di scienza, eccetera. Differenze, queste, che riguardano il lato esteriore degli esseri umani, quello che riguarda i rapporti sociali tra di loro. Ma che diremmo del lato interiore, quello che riguarda cose come le loro qualità morali, la loro sensibilità artistica, l´autocoscienza, la felicità e l´infelicità? Qui davvero ogni pretesa di generalizzare sarebbe ancora più arbitraria.
Forse però, potremmo già subito smentirci da noi stessi e dire che, allora, una natura dell´essere umano c´è, ed è la sua plasticità e irriducibilità ad unitatem. Ma è una smentita apparente, perché non ci permette di andare oltre, mentre è propriamente questo "oltre", o questo "altro" ciò che ci importerebbe di definire.
Orbene, è precisamente l´indefinibiltà di un´idea essenziale a priori che consente di dire qualcosa in modo indiretto, a partire dalle condizioni esterne che operano sugli esseri umani, conformandoli a determinati standard sociali e a determinate aspettative sociali. Ferma restando, peraltro, la sempre presente, residua e ribelle, loro irriducibilità integrale a tali standard.
Guardando alle condizioni odierne delle nostre società, troviamo impressionanti conferme di due profezie che risalgono, l´una, a Tocqueville e, l´altra, a Dostoevskij.
Tocqueville, osservando le condizioni della società americana orientata alla democrazia ugualitaria, previde «una folla innumerevole di uomini simili e uguali, che girano senza posa su se stessi per procurarsi piccoli, volgari piaceri, con cui soddisfare il proprio animo. Ciascuno di loro, tenendosi appartato, è come estraneo al destino degli altri: i suoi figli e i suoi amici più stretti formano per lui tutta la specie umana; quanto al rimanente dei suoi concittadini, è vicino a loro, ma non li vede; li tocca, ma non li sente; vive solo in se stesso e per se stesso, e se ancora gli rimane una famiglia, si può dire almeno che non abbia patria. Al di sopra di costoro s´innalza un potere immenso e tutelare, che s´incarica da solo di assicurare il godimento dei loro beni e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, particolareggiato, regolare, previdente e mite. Assomiglierebbe al potere paterno, se, come questo, avesse per fine di preparare gli uomini all´età virile; ma al contrario, cerca soltanto di fissarli irrevocabilmente nell´infanzia» (La democrazia in America, 1840, libro II, parte IV, capitolo VI).
Dall´altra parte del mondo, qualche decennio dopo (1879-1880), Dostoevskij avrebbe scritto, presumibilmente senza conoscere il suo predecessore, quella che è stata definita la storia dei due secoli successivi, La leggenda del Grande inquisitore, capitolo centrale, somma del suo pensiero politico e vetta della sua arte, ne I fratelli Karamazov. Anche qui, l´umanità è vista divisa in due. I "tutori" di Tocqueville diventano gli "inquisitori" in Dostoevskij. La visione generale è la stessa: la massa addomesticata e i pochi che, al di sopra, l´addomesticano. Non tiranni feroci, ma benefattori che prendono sulle loro spalle il fardello di una libertà di cui, per lo più, gli esseri umani non sanno che farsi, anzi anelano di sbarazzarsi. La società dei grandi numeri, industrializzata, standardizzata, meccanizzata produrrebbe così una doppia, opposta umanità. La divisione ha a che fare con la distribuzione ineguale di tre risorse vitali, i beni materiali, le conoscenze, il potere: detto altrimenti, l´avere, il sapere, il potere, i tre pilastri d´ogni struttura sociale.
La democrazia in America è un testo che potremmo definire di sociologia politica; La Leggenda, di antropologia morale. Per questo, in un discorso sull´essere umano come è quello cui i "Dialoghi sull´uomo" ci invitano, è a Dostoevskij, innanzitutto, che ci rivolgiamo. Non con l´illusione di trovarvi tutto, ma almeno con la certezza di scorgervi qualcosa di ciò che cerchiamo, anzi forse non poco.

mercoledì 26 maggio 2010

Agi 24.5.10
Ru 486: Flamigni e Melega, passo avanti in nome della laicità
"Riteniamo l'introduzione della RU486 un passo avanti in nome della laicita' dello Stato, nel pieno rispetto della legge 194 che auspica l'uso di tecniche piu' moderne e piu' rispettose dell'integrita' fisica e psichica della donna". Lo affermano gli autori del libro 'RU486. Non tutte le streghe sono state bruciate' per le edizioni 'L'asino d'oro', Carlo Falamigni e Corrado Melega, che sara' presentato venerdi' prossimo alla Feltrinelli di Roma insieme all'altro libro sempre del duo Flamigni-Melega 'La pilloala del giorno dopo' e sempre per le edizioni 'L'asino d'oro' di Matteo Fago e Lorenzo Fagioli. "Due testi agili e divulgativi, dedicati alle donne ma anche destinati agli operatori sanitari - si legge in una una nota - scritti da due ginecologi di fama che spiegano per la prima volta tutto quello che c'e' da sapere sulla "pillola abortiva" e sul farmaco contraccettivo di emergenza". Dopo il successo di pubblico avuto al Salone del Libro di Torino, i due piccoli libri, vengono presentati a Roma per mettere a fuoco "le distorsioni ideologiche che in Italia hanno accompagnato l'impiego della RU486 e della pillola del giorno dopo con il giornalista Pietro Greco, la ginecologa Anna Pompili e la psichiatra Elvira Di Gianfrancesco. Per quanto riguarda la "RU486", il volume, corredato da dati aggiornati e confronti statistici, evidenzia i rapporti con la legge 194, l'iter che ne ha introdotto l'uso negli ospedali italiani e indica in appendice la documentazione per accedere a questa tecnica farmacologica di interruzione di gravidanza, entro le prime 7 settimane, "utilizzata fino ad oggi da milioni di donne", in molti paesi d'Europa e del mondo, tra i quali Usa e Cina. 'La pillola del giorno dopo' rientra invece nella contraccezione di emergenza e viene utilizzata entro le 72 ore successive a un rapporto sessuale non protetto. Si tratta di un progestinico che agisce inibendo o alterando la qualita' dell'ovulazione, senza interferire sull'impianto dell'ovulo fecondato sulla mucosa uterina, che avviene 5 giorni dopo la fecondazione. Acquistabile in molti paesi d'Europa liberamente al banco, in Italia necessita di prescrizione medica. (AGI) Pat

Repubblica 26.5.10
Il mondo dei cabalisti
Fra tradizione e moda new age
Intervista a Moshe Idel di Gad Lerner

Intervista a Moshe Idel, studioso della cultura ebraica che ha rinnovato un modo secolare di affrontare i legami tra religiosità e introspezione psichica La sua nuova interpretazione ha scatenato in Israele una violenta controversia Diceva Scholem: "Beato chi ti aiuta a correggere gli errori e non te li scaglia contro" "Ciclicamente si rinnova la convinzione che stia arrivando il messia. E non viene"

Nell´ebraico moderno Qabbalah è parola che si usa normalmente per indicare una ricevuta fiscale, participio dal verbo leqabbel, cioè "ricevere"; e pazienza se nel mondo contemporaneo impazza la mistica giudaica dei cabalisti, deformata in foggia new age. Scopriamo a un tratto legami stupefacenti fra l´introspezione dell´anima sperimentata nella prassi religiosa d´altri tempi e lo studio dell´inconscio con le tecniche della psicoanalisi. Questo strano tragitto, perfino la Qabbalah modaiola di Madonna & co, non viene certo deprecato ma suscita semmai l´ironia di Moshé Idel, dopo una vita dedicata alla sempre nuova reinterpretazione dei testi medievali e moderni, dalla Spagna alla Mitteleuropa passando per le sinagoghe di Safed, la città della Galilea ove s´incontrarono questi scrutatori dell´Inconoscibile. Succeduto a Gershom Scholem nell´insegnamento di mistica ebraica all´università di Gerusalemme, ventidue anni fa Moshé Idel ebbe il coraggio di ribaltarne la visione con il libro Qabbalah, nuove prospettive che oggi Adelphi ripubblica aggiornato e corredato da un´ampia introduzione. Quando lo incontro a Verona insieme a Elisabetta Zevi, responsabile dell´ebraistica di Adelphi, durante una pausa del seminario "Filosofia versus Kabbalah" organizzato dalla Fondazione Campostrini, questo professore israeliano di origine romena può sorridere compiaciuto sugli esiti della controversia: «Nessuno studioso è un papa, mi sforzo di correggere i miei errori. Ma le ricerche storiche fiorite in questo ventennio non hanno certo legittimato il violento dibattito sollevato in Israele contro di me, per lealtà al maestro, dai seguaci di Scholem».
Dunque è sbagliato tradurre letteralmente il concetto di Qabbalah, cioè "ricevuta", come una Tradizione intoccabile?
«La Qabbalah è senza dubbio una Tradizione, come tale ci viene tramandata e dunque va studiata col dovuto rigore. Ciò che non ci esime dal reinterpretarla depurandola dagli errori di chi ci ha preceduti».
Per questo rifiuta l´accusa di aver tradito Gershom Scholem?
«Quando mi ricevette la prima volta io ero un giovane laureando e lui già un professore emerito. Gli sottoposi quelle che a me parevano delle contraddizioni fra suoi testi di epoche diverse. Fu brusco, se li fece lasciare sul tavolo, sottolineati. Alcuni giorni dopo ricevetti a casa una sua lettera di meticolosa risposta. Si concludeva con una frase che non dimentico: "Benedetto colui che ti aiuta a correggere i tuoi errori invece di scagliarteli contro". Seguo ancora quell´insegnamento del maestro Scholem che mi accolse al suo fianco».
Ma lei, Moshé Idel, è solo uno studioso o anche un mistico?
«Spero di non deluderla ma sono solo uno studioso, la parola chiave che mi sospinge è la curiosità. Come ci rivela la sua autobiografia, Scholem da giovane utilizzò delle tecniche mistiche nel suo approccio alla Kabbalah. Non a caso la elevò a sistema di pensiero ebraico, come tale contrapposto ai sistemi filosofici organici di Kant e di Hegel. Io invece vedo nella Kabbalah più semplicemente un modo di vivere. Considero il ritmo della vita più significativo delle idee, senza bisogno di contrapposizioni filosofiche».
Lei non è un mistico, non è un filosofo. Come può allora addentrarsi nella sfera dell´irrazionale?
«Razionale, irrazionale: per me sono solo etichette. Non cerco la verità nei sistemi filosofici, per me Aristotele è sbagliato come Platone. Tutto ciò che pensiamo è immaginario. Il razionalista Maimonide ha un posto d´onore nella storia dell´ebraismo ma è un immaginario come i cabalisti».
Insisto, questa dichiarata estraneità all´introspezione non costituisce un limite ai suoi studi?
«Ammetto che mi è stata preziosa la relazione instaurata con un mistico studioso della Kabbalah come rav Mordechai Attia. Grazie a lui posso dire di avere conosciuto la vicenda esistenziale di un cabalista vero. Ma certo non l´ho seguito quando pretendeva di retrodatare in tempi biblici il testo fondamentale della Kabbalah, lo "Zohar". Resta incontrovertibile la sua collocazione medievale sancita da Gershom Scholem».
Eppure ammetterà che il boom degli studi contemporanei sulla Kabbalah si deve alla portentosa capacità con cui la mistica ebraica anticipa l´indagine psicanalitica dell´animo umano.
«David Bakan pubblicò nel 1957 una ricerca per dimostrare l´influsso della Kabbalah sul pensiero di Freud. La considero un´esagerazione. Ma indubbiamente la Vienna di Freud era una piazza in cui i rabbini contavano, e Freud sapeva di cultura ebraica più di quanto s´immagini. È probabile che abbia subito l´influsso del chassidismo, dubito invece che conoscesse a fondo la Kabbalah».
Ma il movimento chassidico fondato in Polonia da Baal Shem Tov nel diciottesimo secolo non è forse la terza manifestazione della Kabbalah? E poi, guarda caso, quel mistico viene ricordato come un guaritore miracoloso…
«Certamente. Anche se ce lo hanno tramandato studiosi come Martin Buber, inesperti di Kabbalah, è lì che la mistica ebraica si è rivivificata giungendo fino a noi come esperienza creativa».
L´imprevedibile diffusione mondiale degli studi sulla Kabbalah è figlia di uno spirito dei tempi apocalittico?
«Può darsi. Ciclicamente si rinnova la convinzione che il Messia possa venire ogni momento. Ma non viene. Resto scettico di fronte a manifestazioni di messianesimo politico derivate da eventi storici all´apparenza portentosi, come ad esempio la vittoriosa Guerra israeliana dei Sei Giorni. Tali circostanze segnalano che, a differenza di quanto sosteneva Gershom Scholem, la Kabbalah può essere alimentata dall´euforia piuttosto che dal trauma dell´esilio. Ma resta una parzialità della vicenda ebraica».
La Kabbalah come continuità anziché come rivoluzione?
«Esatto. Sarebbe limitativo studiarla come risposta a una crisi storica quando invece si rinnova fra noi come tradizione».

Repubblica 26.5.10
Milano arrestato il prete paladino dey gay
di Emilio Randacio

Il paladino dei diritti dei gay cattolici finisce in carcere con l’accusa di violenza sessuale su un ragazzo di 13 anni. Don Domenico Pezzini, lodigiano, 73 anni, da lunedì sera si trova rinchiuso nel carcere di San Vittore. Secondo l’inchiesta della squadra mobile e coordinata dal pm di Milano Cristina Roveda, Pezzini avrebbe abusato almeno di un minorenne.
L’indagine, però, è accompagnata da uno strettissimo riserbo. Il procuratore aggiunto milanese Pietro Forno, si è limitato a dire «di non essere autorizzato a rilasciare dichiarazioni». Era stato proprio Forno, in un’intervista, a denunciare poco più di un mese fa, la scarsa collaborazione che ì vertici della Chiesa accompagnava le inchieste che coinvolgevano religiosi. Un J’accuse che aveva suscitato polemiche ed era costato un procedimento disciplinare per il numero due della procura milanese. Il collegio difensivo del sacerdote, inoltre, fino a sera non era ancora riuscito ad avere una copia dell’ordine d’arresto.
Quel che è certo è che il profilo di don Pezzini è sem prestato molto discusso. In passato aveva già subito un allontanamento dal seminario di Lodi per le sue posizioni ritenute «progressiste» . Fíno al 1986 è stato docente in Cattolica di Lingua e letteratura inglese. Poi, un incidente diplomatico con l’allora cardinale Joseph Ratzinger, ne aveva precluso la carriera. Pezzini, infatti, aveva preso le distanze dalla lettera dell’attuale pontefice sulla «cura pastorale degli omosessuali».
Di lì a pochi mesi, il sacerdote era stato rimosso dalla cattedra e dirottato nell’ateneo veronese. Da 24anni, inoltre, ha fondato a Milano il gruppo «La Fonte», impegnato a costruire « un cammino di spiritualità alla ricerca di un’integrazione profonda tra condizione omosessuale e fede cristiana». Come sia nata l’inchiesta, non è ancora chiaro. L’episodio contestato risale però a3 anni fa e, fino a ieri, la Curìa milanese era completamente all’oscuro dell’indagine. Don Pezzini, invece, circa tre mesi fa, aveva ricevuto una «proroga indagini» in cui gli veniva comunicato dell’inchiesta a suo carico.

Repubblica Roma 25.5.10
Villa Massimo, il parco torni ai cittadini"
L’appello di Italia Nostra: "Stop al pub rumoroso e ai videogiochi che rubano il verde"
di Sara Grattoggi

Italia Nostra si unisce alla battaglia dei residenti del Municipio III per la tutela della ex-pineta di via di Villa Massimo, oggi parco Marguerite Duras. E chiede all´assessore all´Ambiente del Comune, Fabio De Lillo, «di fermare tutte le concessioni o convenzioni in itinere che prevedono di affidare la gestione delle aree verdi ai privati». Oltre alla lotta per il ripristino dei pini tagliati nel parco Marguerite Duras e per lo stop ai nuovi prefabbricati (una ludoteca e un baby-parking) che il concessionario dell´area, Luigi Miglietta, vorrebbe sostituire alle attuali giostre, «è già in atto da tempo una battaglia per Villa Ada ed ultimamente peril Parco di Tor di Quinto minacciato da un progetto che vede l´arrivo di cubature e di servizi privati non previsti dalla sistemazione originaria del parco» informa Italia Nostra in una nota. «I "punti verdi qualità" e i "punti verdi infanzia" sono diventati un´occasione per ottenere aumenti o nuove cubature private a pagamento in aree pubbliche», denuncia l´associazione. Che chiede «di fermare subito il progetto» di via di Villa Massimo e di fare chiarezza su quali fossero le condizioni della concessione, che è stata data a titolo gratuito in cambio di alcune migliorie e di un´efficiente manutenzione del parco.
Un obbligo che, hanno sottolineato ieri i cittadini durante una concitata riunione al Municipio III, è stato disatteso da Miglietta, gestore del parco e del bistrot "Casina dei Pini" che si trova al suo interno. Al mini-sindaco Dario Marcucci i residenti hanno chiesto il ripristino degli alberi ad alto fusto e la chiusura del giardino al tramonto (prevista, ma spesso non rispettata dai clienti del locale, che come pub-ristorante può rimanere aperto fino alle 2 di notte). In attesa della decisione, Miglietta ieri pomeriggio ha cercato di placare gli animi dichiarandosi disponibile ad accogliere le richieste del Municipio e, in caso di "veto" da parte dei residenti, a rinunciare al progetto.

martedì 25 maggio 2010

l’Unità 25.5.10
Intervista a Milena Gabanelli
«Il passo successivo è l’olio di ricino»
«Silenzio sugli scandali Una legge impensabile persino in Iran»
La conduttrice di Report chiama alla protesta «Vogliono soltanto sopprimere il cane da guardia»
di Massimo Solani

Domenica sera l’ha detto chiaramente agli spettatori di Report. «Se non siete d’accordo con questo provvedimento, fatevi sentire perché presto sarà legge». Una legge che metterà il bavaglio alla stampa e spegnerà le poche voci del giornalismo di inchiesta. Per questo Milena Gabanelli ha chiamato alla mobilitazione il pubblico. Perché «il passo successivo è l’olio di ricino». Intercettazioni ma non solo. Lei ha puntato il dito anche contro la norma che vieta la messa in onda di riprese non autorizzate. Materiale fondamentale per chi fa videoinchieste.
«Per quel che riguarda le riprese non autorizzate, non sarà più possibile per buona parte di noi documentare quelle situazioni che si alterano completamente quando ti ufficializzi. E sono migliaia. Inoltre non sarà più possibile trasmettere documenti filmati da testimoni occasionali con il telefonino o una videocamera, e parliamo di tutti quei contributi che arricchiscono soprattutto le testate web. È curioso che nessuna proposta di regolamentazione sia comparsa per i filmati di atti di bullismo che finiscono su Youtube». Tornando al materiale giudiziario, è esagerato dire che calerà il silenzio su buona parte degli scandali italiani? «Direi di no, basti pensare che solo oggi si verrebbe a conoscenza dei dossier Telecom e solo nel 2007 avremmo saputo delle vicende Parmalat. E ancora: nulla sapremmo sui grandi appalti, mentre nel caso di qualche omicidio eccellente sapremmo che tizio è stato ucciso. Punto. Nemmeno in Iran sarebbe tollerabile una legge del genere». Limitazioni ancora più pesanti ricadrebbero po sulle spalle dei giornalisti non iscritti all’albo dei professionisti. Che cosa prevedono?
«In nessuna parte del mondo esiste questa distinzione fra professionisti e pubblicisti. All’associazione dei giornalisti si accede per meriti, e non attraverso un esame. Ad uno scrittore che pubblica saggi studiati nelle scuole non è richiesto il tesserino rosso, vale la sua capacità, la sua autorevolezza e competenza. Qui si è deciso che il pubblicista che documenta la prova di un’evasione per esempio, rischia 4 anni di carcere. Tutto questo non c’entra nulla con la necessità di regolamentare la pubblicazione di intercettazioni, che secondo me sarebbe giusta, ma dimostra solo l’intenzione di sopprimere il cane da guardia. Il passo successivo è l’olio di ricino».

l’Unità 25.5.10
L’articolo ventuno
Un diritto davvero per tutti
di Vittorio Emiliani

L ’attacco portato alle intercettazioni è, chiaramente, sferrato contro la libera manifestazione del pensiero garantita dall’articolo 21 della Costituzione. Spesso però, nei servizi ad esso dedicati, si sottolinea che tale diritto è garantito “a tutti i cittadini”. No, è ben altro: esso viene garantito “a tutti”. Quindi, non soltanto ai cittadini italiani ma pure ai cittadini stranieri comunque presenti sul nostro suolo nazionale. Una dizione straordinariamente forte e antiveggente per tempi in cui erano gli italiani a migrare, a centinaia di migliaia l’anno. A
chi la dobbiamo? In primo luogo all’onorevole Gustavo Ghidini, socialista, di Soragna (Parma). In commissione il giovane Giulio Andreotti aveva portato la dizione “tutti i cittadini”. Ma Ghidini, uno dei costituenti anziani (contava già più di settant’anni), oppose questo ragionamento: «Credo che il diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero, attraverso ogni forma, non appartenga al cittadino in quanto facente parte dello Stato italiano ma alla personalità umana».
Ghidini era stato socialista fin da ragazzo. Antifascista, gli avevano incendiato lo studio professionale e inferto altre vessazioni. Convinse presto tutti. Così ebbe l’unanimità l’articolo 21 vigente dal 1 ̊ gennaio 1948: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione (altro concetto volto al futuro, n.d.r.). La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure».
Ecco a quale filosofia politica altamente liberale Berlusconi vuol imporre il bavaglio, minacciando uno dei diritti fissati con più forza e lungimiranza nella Costituzione.

l’Unità 25.5.10
Intervista a Silvia della Monica (Pd)
«Ora cercano di tenere buoni i giornalisti ma il problema sono le indagini»
di Claudia Fusani

In trincea. Giorno e notte. Da giorni. «Perchè questa legge è un attentato alla Costituzione. La devono ritirare. Punto e basta. Poi, dopo, parliamo della privacy...anzi, anche prima perchè è un diritto costituzionale da tutelare come quello alla sicurezza personale e il diritto ad essere informati».
Silvia Della Monica, capogruppo Pd in Commissione giustizia al Senato, ex pm antimafia, sta per affrontare l’ennesima barricata di questi giorni, la maratona notturna in Commissione. Panino e spremuta alla buvette, risme di emendamenti sotto braccio, ripete a mente la tattica della partita della serata. Mancano quindici minuti alle 21. Prima mossa? Chiedo il ritiro del provvedimento. saranno con noi tutte le opposizioni, Idv e Udc. La maggioranza deve riflettere in libertà e soprattutto autonomia sulla straordinaria mobilitazione di questi giorni. Gli è scoppiato l’inferno: in casa con i finiani ma anche con la Lega e qualcuno più ragionevole del Pdl; e fuori, opinione pubblica, editori, giornalisti, investigatori e anche il governo americano. Mosse collaterali? Abbiamo sostituito i senatori assenti e via sms stiamo chiamando in commissione tutti i senatori presenti a Roma. Mobilitazione compatta. Questa ondata di indignazione può cambiare qualcosa? Non sanno più che pesci prendere, pressati al loro interno, dall’opinione pubblica, dalle opposizioni, dal Quirinale, da investigatori e americani. E’ chi ha lavorato con Falcone che dice stop alla legge. In queste condizioni cercheranno il male minore: tra stasera e l’aula accontenteranno i finiani tornando al testo uscito dalla Camera per quello che riguarda giornalisti e editori, possibilità di pubblicare in sintesi lo sviluppo delle indagini ma non gli atti. Cercheranno di tenere buona la vostra categoria. Specchietto per le allodole...
Sì perchè il vero obiettivo di questa legge è e resta quello di limitare le indagini. Eppure sono stati tolti “gli indizi di colpevolezza” e sono stati ripristinati “i gravi o sufficienti (per i rerati di mafia e terrorismo) indizi di reato”. Dire questo è fuorviante. E’ vero che hanno fatto questa modifica ma insieme ne hanno introdotte altre come la durata (max 75 giorni) il via libera del distretto giudiziario e la valutazione degli indizi sulla base degli articoli 192 e 195 del cpp che sono le norma sulla valutazione della prova e non degli indizi. In sintesi si può dire che il contenuto di un’intercettazione o la dichiarazione di un pentito di per sè non sono più indizi sufficienti per mettere in ascolto altri apparecchi. E’ una limitazione assurda dello strumento di indagine.
Il ministro Alfano dice che non cambia nulla per mafia e terrorismo. Mente, mi auguro per lui visto che è il Guardasigilli sapendo di mentire. Dico solo questo: il reato di mafia di per sè non esiste, esiste l’associazione mafiosa che si sostanzia di reati satellite, contigui, fine e mezzo, estorsione, droga, racket. Che ci fanno magistrati e investigatori con 75 giorni di ascolti?
La corruzione?
Tra chi corrompe e il corrotto c’è un patto di omertà forte come quello mafioso. 75 giorni di ascolti sono inutili
Indossa una giacca verde. Fiduciosa? Sì, se l’opinione pubblica capisce che il vero obiettivo del governo è dimostrare che la criminalità quasi non esiste più.

l’Unità 25.5.10
Conversando con Amartya Sen «La crisi economica globale? Colpa di liberismo e finanza È tempo di giustizia e libertà»
di Oreste Pivetta

Amartya Sen è in Italia: vi trascorrerà alcuni giorni, per il riposo e per alcune conferenze. Il premio Nobel per l’economia gli venne attribuito nel 1998, per una «economia» pensata e ripensata alla luce di una necessità etica che dovrebbe coinvolgere gli uomini, il mondo intero, collocando l’indagine economica all’interno di una riflessione che fa perno su una nozione di diseguaglianza, analizzata a partire dalla eterogeneità degli esseri umani e dalla molteplicità dei parametri in base a cui può essere definita. Per questo, ragionando di sviluppo e di mercato, ma anche di libertà, democrazia, giustizia, di diritti (di diritti anche della «terra» e quindi in una dimensione ecologica), è diventato una bandiera, un beniamino, un riferimento di quanti hanno immaginato una alternativa al liberismo imperante, alla globalizzazione selvaggia, al depauperamento delle risorse, all’arricchimento di pochi e alla fame di molti. Una sintesi, anche di grande valore simbolico, della sua battaglia sta nell’invenzione (insieme con il collega pakistano Mahbub ul Haq e per conto delle Nazioni Unite) di un Pil (prodotto interno lordo) che rivoluziona quello tradizionale e che calcola la «ricchezza delle nazioni» non secondo riferimenti monetari o industriali, ma secondo altri parametri, come tasso di alfabetizzazione, grado di democrazia, possibilità di scolarizzazione, libertà di accesso ai media, qualità dell’assistenza sanitaria, attesa di vita, diffusione del benessere: si dice Hdi, indicatore di sviluppo umano (che non tutti però, mi precisa Sen, li include).
Il tema del suo ultimo libro, pubblicato da Mondadori, è la giustizia. Lo dice il titolo: «L’Idea di Giustizia». Ma lei è un economista e noi viviamo da tempo una pesante crisi economica. Come se ne esce? Imboccando un’altra strada rispetto a quella seguita fin qui? Abbandonando un modello di sviluppo, che è poi il modello capitalista?
«La crisi economica è grave. Le ragioni stanno certo nella cattiva politica, nella mano libera consentita alla speculazione finanziaria, nell’eccesso di fiducia nella forza regolatrice del mercato, comprimendo o addirittura osteggiando il ruolo delle pubbliche istituzioni. Diciamo che la prima responsabilità è stata degli Stati Uniti, con la complicità ovviamente di tutti gli altri paesi più ricchi. A questo punto per rimediare non c’è che una strada: incentivi e interventi pubblici, con le riforme istituzionali che possono favorirla. Pensando globalmente. Questo è un punto fermo. L’altro riguarda ancora il tema del mio libro: Giustizia e ingiustizie. Non possiamo ignorarlo, anche mentre la finanza va a rotoli, le borse crollano, la disoccupazione sale: non possiamo accettare soluzioni che per motivi di bilancio, per salvare il vecchio ordine, impongano nuove ingiustizie. Ad esempio, se è giusto tagliare il superfluo, si dovrebbe sempre considerare che politiche di estremo rigore rischiano di essere controproducenti laddove non assicurino i servizi pubblici essenziali ai cittadini. Ma soprattutto dobbiamo batterci contro quelle ingiustizie che già conosciamo, contro la povertà, contro le limitazioni della libertà, contro le censure alla democrazia, ovunque nel mondo, in Asia o in Africa, ma anche nei paesi industrializzati. Il benessere dell’universo mondo resta una questione di giustizia e le politiche economiche a sostegno della ripresa devono essere giudicate per quanto riescono a rafforzare quelle condizioni di libertà e di democrazia che sono autentica misura della qualità della vita per tutti e allo stesso tempo premessa del cammino che verrà».
Vediamo allora questo suo libro, che si apre con una dedica a John Rawls, il filosofo statunitense morto otto anni fa. Basterebbe il suo primo saggio, del 1958, «Giustizia come equità». “La giustizia è la prima virtù delle istituzioni sociali”, ha scritto Rawls. Mi pare, professor Amartya Sen, che lei affronti il tema della giustizia da un altro punto di vista, cioè in funzione delle condizioni dell’esistenza umana, di una qualità della vita che a tutti dovrebbe essere garantita. Perché quel riferimento a Rawls?
«Il mio punto di vista sulla giustizia non è sempre esattamente compatibile con le conclusioni cui è giunto Rawls che ha comunque influenzato lo sviluppo del mio pensiero. Leggendolo, senza condividere molte delle sue affermazioni, mi ha stimolato a una ricerca personale. Per riassumere il lungo rapporto intellettuale che mi ha unito a Rawls, userei l’espressione ‘dialettica’. Credo che voi del l’Unità di dialettica ne capiate. Partendo dalle ragioni di disaccordo, sono riuscito a individuare il mio cammino per tentare di rispondere alla domanda fondamentale: che fare per contare su una giustizia migliore?».
E come le pare si possa rispondere a questa domanda. Esiste una misura della giustizia?
«Scrivendo questo libro, a proposito di un’idea di giustizia, mi sono innanzitutto preoccupato delle ingiustizie, perché solo risalendo dalle ingiustizie, dalla loro cancellazione, si può pensare a un passo verso una condizione più stabile e più equa dell’umanità». Cioè, a una immagine teorica, direi ideale, della Giustizia, antepone una pratica di «ascolto» delle mille ingiustizie?
«Certo. Come infatti una società si può evolvere nel segno della giustizia? Può provarci, a condizione prima di tutto di una diagnosi delle ingiustizie. Su questo insisto: il primo compito è diagnosticare. Poi sulla base della conoscenza, di un consenso ragionato, di un esercizio intellettuale, attraverso cambiamenti politici, istituzionali, attraverso pure un cambiamento della mentalità diffusa, si può agire perché spariscano le situazioni di ingiustizia».
Però le miserie del mondo, la fame, le morti sono lì a parlarci immediatamente. E in modo scandaloso ...
«Le manifestazioni eclatanti, clamorose di ingiustizia sono infinite. Però mi interessava particolarmente stigmatizzare le forme più sottili dell’ingiustizia, ad esempio le tante forme di diseguaglianza tra gli uomini, lo squilibrio dei redditi piuttosto che la diversità delle opportunità. Sono questioni che toccano la sfera personale. Ciononostante condizionano il mondo. Certo: ingiustizia è morir di fame, è dover affrontare una carestia. Sono capitoli estremi dell’esistenza umana. Mentre si apre davanti ai nostri occhi un arcobaleno di situazioni, alcune delle quali non riusciamo a vedere nitidamente, come le tante forme di violenza, di limitazione delle libertà, di condizionamento fino alla tortura. Se vogliamo dare una risposta ad una domanda di giustizia, se vogliamo che quindi il genere umano, tutto, possa vivere bene, senza soffrire la fame, senza patire violenze, dobbiamo imparare a considerare le situazioni più manifeste (e morir di fame è tra le più gravi), ma anche quelle più occulte, che colpiscono comunque l’esistenza degli individui». Mi pare che lei, trattando di giustizia, si riferisca molto spesso a concetti di libertà e di eguaglianza. Potremmo aggiungere «fraternità», come ‘legante’ comunitario, e siamo ai tre principi della rivoluzione francese. Quale dei tre metterebbe in primo piano?
«Mi sembrano tre principi importanti allo stesso modo. La libertà consente all’uomo di agire alla luce della ragione che a ciascuno è data. L’uguaglianza, se siamo esseri umani, è garantire a tutti le medesime opportunità. La fraternità permette di stabilire di continuare relazioni reciproche che non siano fondate sull’ostilità, che ci consentano quindi di sentirci vicendevolmente a nostro agio, di vivere vicini senza danneggiarci, di essere rispettati dai propri simili, di partecipare alla vita della comunità. Cercare di stabilire tra questi principi una classifica, mi sembra come tentare di dire che cosa sia preferibile tra i sensi, l’udito, la vista, il gusto. Valgono tutti e tre allo stesso modo e di nessuno dei tre vorrei privarmi. Finchè non sei posto davanti al bivio, cioè a una scelta, non potrai mai immaginare la graduatoria».

l’Unità 25.5.10
Il decreto «Milleproroghe» toglie le provvidenze che servono per pagare i giornalisti
950 le stazioni interessate. I commenti di Novaradio, Radio Popolare, Radio Città Aperta
«Tagliano» anche i microfoni
Le radio indipendenti a rischio
Oltre che all’editoria e alle tv locali, il decreto «Milleproroghe» ha cancellato un pacco di rimborsi parziali anche alle radio locali. 950 emittenti rischiano di dover ricorrere alla cassa integrazione.
di Stefano Miliani

Non mettono a tacere i cannoni. Mettono a tacere i microfoni. Si tagliano anche così le gambe all’informazione. Soprattutto alle radio indipendenti svincolate dai mastodonti editoriali. Si tagliano le gambe togliendo le «provvidenze». Detto così suona criptico o mistico perfino. Invece la realtà è più concreta e allarmante: l’ormai tristemente famoso decreto «Mille proroghe» ha cancellato un pacco di rimborsi parziali all’editoria, alle radio e alle tv locali, per l’energia elettrica, il telefono, l’abbonamento alle agenzie di stampa, i collegamenti satellitari. Sembrano quisquilie, eppure sono essenziali, per molte emittenti. Forse non a caso hanno un nome quasi religioso: «provvidenze».
Fabio Carera, dell’associazione Aeranti Corallo che raggruppa radio e tv locali, riassume quelle che non sono più fosche previsioni. «Queste provvidenze, di cui anche la carta stampata beneficia, negli anni hanno permesso di costruire un sistema di informazione pluralista e di incrementare l’occupazione. Gli strumenti di sostegno alle radio e tv locali hanno consentito di arrivare a un contratto giornalistico specifico del nostro settore: prima del 2000 non c’era nulla, ora tutela 2mila giornalisti. Come molte tv locali, le radio hanno conquistato la fiducia del loro pubblico facendo servizi giornalisti sul territorio». Consumando scarpe e microfoni. Caresa stima che le stazioni in onda siano circa 950. Ma queste benedette provvidenze quanto incidono? «Intanto bisogna sapere che prima uno spende, poi presenta un’infinità di documenti, poi avrà i soldi. Per l’elettricità il rimborso del 2009 era del 40% delle spese, per il telefono del 50%, per le agenzie di stampa del 60%». Il settore, aggiunge, è in crescita «perché sempre più aziende applicano questo contratto. Ma se saltano le provvidenze, molta gente rimarrà a casa. Gli effetti si faranno sentire». E saranno dolorosi. L’uomo della provvidenza batterà un colpo? Chi eroga queste «provvidenze» è la presidenza del consiglio attraverso un’apposita commissione. «Mi pare che questo governo non voglia sostenere il settore osserva Carera -. Emendamenti sia della maggioranza che dell’opposizione sono stati dichiarati inammissibili. Sono state presentate interrogazioni parlamentari». Invano.
«Per noi significa sopravvivere annota Leonardo Sacchetti, direttore della fiorentina Novaradio nonché collaboratore del nostro giornale -. Quei rimborsi a fine annata arrivano a 25mila euro. Teniamo conto che come radio comunitaria (siamo 25-30 in Italia) dobbiamo autoprodurre l’80% del palinsesto. E facciamo progetti con casssintegrati, malati psichici, precari... Non portano pubblicità ma ci crediamo molto». E funzionano. Ma richiedono notevoli sforzi. «Salvo che nelle tv locali, sia di destra che di sinistra, i nostri appelli non hanno trovato ascolto», appunta amaro Sacchetti. «Queste mancate provvidenze spazzeranno via radio locali. E le loro frequenze resteranno a disposizione di grandi network». Tra i quali figura anche Mediaset.
Radio Popolare da Milano guida un network battagliero, orientato sulle varie sinistre, musicalmente vivace che, da questi tagli, si prende un robusto colpo ai polpacci. Comprende da Radio Fragola a Trieste a Radio Popolare Salento, da Radio Cento6 a Reggio Emilia a Radio Roccella Jonica. Include emittenti a forte tasso di informazione autonoma e combattive come la fiorentina Controradio, molto amata fino alla costa, e la bolognese Radio Città del Capo, per citare due capoluoghi di centrosinistra. Audiradio calcola che il network abbia 500mila ascoltatori al giorno, ma includendo le stazioni più piccole Danilo Di Biasio, il direttore, ne stima altri 100mila in più. «Su un fatturato di 3,5-4 milioni di euro l’anno perderemo 150mila euro almeno. Poco? Se finora siamo con l’acqua alla gola, l’acqua ci arriverà al naso. Perché spiega quello che costa è l’informazione: costa fare un’inchiesta, piudi tutto costa inviare un giornalista». Tanto per dare un’idea, per la diretta con la manifestazione per Emergency a Roma il network avrà speso «2mila euro». Con giornalisti pagati 1.200 euro al mese e già in cassa integrazione a rotazione, la vita si fa dura. «Dobbiamo rinunciare a dei servizi perché l’inviato costa. Vanno sì definiti in modo più stringente i criteri con cui dare questi soldi, anzi spesso vengono spesi male, ma qui non vengono affatto messe in discussione le false cooperative di giornali. Né quelle radio e tv espressione di movimenti politici di fatto inesistenti che nel 2008 hanno drenato da sole 16 milioni di euro su un totale di 30 milioni disponibili per 1.200 emittenti. Dati i fatti, sospettiamo che si voglia usare quest’arma economica per strangolare la libertà d’espressione». Con l’aggiunta che, sulla carta, potranno restarne strangolate (salvo salvataggi ad ho) anche molte emittenti locali a destra, magari collegate alla Lega al Nord o vicine all’area ex Alleanza Nazionale.
«Arrivare a pareggio di bilancio per noi è già una fatica appunta il direttore della romana Radio Città aperta Marco Santopadre -. Facciamo molte dirette, seguiamo i social forum, a marzo eravamo in Grecia, siamo andati a Rosarno. Come radio comunitaria inoltre non possiamo né vogliamo superare un tetto di pubblicità del 5% sull’intera programmazione, e noi stiamo all’1% perché rifiutiamo grandi gruppi e sponsor per essere pienamente indipendenti. Questi tagli indiscriminati significano farci perdere 13-14 mila euro indispensabili. Sono sforbiciate micidiali». Ne va, avverte, della sopravvivenza stessa dell’informazione libera. Ed è detto tutto.

il Fatto 25.5.10
La scuola ideale della Gelmini: supplenti precari e senza stipendio
Il ministro intanto pensa a posticipare l’inizio delle lezioni
di Caterina Perniconi

Sono precari, lavorano, se tutto va bene, 9 mesi l’anno, e da tempo non vengono più pagati. Per questa ragione l’esercito dei supplenti scolastici è in rivolta contro il ministro dell’Istruzione. Dopo il caso di Padova, denunciato dai presidi degli istituti in difficoltà, ormai il problema è diffuso a macchia d’olio in tutta Italia. “Non percepisco lo stipendio da febbraio – racconta Barbara, insegnante di una scuola media nel centro di Verona – il primo mese mi hanno pagata regolarmente, poi ci ha chiamati la preside e ci ha spiegato che i fondi da Roma non arrivano. Ha fatto il possibile, ha diviso i soldi che c’erano in cassa tra tutti, dandoci 400 euro a testa, ma da allora stiamo aspettando”.
Barbara è una supplente a chiamata, quest’anno ha sostituito una maternità che le ha permesso di lavorare da settembre a gennaio a carico del ministero, poi dell’istituto. “Un mese senza stipendio puoi resistere, ma poi ci sono il mutuo e le bollette da pagare, io sono sposata e anche mio marito lavora solo in alcuni periodi, in altri è in cassa integrazione. Per fortuna quest’anno ho insegnato per più di 6 mesi – spiega Barbara – perché questo mi permetterà di prendere la disoccupazione in estate”. Infatti il suo contratto scade il 9 giugno, ultimo giorno di scuola: “Pensate che le pagelle le consegnano il 12 e io, che sono coordinatrice di una classe, non potrò esserci”. In risposta ad un’interrogazione parlamentare dell’Italia dei Valori, Mariastella Gelmini ha fatto sapere che “la spesa per le supplenze temporanee è stata incrementata di ben 150 milioni di euro”. Soldi che le scuole non hanno ricevuto, anzi. Il taglio in 5 anni ha portato i finanziamenti per gli insegnanti a chiamata da 900 milioni a poco più di 300. “Il governo o ci ha mentito o marcia sulla pelle dei docenti supplenti – ha dichiarato Massimo Donadi, presidente dei deputati Idv – è gravissimo che Berlusconi continui a fare propaganda sulla pelle dei cittadini e a massacrare la scuola pubblica. Com’è stato per la crisi economica, anche con l’istruzione il governo ha detto che i soldi c’erano per poi tagliare col machete, colpendo un pilastro fondamentali del nostro futuro”.
E mentre i genitori fanno la colletta per garantire le supplenze brevi, il ministro dell’Istruzione sembra impegnato a trovare un metodo per ridurre le ore di lezione, aprendo alla proposta del senatore Pdl, Giorgio Rosario Costa, che chiede con un ddl l’inizio delle lezioni a ottobre: “Èuna proposta sulla quale si può discutere – ha detto la Gelmini – io sono molto aperta su questo tema perchè effettivamente il nostro Paese vive di turismo e oggi le vacanze per le famiglie non sono più concentrate a luglio e agosto”.
C’è chi si chiede se la decisione non sia soltanto una scusa: “Ma lo slittamento dell’inizio dell’anno scolastico è un altro modo per far cassa?” domanda Manuela Ghizzoni, capogruppo del Pd nella commissione Cultura della Camera. Infatti con lo spostamento a ottobre delle lezioni sembra difficile mantenere i duecento giorni che sanciscono la regolarità dell’anno scolastico, a meno di protrarre la didattica a giugno inoltrato. “Le aperture del ministro in questo senso – spiega la Ghizzoni – dimostrano che per questo governo la scuola non è una priorità, ed è seconda anche al turismo”.
L’ipotesi ha fatto infuriare anche la Lega nord, perché la scelta della data d’inizio lezioni compete alle regioni: “É una polemica inutile – ha dichiarato Mario Pittoni, capogruppo della Lega in commissione Istruzione del Senato – che senso ha discutere di una cosa che non spetta a Roma decidere?”.
I sindacati, invece, si dividono. Favorevole la Uil, contraria la Cgil: “Quella di Costa è un’idea stravagante – dice Mimmo Pantaleo, segretario Flc Cgil – non se ne capisce il senso a meno che, come sospettiamo noi, posticipare l’inizio dell’anno serva al ministero per prendere tempo per risolvere le mille incertezze in cui oggi versa il sistema”. Preoccupate invece le associazioni dei genitori, che chiedono di contro attività integrative: “Lo stop attuale da giugno a settembre – ha spiegato il Movimento italiano genitori – è già sufficientemente lungo e prolungarlo, oltre a problemi didattici, comporterebbe notevoli disagi organizzativi ai genitori che devono tornare al lavoro”.

Repubblica 25.5.10
Il paese dei balocchi
di Francesco Merlo

Da ministra del rigore a ministra del tempo libero, da sacerdotessa dello studium a fanatica dell´otium, da bacchetta che castiga a sbracata Lucignola che vuole mandare tutti i bimbi italiani nel paese dei balocchi.
Insomma «per favorire il turismo» la ministra dell´Istruzione Mariastella Gelmini vuole ritardare di un mese l´apertura dell´anno scolastico, dai primi di settembre ai primi di ottobre. Attenzione: non per ragioni didattiche né per qualche forma, sia pure contorta o distorta, di saggezza pedagogica, ma soltanto per allungare la vacanza, per aiutare l´industria del tempo libero, per fare divertire di più i ragazzi italiani che solitamente bastona e per fare riposare di più i professori contro i quali scaglia lampi ed emette tuoni.
Dopo avere maltrattato gli insegnanti come fannulloni ignoranti e avere insultato gli studenti come somari e pelandroni, dopo avere predicato il ritorno alla disciplina e al faticoso impegno, Nostra Signora dei Grembiulini ha dunque scoperto la virtù della pigrizia rilanciando il sogno di tutti gli asini del mondo e persino riproponendo quel modello sessantottino contro il quale si batte in maniera ossessiva: viva la strada che libera gli istinti e abbasso la scuola che li reprime.
Persino la Lega che solitamente incoraggia e istiga le numerose e creative riforme antimeridionali, xenofobe e anti eruopee della Gelmini, ha obiettato alla ministra che le mamme che lavorano non saprebbero letteralmente «dove mettere i bambini» e che la legge italiana impone agli insegnanti almeno duecento giorni di didattica l´anno, che è lo standard europeo del diritto allo studio.
Se non assistessimo all´agonia di un´istituzione che la ministra ha deciso di far saltare ogni mattina nel cerchio di fuoco potremmo limitarci a ridere per questa incoerente sparata a favore del torpore e della lentezza degli italiani che la ministra vorrebbe stiracchiare sino all´autunno, come ai tempi del libro Cuore, quando la scuola cominciava il 17 ottobre perché il signorino Carlo Nobis aveva bisogno di tre mesi di villeggiatura per rilassarsi e il muratorino, che era bravo a fare «il muso di lepre», ne aveva necessità per lavorare, come Precossi, figlio del fabbro ferraio e come Coretti che «si leva alle cinque per aiutare suo padre a portar legna e alle 11 nella scuola non può più tenere gli occhi aperti».
In realtà la Gelmini resuscita il morto per ammazzare il vivo. Non è vero che vuole tornare alla scuola di De Amicis perché coltiva nobili rimpianti, ma solo per ridurre i costi e malmenare ancora gli odiatissimi professori, i nuovi straccioni d´Italia. È per soldi che la Gelmini si è subito gettata su questa proposta del suo compagno di partito, il carneade Giorgio Rosario Costa, un commercialista di Lecce che sinora si era fatto notare proponendo l´istituzione dell´Albo Nazionale dei Pizzaioli, e che adesso deve averla sparata così tanto per spararla e non gli pare vero di essere stato cooptato dalla ministra nell´Accademia dei Saggi e degli Equilibrati.
Ormai gli italiani - anche quelli che la votano - hanno capito che la Gelmini ha una sola ossessione: tagliare, contabilizzare, chiudere e, insieme con l´agitatissimo Brunetta, umiliare e cacciare via. È infatti evidente che spostando l´inizio delle lezioni ad ottobre lo Stato risparmierebbe un mese di stipendio ai precari che per la ministra sono come la Comune di Parigi o la Moneda di Allende, le ultime roccaforti del potere sindacale e della sinistra miserabile. Più in generale se davvero riuscisse ad allungare le vacanze scolari di un altro mese la Gelmini taglierebbe le unghia a tutti gli insegnanti italiani contro i quali sta già per avventarsi la manovra economica con il blocco degli scatti automatici di anzianità e di qualsiasi rinnovo contrattuale. Che cosa vogliono questi fannulloni ai quali lo Stato ha regalato un altro mese di vacanze? Ecco un´idea di buon governo: togliere il lavoro a qualcuno per poi punirlo come scansafatiche, perdigiorno e parassita.
In realtà con l´ossessione che il libro e i processi formativi sono in mano alla sinistra, e con la missione di trasformare gli insegnanti nel nuovo sottoproletariato italiano la Gelmini aggredisce ogni volta che può il già malandato tempio attorno al quale si organizza l´Italia come comunità, il luogo che tiene in piedi la democrazia, lo studium appunto che - mai ci stancheremo di ripeterlo - vuol dire amore, passione e dunque vita: «A Barbiana tutti i ragazzi andavano a scuola dalla mattina presto sino alla sera tardi, estate e inverno, e non c´era ricreazione e non si faceva vacanza neppure la domenica».

il Fatto 25.5.10
Matrimoni misti, ecco l’integrazione di fatto
di Corrado Giustiniani

È la carica allegra dei 37 mila. Tanti sono in Italia i matrimoni con almeno un coniuge di nazionalità straniera: e cioè il 15 per cento delle nozze che si celebrano nel nostro paese, secondo la fotografia scattata per il 2008 dall'Ismu, la fondazione milanese specializzata in ricerche sull'immigrazione. Mentre le unioni con entrambi i coniugi italiani continuano a contrarsi (meno 6 mila nel 2008, su un totale di 247 mila matrimoni) quelle miste registrano un boom e sono uno dei segnali confortanti, assieme alle oltre 70 mila culle straniere e ai 700 mila figli di immigrati che frequentano le nostre scuole, di un'integrazione di fatto che nonostante tutto va avanti. A dispetto della scarsa o piuttosto inesistente volontà politica di introdurre norme innovative, per il diritto di voto amministrativo agli stranieri regolari che vivono con noi da almeno cinque anni, o per una cittadinanza veloce ai bimbi nati e ai minori cresciuti in Italia o, ancora, che accordino una durata più lunga al permesso di soggiorno dei loro genitori. Le 37 mila unioni comprendono naturalmente anche quelle in cui entrambi i coniugi sono immigrati (sono i cosiddetti matrimoni “misti-misti”: 12 mila, sempre nel 2008), e non necessariamente della stessa nazionalità, dimostrando con la loro scelta, in ogni caso, una volontà di radicamento in Italia. Sono più frequenti i matrimoni misti con sposo italiano e moglie straniera (18 mila), mentre assai meno numerosi (6 mila) sono i matrimoni con una “lei” italiana e un “lui” straniero. É romena la nazionalità femminile di gran lunga prevalente per lo sposo italiano (2.506 casi), mentre al secondo posto nella classifica di gradimento vengono le donne ucraine (1.940 convolate a nozze nel 2008). Ma attenzione alle brasiliane: in base ai dati assoluti sono al terzo posto (1.745 hanno sposato un italiano nell'anno di riferimento). Considerando tuttavia la loro più ridotta presenza nel nostro paese rispetto alle romene e alle ucraine, ecco che vantano il tasso di unioni con i nostri connazionali più elevato di tutte: il 65,5 per mille. Quando invece è lui ad essere straniero, allora primeggiano come sposi i marocchini, davanti ad albanesi e tunisini.
Nei matrimoni con entrambi i coniugi italiani prevale il rito religioso: soltanto nel 28 per cento dei casi si ricorre a quello civile. Come è facile immaginare, il quadro è più che invertito se il matrimonio avviene fra stranieri (le unioni civili sono ben l'89 per cento). Ma è assai raro che ci si sposi in chiesa anche quando uno dei due è italiano (qui i riti civili sono l'85 per cento). In nove casi su dieci, se i coniugi sono entrambi italiani, questo è il primo “sì” della loro vita. Nelle unioni miste, invece, la donna italiana tende otto volte su dieci a sposare uno straniero in prime nozze. Per il marito italiano la prevalenza delle prime nozze si limita a sei casi su dieci. Curiosi, e di fonte Istat – come quasi tutti quelli rielaborati dall'Ismu – i dati sull'età dei due coniugi. Se lo sposo è italiano, ha un'età media piuttosto elevata: 41 anni, otto in più di lei. Ma anche la donna italiana predilige un coniuge straniero più giovane: di un anno in media. Interessanti le conclusioni sul grado di istruzione. Generalmente pari, se i coniugi sono italiani. Ma nelle unioni miste ci troviamo spesso di fronte alla circostanza di una lei, straniera, laureata, alle prese con un marito italiano meno istruito.
Per avere un'idea di quanto si sia affermata la pratica dei matrimoni misti, si deve considerare che questi, nel 1995, erano appena il 2 per cento del totale: abbiamo dunque impiegato appena 13 anni per arrivare al 15. Stavolta non è l'Ismu ma l'ultimo Dossier statistico immigrazione della Caritas a ricordarcelo. Ma le unioni fra un coniuge italiano ed uno straniero, osserva la Caritas, sono più fragili, più soggette a separazioni e divorzi. Mentre infatti la durata media di una matrimonio fra italiani è di 14 anni, nei matrimoni misti si scende a nove.

il Fatto 25.5.10
La sfida dell’Usb alla Cgil
La crisi è più forte delle divisioni I sindacati di base alla fine si uniscono
250 mila iscritti e una linea intransigente: “Non far pagare il costo della recessione ai lavoratori”
di Salvatore Cannavò

Un "sindacato che serve", un sindacato che "connetta le lotte". Per questo si chiamerà Usb, Unione
sindacale di base, declinato anche in "unità, solidarietà, bisogni" ma decisamente ricalcato sul nome scientifico della "chiavetta" con cui connettersi oppure portarsi dietro la memoria. È nato lo scorso weekend, come esito di un processo di fusione iniziato circa due anni fa e, numeri reali alla mano, potrebbe essere il quarto sindacato italiano, a sinistra di Cgil, Cisl e Uil, distante politicamente da quell'Ugl di Renata Polverini ormai accreditata a ogni tavolo di concertazione ma anche sospettato di gonfiare a dismisura le tessere.
LA TREGUA
Qui gli iscritti sono 250 mila e sono stati rappresentati in questo congresso da 644 delegati che domenica hanno tenuto la loro sessione conclusiva e pubblica per celebrare quello che è stato definito "un evento". E, sia pure nelle dimensioni ridotte del sindacalismo di base, l'evento c'è stato. Perché dopo circa trent'anni di storia, dopo lotte importanti – nella scuola, nel pubblico impiego, nei trasporti, per una fase anche in grandi fabbriche – dopo molteplici fratture e mini-scissioni, il sindacalismo di base prova a invertire la tendenza, fondendo pezzi piuttosto importanti come le Rdb, molto attive nel Pubblico impiego, nella Sanità, tra i Vigili del Fuoco e l'Sdl, sindacato protagonista delle lotte all'Alitalia e nei trasporti locali ma anche alla Fiat di Cassino o negli enti locali. E poi settori della Cub, la confederazione unitaria di base che nella sua maggioranza non aderisce al nuovo sindacato che però è stata scossa dalla proposta. Ma nella giornata conclusiva, tenutasi al Teatro Capranica, completamente esaurito, hanno offerto più di una disponibilità anche altri due sindacati indipendenti con un certo peso: lo Snater (comunicazioni, Rai e Telecom) e la storica sigla dei macchinisti Orsa; entrambi, hanno spiegato, non aderiscono oggi solo per una questione di tempi ma si batteranno per convincere i propri iscritti a realizzare una fusione "calda".
SINDACATO METICCIO
L'Usb, come spiegato dagli interventi succedutisi, da quello introduttivo dell'ex coordinatore Sdl, Fabrizio Tomaselli a quello conclusivo del leader delle Rdb, Pierpaolo Leonardi, sarà un sindacato confederale ma organizzato, sul modello europeo, in due grandi comparti: pubblico e privato. Sarà un sindacato “meticcio”, cioè non soltanto occupato a unire lavoratori italiani e stranieri ma anche il non-lavoro, il nuovo precariato o i bisogni sociali diffusi come la casa (e avrà al suo fianco la sigla degli inquilini Asia). A entusiasmare la sala, l'intervento di Abubakar Soumahaka, uno dei nuovi dirigenti della novella organizzazione, proveniente dall'Africa, ottimo oratore e, a detta dalla Prefettura di Roma, come lui stesso ha raccontato, anche “ottimo sindacalista”. Un'espressione evidente di come già è, e forse di come dovrà essere sempre più, il nuovo sindacato, capace di recepire le profonde novità di un mondo del lavoro che, come ha spiegato Abu, “viene diviso in profondità dall'utilizzo che si fa del lavoro migrante contro i lavoratori italiani.
Per questo l'antirazzismo generico non basta più”. Un sindacato che, senza particolari esitazioni, si propone nettamente alternativo a Cgil, Cisl e Uil a cui si rimprovera una linea totalmente concertativa e decisamente schiacciata sia sul governo sia su Confindustria, come dimostra, spiega Leonardi, l'indecente contratto dei tessili rinnovato proprio sabato notte. Alternativi alla Cgil ma comunque attenti al dibattito che lì dentro si anima e infatti l'assemblea ha ascoltato con attenzione l'intervento della minoranza Cgil che è venuta a salutare la nascita di un sindacato che “sfiderà”, ha spiegato Fabrizio Burattini membro del direttivo nazionale Cgil, l'opposizione interna al più grande sindacato italiano nel suo obiettivo di cambiarne linea e impostazione.
IL PRIMO SCIOPERO
Molto fitta l'agenda che esce dal congresso di fondazione: già venerdì si terranno presìdi davanti alle banche e alle finanziarie per denunciare i veri protagonisti della crisi, mentre il 5 giugno è prevista una manifestazione nazionale a Roma, indetta assieme a un'altra sigla sindacale che ha scelto di non confluire nel nuovo soggetto, la Confederazione Cobas. E poi, sciopero degli aeroportuali il 7 giugno, sciopero dei trasporti locali l'11, sciopero del pubblico impiego il 14. Tutti scioperi che si sentiranno, attivati in luoghi importanti e in cui l'Usb gioca un ruolo di primo piano. E tutti all'insegna del “no alla crisi” e al tentativo di “farla pagare ai lavoratori”. “Ci hanno fatto fare sacrifici negli ultimi venti anni ha concluso Leonardi – per ridurre il debito pubblico che però è passato dal 103 per cento al 118 per cento. E allora, che li abbiamo fatti a fare questi sacrifici, chi ci ha guadagnato?”.

Repubblica 25.5.10
Il Guardian: "Pretoria isolata per l´Apartheid, voleva un arsenale nucleare"
La smentita di Peres: "Accuse infondate"
Quando Israele offrì l´atomica al Sudafrica
di Alberto Stabile

GERUSALEMME - Altro che "dottrina dell´ambiguità". La prova che Israele è una potenza atomica, secondo le rivelazioni del giornale britannico Guardian, sta nel fatto che nel 1975 l´allora ministro della Difesa, oggi Capo dello Stato, Shimon Peres offrì di cedere armi nucleari al ministro sudafricano P. W. Botha, anche se poi l´accordo tra i due governi non si realizzò per un problema di costi. A sostegno del suo scoop, il Guardian pubblica alcuni documenti scoperti in Sudafrica dallo studioso americano Sasha Polakov-Suransky, ma l´ufficio di Shimon Peres ha immediatamente smentito le rivelazioni definendole «prive di alcuna base nella realtà».
I misteri sono due. Uno è quello dell´arsenale nucleare israeliano, che lo Stato ebraico, in omaggio alla "dottrina dell´ambiguità", non ha mai ammesso (né negato) di possedere, ma che, secondo fonti straniere, ammonterebbe a 200 testate atomiche fra le più moderne e sofisticate. L´altro mistero è quello dei rapporti di collaborazione militare tra lo Stato ebraico e il Sudafrica dell´Apartheid, guidato fino al 1989 dal governo della minoranza bianca. «L´alleanza segreta» come recita il titolo del libro, in uscita in questi giorni negli Stati Uniti, scritto da Polakov-Suransky, cui si devono i clamorosi retroscena del Guardian.
Siamo negli anni Settanta. Vittima della sindrome dell´accerchiamento, il governo di Pretoria s´è da tempo lanciato in una folle corsa agli armamenti, ma non si accontenta di armi convenzionali. Vuole anche l´atomica e, secondo il Guardian, trova Israele disponibile a cedere il proprio know-how. L´arsenale atomico sudafricano arriverà a comprendere, a metà degli anni ‘80, sei bombe del tipo di quelle sganciate su Hiroshima e Nagasaki. Israele, affermano le solite fonti straniere, avrebbe fornito la tecnologia e gli esperti, il Sudafrica ci avrebbe messo l´uranio, di cui abbondano le sue miniere. Così fino al 1989 quando, caduto il regime dell´Apartheid, il nuovo governo sudafricano decide di smantellare tutto il proprio arsenale e di aderire al trattato di non proliferazione nucleare.
Il documento più significativo, pubblicato dal Guardian è la minuta top secret, degli incontri avvenuti il 21 marzo 1975 tra alti rappresentanti israeliani e sudafricani, tra cui il comandante delle forze armate sudafricane, Armstrong, che in quello occasione espresse l´interesse di Pretoria verso i missili israeliani Jericho se muniti di testata nucleare.
Al progetto Jericho sarebbe stato dato in seguito il nome convenzionale di Chalet e di «unità Chalet» parlano Peres e Botha quando, il 4 giugno del 1975, s´incontrano segretamente a Zurigo. Con Botha che chiede «un certo numero di unità Chalet.. a patto che sia disponibile il carico corretto», ovvero la testata atomica. E Peres che risponde che gli Chalet sono disponibili «in tre taglie». Nello stesso periodo, i due ministri firmano un´intesa che amplia notevolmente la cooperazione militare tra i due paesi, ma contiene la clausola della segretezza, perché, nel frattempo, il governo razzista di Pretoria è diventato per l´Occidente una presenza imbarazzante. Tutto falso, come sostiene il presidente israeliano?

Repubblica 25.5.10
Da una indagine europea risultiamo agli ultimi posti In diminuzione il consumo della pillola "del giorno dopo"
La usa regolarmente il 16% delle italiane

La classifica per regioni: al primo posto la Sardegna, Basilicata all´ultimo

irca 2 donne su 3 in Europa (66%) hanno provato, anche solo una volta, la pillola anticoncezionale. La percentuale è molto più alta in Germania, Francia e Svezia, dove raggiunge circa il 90%, molto più bassa in Grecia (24%), Ucraina (27%), Turchia (26%). L´Italia è allineata alla media europea con il 68% che dice di aver provato la pillola. In molte quindi hanno optato per questo mezzo contraccettivo, anche se solo un´europea su quattro (24%) lo assume. E´ emerso da una ricerca Gfk condotta in occasione dei 50 anni della pillola e presentata al Congresso europeo della contraccezione dell´Aja. La pillola anticoncezionale resta però il contraccettivo più utilizzato, seguita dal preservativo (23%), provato dal 71% delle donne.
La ricerca Gfk ha coinvolto in totale 24.320 donne fra i 15 e i 49 anni ed è stata condotta in 18 Paesi (17 europei più il Canada): Francia, Germania, Italia, Spagna, Gran Bretagna, Russia, Austria, Polonia, Olanda, Repubblica Ceca, Danimarca, Norvegia, Svezia, Turchia, Portogallo, Grecia, Ucraina. Dai dati risulta che un 23% delle donne però non utilizza al momento alcun contraccettivo: il 30% è incinta o desidera una gravidanza, il 15% non ha una relazione, il 10% crede di non poter avere figli, un 6% definisce se stessa o il suo partner infertile e l´8% è spaventata dai possibili effetti indesiderati dei contraccettivi (non specificatamente quelli ormonali).
In Italia la contraccezione ormonale è utilizzata dal 16% delle donne. Al primo posto per utilizzo della pillola c´è la Sardegna (31,1%), seguita da Val d´Aosta e Liguria, mentre agli ultimi posti ci sono Campania (7,9%) e Basilicata (7,6%). Restiamo al sesto posto in Europa per consumo di contraccezione di emergenza con 381 mila confezioni utilizzate nel 2008. Anche se lo scorso anno un segnale positivo dopo anni di crescita ininterrotta: una riduzione del 4,7% della pillola del giorno dopo.
(a. r.)

Repubblica 25.5.10
Le ragioni dei sentimenti
Per una civiltà degli affetti
di Michela Marzano

L´anticipazione/ Il testo della filosofa Michela Marzano sull´importanza delle emozioni e la necessità di "non addomesticarle"
"Le norme sociali impongono un controllo continuo su una sfera che invece deve poter esprimersi liberamente"
"Non bisogna mai dimenticare che dietro ogni pensiero c´è qualcosa che ci tocca nell´anima"

"Affetti" è la lettura che terrà stasera a Roma, al festival delle Letterature. Ne anticipiamo una parte.
Tutto ciò che accade ci tocca. Attraverso il filtro della nostra affettività. Attraverso una rete sottile di emozioni e di passioni che rinviano alla nostra intimità, ma che si trasformano a seconda del contesto sociale nel quale viviamo. Affetti ed emozioni parlano in prima persona. Ma si esprimono sempre all´interno di una trama di significati che sfugge al nostro controllo. Quando entriamo in relazione con gli altri, non possiamo mai uscirne completamente indenni. La nostra affettività si scontra con la realtà del mondo. Con la materialità del nostro corpo. Con la resistenza che gli altri oppongono al nostro desiderio. E il mondo non esita ad addomesticare la vita obbligandoci, molto più spesso di quanto non si creda, a reprimere i nostri sentimenti, a renderci conformi alle aspettative degli altri, a sottometterci al giudizio della società.
Che si tratti della gioia o del dolore, l´espressione dei nostri affetti dipende dagli usi e dai costumi della comunità cui apparteniamo. Anche il piacere e il desiderio non sfuggono mai completamente al rimprovero di coloro che ci circondano: le nostre emozioni devono emergere rispettando i codici culturali del gruppo cui apparteniamo. Lo sguardo attento dei nostri genitori, dei nostri figli, dei nostri partner e dei nostri colleghi ci spinge all´uniformità. Come conciliare allora autenticità e conformismo, unicità e identità, passioni e ragioni?
L´affetto è un moto dell´anima. Un movimento spontaneo. È attraverso gli affetti che ci leghiamo a qualcuno o a qualcosa. Che si tratti di un´azione, di un evento o di un semplice gesto, tutto quello che facciamo possiede una coloritura affettiva. La tenerezza, l´attaccamento, la devozione, l´amore, la rabbia, l´invidia, la gelosia… tutto rinvia all´affettività, ai processi di strutturazione psichica che cominciano al momento della nascita e si prolungano poi per tutta la vita. L´affetto si vive, si sente. Più di quanto non si pensi e non si dica. Anche quando ci sforziamo di tradurre in parole quello che proviamo. Anche quando la parola cerca di contenere i nostri affetti per evitare che sfuggano, per investirli della nostra soggettività. Anche quando il discorso si sforza di "trattenere" l´istante per fornirgli la traccia di un´iscrizione. Ma come vivere e sentire i propri affetti quando le norme sociali e familiari sembrano volerli addomesticare?
Le regole le conosciamo tutti. Ognuno di noi sa che, per poter vivere nel mondo, deve imparare a costruire relazioni durabili e deve opporsi alla vacuità degli affetti. Ognuno di noi è consapevole che, per non essere considerato schiavo delle proprie passioni, deve evitare di cedere agli eccessi delle emozioni, imparando che solo la ragione e l´esperienza ci permettono di distinguere il Bene dal Male. Crescere significa fondare una famiglia e accettare le regole del vivere-insieme. Maturare, quando si è una donna, significa assumere ciò che alcuni continuano a chiamare la "necessità biologica" del procreare e del prendersi cura dei figli.
(...) La vita è movimento. È nel movimento che ognuno di noi esprime la potenza del proprio essere e cerca di lasciare una traccia di sé, attraverso i propri gesti e i propri discorsi. Parole e affetti si incrociano costantemente: parole che dicono gli affetti; affetti che fanno le parole. «Dietro ogni pensiero si nasconde un affetto», scriveva Nietzsche. I nostri pensieri sono sempre segni di un gioco più grande di noi, di una lotta di affetti e di emozioni che non possiamo controllare. A differenza di Cartesio, secondo il quale la forza dell´anima consiste nel vincere le emozioni e arrestare i movimenti del corpo che le accompagnano, Nietzsche considera gli affetti come le radici profonde del nostro agire.
Il nostro essere al mondo, per Nietzsche, è sempre caratterizzato da mutevoli tonalità affettive, anche quando non ne capiamo il significato profondo. Lo stato di servitù nel quale si trova l´uomo non è legato alla dipendenza emotiva. Al contrario. La servitù è il prezzo che si paga quando ci si illude di poter controllare i nostri affetti, quando si pensa che la ragione deve essere sovrana, quando si cerca la saggezza estendendo il dominio del pensiero chiaro e distinto. «La ragione è e deve essere schiava della passioni», aveva già detto Hume. La repressione degli affetti ha come conseguenza immediata lo sviluppo delle nevrosi, spiegherà più tardi Freud.
Vivere significa essere nell´azione, aderire all´esistenza, adottare un´attitudine particolare. La vita non ha un significato univoco. Ha il senso che ciascuno di noi è capace di darle. «Ama la vita più del suo senso, e anche il senso ne troverai», scrive Dostoevskij nei Fratelli Karamazov. Ma come trovare il senso della vita quando le norme sociali l´addomesticano, quando la famiglia e la società non permettono ai nostri affetti di emergere liberamente? È possibile vivere in società senza sradicare definitivamente i nostri affetti?
Ogni essere umano ha un percorso storico complesso. Nessuno di noi è un semplice agente razionale, capace di scegliere e agire solo dopo aver calcolato in modo esatto i costi e i benefici delle proprie azioni. Quando entriamo in relazione con gli altri, lo facciamo sempre a partire dalla nostra interiorità affettiva. Che piaccia o meno, siamo tutti in balia dei nostri affetti e delle nostre emozioni. Anche se l´"astuzia della ragione" consiste nel farci credere che sappiamo sempre, dall´inizio alla fine, ciò che vogliamo, esiste un´opacità strutturale del nostro desiderio che ci impedisce di sapere veramente quello che vogliamo, di volere veramente quello che diciamo di volere.
(...) Nonostante tutto, la questione cruciale che si pone di fronte ognuno di noi è sempre la stessa: come conciliare ragione e sentimenti? Come contenere i nostri affetti senza addomesticare la vita? Come vivere in società senza rinunciare ai nostri desideri? «Ai posteri l´ardua sentenza», scriveva Manzoni. Cerchiamo, però, di non dimenticare mai che tutto ciò che accade ci tocca, ci emoziona, è un moto dell´anima, e che, nonostante tutto, dietro ogni pensiero si nasconde un affetto.

Repubblica 25.5.10
"Il cinema italiano c’è all´estero lo sanno. E noi?" Parla il protagonista di "La nostra vita" di Luchetti reduce dal successo al Festival di Cannes: "Il premio è un riconoscimento al film più che a me. Un altro passo dopo ‘Il divo´ e ‘Gomorra´"
di Paolo D’Agostini

Per chi si fosse affidato solo al Tg1 ecco che cosa ha detto Elio Germano quando lo hanno premiato a Cannes: «Siccome i nostri governanti in Italia rimproverano sempre al cinema di parlare male della nostra nazione, io volevo dedicare questo premio all´Italia e agli italiani, che fanno di tutto per rendere l´Italia un paese migliore nonostante la loro classe dirigente».
Elio Germano: incidente o censura?
«La cosa grave, che racconta il clima di questo periodo, è che venga spontaneo sospettare che non sia stato un incidente, come probabilmente è stato. A dirla lunga è che dubitiamo della libertà dei giornalisti e dell´informazione».
Temere tanto un film e un attore sarebbe proprio grave.
«Infatti. Il dispiacere è che il mio venga interpretato in modo distorto come un attacco ai politici. Io ce l´ho con qualsiasi potere distante dai cittadini, dal Parlamento ai sindacati (purtroppo). Una distanza che dobbiamo colmare, maturando una coscienza di società civile che ci manca. La vera notizia è che l´Italia ha portato a casa un riconoscimento importante. Perché si dà tanto peso alle parole di un povero attore, invece di gioire per un successo italiano?».
Perché La nostra vita, e in particolare il suo personaggio, comunicano una sensazione speciale, di novità e di verità?
«Non posso fare a meno di sottolineare l´aspetto tecnico. Invece che ricostruire un mondo dentro l´inquadratura, il regista Daniele Luchetti ha fatto l´opposto. Ha creato un mondo che vive e dove le cose accadono, la macchina da presa deve inseguirlo e spiarlo. Come se fosse un documentario. È molto faticoso ed è possibile solo con la forte partecipazione e condivisione da parte di tutti. Ecco perché "passa" allo spettatore una così forte vitalità».
Il film rappresenta un ambiente sociale senza tesi precostituite: autentico, nel bene e nel male.
«Questo è stato lo sforzo. Senza prendere posizione, facendo parlare da soli ambiente e personaggi. Senza forzature, senza la pretesa di far aderire le situazioni ai pregiudizi che ciascuno porta con sé, o alla rigidità ad ogni costo della sceneggiatura. Niente, a partire dall´edilizia con i suoi cinismi e le sue illegalità, è inventato».
Disorienta una rappresentazione della classe operaia così spoglia di luoghi comuni di sinistra?
«Forse. È un film che sta vicino al mondo che racconta e non gli sta sopra, non lo osserva dall´alto. Si offre allo spettatore valorizzando la grande possibilità che ha il cinema: l´emotività, l´essere qualcosa che ci riguarda. E non un giudizio».
L´apice è nella scena in cui il suo Claudio, al funerale della moglie, canta a squarciagola, singhiozzando disperatamente, Anima fragile di Vasco Rossi.
«Quella scena è indicativa del "recitare il meno possibile". Non era previsto che io cantassi. È successo, si è creato un clima. La vita, l´espressione emotiva - non parole, non concetti - è entrata nel set. Qualcosa di raro che può succedere solo se tutti sentono davvero quello che si sta facendo insieme. Già l´esperienza vissuta sul set mi sarebbe bastata come premio».
Ancora non si è capito se lei è un attore molto tecnico o al contrario molto "naturale".
«Non è così importante stabilirlo. Il mestiere deve esserci ma diventa interessante quando si sposa con la vita e le emozioni personali. Almeno per me. E non vale solo per gli attori».
Tutti i suoi personaggi sono unificati dalla rabbia. Sono aspri, incazzati e carichi di sofferenza.
«Forse la linea che li collega è la schizofrenia dell´uomo moderno tra l´essere e l´essere pubblico, la differenza tra come si è fuori e come si è a casa».
Elio Germano da dove viene?
«Sono il primo nato a Roma, a settembre compio 30 anni. La famiglia è arrivata dal Molise dopo la guerra con mio nonno. Uno zio missionario del Bangladesh. Sono cresciuto a Monteverde, liceo scientifico, ma già a 14 anni ho iniziato a frequentare una scuola di teatro. Poi l´hobby è diventato passione. E anche la sola cosa che ho imparato a fare. A parte suonare con il mio gruppo Le bestie rare».
Gli attori italiani che hanno ricevuto lo stesso premio si chiamano Tognazzi, Mastroianni, Volonté, Gassman ma tutti quando erano già più che maturi. Lei non ha ancora trent´anni.
«È cambiata l´attenzione dei festival nel cercare e scoprire le novità. Quindi è merito mio fino a un certo punto. Ma soprattutto credo che il premio sia al film più che a me. E voglio anche sentirlo come incoraggiamento al cinema italiano. Un altro passo dopo Il divo e Gomorra. Da accogliere con orgoglio. Basta, anche tra noi che il cinema lo facciamo, di sentirci fratelli minori. Un´iniezione di fiducia: la cosa più importante al di là delle polemiche, al di là della mia personale carriera. Che non esisterebbe se intorno ci fosse il vuoto».

domenica 23 maggio 2010

il Fatto 23.5.10
Reporters sans Frontières : pubblicheremo tutto sul nostro sito
“Ospiteremo ciò che sarà vietato”
Rsf: sul nostro sito gli atti illegali in Italia. Un segnale al governo
di Stefano Citati

S iamo pronti: non appena il disegno di legge sulle intercettazioni sarà approvato lì da voi, il nostro sito sarà disponibile ad accogliere tutti quei documenti che non saranno più legali da voi. Così saranno disponibili e si potranno consultare anche dall’Italia i contenuti proibiti. È un aiuto e un servizio che troviamo giusto e ci fa piacere fare, anche per i nostri confreres italiani, i nostri colleghi che si trovano sempre più in difficoltà. Ed è inoltre un’iniziativa che potrebbe anche portare il vostro governo a riflettere e – magari – ad apportare delle modifiche per rendere meno scandalosa questa legge”. Jean Francois Julliard, segretario generale di Reporters sans frontières conferma da Parigi al Fatto Quotidiano la volontà dell’organizzazione internazionale per la difesa della libertà di stampa di aprire il sito www.rsf.org alla pubblicazione degli atti giudiziari che saranno messi fuorilegge dalle nuove norme stabilite dal governo. Non temete di aprire un contenzioso legale con la giustizia italiana?
Nessun timore. Siamo curiosi di vedere come può andare. Intanto noi apriamo il sito, come avevamo preannunciato il 3 maggio, in occasione della Giornata mondiale per la libertà di stampa, e poi staremo a vedere le conseguenze. Prima di tutto la pubblicazione su un sito straniero comporterà risposte da parte della vostra giustizia con modi e tempi che non sono scontati. E poi Rsf è pronta ad affrontare le conseguenze anche legali di questo gesto, la cui importanza e valore valgono certo la pena. È una risposta di civiltà nei confronti di una legge che è evidentemente retrograda, stupida, miope e che si dimostrerà controproducente. Non ci possono essere altri giudizi per quello che è un evidente attentato alla libertà di stampa.
Cosa possono fare i giornalisti italiani contro questa minaccia? I colleghi italiani hanno già fatto molto in questi anni e in questi tempi tutt’altro che facili per i media e per l’indipendenza della loro professione. Molti hanno continuato a lavorare nonostante le difficoltà, e non penso solo a Berlusconi, ma anche e soprattutto alla mafia, alla criminalita organizzata. Certo, l’Italia non può essere paragonata ai paesi per cui Rsf si impegna da tempo e costantemente, come le dittature del Terzo Mondo, ma è vero che nelle nostre classifiche sulla misura delle libertà di stampa e le condizioni di sicurezza e lavoro dei giornalisti il vostro paese occupa ormai stabilmente le posizioni di coda delle nazioni occidentali. Allo stesso tempo l’Italia è rappresentante di un fenomeno negativo europeo: ci sono paesi – mi vengono in mente la Bulgaria, la Slovacchia, ma anche la “mia” Francia in questi anni di presidenza Sarkozy – dove gli indicatori sulle condizioni che riguardano i media sono in peggioramento e si assiste a un’erosione delle libertà con aggressioni più o meno costanti e gravi.
Quali suggerimenti ha per continuare il contrasto a questa legge e mantenere alta l’attenzione sulla vicenda? I confreres italiani devono poter contare sull’appoggio dei colleghi europei. Si deve poter creare una fratellanza tra i giornalisti dei diversi paesi europei e sviluppare una sensibilità e solidarietà comune, grazie alla quale il mutuo sostegno in situazioni di difficoltà e critiche per la libertà di stampa sia garantito e automatico. Una rete che permetta di far “illuminare” i casi critici di un paese dai mezzi d’informazione degli altri Stati, in modo da non far mai cadere l’attenzione e “abbandonare” i colleghi in prima linea. In fin dei conti con i nuovi mezzi d’informazione ciò può avvenire rapidamente e in modo capillare, senza che nulla,
o quasi, sfugga e venga sottovalutato e si possono usare i media degli altri paesi come uno specchio che rifletta e rimandi la situazione nel paese d’origine. Dandoci una mano l’un l’altro renderemo ben più dura la vita di chi vuole il nostro silenzio.

il Fatto 23.5.10
Emergenza immigrazione? Quando serve
Maurizio Ambrosini. L’esperto di processi migratori: “Ora all’improvviso per le tv governative c’è sicurezza”
di Corrado Giustiniani

I mprovvisamente, cala il sipario sugli immigrati. Non se ne parla quasi più, non sono più un problema. La lotta contro i clandestini è stata vinta, ripete trionfante da tutte le tribune il ministro dell’Interno Roberto Maroni. “Soprattutto si parla meno di criminalità e devianza legata agli immigrati. Un silenzio punteggiato da improvvisi scoppi di visibilità, come Rosarno o via Padova a Milano, con lo scontro tra sudamericani e nordafricani e l’egiziano rimasto sul campo”, spiega Maurizio Ambrosini, uno dei più acuti esperti di immigrazione, docente di Sociologia dei processi migratori all’Università di Milano e autore di saggi come Richiesti e respinti, appena uscito per Il Saggiatore.
Come si spiega l’altalena di eccessi e silenzi?
Le analisi dell’Osservatorio di Pavia ci dicono che l’Italia è il paese in cui si parla più di cronaca nera in tv, e molto spesso questa viene legata all’immigrazione. Soltanto da noi un tg delle 20 annuncia: “Violentata da uno straniero”. Ma questa pressione mediatica è calata dopo il 2008, risalita prima delle elezioni regionali del 2010 e discesa nuovamente adesso. Oggi il governo e le tv ad esso legate conducono l’operazione opposta: convincere tutti che il paese è diventato sicuro.
Ed è vero, che è più sicuro?
Il ministero dell’Interno ha fatto sapere che negli ultimi due anni i reati si sono ridotti dell’11%. Ma non dice che la diminuzione è in corso da diversi anni. La devianza degli immigrati, poi, è proporzionalmente diminuita per due semplici ragioni: sono diminuiti gli irregolari perché la Romania è entrata nell’Unione europea e per la sanatoria di 300 mila persone (formalmente colf e badanti) del settembre 2009. Chi ha il permesso di soggiorno entra in una condizione meno marginale ed è meno esposto al rischio di devianza.
Ma davvero i cosiddetti clandestini sono spariti? Assolutamente no. Si sono semplicemente ridotti, rispetto al decreto flussi del 2008, quando potevano essere stimati in 750
mila. Oggi, secondo i calcoli del professor Giancarlo Blangiardo dell’Ismu sono poco sopra i 500 mila.
Merito della politica dei respingimenti in mare? Macché! Prendiamo l’anno di picco degli sbarchi, il 2008, con 36 mila. Bene, questi non costituivano che il 10-12 per cento degli arrivi irregolari nel nostro paese. Averli ridotti del 90 per cento nel 2009, significa dunque poco.
E da dove e come giungono, allora, i migranti? In autobus dall’Europa, in aereo dal Sudamerica e dalla stessa Africa. Ma non sono irregolari in partenza, perché la grande maggioranza entra con visto turistico e diventa irregolare dopo. Oltre il 60% degli attuali regolari ha seguito questo percorso, ma non lo si vuole rivelare.
Merito di un giro di vite sulle espulsioni? Anche in questo caso il governo vende fumo. Di espulsioni se ne fanno assai poche. Nel 2008 sono state appena 18 mila, ovvero il 3% dei clandestini stimati allora. Quanto ai Centri di espulsione, hanno 1.160 posti, quindi la decisione di allungare da due a sei mesi la custodia si rivela propagandistica. Vengono trattenuti nei Cie solo in pochi e nel 2008 solo il 41% di loro è stato espulso. Frattini favoleggiava di voli congiunti con altri Stati per riportare i “clandestini” in patria: ne è stato organizzato solo uno, verso la Nigeria. Possiamo convivere con oltre 500 mila irregolari?
Di fatto lo stiamo facendo, ma non è una politica lungimirante. L’aumento della legalità richiede altre politiche. L’Italia in 22 anni ha fatto sei sanatorie. Berlusconi è il più grande regolarizzatore d’Europa: ha battuto Zapatero, sanando 1 milione di clandestini. Ventidue Stati dell’Ue su 27 hanno varato sanatorie negli ultimi dieci anni, regolarizzando da 5 a 6 milioni di immigrati.
Non basta insomma sanare colf e badanti... Capita che, nella stessa famiglia, lei colf può restare in Italia, e il marito operaio edile rischia di essere sbattuto fuori. Quali altre misure raccomanda?
Agevolare i ricongiungimenti familiari, come si fa in tutta Europa: sono arrivi regolari che creano stabilità psicologica. Il governo, invece, alza l’asticella del reddito e dei requisiti di alloggio. Crea stabilità anche la possibilità di professare la propria religione. Ecco perché negli Usa costruiscono tanti luoghi di culto.
Ma con la crisi, gli immigrati non lasceranno il paese? La Spagna ha tentato di incoraggiare i rientri, ma senza successo. Nessuno dopo aver investito tutta la sua esistenza, torna in patria con un fallimento.

Repubblica 23.5.10
Un muro sotterraneo attraverso la solitudine di Gaza
di Alberto Stabile

Al confine tra l´Egitto e la Striscia, protette da blindati e torrette di guardia, potenti trivelle scavano in profondità. Stanno costruendo una barriera per tagliare il traffico di armi attraverso i tunnel Ma là sotto passano anche elettrodomestici, animali, viveri, automobili: tutto quello che rende meno dura la vita dei palestinesi

RAFAH. Qui la guerra è parte del paesaggio. E non solo perché gli aerei israeliani ogni uno e due fanno il tiro al bersaglio con i tunnel che attraversano in profondità il confine tra la Striscia di Gaza e l´Egitto. Quel che succede sulla parte egiziana di Rafah non è più rassicurante. Protette da mezzi blindati, torrette con i tiratori scelti, nidi di mitragliatrici, potenti trivelle bucano il terreno fra le palme. Lunghe travi d´acciaio ondeggiano sospese dalle gru prima di finire inghiottite dalla sabbia. Così, la barriera sotterranea che il governo egiziano ha deciso di costruire per bloccare il contrabbando va mettendo le sue radici. E i capi di Hamas, padroni della vita e della morte di un milione e mezzo di palestinesi, gridano al tradimento contro i governanti del Cairo.
La sensazione, girando per le strade di Rafah, è di trovarsi in una retrovia. E come in ogni retrovia, fioriscono i traffici, concentrati, soprattutto, sulla piazza principale, «la nostra Porto Said», dice la guida, una sorta di duty free a cielo aperto dove sono esposte le merci che arrivano dai tunnel: elettrodomestici e computer, generatori e macchine agricole, dispensatori di acqua minerale e pezzi di ricambio d´ogni genere, animali di tutti i tipi, pecore, asini, pappagalli rari, stoffe, vestiti, tute sportive e naturalmente benzina, gasolio, combustibili vari.
Mancano le armi che, attraverso i tunnel, vanno ad irrobustire l´arsenale di Hamas. Ma quello è un mercato che non si mostra al grande pubblico. Tuttavia, è proprio per bloccare il traffico di armi che, dopo l´operazione "Piombo fuso", Stati Uniti e Israele hanno deciso di mettere in mora il governo egiziano. I militari americani hanno elaborato l´idea di costruire una barriera sotterranea, munita di sensori, che i tunnel non potranno superare, almeno sulla carta. La Germania ha offerto la propria tecnologia. Il Congresso degli Stati Uniti ha finanziato il progetto. A quel punto, il rais Hosny Mubarak ha deciso di dare il via ai lavori, anche perché, nel frattempo, i rapporti tra Il Cairo e Hamas si erano fortemente deteriorati (con accuse egiziane agli islamisti di aver ordito, assieme agli Hezbollah libanesi, un complotto per gettare il paese nel caos).
Questo, il contesto in cui è stato concepito il muro egizio. Ma alla gente di Gaza, cioè alle decine di migliaia che dai tunnel traggono di che vivere e alle centinaia di migliaia che grazie ai tunnel possono mantenere un livello di vita e di consumi appena al di sopra dei «bisogni umanitari», pur sempre garantiti dalle organizzazioni internazionali, degli aspetti politici e militari di questo mercato sotterraneo importa poco e niente.
Per la stragrande maggioranza del milione e mezzo di palestinesi di Gaza i tunnel sono la vita. Dai cunicoli che si aprono tra le macerie di Rafah e sfociano in Egitto non dipendono soltanto le ambizioni dei politici ma passano anche i sogni della povera gente: un abito da sposa, generalmente made in Turchia, una motocicletta, generalmente made in China, un condizionatore d´aria, generalmente made in Corea. Tutte cose che, esorbitando dal «livello umanitario», non supererebbero mai l´embargo israeliano, come non l´hanno superato i quaderni e le matite dell´Unicef bloccati per mesi al di là della frontiera.
Ma il vero business dei prossimi mesi saranno le automobili: «Upon request», ci assicura Mahmud Abu Raya, il quale traffica con i tunnel sin dal 2001, quando, ricorda, «cominciammo con le armi perché era scoppiata la seconda Intifada e per ogni carico di diverse tonnellate, si arrivava a guadagnare anche duecentomila dollari, mentre oggi il guadagno basta appena a far campare la famiglia».
«Upon request», spiega Mahmud, «vuol dire che chiunque abbia bisogno di una macchina nuova andrà dall´agente del tunnel il quale gli mostrerà il catalogo delle auto disponibili dall´altra parte del confine e la riceverà nuova, così come esce dalla concessionaria». C´è un solo problema, par di capire, ma non è insormontabile: l´auto costerà il doppio del suo valore di mercato, perché questo è il sovrapprezzo che si paga ai signori dei tunnel: il cento per cento del valore d´ogni cosa importata. L´economia sotterranea di Gaza, dunque, fiorisce e si espande. Si dice che un tunnel di un metro e venti d´altezza per un metro e venti di larghezza, lungo 700-800 metri costi fra i 180mila e i 250mila dollari, ma l´esercito delle formiche sembra in grado d´investire molto danaro per migliorare la rete delle gallerie sommerse.
Andando sulla Philadelphy Road, la terra di nessuno che separa la Striscia dall´Egitto, ci si può rendere conto facilmente delle dimensioni raggiunte dal business. Coperti da tendoni di plastica bianca stesi tra mucchi di sabbia e terra di riporto per nasconderli agli aerei israeliani, una miriade di piccoli cortili, alcuni dei quali chiusi da grate di ferro, permettono l´accesso ai tunnel. Gli statistici del luogo ne contano 1.050 che, assicura il sindaco di Rafah, Issah Nashas danno lavoro a quindicimila persone. Un´industria.
Mahmud, un gigante dall´aria sorniona, di tunnel ne gestisce due e un terzo ne ha in costruzione. Al più grande si accede attraverso una piattaforma circolare di un metro e cinquanta di diametro che viene calata da un montacarichi elettrico fino a diciannove metri di profondità. Scendiamo, appoggiandoci a una ringhiera di metallo che serve di solito per legarvi gli animali. Giunti alla base, si apre un lungo cunicolo quasi ad altezza d´uomo, illuminato da lampade al neon poste sui due lati della galleria. Date le condizioni generali, si direbbe una soluzione confortevole ed efficiente.
Nell´altro tunnel, quello in costruzione, seduti su un seggiolino di plastica che sembra un trapezio da circo, le mani aggrappate ai cavi, salgono e scendono sospinti dal montacarichi giovani scavatori che indossano pantaloni alle ginocchia. Una macchina pompa ossigeno a ventiquattro metri di profondità. Un uomo sta di guardia sulla bocca del pozzo, pronto a dare l´allarme in caso di crolli. In quattro anni, di giovani come quelli che risalgono dal buio per rilassarsi davanti a una tazza di tè ne sono morti centotrentaquattro. E questo per ottanta shekels al giorno, quaranta euro, niente, rispetto alla paga di cento dollari al giorno di qualche anno fa, ma pur sempre una fortuna nella miseria di Gaza.
Dall´altro lato del confine assicurano, però, che i tunnel hanno i giorni contati. Secondo le indiscrezioni trapelate sul progetto, la barriera di metallo che neanche l´esplosivo potrà perforare, un brevetto del corpo dei genieri americani, dovrebbe bloccare il passo degli scavatori. I sensori collegati al muro dovrebbero attivare le pompe che immetteranno imponenti masse d´acqua di mare rendendo la terra friabile.
Le proteste di Hamas, riprese e amplificate dai Fratelli musulmani, l´unica vera opposizione contro il regime egiziano, che ha accusato Mubarak di aver «voltato le spalle ai palestinesi», non hanno intimidito i governanti del Cairo. «Noi non abbiamo voltato le spalle a nessuno - ha replicato il ministro degli Esteri, Abul Gheit - al confine di Rafah è in gioco la sovranità dell´Egitto sul proprio territorio».
Nel frattempo i lavori proseguono. Pare che sia stato ultimato il primo chilometro dei dodici o tredici lungo i quali correrà la barriera sotterranea a una profondità dai diciotto ai trenta metri. Ma per i commercianti e gli imprenditori di Gaza sopravvissuti all´occupazione, alla guerra civile, al blocco dei valichi e all´operazione "Piombo fuso" non è ancora venuto il momento di fasciarsi la testa. «Alla fine gli egiziani non faranno niente, cercheranno soltanto di prendere tempo - dice, sicuro di sé, Mamun Huzundar, che con le sue piccole aziende dà lavoro a centoventi dipendenti - E se anche dovessero fare la barriera, qua è il problema? I tunnel le passeranno sotto. È solo questione di soldi, ma quello che tutti devono mettersi in testa è che noi dobbiamo sopravvivere».

l’Unità 23.5.10
Chomsky: Israele è paranoico. E va in visita da Hezbollah

Per l'accademico e esponente della sinistra radicale Usa Noam Chomsky Israele è «isterico e paranoico», ma è difficile che scatenerà una guerra contro Hezbollah: «se gli israeliani useranno la testa non
lo faranno». L'intellettuale ebreo americano, respinto da Israele giorni fa, è andato nel Libano meridionale, dove il movimento Hezbollah, che gli Stati Uniti considerano come terrorista, sta celebrando il decimo anniversario della liberazione dall' occupazione militare israeliana. Chomsky ha partecipato alla cerimonia di inaugurazione di un museo dedicato a Hezbollah e alle sue azioni militari. Il responsabile di Hezbollah per il sud del Libano, sheikh Nabil Qaouq Qaouq, è in allerta per le manovre difensive israeliane di oggi e ha detto che «in caso di una nuova aggressione contro il Libano, gli israeliani non troveranno posti per nascondersi».

il Fatto 23.5.10
Il caso Chomsky e la democrazia in Israele
di Carlo Tagliacozzo

Il caso dell’ingresso negato a Chomsky in Israele e Palestina merita qualche considerazione. Non è un caso isolato, ma trattandosi di un personaggio di altissimo profilo ha avuto l’attenzione dei media. Centinaia e centinaia di giovani e non giovani attivisti che vogliono portare la loro solidarietà ai palestinesi vengono respinti all’ingresso in Israele e per 5 anni non possono più andarci. Ma il caso Chomsky ha una sua specificità: si tratta di un accademico della più alta istituzione americana, il MIT. Gli israeliani e i loro sostenitori, ma anche larghissima parte dei loro critici dinanzi alla proposta del boicottaggio accademico si inalberano inorriditi in nome della libertà di ricerca. Nel caso di Chomsky si è applicato un boicottaggio individuale, in quanto persona non gradita che si recava nella Palestina occupata e non in Israele. Un esempio che dovrebbe far riflettere quanti sostengono che Israele sia “l’unica democrazia in medio oriente”.