giovedì 24 dicembre 2015

Repubblica 24.12.15
L’arma di Francesco per la pace nel mondo
Le conclusioni del Sinodo e il Giubileo indicano che cosa il pontefice mette al centro della cristianità. È una vera rivoluzione per realizzare l’incontro con la modernità
Misericordia
di Eugenio Scalfari


Il Sinodo si è chiuso in questi giorni e contemporaneamente si sono aperte le porte delle cattedrali e delle chiese di tutto il mondo cattolico per il Giubileo della Misericordia. Questa parola, misericordia, è stata messa da papa Francesco al centro della vita cristiana. Lo è sempre stata, ma non con questa centralità. Cito le frasi usate in proposito da Francesco perché sono molto significative e, leggendole con la dovuta attenzione, ci fanno comprendere con esattezza il senso del suo pontificato.
«Gesù è la Misericordia fatta carne, cioè rende visibile ai nostri occhi il grande mistero dell’Amore trinitario di Dio. Gesù Cristo è il Dio misericordioso. Anche la necessaria opera di rinnovamento delle istituzioni e delle strutture della Chiesa è un mezzo che deve condurci a fare l’esperienza viva e vivificante della misericordia di Dio. Se dovessimo anche per un solo istante dimenticare la misericordia ogni nostro sforzo sarebbe vano
perché diventeremmo schiavi delle nostre istituzioni e delle nostre strutture, per quanto rinnovate possano essere. Saremo sempre schiavi».
Il 10 dicembre scorso ebbi dal Papa un’inattesa telefonata. Era tornato il giorno prima dal suo viaggio in Africa dove aveva aperto la prima porta del Giubileo. La telefonata cominciò con queste sue parole: «Pronto, sono un rivoluzionario ». Poi mi raccontò la sua esperienza nelle regioni africane che aveva appena visto e dei milioni di fedeli che l’avevano accolto, ma quella parola l’aveva presa da un mio articolo in cui lo designavo così e lui ci si era riconosciuto.
Rivoluzionario va ben oltre la parola riformista e lui lo è e lo spiega quando, nella frase sopra citata, disse che Cristo è il Dio dell’amore e della misericordia e più oltre che se ci scordiamo per un solo istante della misericordia diventeremo schiavi delle istituzioni quand’anche fossero state riformate e rinnovate.
Questo insegnamento non è soltanto religioso, è anche culturale e perfino politico. Non a caso sono molte le persone, non solo nella nostra Italia ma in Europa e in tutto l’Occidente, che giudicano Francesco anche come uno spirito profetico che incide sulla politica, quella alta che si fonda sullo spirito civico e il bene di una Comunità.
I tempi sono tempestosi, chiedono anzi reclamano l’amore verso il prossimo più che verso se stessi, respingono l’indifferenza, sanzionano l’egoismo che ci rende schiavi di noi stessi, del potere, del fondamentalismo e del terrorismo che può derivarne.
La misericordia, da questo punto di vista, è rivoluzionaria, è il perdono, è la carità, è l’amore. Si dovrebbe vivere dell’esperienza del passato, della speranza del futuro e si dovrebbe utilizzare il presente ed ogni suo attimo come momento per mettere in opera la misericordia. È un discorso che vale per tutti, credenti e non credenti.
Viviamo una realtà d’un epoca assai critica. Se dovessi dire in che cosa si distingue dalle altre direi che abbiamo abolito i tempi verbali che descrivevano la nostra vita: ignoriamo e vogliamo ignorare il passato e non siamo in grado di progettare il futuro; il presente lo usiamo per distruggere l’esistente, rottamarlo senza attingere al deposito d’esperienza né alla progettazione del futuro.
Sono sentimenti che stanno prevalendo in Occidente che fu invece, fino ad una trentina d’anni fa, la culla dello storicismo e della progettazione del futuro, fosse liberale o marxista. Si dirà che si tratta di ideologie dando a questa parola un senso negativo che invece non ha: l’ideologia è una semplificazione culturale d’un valore o ideale che si voglia diffondere. Tutto è ideologia, perfino una religione, con la differenza che l’ideologia religiosa pone al vertice una Divinità trascendente mentre un’ideologia laica non pensa ad una trascendenza ma semmai all’immanenza che si esprime col motto di Spinoza «Deus, sive Natura».
Papa Francesco ha la fede e predica la trascendenza, ma la sua rivoluzione misericordiosa vale – ed anche lui lo pensa e lo dice – anche per i non credenti se fanno propria la misericordia. L’amore per se stessi è legittimo purché consideri ed applichi l’amore per gli altri e tanto più intenso è questo tanto più farà bene anche a quello. Un vescovo di Roma che arriva a questa forma di predicazione rivoluzionaria e incide sulle strutture della Chiesa, sulla cultura, sulle coscienze che cercano e vogliono il bene comune e incide, per conseguenza, anche sulla politica, è un evento rarissimo. La Chiesa ha avuto la fortuna di quattro Pontefici che si sono incamminati – pur con le differenze che hanno distinto l’uno dall’altro – sulla medesima strada: Giovanni XXIII che diede inizio al Concilio Vaticano II, Paolo VI che lo portò a termine e poi Giovanni Paolo II e Benedetto XVI che cercarono di attuarne le prescrizioni.
Purtroppo questa loro azione non dette molti frutti e il motivo è chiaro: gran parte della Curia fece barriera contro le conclusioni del Concilio, in particolare contro la più importante che incoraggiava la Chiesa a confrontarsi con la modernità, a comprenderla e ad ammodernare la Chiesa stessa.
La lotta fu assai aspra e fu quella che costrinse Ratzinger a dimettersi: aveva ingaggiato quella battaglia ma era troppo debole fisicamente e psicologicamente per affrontarla.
Francesco è proprio questo che vuole: applicare le prescrizioni del Vaticano II e realizzare l’incontro con la modernità. Questa è la sua rivoluzione: fare dell’Occidente secolarizzato il punto di confronto con la Chiesa della Misericordia. Il che comporta una rivoluzione dentro la Chiesa e proprio adesso, con la fine del Sinodo e l’inizio del Giubileo, ha raggiunto il punto massimo di tensione. Qui ci si gioca tutto e Francesco lo sa. Anche noi lo sappiamo. Vogliamo la stessa cosa, combattiamo per la stessa rivoluzione, anche se camminiamo su due strade parallele. Aldo Moro che la sapeva lunga in politica e anche in religione, aveva coniato il motto delle “convergenze parallele”. Parlava di politica ma in certi casi riguarda tutto ciò che ha attinenza con la vita e quindi con l’azione, con il pensiero e con l’autocoscienza libera e consapevole.
***
Una delle differenze tra le persone, le culture, le civiltà, è il modo diverso di pensare. I cloni possono essere studiati nei laboratori ma per fortu- na non esistono in natura. Noi siamo tutti diversi gli uni dagli altri e siamo altresì pieni di contraddizioni nell’interno di noi stessi. Se differenze e contraddizioni oltrepassano un certo limite, si scivola nella guerra con tutto ciò che ne segue. Ma poiché la diversità è insopprimibile bisogna “inculturare” le differenze.
Questa parola, “inculturare”, l’ha usata papa Francesco quando ha rilevato le notevoli differenze tra i vescovi del Sinodo, dovute non soltanto ai diversi modi di pensare ma anche alle profonde diversità dei luoghi dove sono nati e dove svolgono la loro azione pastorale.
Nel messaggio letto alla chiusura del Sinodo ai vescovi di tutto il mondo lì convenuti, Francesco ha detto: «Al di là delle questioni dogmatiche, abbiamo visto che quanto sembra normale ad un vescovo d’un continente può risultare strano e quasi scandaloso per il vescovo d’un altro continente. In realtà le culture sono molto diverse tra loro e ogni principio generale definito dalla Chiesa ha bisogno di essere inculturato se vuole essere osservato e applicato. Si tratta insomma del radicamento del cristianesimo nelle varie culture umane. L’inculturazione non indebolisce i valori perché essi si adattano senza scomparire, anzi trasformano pacificamente e gradualmente le varie culture».
Qui è Francesco il gesuita che utilizza il metodo insegnato dal fondatore della Compagnia di Gesù, Ignazio di Loyola: conoscere gli altri e costruire con loro un sistema per poter predicare e rafforzare la loro vocazione verso il Bene.
Ma c’è un altro aspetto specificatamente politico oltre che profondamente religioso, che Francesco porta avanti in nome del Dio unico che ispira profondamente il suo pensiero ed è l’affratellamento di tutte le religioni a cominciare dalle tre monoteistiche (ma non soltanto). Francesco affrontò questo tema nella riunione con gli esponenti delle tre religioni, l’ebraica, la musulmana e la cristiana, il 29 ottobre scorso ed elencò vari punti già indicati dal Vaticano II a proposito di quel tema: «La crescente interdipendenza tra i popoli. La ricerca continua di un senso della vita, della sofferenza umana, della morte. La comune origine e il comune destino dell’umanità. L’unicità della famiglia umana. Le religioni come ricerca di Dio all’interno delle vari etnie e culture. La Chiesa è aperta al dialogo con tutti e giudica con stima i credenti di tutte le religioni apprezzando il loro impegno culturale e morale. Possiamo camminare insieme prendendoci cura gli uni degli altri e del creato; insieme possiamo lodare il Creatore per averci dato il giardino del mondo da coltivare e custodire come un bene comune. Dio desidera e vuole che tutti gli uomini si riconoscano fratelli e vivano come tali formando la grande famiglia umana nell’armonia delle diversità ». Sono dichiarazioni e indicazioni che vedono il male nel fondamentalismo ed il bene nel procedere come fratelli, non credenti compresi, come Francesco ci tiene spesso a ricordarci. La lotta contro il terrorismo si può fare in tanti modi, con le armi, con il coraggio, con la preghiera. Ma l’approccio del Papa a camminare insieme come fratelli è quello che può avere più ampia rispondenza e più duraturi effetti politici.
Desidero concludere queste osservazioni sull’obiettivo di Francesco da applicare in nome della misericordia le conclusioni del Vaticano II che vuole e deve incontrarsi con la modernità, segnalando un’opera affascinante, condotta da una grande esperta di storia dell’arte, Chiara Frugoni, con un libro intitolato Quale Francesco?
edito dalla Einaudi. La ricerca è effettuata sugli affreschi di Giotto nella chiesa di Assisi, dove si racconta quale sia la figura del santo. Una è quella del fraticello povero e umile tra confratelli altrettanto poveri ed umili; l’altra è d’un Francesco curiale, tra Pontefici, Cardinali e Cavalieri.
Due personaggi, un solo nome. Così è anche oggi: quale Francesco? Le figure giottesche sono magnifiche in entrambe le versioni, con profonde diversità tra loro. La storia del santo di Assisi però ci tramanda un personaggio unico che, dopo essersi pentito d’una giovinezza alquanto agitata e peccatrice, non cambia più: i poveri, la povertà, la debolezza, l’esclusione, sono i requisiti per passare da primi la porta del paradiso, ma anche la fratellanza. Non a caso Francesco aveva ordinato ai suoi frati di vivere anche tra non cristiani, senza liti e senza dispute, ritenendosi fratelli d’ogni creatura di Dio, quale che fosse il suo credo religioso a cominciare dai musulmani. La fratellanza, la misericordia.
Del resto basta leggere il Cantico delle creature. Non è col suo primo verso che papa Francesco ha intitolato la sua prima enciclica?
Buon Natale e buon anno. E che la fratellanza e l’amore del prossimo, la libertà e la giustizia abbiano la meglio su tutto il resto.
Corriere 24.12.15
Muti il patriota
«La musica è la nostra identità ma in Italia viene maltrattata E all’estero i nostri grandi autori non vengono presi sul serio»
di Aldo Cazzullo


Ravenna Riccardo Muti è in Italia per il Natale e per un appuntamento cui teneva molto, a Forlì, vent’anni dopo lo storico concerto con Pavarotti, tenuto per salvare una comunità di recupero a rischio chiusura. «Luciano venne dall’America, gratis e a sue spese — racconta Muti —. Eravamo diventati molto amici. E dire che il nostro rapporto cominciò con una litigata storica. Per un acuto. Avevamo fatto insieme I Puritani a Roma nel 1969. Nella stagione successiva li portammo alla Scala. Ma Pavarotti trovava troppo alto il diapason dell’orchestra. Lui non cedette, io neppure. Lui se ne andò, io me ne andai. Alla fine I Puritani li fecero altri…».
Anche adesso alla Scala si litiga. Ma a nominargli la Scala Muti vorrebbe tirarsi indietro: «Non intendo fare polemiche. È tutto troppo cambiato. Oggi il direttore d’orchestra fa una cosa, il regista un’altra. Il rapporto è totalmente scollato. Un tempo invece era molto intenso. Si voleva fare un Otello ? Il direttore del teatro si guardava in giro per vedere se c’era un Otello. Se trovava un cantante all’altezza sceglieva un direttore d’orchestra, che a sua volta indicava un regista in grado di realizzare nelle scene il concetto musicale del direttore. Nel 1981 alla Scala facemmo Le nozze di Figaro con Strehler. Ci sono le foto che ci ritraggono insieme sul palcoscenico, mentre lavoriamo con la compagnia di canto. Le indicazioni musicali e le indicazioni registiche andavano di pari passo. Strehler aveva grande rispetto per la musica e per ogni dettaglio: voleva che tutti i costumi dei cantanti fossero pronti fin dalla prova iniziale, a un mese dalla prima. Oggi la musica è piegata alle invenzioni, ai capricci, alle interpretazioni personali, sino al limite dell’assurdità».
Di chi è la colpa? «È una tendenza pluridecennale. Nata da regie d’Oltralpe che hanno coltivato non il senso del bello ma il senso del brutto, sino allo stravolgimento dell’opera d’arte. Quando ho cominciato, se la regia veniva criticata si incolpava anche il direttore d’orchestra come corresponsabile del disastro. Se uno va in buca a dirigere, vuol dire che sta approvando quel che avviene sul palcoscenico. Altrimenti, o si manda via il regista, o se ne va il direttore. Io l’ho fatto a Salisburgo, con La clemenza di Tito : ho piantato tutti e me ne sono andato. È colpa anche della critica musicale, che oggi distingue tra musica e regia; come se il direttore d’orchestra non avesse e non dovesse avere occhi a quel che succede sul palco. Anche questa è un’influenza che viene d’Oltralpe, dove la critica dà grande spazio al fatto scenico e molto meno a quello musicale».
Il declino della musica italiana è un tema che Muti affronta malvolentieri. Chicago, i Berliner, i Wiener sono oggi il suo lavoro. Segue però anche i giovani dell’orchestra intitolata a Cherubini — «chiederò a Mattarella e a Renzi di aiutarmi a riportarne in Italia da Parigi le ossa, è già pronto per lui un loculo a Santa Croce» — e la nuova accademia per direttori d’orchestra. A nominargli Bocelli o Allevi, dice solo: «Ognuno deve fare il suo mestiere. Io ho molto rispetto per le canzonette, per il pop. Ma è appunto un altro mestiere». Parla invece volentieri di Claudio Abbado, a quasi due anni dalla sua scomparsa. «I gazzettieri della musica si sono inventati una nostra rivalità, come fossimo Coppi e Bartali. Nulla di più falso. Lui mi stimava, io lo stimavo. Non ci frequentavamo perché siamo di due generazioni diverse: quando io nei primi Anni 60 studiavo composizione a Milano lui già dirigeva. Sono stato amico di Carlos Kleiber, un grande. Ho ammirato Von Karajan e il suo gesto misurato: non occorre gesticolare come un mulino a vento, un’orchestra si può dirigere anche con gli occhi. E un’orchestra, quando arriva un direttore nuovo, capisce subito se ha carisma o non l’ha. Bernstein aveva un gesto più ampio; ma corrispondeva alla sua natura». Meglio Barenboim o Zubin Mehta? «Il primo».
La musica, sostiene Muti, è un elemento fondamentale della nostra identità. «Per questo mi rattrista vedere maltrattata la musica italiana. Dobbiamo aumentare le nostre quotazioni rispetto alle grandi istituzioni nel mondo, non solo operistiche ma soprattutto sinfoniche. Credo che il declino sia cominciato con l’arrivo e poi il trionfo dell’opera popolare. Ma l’opera, se non è fatta benissimo, cala rapidamente di qualità. Noi siamo fermi al repertorio nazionalpopolare, ci siamo un po’ provincializzati. Il repertorio della tradizione è stato travisato, nascosto, adattato ai capricci dei cantanti, oppure stravolto da registi che non sanno di cosa si stanno occupando. Così anche all’estero accade che non prendano sul serio i nostri grandi. Bellini, Donizetti, Rossini, persino il primo Verdi non vengono eseguiti con il religioso rispetto riservato a Mozart, a Strauss, a Wagner; li si affronta con sussiego o in modo scanzonato. Certo, è difficile per musicisti d’Oltralpe, formati sulla complessità della sinfonia, capire la bellezza, la purezza, la semplicità di Bellini, espressione del mondo mediterraneo. Del resto le Alpi separano il mondo del gelo e della sugna da quello del sole e dell’olio. Il nostro sangue circola diversamente. E l’essenza del nostro spirito è la melodia. Pavarotti è stato il più grande dell’ultimo mezzo secolo non solo per la voce, ma perché cantava con quel misto di gioia e di malinconia che è nella nostra natura. Purtroppo l’Italia oggi non riesce più né a soffrire, né a sorridere».
«Sono talmente legato al mio Paese che quando andai per la prima volta a dirigere all’estero — un’orchestra militare nella Praga del 1966, a primavera ancora lontana — la sera andavo a passeggiare sotto la nostra ambasciata chiusa, per vedere il tricolore. Noi dobbiamo difendere la nostra identità. Io sono di cultura federiciana, ho comprato un piccolo terreno sotto Castel del Monte per ammirare l’opera di Federico, che seppe fondere la cultura araba con quella giudaico-cristiana. Sono per l’incontro, ma ogni elemento che turbi e disturbi la nostra identità non è benvenuto. Dobbiamo rivendicare il rispetto assoluto per i nostri simboli: il crocefisso, il presepe. Per il nostro modo di vita. E anche per le piccole cose, come i profumi. Ricordo la prima volta che diressi al Bellini. Era il 1966, e Catania era piena del profumo delle zagare; oggi senti solo quello del kebab. All’Italia devo tutto. In particolare devo tutto al Sud».
«Il Sud in cui sono cresciuto credeva nella severità del lavoro. I maestri erano durissimi. In prima media il professore di latino ci dava del lei. Per un ablativo confuso con un nominativo — «pluit aqua» — mi prese per un orecchio, se ci ripenso sento ancora dolore. Oggi lo arresterebbero. Non dico abbia fatto bene, però insomma sono cresciuto senza alcun complesso. Ora Napoli è degradata. Da anni aspetto un riscatto, una ripresa, l’orgoglio di un’appartenenza a una grande terra che non deve piangere su se stessa, deve ritrovare le immense risorse che possiede».
Di politica Muti non parla: «Quando paragonai Grillo a Iago, che nell’ Otello dice “io non sono che un critico”, mi presi parecchi insulti». E quando fu proposta la sua candidatura al Quirinale? «Pensai fosse una barzelletta». Farebbe il senatore a vita? «No. Ho un altro mestiere. E in Parlamento ci sono già troppi scranni vuoti». Il suo modo di esercitare la passione civile è la musica, lungo la linea che lo collega al suo maestro Votto, a sua volta allievo di Toscanini, che aveva suonato il violoncello per Verdi. «Verdi, come Mozart, è assolutamente necessario all’umanità. Ambedue parlano a noi. Scrisse D’Annunzio in morte di Verdi: “Diede una voce alla speranza e ai lutti/ pianse e amò per tutti”. E nobilitò la nostra musica, emancipandola dallo “zum-pa-pa”. Per questo è grave che sia eseguito così male. Detesto quei critici secondo cui il primo Verdi avrebbe bisogno di essere nobilitato, reso meno volgare. Non c’è volgarità in Verdi. Mai. È la maniera di eseguirlo a essere spesso volgare. La sua popolarità non va scambiata per facilità. Consideri il Rigoletto : un’opera estremamente moderna, falsata di continuo da abitudini esecutive che la stravolgono, spezzando l’arcata unica dell’opera come l’aveva voluta l’autore».
Il sogno di Muti era riportare Maria Callas a cantare Verdi. Al Maggio Fiorentino, nel 1974, con l’orchestra di Filadelfia. «La cercai tramite un amico comune, per proporle di essere Lady Macbeth . Mi chiama una voce di donna. Esordisce con tono scherzoso: “Lei non mi conosce, ma lei sa chi sono io, e io so chi è lei”. Va avanti così per un po’, poi mi dice: “Sono Maria Callas”. Fu una grande emozione sentire quel nome pronunciato da lei. Mi assicura che sarebbe molto felice di accettare. Ma, con il suono tipico dell’ultimo atto del Trovatore , aggiunge: “Oggi è tardi…”. Quanto vorrei che tanti soprani lo dicessero allo stesso modo. È come se quella voce la sentissi sempre».
La Stampa 24.12.15
No ai processi al metodo scientifico
di Gilberto Corbellini, Roberto Defez


Se in Italia sopravvive ancora una comunità scientifica degna di tale nome, ovvero delle accademie scientifiche consapevoli del loro ruolo a difesa dei valori di libertà e indipendenza della scienza, dovrebbero battere urgentemente un colpo. Farsi sentire.
E due colpi li dovrebbero battere il Consiglio Superiore della Magistratura, che è organo a garanzia dell’autonomia e indipendenza del governo della giustizia nel nostro Paese, e i politici che negli anni recenti si sono opposti alla politicizzazione, alla manipolazione e agli abusi di potere perpetrati ai danni della scienza. Senza lasciar fuori il Presidente della Repubblica. Coloro che si sono indignati contro i tentativi di imporre attraverso sentenze di magistrati le pseudo-cure Di Bella o Stamina o contro il rinvio a giudizio e la condanna in primo grado della Commissione Grandi Rischi, per non aver dato l’allarme per il terremoto dell’Aquila o contro la credenza che i vaccini causino l’autismo, dovrebbero tutti insorgere per quanto sta accadendo nel Salento in merito alla vicenda Xylella fastidiosa, il batterio che sta uccidendo o concorre a uccidere gli ulivi (per ora solo) in quella regione.
Perché si tratta di un caso emblematico di scelte autoreferenziali di un pubblico ministero nell’esercizio dei suoi poteri, che seleziona un ristretto manipolo di esperti scientifici. Ma, come si scelgono i consulenti scientifici in una materia tanto complessa? Si prendono quelli la cui opinione coincide con quella di un magistrato, o si chiede consulenza ai massimi organi scientifici nazionali e casomai internazionali? La vicenda è nota già a livello internazionale perché qualche mese fa Nature scrisse un articolo denunciando il «vilipendio» a mezzo inchiesta giudiziaria ai danni degli scienziati che stanno studiando il fenomeno di diffusione del batterio, e il ruolo dello stesso nella sindrome patologica che causa il disseccamento degli ulivi salentini. Gli ulivi del Salento sono attaccati da un batterio che è considerato, per le sue caratteristiche altamente contagiose e per gli effetti patogeni devastanti sulle piante, una gravissima minaccia a livello mondiale. Questo batterio causa o concorre a causare una malattia che chiude i vasi della pianta (una specie di arterioscleresi per gli umani) portando al disseccamento degli ulivi e uno dei modi per limitare l’epidemia è sradicare gli ulivi già colpiti, ridurre gli insetti che diffondono Xylella e creare un cordone sanitario che isoli le piante infette. Nulla di nuovo sotto il sole: la microbiologia dispone di metodo standardizzati per studiare come un agente causale è implicato in una malattia. Come tutte le malattie infettive la sindrome che vede Xylella protagonista ha caratteristiche che dipendono dall’ecologia locale e quindi si dove esaminare sperimentalmente la questione, tenendo conto anche delle linee guida europee e internazionali finalizzate al contenimento del patogeno. Naturalmente, come fu per l’Aids e la sua causa cioè l’Hiv, ci sono i negazionisti, che con argomenti pretestuosi manipolano le incertezze e generano sospetti sulla trasparenza dei ricercatori o su qualche legame con i soliti poteri economici e con le solite multinazionali che farebbe loro sostenere una posizione che non è tanto scientifica quanto dovuta a interessi loschi. E’ uno scenario già visto, ma un Paese civile non dovrebbe essere così esposto a questo genere di manovre politiche ai danni della scienza e del metodo che essa utilizza. Di fatto gli scienziati sono indagati per una serie di reati, tra cui quello di aver diffuso colposamente la malattia e di aver presentato i fatti in modo da arrivare ad avvallare come soluzione l’eradicazione delle piante malate. Sulla scia di un immaginario collettivo che ricorda i processi per inquisizione o i linciaggi pubblici per accontentare gli umori rabbiosi di una popolazione alla ricerca di capri espiatori, di far parte di qualche complotto sovrannazionale inteso a distruggere la tradizione agricola salentina, iniziando dagli ulivi.
L’inchiesta del procuratore Cataldo Motta è stata criticata duramente dall’ex Presidente del Tribunale di Bari Vito Savino, che l’ha paragonata alle vicende Di Bella e Stamina. Ora, la questione su cui vorremmo richiamare l’attenzione, al di là della gravità dei contenuti degli avvisi di garanzia inviati agli scienziati che stavano studiando il fenomeno, riguarda il rapporto tra scienza e magistratura, ovvero come i giudici affrontano emergenze che possono essere capite solo tramite gli strumenti scientifici. La vicenda salentina è l’ennesimo caso nel quale l’intraprendenza di un magistrato si esercita in un vuoto normativo per quel che riguarda le modalità di acquisire prove che abbiano base scientifica. È accaduto diverse volte, a partire dalla vicenda Di Bella e in modo macroscopico con la vicenda Stamina, nella quale i giudici prescrivevano il trattamento Stamina nonostante si trattasse di un imbroglio. Sarebbe nell’interesse della magistratura, ma soprattutto, del Paese pensare e predisporre uno strumento che renda meno discrezionale il modo di procedere dei giudici quando le questioni sono precisamente definite dalle regole non negoziabili del metodo scientifico.
*Università La Sapienza
**Biologo e genetista Cnr
il manifesto 24.12.15
Drammi storici. Il tempo nuovo dei tumulti
Pubblicata la piéce teatrale dedicata alla rivolta dei Ciompi
«Spogliateci tutti ignudi. I quaranta giorni che sconvolsero Firenze» di Jeremy Lester. Un testo godibile sul passato che proietta la sua attualità sul presente
di Sandro Mezzadra


È giugno a Parigi, corre l’anno 1848. La famiglia Tocqueville è a tavola, in una casa signorile della rive gauche. Tuona il cannone sull’altra riva della Senna, la canaglia operaia sarà infine sconfitta e massacrata. Ma il terrore serpeggia in casa Tocqueville, tanto forte è l’impressione destata dall’insurrezione armata proletaria. A una giovane cameriera, che arriva proprio dal Faubourg Saint-Antoine, uno degli epicentri della rivolta, sfugge un sorriso. Sarà licenziata immediatamente, ma quel sorriso – lo ha ricordato anni fa Toni Negri, discutendo Spettri di Marx di Jacques Derrida – rimane una splendida incarnazione dello spettro del comunismo che avrebbe a lungo turbato i sonni della borghesia.
È bello immaginare che ci sia stato un antefatto di questa scena, molti secoli prima. È ancora estate, sta finendo il mese di agosto. Siamo a Firenze, e l’anno è il 1378. La casa, altrettanto signorile, è quella di Vieri di Cambio de’ Medici, il banchiere e finanziere con cui cominciò realmente «l’inversione di tendenza della fortuna della famiglia Medici», da qualche tempo declinante. Vieri di Cambio parla con il suo giovane e lontano cugino, Giovanni di Bicci de’ Medici, che ha individuato come suo erede e continuatore. Gli spiega che «grazie alla nostra invenzione dei contratti di cambio, il denaro ora circola invisibilmente». Ha di fronte una mappa del mondo conosciuto allora, la fissa regolarmente: di lì a non molto i Medici e i banchieri fiorentini domineranno quel mondo, con il potere «invisibile» del loro denaro.
Il sorriso dell’oppressa
Ma la città è in subbuglio, da mesi i Ciompi, cardatori, pettinatori e tessitori della lana, reclamano potere, lo affermano e lo praticano nelle strade di Firenze. Giovanni capisce in fretta le ambizioni del cugino, ma gli fa presente la minaccia immediata dell’insurrezione (che esploderà il giorno dopo, e sarà repressa nel sangue). Vieri appare preoccupato, i Ciompi, dice, «rappresentano una severa minaccia e dobbiamo prendere quella minaccia molto, molto seriamente». L’espressione del volto di Vieri esprime paura «al prospetto di una vittoria dei Ciompi». Nella stanza c’è anche Stanka, una giovane serva/schiava slava comprata recentemente («una pratica che risale al 1320»). Se l’avesse guardata, Vieri «avrebbe notato la vaga ombra di un sorriso sulla sua faccia, alla vista del padrone così spaventato dai lavoratori oppressi».
La scena è tratta da un libro, davvero bello e prezioso, di Jeremy Lester, storico inglese che vive tra Bologna e Parigi, autore di molti studi in particolare su Russia e America Latina. Si intitola Spogliateci tutti ignudi. I quaranta giorni che sconvolsero Firenze, e perciò il mondo, nel 1378 (Pendragon, pp. 171, 14 euro). È una pièce teatrale, e dunque diciamo subito che il sorriso di Stanka è frutto della fantasia di Lester: ma non è meno potente l’immagine, esemplare della fitta tela di rimandi alla storia successiva che l’autore intesse con maestria. Arrivando fino al nostro presente, se è vero che la repressione della rivolta dei Ciompi è un momento chiave nell’avvio di un potente processo di finanziarizzazione alle origini del capitalismo moderno. Che può essere fatto risuonare con quanto avviene oggi, soprattutto in un’opera di finzione, in un «dramma storico» («il capitale finanziario ha la capacità di essere avventuroso. Vuole incessantemente esplorare nuove opportunità, nuove imprese», dice Vieri: «in verità si può perfino coniare un nuovo termine – capitale avventuroso o magari venturoso»).
Le storie di Machiavelli
Spogliateci tutti ignudi: non vi sbigottisca «quell’antichità del sangue» che i nobili ci rimproverano, perché «tutti gli uomini avendo avuto un medesimo principio sono ugualmente antichi, e dalla natura sono stati fatti a un modo». Spogliateci tutti ignudi, dunque: e «voi ci vedrete simili, … perché solo la povertà e le ricchezze ci disagguagliano». E ancora: «e della coscienza noi non dobbiamo tenere conto, perché dove è, come è in noi, la paura della fame e del carcere, non può né debbe quella dello inferno capere». A dare il titolo al libro è il famoso discorso del Ciompo tratto dalle Istorie fiorentine di Machiavelli, formidabile manifesto della lotta di classe proletaria agli albori del capitalismo, pur inserito all’interno di una ricostruzione della rivolta che celebra piuttosto colui che infine la represse, Michele di Lando.
Il libro di Lester non è solo bello e godibilissimo alla lettura. È anche davvero prezioso. Alla pièce teatrale, su cui subito tornerò, seguono scrupolosi e utilissimi apparati critici: una cronologia degli eventi (dall’inizio dei tumulti il 18 giugno alle condanne a morte, all’ergastolo e all’esilio comminate il 20 settembre: ma molti dei condannati a morte, ci informa Lester, «riusciranno a scappare nelle settimane successive»), una mappa dell’insurrezione di luglio, cenni biografici sui capi più importanti dei Ciompi, un albero genealogico della famiglia De’ Medici sapientemente commentato e un’antologia che documenta le diverse prospettive storiografiche sul «tumulto». Colpisce l’estratto di un breve articolo della giovane Simone Weil: nell’istituzione di un organo di autogoverno dei Ciompi, a Santa Maria Novella, Weil vede nel 1934 la realizzazione archetipica della forma del «soviet», l’istituzione da parte di un «proletariato appena formato» del dualismo di potere, «il fenomeno essenziale delle grandi insurrezioni operaie».
È il monologo di un giullare, prestato a Lester da Dario Fo, ad aprire l’azione teatrale. È festa nelle strade di Firenze, la rivolta, il potere finalmente esercitato dai Ciompi ha cambiato la città, ha cambiato la vita. Lasciamo al loro destino i vincitori, Vieri di Cambio e il cugino Giovanni. Questi sono i giorni di Lapo e Fiammetta, il Ciompo e la Ciompa. Nella loro casa, nel quartiere Camaldoli, si svolge la prima scena. L’ambiente domestico è umile, ma la vita è cambiata. Lapo ha ascoltato il giullare raccontare delle disgrazie che sono capitate a lui e alla moglie e di come «intendesse combattere l’ingiustizia sociale». E pensa agli ultimi anni a Firenze, «ancora carestie e fame, ancora pestilenze ed epidemie, insieme a povertà, sfruttamento, tagli ai salari e tasse più alte per pagare le guerre» dei Signori. Ma poi venne giugno, l’inizio dei tumulti, palazzi dei magnati della Repubblica in fiamme, l’odiato sceriffo ser Nuto («un torturatore e un macellaio», ma anche «un codardo») finalmente giustiziato, l’assalto alla prigione delle Stinche e la liberazione dei prigionieri. E benedetto sia giugno: «questi sono stati i due mesi più felici della mia vita», dice dolcemente Fiammetta a Lapo.
Il divenire della mutazione
L’azione si snoda tra luglio e agosto, fino all’ultima resistenza del 31, sulle barricate in via Magalotti, dove cadono insieme Lapo e Fiammetta. Lo aveva detto, Fiammetta: «non avremo futuro, se perdiamo questa lotta». E aveva aggiunto: «sì, la paura c’è. Ma nello stesso tempo si raggiunge un punto oltre la paura». Lapo aveva chiosato: la rivolta, la stessa violenza finalmente esercitata dai poveri, la festa «ha cambiato me, ha cambiato noi. Semplicemente non c’è ritorno a ciò che eravamo prima che la rivolta incominciasse. Penso che preferirei morire piuttosto che tornare indietro». «Come sarebbe bello se potessimo abolire il tempo»: e vivere nel «tempo dei tumulti», nel formidabile presente in cui si svolgono le scene nella casa di Lapo e Fiammetta. Tempo dei tumulti, tempo della potenza, tempo di una mutazione antropologica che Lester mette in scena con sapienza, combinando echi dolciniani e anticipazioni comunarde, eresie religiose e frammenti di un comunismo a venire. Accettando il rischio dell’anacronismo (a partire dallo stesso personaggio di Fiammetta, come dice esplicitamente), ma giocando sullo scarto tra quanto è «storicamente accurato» e quanto è «puramente e solamente ‘simbolico’» (T. Griffiths), su quello scarto che apre in fondo il campo del «dramma storico».
I Ciompi, quel 31 agosto del 1378, «possono essere stati sconfitti ma non certamente vinti», come scrive José Saramago in un poscritto incluso da Lester nel libro. A notte, misteriosamente, suonano ancora a martello le campane della periferia fiorentina, che avevano chiamato all’insurrezione nelle settimane precedenti. Ed è di nuovo il panico tra i Signori. Non succederà nulla. Ma, dice ancora Saramago, «come tutti i suoni che riecheggiano, gli echi si estendevano in lungo e in largo». È bello pensare, con Saramago e con Lester, che quegli echi non abbiano smesso di risuonare. Lasciamo dunque un’ultima volta la parola a Fiammetta, la Ciompa: «forse falliremo, sono sicura che le cose per cui stiamo lottando accadranno a dispetto della nostra sconfitta. Altri porteranno avanti la lotta».
Repubblica 24.12.15
Di cosa parliamo se parliamo di giustizia
Per Socrate era più preziosa dell’oro. Ma anche l’ideale più inafferrabile di tutti
La nostra filosofia ha svalutato le emozioni eppure ci aiutano a capire i concetti astratti
Non dobbiamo mirare alle utopie. Soltanto rifiutare l’ingiustizia radicale sarebbe già una rivoluzione
di Gustavo Zagrebelsky


Devo parlare della giustizia. Siete in diritto di pensare ch’io sappia che cos’è. Invece no. Secondo il celebre detto di Wittgenstein: “ciò di cui non si può parlare con chiarezza deve essere taciuto”, essendo giustizia parola oscura, dovremmo iniziare e finire qui il nostro incontro. Tuttavia, da sempre proprio le massime questioni dell’esistenza si esprimono con parole tutt’altro che univoche. Dovremmo tacere? Se fosse tutto chiaro, perché parlare? Quante migliaia di parole Socrate ha dedicato alla giustizia, “cosa ben più preziosa dell’oro”? Eppure, perfino lui si diceva incapace di giungere
ad afferrarla (Repubblica 336e). Se parliamo della giustizia, e non possiamo non parlarne, è proprio perché, socraticamente, sappiamo di non sapere. Possiamo però girarle intorno con qualche domanda e circondarla di parole prudenti. Iniziamo così: può ammettersi che per uno sia giusto ciò che non lo è per un altro? Alla luce dell’esperienza: «sì, dobbiamo ammettere che ciò che è giusto per uno, può essere ingiusto per un altro». La storia dell’umanità è una grande contesa tra diverse concezioni della giustizia. Se, invece, dicessimo: «no, ciò che è giusto per gli uni deve essere giusto anche per gli altri», dovremmo presupporre che esista la giustizia in senso assoluto e che noi si sia capaci di farla nostra. Prendiamo il più celebre tra i criteri di giustizia, “unicuique suum”: a ciascuno il suo. È facile essere d’accordo, perché ciascuno può riempire “il suo” del contenuto che vuole. Ricordate San Martino che, incontrando un ignudo, scende da cavallo e divide con lui il suo mantello. Ecco: a ciascuno il suo. Ma, all’ingresso del campo di sterminio di Buchenwald, sapete che cosa c’era scritto? “A ciascuno il suo”. Come è possibile che questa formula della giustizia valga per San Martino e per gli aguzzini nazisti? Perché è di per sé vuota. Lo stesso può dirsi per le altre formule generali come: a ciascuno secondo i suoi meriti o i suoi bisogni. Chi stabilisce che cosa sono i meriti e i bisogni? Si dice anche: non fare agli altri ciò che non vuoi che sia fatto a te o, in positivo, fai agli altri, ecc. Ma, chi sono “gli altri”? Sono “il prossimo tuo”. Ma, chi è il prossimo? Gesù di Nazareth ha risposto con la parabola del Samaritano. Ma, altri potrebbero dire: quelli che appartengono al mio clan, al mio popolo, alla mia stirpe; oppure, è tutta l’umanità. Ma, ancora, siamo d’accordo sulla parola “umanità”? Quanto s’è faticato a superare l’idea che “i selvaggi” non vi rientrino, e così “le razze inferiori”, i delinquenti-nati, i malati mentali! L’etica cristiana supera queste difficoltà, non però con la giustizia, bensì con l’amore, che è altra cosa dalla giustizia. L’amore disincarnato, che tanto piaceva anche agli Illuministi del XVIII secolo, entra in crisi, si svuota e s’affloscia non appena entra in contatto con esseri in carne e ossa. Allora compaiono le ghigliottine preparate per i “nemici dell’umanità”, o i roghi delle Inquisizioni per i “nemici della fede”.
In breve: finché si parla di giustizia come ideale astratto, non si esce dall’inconcludenza. Immaginiamo, invece, che la giustizia sia non un’idea, ma un’emozione. Sapete che la filosofia occidentale ha svalutato le emozioni, considerandole perturbamenti della ragione. Negli ultimi tempi, però, c’è stata una rivalutazione. Gli esseri umani, fortunatamente, non sono a una sola dimensione. Ricordo, per esempio, un libro di Martha Nussbaum ( L’intelligenza delle emozioni) in cui questo lato della coscienza è valorizzato, dicendo una cosa importante: le emozioni hanno capacità cognitive. Con le emozioni, talora, conosciamo più profondamente che non con i soli concetti. Ad esempio, quando i campi di sterminio nazisti furono liberati, gli Alleati obbligarono migliaia di tedeschi a un faccia- a-faccia con quegli orrori. Perché? Non era né crudeltà, né umiliazione del popolo tedesco, ma l’esigenza d’una reazione emozionale, fino ad allora assente, di fronte alle politiche razziste. Si trattava di educare provocando emozioni.
Le emozioni possono, infatti, essere medicine delle malattie dell’astratta ragione. Considerate: non c’è abiezione nel mondo che non abbia trovato la sua giustificazione razionale: perfino il razzismo, con le sue conseguenze, aveva dietro di sé secoli di filosofie. I Quaderni neri di Heidegger ne sono impregnati. Si pensa, in questi giorni, alla riedizione del Mein Kampf di Hitler. Anch’esso, per quanto si stenti ad ammetterlo, è opera della ragione: ragione aberrante, ma non per i nazisti di ieri e di oggi. I mostri non sono generati solo dal “sonno della ragione”: talora vengono dalle veglie della ragione. L’antidoto del razzismo è certo la dimostrazione scientifica dell’infondatezza delle sue basi storiche e biologiche; ma la confutazione definitiva sta nell’insostenibilità morale concreta, nella sfera delle emozioni, delle sue conseguenze viste e documentate. Ma, c’è un’obiezione che viene da un grande giurista del secolo scorso, Hans Kelsen, che dice «come le idee di giustizia razionali sono tante, così anche le emozioni». Un latifondista e un bracciante reagiscono emotivamente in maniera diversa davanti a un provvedimento di esproprio. Il primo s’affligge, il secondo si rallegra. Al relativismo delle concezioni razionali corrisponde il relativismo delle emozioni. Vero. Forse, però, riusciamo a individuare un terreno di comunanza tra tutti gli esseri umani se pensiamo non alla giustizia massima, ma all’ingiustizia massima. Di fronte all’ingiustizia massima forse tutti noi reagiamo nel medesimo modo. In I fratelli Karamazov c’è un dialogo sul tema dell’ingiustizia nel mondo. Ivan Karamazov, dice: «nel mondo regna l’ingiustizia, io lo rifiuto e il mio destino è il suicidio». Porta alcuni esempi di ingiustizia radicale, somma, da ogni punto di vista intollerabile. È il male inferto agli innocenti. Chi sono gli innocenti? Sono gli animali e i bimbi. Una cavallina tirava un pesante carretto per una salita, cascava e continuava a cascare e il padrone la frusta fino alla morte sugli occhi dolci che lo guardano. Un principe russo, preparandosi alla caccia, ordina ai servi di scatenare i cani per far sbranare, davanti alla madre serva della gleba, il bimbo che giocando con una pietra aveva azzoppato uno di quelli. Ditemi voi se, di fronte a ingiustizie di questo genere, non reagiremmo tutti nello stesso modo emozionalmente, al di sopra delle nostre divisioni razionali. Gli atti aberranti cui gli uomini sono spesso indotti presuppongono che si spenga il loro senso di umanità. Gli uomini dei Sonderkommando (squadre di ebrei che conducevano altri ebrei alla morte: averle concepite è stato il delitto più demoniaco del nazismo, ha scritto Primo Levi) erano privati della loro umanità da grandi distribuzioni di alcolici. Lo stesso, per i reparti militari incaricati delle esecuzioni di massa. Analogo effetto degli stupefacenti si otteneva con la propaganda martellante e i lavaggi del cervello. Ciò sta a dire che, senza l’avvelenamento della psiche, l’umanità si sarebbe ribellata.
Concludo così. La giustizia solo razionale può diventare un mostro assassino. Se vogliamo cercare punti di accordo, non dobbiamo mirare alle utopie, alle “città del sole”, alla giustizia con la G maiuscola. Dobbiamo accontentarci, nel tempo che viviamo, del rifiuto dell’ingiustizia radicale. Sarebbe già una rivoluzione. Resta un’ultima considerazione. Si pensa che le passioni sfuggano a ogni regola. Ma è davvero così? O non dovremmo, invece, pensare all’educazione, nelle scuole e nelle nostre vite, anche delle nostre tendenze passionali, per orientarle nel senso dell’umanità? Grande questione pedagogica. E non dovremmo sottoporre a controllo l’uso che ne può fare la politica? Grande questione democratica.
Corriere 24.12.15
Un muro verde contro il deserto
Una cintura di piante lunga oltre 7mila km dal Senegal a Gibuti
Fermerà l’avanzata del Sahara? L’investimento Quattro miliardi di dollari da investire nei prossimi cinque anni
di Michele Farina


Una piantagione grande un terzo dell’Italia, una cintura larga 15 chilometri e lunga 7.400, che dovrebbe fasciare l’Africa da un oceano all’altro, attraversando 11 Paesi da Dakar a Gibuti, dribblando guerre e carestie, coinvolgendo democrazie e dittature. Una gigantesca cintura di eco-contenimento, studiata per frenare l’avanzata del Sahara verso Sud, ridurre la desertificazione del Sahel, ridare fiato a un polmone forestale che nel continente nero si riduce (dati Fao) dell’1% all’anno.
Un sogno inutile? L’unico tipo di Muro auspicabile sulla Terra? Se ne parla dal 2005, ma finora il governo del Senegal è stato l’unico a metterci mano e semi, piantando una fila di 12 milioni di alberi per oltre 150 km. Ora però dovrebbero cominciare anche gli altri. Dopo la Conferenza di Parigi sui cambiamenti climatici, il «Great Green Wall» sembra aver fatto (almeno sulla cartina delle promesse) un decisivo passo avanti. Un recente comunicato dell’Unione Africana, madrina del progetto, fissa i paletti del «più grande piano di sviluppo rurale» mai concepito sul continente. I leader mondiali, guidati dal francese François Hollande, «si sono impegnati a versare 4 miliardi di dollari per i prossimi cinque anni». L’obiettivo da qui al 2025 è «rinverdire» e riconquistare 50 milioni di ettari.
Gli africani non lasciano una grande impronta ecologica. Con l’11% della popolazione mondiale, sono responsabili del 4% delle emissioni di gas serra. Più che a migliorare l’aria, il progetto della Muraglia Verde punta a migliorare la terra. La desertificazione è una piaga che interessa 500 milioni di persone e il 40% di quella fascia di Africa che si estende sotto il Sahara. Un’area enorme, un problema che negli ultimi anni ha assunto anche un interesse geopolitico e di emergenza globale. Chad, Mali, Nigeria settentrionale, Niger: la siccità può alimentare le migrazioni, favorire movimenti radicali. Un’acacia, milioni di acacie, contro Al Qaeda e Boko Haram?
Quella barriera di miliardi di alberi dovrebbe ridurre l’erosione del suolo, frenare il vento del deserto che spinge la sabbia, favorire la permanenza dell’acqua piovana nel terreno. E dare una prospettiva economica: secondo le stime Onu due terzi della terra coltivabile in Africa potrebbero andare perduti nel giro di 10 anni, se continuasse il tasso di desertificazione attuale. La Muraglia verde cinese non ha dato i risultati sperati anche perché, dicono gli esperti, per «fermare» i deserti dell’Asia centrale sono state utilizzate specie non autoctone (come pioppi e conifere). Per l’Africa, invece, c’è una lista di 37 vegetali «locali» molto resistenti alla siccità. Tra questi l’acacia «Senegalia Senegal», da cui tra l’altro si estrae la gomma. Se vuole avere successo e non restare soltanto un verdissimo rendering , il Grande Muro africano dev’essere concepito come un insieme di interventi di sviluppo sul territorio. Non si tratta soltanto di seminare una grande siepe, sostengono gli esperti del CSFD (Comité Scientifique Français de la Désertification). Ed è fondamentale che le popolazioni vengano coinvolte nel progetto, ne condividano gli obiettivi e i benefici. Altrimenti sarebbe facile per loro distruggere quello che altri — con un progetto calato dall’alto e concepito nelle capitali — hanno seminato. Chi conosce le capre africane, per esempio, sa che esistono pochi animali al mondo così voraci. Date loro spazio, e settemila chilometri di piantine commestibili le farebbero fuori in una stagione.
«Ci sono tante meraviglie nel mondo — ha detto Dlamini Zuma, presidente dell’Unione Africana —. Ma questa può cambiare il nostro futuro». Proteggere il Grande Bosco Orizzontale, dalle capre, dall’incuria e dal clima, sarà ben più difficile che realizzarlo.
Corriere 24.12.15
Lo Zimbabwe adotta lo yuan
L’avanzata di Pechino in Africa e la mossa disperata di Mugabe


Alla valuta cinese corso legale
Le tappe 1 Lo yuan, moneta della Repubblica Popolare, dal 1° dicembre è entrato nel paniere delle sei valute mondiali di riserva approvate dall’Fmi 2 Già da tempo, comunque, grazie all’espandersi dell’economia cinese, lo yuan era considerato valuta di riferimento. Dal 30 settembre è convertibile 3 Le Banca centrale cinese ha annunciato ieri l’allungamento degli orari di negoziazione dello yuan per facilitare gli investitori stranieri

Non ci sono più soldi? Adottiamo la moneta cinese. Robert Mugabe, il presidente elefante del disastrato Zimbabwe, ha già più volte presieduto all’affondamento dell’economia nazionale. E sa come farvi fronte, visto che resiste al potere dal 1980. Negli anni Novanta dichiarò bancarotta. Negli anni Duemila stampò vagoni di moneta. E quando l’inflazione toccò il tasso del 500 miliardi per cento, lasciò che il dollaro Usa (e in seconda battuta il rand sudafricano) diventassero la valuta corrente con cui fare la spesa al mercato o pagare gli stipendi ai poliziotti. Adesso «the old man» è arrivato a un’altra svolta (molto simbolica), che qualcuno può leggere come il segno dell’avanzata del Celeste Impero nel continente nero. Da oggi a Harare si potranno usare le banconote della vicina(amica) Cina.
La notizia campeggia sulla prima pagina del quotidiano finanziario The Financial Times . Anche se sembra quasi uno scherzo, più che una prova della presenza sempre più marcata della Cina in Africa. Di certo rappresenta un omaggio, più che una possibilità concreta. Chi userebbe lo yuan in un Paese con un piccolo pil da 13 miliardi di dollari sempre più in caduta libera? Dove l’abituale forma di scambio è il baratto? Suonano ridicole le motivazioni offerte dal ministro delle Finanze Chinamasa, secondo cui la novità potrà «molto agevolare il turismo» dall’Oriente.
Il viaggio che più conta l’ha fatto il presidente cinese Xi Jinping, che il mese scorso ha effettuato una visita di Stato atterrando in una delle capitali paria dell’Africa (agli occhi degli occidentali). «Apprezziamo molto la flessibilità cinese», ha gongolato il novantunenne Mugabe (sottoposto a sanzioni internazionali) ricevendo il generoso ospite. E ieri al giornale governativo Sunday Mail il ministro che regge all’Elefante i cordoni della borsa ha annunciato che Pechino graziosamente ha cancellato la fetta di 40 milioni di debito che avrebbe dovuto riscuotere alla fine del 2015.
Lo Zimbabwe cade a pezzi. Difficile immaginarlo come ambita nuova colonia del gigante cinese, pur comprata a prezzi stracciati. Anche se, all’inizio di dicembre, Xi Jinping ha promesso per l’intero continente 60 miliardi di dollari in finanziamenti allo sviluppo, parlando al «Forum on China-Africa Cooperation» di Johannesburg che ha richiamato intorno a lui ben 40 capi di Stato (altro che il tour di Obama). Intanto però più dell’85% delle transazioni nel Paese di Mugabe avviene ancora con i dollari del «nemico americano» (contro cui l’Elefante tuona spesso). Il resto è rand, la (debole) valuta del confinante Sudafrica dove lavorano 3 milioni di emigrati dallo Zimbabwe. Mentre la crisi è tornata a mordere duro. Quest’anno la siccità ha dimezzato i raccolti di mais (1,5 milioni di persone senza cibo). In netto calo il business del tabacco (prima esportazione). Semafori spenti per i blackout, nelle strade buche grandi come laghi. In un Paese di 14 milioni di abitanti, solo 700 mila hanno un lavoro «formale».
Che importa, adesso nello Zim arriva lo yuan. Mentre un Paese in ginocchio conta i giorni che restano all’Elefante. Yuan sì, Confucio no (Mugabe a ottobre ha rifiutato il discusso «Premio Confucio» per la pace dopo aver saputo che non veniva dal governo di Pechino). Il 2016 è visto come l’anno del cambio al vertice dopo 35 anni. Il vice attuale, il truce Mnangagwa detto il Coccodrillo, pare in pole position per una (poco democratica) successione. Ma occhio alla first lady Grace, che tra l’altro più del Cocco è di casa a Hong Kong (dove hanno studiato i figli). E se il vecchio Bob cercasse di ingraziarsi i cinesi per dare un puntello alla moglie?
il manifesto 24.12.15
Il Psoe resiste: «No a Rajoy»
Spagna. Dura un’ora l’incontro tra popolari e socialisti. Alla fine Sanchez ribadisce: «Nessun accordo». E stasera parla il Re
di Luca Tancredi Barone


BARCELLONA Più passano i giorni più il rompicapo spagnolo si complica. Bersaglio di tutti gli strali è il segretario socialista, Pedro Sánchez.
Sul fronte interno, Sánchez cerca disperatamente di rafforzare la sua leadership rispetto alla vecchia guardia, che spinge, dietro le quinte, per una soluzione più continuista possibile.
Ufficialmente, Sánchez ha chiarito che il Psoe non appoggerà mai e poi mai un governo di Mariano Rajoy. Ma le pressioni sono sempre più insistenti, e fino al 13 gennaio — data in cui si riunisce per la prima volta il nuovo Congresso — sembrano destinate a diventare insostenibili.
Dopo i chiari segnali che arrivano dai poteri forti, ben esemplificati dall’editoriale del País di martedì, che apertamente chiedeva larghe intese che tenessero fuori Podemos, ieri Ciudadanos in un disperato tentativo di riacquistare la centralità nello scacchiere politico che gli elettori gli hanno negato, chiedeva un patto a tre con i socialisti «perché nessuno possa rompare il paese».
D’altra parte, Rajoy ha incontrato proprio ieri a sorpresa Sánchez alla Moncloa. Dell’incontro si è saputo solo in tarda serata di martedì dopo che opportunamente (di nuovo guardacaso) il País aveva fatto filtrare le proposte che i popolari avrebbero per i socialisti.
Secondo il principale giornale spagnolo, i popolari avrebbero offerto ai socialisti oltre alla presidenza di una delle camere (in Spagna mai presiedute dall’opposizione), la promessa di riformare la costituzione (possibilità sempre respinta durante la scorsa legislatura) persino «blindando» i diritti sociali (il che implicherebbe fare un passo indietro rispetto alla modifica costituzionale votata da Pp e Psoe 4 anni fa per dare priorità al pagamento del debito, la cosiddetta golden rule che il Psoe ha chiesto di modificare in campagna elettorale).
Nonostante l’immediata smentita da parte del governo dell’offerta, si tratterebbe di un pacchetto molto appetitoso per il Psoe.
A parte la presidenza del Congresso che con le regole attuali verosimilmente otterrebbe comunque, il resto delle offerte a cambio di una mera astensione (a cui si aggiungerebbe quella, garantita, di Ciudadanos) sono inedite e dunque interessanti.
Ma durante l’incontro di ieri, durato solo un’ora, Sánchez ha ribadito il suo «No» a Rajoy, e così hanno fatto, ufficialmente, tutti i principali esponenti del partito. Anche la potente Susana Díaz, a capo della federazione andalusa, che ha snocciolato i suoi «no»: a Rajoy, ma anche a Podemos. Il comitato federale previsto per lunedì sarà molto vivace.
Da parte sua, Pablo Iglesias in un lucido editoriale per l’Huffington Post, intitolato significativamente «A Pedro non permettono», dopo essersi rallegrato che Ciudadanos si sia rivelato per quello che è, cioè un progetto per restituire il potere al Pp, prende anche lui a cannonate il segretario socialista e la sua scarsa iniziativa politica.
Dopo aver accusato il Psoe di essere più preoccupato di cercare un successore per Sánchez che un presidente del governo, Iglesias ribadisce le sue proposte chiave: senza usare la parola «referendum», parla di «assumere la democrazia come la via più efficace per risolvere la crisi territoriale», oltre a chiedere di «blindare» costituzionalmente i diritti sociali, derogare l’articolo sulla golden rule e ritirare le riforme del lavoro — quindi anche quella del Psoe — si oppone ai tagli, chiede di cambiare il sistema elettorale, bloccare le «porte girevoli» che portano i politici a passare a lavorare per le grandi imprese (uno dei suoi cavalli di battaglia) e assicurare l’indipendenza dei giudici, in un paese in cui la magistratura è fortemente legata al potere esecutivo.
«Se a Pedro Sánchez non permettono di provare a essere presidente — insiste Iglesias — perché magari non è neppure nelle condizioni di essere il segretario del suo partito, forse è il momento che una figura indipendente e di prestigio si prenda la responsabilità di fare i passi necessari per cercare di non far governare il Pp e di mettere fine al tempo della corruzione e della disuguaglianza».
Iglesias sa bene che buona parte del Psoe non accetterà mai le condizioni di Podemos, né quelle che gli imporrebbero i partiti catalani o baschi — indispensabili per ottenere il via libera della camera.
Ma forte di quell’unico punto percentuale che lo separa dal Psoe, inchioda Sánchez alla sua responsabilità di leader dell’opposizione, da cui presto spera di scalzarlo.
Per Filippo VI, che stasera parlerà alla nazione per il tradizionale messaggio natalizio, sarà un inizio d’anno complesso in cui avrà una centralità istituzionale inedita — dovrà proporre un candidato al presidente del Congresso se Rajoy dovesse fallire — e che molti temono.
Un capo dello stato non eletto con più protagonismo di quello protocollario potrebbe riaprire ferite mai rimarginate.
Il Sole 24.12.15
Spagna. I socialisti chiudono la porta a Rajoy
Nulla di fatto nel primo incontro tra i leader dei due partiti più votati domenica, sempre più difficile formare un governo
di Luca Veronese


Sanchez : il voto chiede il cambiamento, non aiuteremo la continuità del partito popolare
Sono bastati venti minuti al socialista Pedro Sanchez per stroncare le ambizioni di governo del conservatore Mariano Rajoy. Tanto è durato il primo incontro tra i leader dei due partiti più votati dopo le elezioni di domenica scorsa. La grande alleanza trasversale, la Grosse Koalition chiesta dal premier uscente «per garantire la stabilità e non buttare al macero gli sforzi fatti in questi anni dal Paese per tornare a crescere» è stata stroncata ancora prima che si potesse aprire una vera trattativa sui programmi.
I popolari si sarebbero accontentati di una promessa di astensione dei 90 deputati socialisti del Psoe, che assieme a Ciudadanos avrebbero così consentito la nascita di un governo di minoranza. Ma la mano tesa di Rajoy, che non avendo i numeri per fare da solo - con 123 deputati è ben lontano dalla maggioranza assoluta di 176 seggi sui 350 della Camera» - aveva chiesto «responsabilità e dialogo» a tutti gli schieramenti, è stata respinta da Sanchez.
«Il Psoe non darà alcun aiuto alla continuità di Rajoy e del Partito popolare al governo perché i cittadini hanno votato per il cambiamento», ha spiegato Sanchez dopo aver lasciato la Moncloa. «Rispettiamo la procedura della democrazia, questo è il momento del partito che ha vinto le elezioni» frenando così, almeno per il momento, anche le iniziative dei due nuovi movimenti entrati in Parlamento, gli indignati di Podemos e i moderati di Ciudadanos. «Dopo i tentativi dei popolari noi daremo seguito al mandato ricevuto dai cittadini perché la Spagna abbia un governo di cambiamento», ha aggiunto ancora Sanchez rilanciando la «volontà di dialogare», evidentemente con tutti tranne che con i popolari, e rifiutando l’ipotesi di nuove elezioni: «Non accettiamo questa ipotesi, è l’ultima delle opzioni», ha concluso.
A sostenere Rajoy, sebbene solo con l’impegno a non ostacolare i popolari, resta quindi solo Ciudadanos. Albert Rivera - il leader del movimento catalano unionista che ha conquistato 40 seggi alla Camera - ha proposto a popolari e socialisti un patto di governo a tre per compiere le riforme in Spagna e frenare la spinta anti-sistema di Podemos: «Una roadmap per la rigenerazione politica contro il populismo e il separatismo» che esclude del tutto Podemos «perché non possiamo negoziare e garantire l’unità degli spagnoli con chi vuole rompere la Spagna».
Podemos, con 69 deputati, è in effetti l’unica forza nazionale a favore del diritto a decidere dei catalani e disposta ad appoggiare un referendum con il quale la Catalogna possa scegliere in modo democratico il proprio futuro, dentro o fuori la Spagna.
Pablo Iglesias sta lavorando a una grande intesa di sinistra che potrebbe trovare il consenso delle formazioni indipendentiste della Catalogna e dei Paesi Baschi per formare un governo, modificare la legge elettorale e risolvere i contrasti tra Stato e regioni autonome. «Se non permetteranno a Pedro Sanchez di tentare, forse perché non riesce nemmeno a gestire il proprio partito, potrebbe essere il momento che una figura indipendente e di riconosciuto prestigio si prenda la responsabilità di fermare il Partito popolare e di mettere fine al tempo della corruzione e delle ineguaglianze».
L’incontro con Sanchez è stato il primo di Rajoy in questa fase post-elettorale incertissima e del tutto inedita per la Spagna. Dopo la pausa natalizia, lunedì il leader conservatore riceverà alla Moncloa Iglesias e Rivera. «Gli spiegherò la nostra proposta per il Paese che non è compatibile con un governo popolare», ha già detto Iglesias.
il manifesto 24.12.15
Cara sinistra, è finito il partito monoteista
Sinistra italiana. Accettare la sfida della complessità, dove ogni soggetto si riconosce come punto di partenza
di Lidia Menapace


Non riesco ad appassionarmi al «dibattito politico» in corso. La mia freddezza dipenderà certo dal cattivo carattere storicamente noto, ma ha anche una ragione «oggettiva»: ed è che la sua misura a me pare inferiore alla gravità e modestissima di fronte all’ampiezza delle questioni cui dovrebbe rispondere.
Cerco di dare un minimo di giustificazione critica a questo assunto per ora solo dichiarato. Si può oggi cercar dire qualcosa di «politico» senza ricordarsi che stiamo con un piede già in una guerra, e non occorre dire altro, per evocare tutti i peggiori fantasmi della nostra memoria?
Ma per non ammutolire, perché nessuno si chiede prioritariamente se qualcuno si ricorda ancora dell’articolo 11 della Costituzione che afferma perentoriamente «L’Italia ripudia la guerra» in qualsiasi forma, quella di aggressione che facemmo nella seconda mondiale, e pure quella detta difensiva in occasione di controversie internazionali nelle quali magari potremmo pure avere ragione?
Anche in questo caso dobbiamo ricorrere ad altri strumenti. Sembrava che questo comma dell’11 fosse decaduto per «costituzione materiale» come viene dolcemente chiamata la modifica di fatto della nostra Costituzione, e non nelle forme costituzionalmente previste, bensì per diritto consuetudinario, che peraltro non è il nostro. Capita però che Gentiloni e Kerry trovino invece una proposta per la questione libica di tipo politico e non militare e l’11 Cost. torna in vigore, evviva!
Dobbiamo fare novene a santa Rita, la santa degli impossibili, o a san Gennaro o a padre Pio, a seconda delle superstizioni che ciascuno in qualche modo osserva ? Francamente è troppo aleatorio e comunque certo «non scientifico»: non può essere gabellato per una risposta a Lenin.
Allora appunto: «Che fare?» Affrontare la questione delle forme della politica, che non è una banalità, ma un elemento fondativo per qualsiasi decisione o proposta.
Per non farla troppo lunga, mi ricordo che la questione delle forme della politica e specificamente quella che veniva chiamata alcuni decenni fa la questione della «forma/partito», è appunto annosa: mi appartiene dunque perché — se parlo io — è certo per Storia antica o per «gerontocrazia». Termini peraltro meno sgradevoli che «rottamazione».
Rinvio dunque a una proposta che avanzai allora sul manifesto (del cui gruppo storico facevo parte) che produsse anche un dibattito e poi svanì.
Dichiarato che la forma/partito è stata una delle più straordinarie invenzioni del pensiero e pratica politica, aggiungevo che però essa era adatta a rappresentare una società «semplice» e non era più utile di fronte alla «complessità sociale» scoperta da Niklas Luhmann e che in Italia aveva attratto l’attenzione di tutti i politologi e di Craxi che ne assunse le ricette pratiche , cioè che la «complessità sociale» pone problemi di governabilità e richiede un governo «decisionista». Luhmann aveva scritto le sue proposte per la Thatcher e gli americani degli anni Ottanta.
Rispetto a Luhmann allora dichiarai che bisogna assumere interamente la sfida della complessità, non accettando la proposta della «riduzione della complessità», della reductio ad unum, dell’intrinseco «monoteismo» del pensiero patriarcale e invece proporre di «governare la complessità». A questo punto dicevo che non vi è un solo soggetto politico pieno, ma che ogni soggetto può essere riconosciuto come «politico» se riesce a percorrere l’intero orizzonte della politica. Elencavo perciò il movimento operaio, il movimento delle donne, il movimento della pace, il soggetto dell’informazione (al posto del vecchio incerto e scientificamente indefinibile degli «intellettuali») e proponevo che si andasse costituendo un «Sistema», non un casino, «pattizio» non selvaggiamente intercompetitivo tra le forme politiche ecc. ecc.
Ho aggiunto cose e proposto aggiustamenti, ma a mio parere potrebbe ancora essere preso in considerazione. Ma per avviare un processo di questo tipo bisogna che ciascuno smetta di considerare se stesso come il monoteista unico punto di partenza e invece accetti confronti riduzioni modifiche ecc.
Se ne può discutere? A leggere ciò che propone senza spocchia ma seriamente Rifondazione, a me pare di sì.
Corriere 24.12.15
Cassa integrazione extralusso per diecimila piloti e hostess
La svolta annunciata Per il 2016 era previsto il taglio dell’indennità. Ma il provvedimento è ancora fermo
Il privilegio va verso il rinnovo. È finanziato con la tassa su tutti i biglietti
di Gian Antonio Stella


«È Natale, è Natale / si può fare di più…». Il celebre motivetto di uno spot natalizio non vale però per tutti. Più di così ai dipendenti Alitalia non si può proprio dare. Il governo, infatti, sta per donare loro l’ennesima proroga alla cassa integrazione extralusso. E undici anni dopo il primo accordo sul «fondo volo» non c’è Babbo Natale più generoso in tutto il pianeta.
Su un punto però quella canzoncina di Alicia dedicata a un pandoro ha ragione: «A Natale puoi fare quello che non puoi fare mai…». Esatto: era già successo l’anno scorso, sta per succedere di nuovo. Mentre gli italiani sono distratti dagli acquisti, dai regali, dai cenoni…
Ma partiamo dall’inizio. Da un’agenzia Ansa titolata «Alitalia: attivato fondo integrativo a cassa integrazione» del 21 aprile 2006. Quasi dieci anni fa. Diceva: «È operativo il Fondo speciale per il trasporto aereo che consentirà, tra l’altro, l’integrazione del reddito del personale Alitalia in cassa integrazione». E precisava che questo fondo era previsto da una legge del 2004 e che operava «presso l’Inps senza oneri per la finanza pubblica». Una promessa cara a Berlusconi: mai le mani nelle tasche degli italiani.
Come sia andata si sa. Lo ricordava nove mesi fa un dossier Inps. Che spiegava come il «salvataggio» della compagnia aerea (costato agli italiani quattro miliardi di euro e fortissimamente voluto dall’allora Cavaliere) aveva ancora agli inizi del 2015 uno strascico di quasi diecimila cassintegrati. Dei quali 152 benedetti da un assegno mensile tra i dieci e i ventimila euro e «casi limite in cui la prestazione si avvicina ai 30 mila euro lordi al mese». Cifre stratosferiche per tutti gli altri lavoratori, sottoposti per la cassa integrazione a un tetto massimo di 1.168 euro.
Come ricostruiva il dossier, infatti, decenni di privilegi concessi dalla compagnia di bandiera (uno per tutti: perfino dopo la riforma Dini piloti e personale di volo ebbero per qualche tempo la possibilità di andare in pensione a 47 anni con 23 di contributi) erano sfociati in un trattamento «deluxe» anche nello stato di crisi. Per capirci: i cassintegrati delle varie compagnie aeree in crisi (nella stragrande maggioranza Alitalia) possono contare sull’80% «della retribuzione comunicata dall’azienda all’Inps al momento della richiesta del trattamento integrativo, fino ad un massimo di 7 anni». Sette lunghissimi, interminabili anni.
Risultato: a dispetto delle promesse («senza oneri»…) la «cassa» era stata alimentata, per fare fronte al salasso, con un pubblico balzello pagato da ciascun passeggero aereo (di tutte le compagnie, anche quelle straniere) atterrato o decollato in un aeroporto italiano. Un euro, all’inizio. Poi due. Poi tre. Su tutti i biglietti. Dal low cost da pochi spiccioli al più lussuoso business intercontinentale. Di fatto, una soprattassa scaricata sui conti di tutti.
Soprattassa indispensabile: una tabella dell’Inps sulle fonti di finanziamento del «fondo» mostra infatti che dal 2007 al 2014 la quota fornita dalle aziende e dai lavoratori del settore (già bassissima) è via via scesa al 4% mentre i proventi della gabella sui biglietti sono saliti al 96%. «Un pilota che percepisce un salario mensile di 10.000 euro, di cui circa 4.000 euro di indennità di volo, versa al Fondo un contributo di 7,5 euro mensili». Una miseria. Compensata, in caso di cassa integrazione, da un assegno mensile di circa 8.000. Fate voi i conti.
Insomma, era così ingiusto questo sistema finanziato ogni anno, attraverso il balzello sui ticket, con duecento milioni di euro (e spesso di più) e complessivamente costato in pochi anni a tutti noi oltre un miliardo e mezzo, che da tempo, per usare un verbo amato da Matteo Renzi, era stato deciso di «svoltare». Col passaggio il primo gennaio 2016 dal Fsta (Fondo Sostegno Trasporto Aereo) a un Fondo di Solidarietà meno «privilegiato». E cioè sostenuto, come gli altri «fondi» di questo tipo, dai versamenti delle aziende e dei lavoratori. Altrimenti, spiegava l’Inps di Tito Boeri, «il Fsta diverrebbe l’unico fondo di solidarietà alimentato prevalentemente da proventi a carico della fiscalità generale».
Tutto chiaro? Macché. A una settimana dalla scadenza, la bozza del decreto attuativo che dovrebbe portare all’agognata «svolta» galleggia ancora da qualche parte tra i ministeri del Lavoro, dell’Economia e dei Trasporti ma alcune cose (salvo sorprese) vengono date per scontate. E cioè che forse l’Inps avrà qualche potere in più nella gestione (oggi il comitato è totalmente autoreferenziale) ma l’eccezione al tetto di 1.168 euro resterà intatta e comunque il «fondo» continuerà a venire alimentato ancora dal balzello sui ticket aerei, che scenderà sì a due euro e mezzo (per poi calare ancora negli anni futuri fino a 2,34 nel 2018) restando però il «pozzo» principale al quale attingere. Tanto che con la soppressione della gabella nel 2019 (campa cavallo…) il «fondo» non sarà più sostenibile. Sempre che, si capisce, non arrivi fra quattro anni una nuova proroga. Magari sotto Natale.
Corriere 24,12.15
Frode fiscale, 9 anni a Verdiglione e confisca da 110 milioni
Anche la storica Villa San Carlo Borromeo tra i beni sequestrati alle società condannate dal Tribunale di Milano
di Luigi Ferrarella


Milano Nove anni di condanna ad Armando Verdiglione, 7 anni a sua moglie Cristina De Angeli Frua, e a carico di due sue società (intanto fallite) anche la confisca — fino a un valore equivalente rispettivamente di circa 100 milioni e 10 milioni di euro — di beni come la storica dimora trecentesca Villa San Carlo Borromeo a Senago con 10 ettari di parco.
Il controverso psicanalista-imprenditore incassa questa sentenza dalle giudici di primo grado Trovato-Monfredi-De Cristofaro per i reati di associazione a delinquere, frode fiscale, truffa alle banche, e truffa allo Stato per conseguire erogazioni pubbliche. A Verdiglione si contestava non più il suo approccio alla psicanalisi (già costatogli 4 anni e 2 mesi nel 1986 per truffa, tentata estorsione e circonvenzione di incapace, più un patteggiamento a 1 anno e 4 mesi nel 1992), ma il mare di fatture false per operazioni inesistenti con le quali per il pm Bruna Albertini aveva ingannato il fisco, mentre per le difese aveva se mai alzato i volumi d’affari e reso i bilanci più appetibili alle banche chiamate a erogare mutui e finanziamenti. Ora le difese riproporranno in Appello la tesi che GdF e pm abbiano «parcellizzato» le operazioni e così duplicato Iva e supposti profitti in tasse evase, quando invece l’Iva dovuta sarebbe stata sempre pari a zero sia nel caso che l’operazione fosse reale (come Verdiglione rivendica per compravendite di opere d’arte, consulenza aziendale e convegni organizzati) sia nel caso fosse fittizia ma correttamente contabilizzata. L’accusa opponeva le dichiarazioni, benché ritrattate, «rese dal ragioniere che ha detto di aver ricevuto da Verdiglione disposizioni per fare in modo di non pagare imposte attraverso il giro delle fatture»; le intercettazioni «dalle quali emerge che Verdiglione era preoccupato che il vorticoso giro avesse iniziato a trovare ostacoli da alcuni funzionari di banche»; e «la non neutralità fiscale delle operazioni Iva».
Di evasione fiscale si discuteva anche in un altro processo finito ieri sempre a Milano in primo grado: Alessandra e Allegra Gucci, figlie di Maurizio Gucci, e la nonna Silvana Barbieri sono state assolte come chiesto dal pm Gaetano Ruta, mentre l’avvocato veneziano Fabio Franchini ha avuto 5 anni e mezzo per riciclaggio, con «non luogo a procedere» sull’avvocato Xenia Peran «per difetto di giurisdizione».
Corriere 24.12.15
Etica e scienza L’attuale dibattito sulla maternità surrogata suscita urgenti interrogativi sull’esistenza o meno di barriere che una società può ritenere di dover porre quando si tratta di attività che implichino la vita, la cura, la morte l’ideologia dei nuovi diritti affronti il concetto di limite
di Giovanni Belardelli


C’è da augurarsi che la discussione sulla maternità surrogata, aperta dal documento di alcune femministe contro la pratica dell’«utero in affitto», non si chiuda tanto rapidamente. Infatti il tema, al quale il Corriere ha dato ampio spazio nei giorni scorsi, va ben oltre la questione, pur rilevantissima, della liceità o meno della pratica della gestazione per altri (generalmente dietro un compenso in denaro), vietata nella maggior parte dei Paesi europei ma ammessa in Usa, India e vari Stati dell’ex Urss. In questo senso, la discussione non può essere ridotta a una mera faccenda tecnica, cioè ai mezzi per reagire all’infertilità in aumento, come sembra fare un documento della Fondazione Umberto Veronesi, che si è pronunciato per un sì senza riserve a favore della maternità surrogata. Non può esservi ridotta per il semplice fatto che ciò che è implicato in questo caso è qualcosa di sovraordinato rispetto alla pratica medica. È la domanda — antica, ma resa nuova e urgente dalle enormi potenzialità della scienza contemporanea — circa l’esistenza o meno di limiti che una società ritenga di dover porre quando si tratta di attività che implichino la vita, la cura, la morte.
È l’enorme sviluppo della scienza, e in particolare delle biotecnologie, che ci pone ormai di fronte a questioni del genere, rispetto alle quali siamo poco attrezzati. Un tempo infatti — sia detto senza alcuna nostalgia — tutto era o appariva più semplice. In una società non ancora secolarizzata, com’era quella italiana fino a qualche decennio fa, il confine tra ciò che era lecito e ciò che non lo era coincideva in larga misura con i dettami della religione cattolica. Questo era vero per i cattolici praticanti ma sostanzialmente anche per la sinistra comunista. Rispetto a quella situazione tutto è cambiato da tempo. Il mainstream culturale è caratterizzato da almeno tre decenni da quella che si configura come una vera e propria ideologia dei nuovi diritti; dall’idea, cioè, che l’obiettivo cui le nostre società devono puntare — dopo l’acquisizione dei diritti civili e politici, poi di quelli sociali — sia l’estensione dei diritti che attengono all’identità individuale, anzitutto di genere, e alle scelte personali. Il tema dell’eutanasia come quello dei matrimoni gay stanno evidentemente dentro questa grande categoria di nuovi diritti.
Il punto è che l’ideologia dei nuovi diritti, incentrata com’è sull’idea di una sempre maggiore libertà di scelta dell’individuo, è poco interessata ma anche poco attrezzata a confrontarsi con l’idea del limite, che viene spesso considerato come qualcosa di reazionario in sé e da rigettare. Ciò che è appunto particolarmente significativo nel dibattito in corso sulla maternità surrogata è che i dubbi, anzi la vera e propria contrarietà, siano esplosi proprio all’interno di quelle posizioni progressiste e di sinistra più tradizionalmente sensibili al tema dei nuovi diritti.
Qualche mese fa c’è stata infatti la condanna formulata su Libération da un gruppo di femministe francesi, tra cui la filosofa di sinistra Sylviane Agacinski; più di recente l’analogo documento di femministe italiane (firmato anche da intellettuali come Beppe Vacca); infine il rapporto sui diritti umani del Parlamento europeo secondo il quale la maternità surrogata «compromette la dignità umana della donna dal momento che il suo corpo e le sue funzioni riproduttive sono usati come una merce». Nello stesso testo, l’Assemblea di Strasburgo invitava a realizzare al più presto una tutela giuridica, unione registrata o matrimonio, per le coppie gay; ciò che indica appunto come la condanna dell’«utero in affitto» provenga da ambienti impegnati sul piano della rivendicazione dei nuovi diritti. Ma che pensano anche, come ha scritto sul Corriere la filosofa femminista Luisa Muraro, che «non tutto è disponibile per l’essere umano». Cioè che, nel caso specifico, non può esistere alcun diritto ad avere un figlio a tutti i costi, anche a quello di ridurre a merce il corpo di un’altra donna; una donna usata come «un forno», ha accusato Cristina Comencini con un’immagine molto dura ma che bene rende l’idea di come non si possa ignorare il rapporto profondo che si costruisce tra un bambino e la donna che lo ospita nel suo corpo. Quali che siano gli esiti del dibattito sull’«utero in affitto», lo sviluppo scientifico ci obbligherà sempre più a fare i conti con questo tipo di problemi. Che sono nuovi, ma non assolutamente inediti: già Immanuel Kant, che una cosa come la maternità surrogata non poteva nemmeno immaginarla, invitava ad agire «in modo da trattare l’umanità, nella tua come nell’altrui persona, sempre come fine mai come mezzo».
La Stampa 24.12.15
Due mamme per una figlia. Per la Corte d’Appello si può
La sentenza conferma la “stepchild adoption” per una coppia omosessuale
di Francesca Paci


Da oggi due mamme con una bimba sono una famiglia. Parola della Corte d’Appello di Roma che ieri ha confermato una sentenza del Tribunale dei Minori di Roma di un anno e mezzo fa secondo cui una donna aveva il diritto di adottare la figlia biologica della sua compagna, sposata all’estero. Nel 2014 la senatrice Monica Cirinnà aveva da poco presentato il disegno di legge sulle unioni civili, terreno di forte scontro ideologico rispetto al quale la decisione dei giudici capitolini apriva di fatto la strada alle adozioni omosessuali. Ora, in attesa che il ddl Cirinnà venga discusso il 26 gennaio, la nuova fuga in avanti del tribunale romano che in pratica riconosce la «stepchild adoption», la possibilità per il genitore non biologico di adottare il bambino del partner.
«Con motivazioni chiare ed essenziali la sentenza conferma che in Italia il partner di una coppia omosessuale può adottare» commenta Maria Antonia Pili, legale della coppia che aveva avuto la bimba all’estero con procreazione assistita eterologa. In Italia la «stepchild adoption» è già possibile per le coppie eterosessuali sposate da almeno 3 anni e per i conviventi che siano coniugati al momento della richiesta ma è preclusa ai gay, per i quali non c’è matrimonio. Nel resto del mondo la pratica è aperta agli omosessuali in 28 i paesi, 21 dei quali ammettono anche l’adozione di minori senza legami biologici con i futuri genitori.
La notizia è rilevante. Lo prova polemica già sollevata dal presidente della Commissione lavoro del Senato Sacconi, «la sostanza rappresenta l’ennesima dimostrazione di come il potere giudiziario sia irresponsabile e pronto a decidere contra legem». Poco cambia che i giudici abbiano spiegato come in questo caso, a indagini effettuate, sia prevalso l’interesse della bimba. La motivazione recita che «non si tratta di affiancare una seconda figura materna ma di prendere atto d’una relazione consolidata nella vita della minore» e valutarne l’utilità. Ma la materia scotta: chi avversa la stepchild adoption tuona che i figli hanno diritto a un padre e una madre.
Nel giorno in cui anche la Grecia approva una legge sulle unioni civili la Cirinnà esulta. Ora tocca all’Italia: «La decisione della Corte d’Appello di Roma indica che la soluzione identificata per garantire alle famiglie arcobaleno l’estensione della responsabilità genitoriale è un primo passo per assicurare la tutela di tanti bambini, come i tribunali italiani stanno riconoscendo». Uno dei punti più discussi del suo ddl è l’articolo 5, quello sulla stepchild adoption. È il tema dei temi. Una ricerca dell’Arcigay patrocinata dall’Istituto Superiore di Sanità rivela che il 17,7% dei gay e il 20,5% delle lesbiche over 40 hanno almeno un figlio.
Repubblica 24.12.15
A cosa serve una commissione d’inchiesta
di Alessandro Pace


NEL 1973 scrissi un saggio, assai ampio, intitolato “L’inchiesta parlamentare come strumento di governo della maggioranza”. La tesi, ivi prospettata e da me tuttora sostenuta, è che in un sistema parlamentare — nel quale il governo deve godere della fiducia del Parlamento e la maggioranza non si può contrapporre platealmente al governo, pena le dimissioni del premier — le commissioni parlamentari d’inchiesta hanno le unghie spuntate. La delibera istitutiva è infatti predisposta e votata dalla maggioranza, la commissione è presieduta da un parlamentare di maggioranza, la composizione della commissione è proporzionale alla consistenza dei gruppi. Conseguentemente l’esercizio dei notevoli poteri istruttori — identici a quelli dell’autorità giudiziaria (assunzione di testimonianze sotto giuramento, sequestro di documenti, perquisizioni domiciliari e personale, ma non pronuncia di sentenze!) — è condizionato dalla volontà della maggioranza.
Ben diversamente, quindi, da quanto accade negli Stati Uniti dove le Camere del Congresso hanno una legittimazione politica “autonoma” rispetto al presidente, e pertanto possono, nello svolgimento delle indagini e degli esami, contrapporsi frontalmente all’esecutivo. Per contro, nel nostro sistema parlamentare la legittimazione del governo consegue dalla legittimazione democratica del Parlamento, per cui una contrapposizione frontale tra legislativo ed esecutivo è inimmaginabile anche solo teoricamente.
Alla luce delle inchieste fino ad allora istituite, scrivevo perciò nel 1973, citando le inchieste parlamentari di volta in volta prese in considerazione, che l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta può «servire come mezzo per procrastinare la soluzione di determinati problemi (…); per risolvere indirettamente un problema politico evitando di mettere in gioco la responsabilità governativa (…); per impostare difficili problemi politici o amministrativi in maniera favorevole o, quanto meno, non così sfavorevole come se l’impostazione fosse fatta obiettivamente (…); per alleviare in qualche modo la pressione di un’opinione pubblica che — se accentuata — potrebbe avere implicazioni negative sulla responsabilità “diffusa” del governo in carica (…)». E concludevo: che l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta, serve, in definitiva, «su un piano più generale e conclusivo, per rallentare l’accertamento di fatti sfavorevoli; per assorbire più facilmente critiche altrimenti violente; per recuperare — sul piano delle indagini — la credibilità perduta nel comportamento politico e amministrativo quotidiano ».
Orbene, se compariamo, da un lato, la mia tesi di allora, secondo la quale l’inchiesta parlamentare, come attualmente disciplinata nell’articolo 82 della Costituzione, serve più alla maggioranza che alle opposizioni e, dall’altro, i titoli di Repubblica del 23 novembre (“Banche, mossa del PD: Subito un’inchiesta in Parlamento”. “Oltre quaranta democratici firmano la proposta di legge”, “Il via libera del premier dopo gli attacchi: Ma ora si indaghi sugli ultimi 20 anni”), è di tutta evidenza come la proposta dei 40 parlamentari Pd di istituire un’inchiesta parlamentare, col grazioso benestare del premier, cerchi di evitare di mettere in gioco la responsabilità governativa relativamente alla vicenda dei quattro istituti, allargando l’oggetto dell’inchiesta su tutto il mondo bancario dal 2000 ad oggi, e conseguentemente impostando l’inchiesta in maniera se non smaccatamente favorevole, quanto meno non così sfavorevole come se l’inchiesta venisse decisa da un’autorità indipendente o dall’opposizione parlamentare.
La proposta del Pd tenta quindi di alleviare in qualche modo l’attuale pressione dell’opinione pubblica sul tema dei quattro istituti: pressione che — se accentuata — potrebbe addirittura avere implicazioni negative sulla stessa responsabilità del governo.
Concludo. Che le inchieste parlamentari in un sistema parlamentare servano a poco, in quanto condizionate dalla maggioranza, lo sottolineò per primo il grande sociologo tedesco Max Weber, il quale, in sede costituente della Costituzione tedesca del 1919, propose la norma, poi recepita anche nella vigente Legge fondamentale, secondo la quale il Bundestag ha addirittura il “dovere”, se richiesto da un quarto dei suoi componenti, di istituire una commissione d’inchiesta. È evidente che la composizione della commissione dovrà pur sempre rispettare la proporzionalità della consistenza dei gruppi, ma a determinare l’oggetto dell’inchiesta sarà la minoranza e non la maggioranza, che ha tutto l’interesse di «menare il can per l’aia».
Merita infine di essere ricordato che nel corso dei lavori preparatori della riforma costituzionale Renzi-Boschi, sia al Senato che alla Camera, i parlamentari del M5S e taluni parlamentari dell’allora minoranza Pd meritoriamente proposero la modifica del citato articolo 82 della Costituzione, al fine di recepire, anche da noi, il modello tedesco. Un tentativo che qualificherei “illuministico” sol che si rifletta che l’idea di fondo della riforma Renzi-Boschi era ed è quella, opposta, di rafforzare il ruolo del governo a spese del Parlamento. E difatti quella proposta venne platealmente snobbata.
Repubblica 24.12.15
Perquisizioni in banca e spunta l’ipotesi truffa Cda, 500 milioni di sviste
La Finanza nella sede di Civitavecchia per il suicidio di D’Angelo Bankitalia: tutte le discrepanza tra i conti ufficiali e quelli degli ispettori
di Federica Angeli, Fabio Tonacci


LE INDAGINI
ROMA Una perquisizione della Guardia di Finanza nella filiale della banca Etruria di Civitavecchia e un documento di Bankitalia che dimostra una svista da quasi mezzo miliardo da parte degli amministratori della sede centrale di Arezzo. L’inchiesta su Banca Etruria si muove su più fronti.
IL BLITZ A CIVITAVECCHIA
Ieri mattina i finanzieri del nucleo di polizia valutaria insieme al procuratore Alessandra D’Amore, titolare del fascicolo sulla morte di Luigino D’Angelo, il pensionato che il 28 novembre scorso si è tolto la vita dopo aver scoperto di aver perso tutti i suoi risparmi di una vita, hanno perquisito la sede di Civitavecchia. Oltre a sequestrare il carteggio relativo alla pratica di Luigino – dai questionari Mifid all’acquisto di azioni e obbligazioni – anche documentazione di altri risparmiatori di quella banca.
IL REATO DI TRUFFA
Il motivo della perquisizione di ieri sta nell’apertura di un’indagine parallela a quella per istigazione al suicidio. Tutto ciò che riguarda infatti la morte del pensionato, che in una lettera testamento aveva indicato i motivi e i responsabili del suo gesto, è affidato alla terza sezione della squadra mobile di Roma. Gli inquirenti hanno già interrogato Marcello Bendetti, il dipendente di banca Etruria che asserisce di aver venduto le obbligazioni subordinate a D’Angelo (e a molti altri) e che, in un’intervista esclusiva a Repubblica aveva dichiarato di aver subito delle forti pressioni dai direttori della banca affinchè i risparmiatori acquistassero quei bond a perdere. L’uomo, allontanato nel luglio del 2014 dalla filiale di Civitavecchia per aver sottratto soldi ai correntisti in maniera illecita, ha chiesto che venisse secretato l’interrogatorio. Le sue parole però hanno fatto scattare il secondo filone di indagine, che è quello appunto affidato alla Guardia di Finanza, con un’ipotesi di reato diversa: truffa. Se è vero, come più di un dipendente su scala nazionale di banca Etruria sembra ammettere, che si aveva contezza di vendere prodotti “fuffa” a fronte di un già assodato crac dell’istituto, allora si profilano responsabilità penali molto serie.
IL PC DELLA VITTIMA
Proprio per questo motivo è stato sequestrato, anche il computer della vittima. All’indomani della tragedia, dalla centrale di Arezzo era arrivato un comunicato che sostanzialmente attribuiva a Luigino la responsabilità dell’acquisto di bond nel mercato secondario. Nel pc dovrebbero dunque trovarsi tracce delle sue operazioni “autonome”. Ad oggi nessun nome compare nel registro degli indagati, ma già dalla prossima settimana, verranno ascoltati in procura sia il direttore della filiale di Banca Etruria di Civitavecchia (quello in carica quando sono state vendute le subordinate a Luigino), sia quello attualmente in carica, sia i dipendenti per chiarire bene i contorni della vicenda.
LA RELAZIONE DI BANKITALIA
Intanto dalla relazione della seconda ispezione di Bankitalia (18 marzo - 6 settembre 2013) viene fuori che gli amministratori della Popolare dell’Etruria avevano un concetto tutto loro su come tenere i conti. Scrive il capo del team di ispettori Emanuele Gatti: «Al 31 dicembre del 2012 sono emerse posizioni in sofferenza per 1.2 miliardi di euro, incagli per 933,8 milioni e previsioni di perdita per 931 milioni. Le differenze rispetto alle evidenze aziendali sono pari, nell’ordine, a 187,4 milioni, 85,5 milioni e 136,7 milioni”. Tradotto: tra i documenti contabili che il cda di allora (presidente Giuseppe Fornasari) forniva e i calcoli degli uomini mandati da Palazzo Koch c’era uno scarto di 410 milioni di euro.
IL CONTROLLATO CONTROLLAVA
E’ anche da questa svista milionaria che è partita l’indagine del procuratore di Arezzo Roberto Rossi per ostacolo alla vigilanza: indagati Fornasari, l’ex dg Luca Bronchi, il dirigente centrale David Canestri. Com’era possibile che nessuno, all’interno del management della Popolare, si fosse accorto che i rendiconti fossero così lontani dalla realtà? La risposta la si legge qualche riga dopo. «Si segnala l’impropria commistione in capo a un’unica Direzione (Pianificazione, Risk e Compliance) di compiti operativi e di controllo. Il penetrante coinvolgimento della struttura nella definizione degli obiettivi di rischio, reddito e patrimonio ne ha indebolito funzionalità e indipendenza ».
AFFARI CON L’UOMO DI TANGENTOPOLI
Il capitolo “consulenze”, poi, è ricchissimo. Una verifica del gennaio 2015 scopre comportamenti “anomali” dell’ex dg Bronchi: “delibere assunte oltre i poteri delegategli”, “numerosi pagamenti a fronte di prestazioni non preventivamente contrattualizzate”, “incarichi conferiti contestualmente a diversi professionisti sulle stesse materie”. Tra le consulenze segnalate dagli uomini di Bankitalia e richiamate in un terzo verbale (relativo all’ultima ispezione: novembre 2014-febbraio 2015), ce n’è una da 235 mila euro per “il supporto alle attività commerciali e culturali coordinate dalla Direzione generale” data alla Mosaico srl. La storia della Mosaico è stata ricostruita ieri dall’Espresso: si occupa di servizi artistici e gli azionisti sono Giulia e Giorgio Zamorani, i figli di Alberto Zamorani, l’ex vicedirettore generale dell’Italstat arrestato nel 1992 per l’inchiesta sulle mazzette nelle autostrade. Zamorani ha lavorato con Rigotti tra il 2000 e il 2008 nel Gruppo Abm, che ha ricevuto finanziamenti per una ventina di milioni di euro da Etruria. Fu di Rigotti, secondo una qualificata fonte di Repubblica, il voto decisivo nel cda che nel 2009 fece vincere la cordata “democristiana” Fornasari-Rosi a scapito dell’allora presidente Elio Faralli.
La Stampa 24.12.15
Perché si festeggia il 25 dicembre?
di Giorgio Bernardelli


I Vangeli collocano la nascita di Gesù in un periodo storico preciso - il regno di Erode il grande - ma non offrono riferimenti a una data. E nei primi due secoli non risulta nemmeno che i cristiani celebrassero il Natale: non compare nell’elenco delle feste compilato da Ireneo nel II secolo, mentre un altro grande teologo dell’epoca - Origene - ironizzava sui compleanni come pratica pagana.

Il primo riferimento a una presunta data di nascita di Gesù affiora intorno all’anno 200 in uno scritto di Clemente di Alessandria, che cita due scuole di pensiero, nessuna delle quali, però, legata al giorno che noi associamo al Natale: secondo alcuni cristiani - dice infatti Clemente - Gesù sarebbe nato il 28 agosto per altri il 20 maggio.
Solo a partire dal IV secolo si affermano le due date che oggi conosciamo: il 25 dicembre per le Chiese d’Occidente e il 6 gennaio per i cristiani d’Oriente. Perché il 25 dicembre? Secondo la tesi più accreditata avrebbe mutuato questa data dalla festività del Sol Invictus, la festa del sole che rinasce, stabilita nell’anno 274 a Roma dall’imperatore Aureliano in onore di Mitra, la divinità vincitrice delle tenebre. Secondo i calcoli astronomici di allora il 25 dicembre era la data del solstizio d’inverno e dunque il momento dell’anno in cui le giornate ricominciavano ad allungarsi. Reinterpretando il senso della festività i cristiani avrebbero quindi cominciato a festeggiare il 25 dicembre come giorno della nascita di Gesù, il “nuovo sole” che illumina il mondo.
Esiste però anche una seconda ipotesi, più legata a una visione teologica: secondo alcuni studiosi il punto di partenza sarebbe la data della morte di Gesù, che i Vangeli collocano al 14 del mese di nisan del calendario ebraico. Secondo i calcoli di Tertulliano - altro grande teologo cristiano vissuto tra il II e il III secolo - nell’anno della morte di Gesù sarebbe coinciso con il 25 marzo. Così, a partire dell’idea (tipica del mondo antico) secondo cui l’inizio e la fine si ricollegano, a quella data i cristiani avrebbero cominciato ad associare anche il concepimento di Gesù, con la memoria dell’Annunciazione dell’angelo a Maria. Come conseguenza la data del 25 dicembre sarebbe stata associata al Natale calcolando i nove mesi della gestazione.
qui
http://www.lastampa.it/2015/12/24/multimedia/societa/perch-si-festeggia-il-dicembre-zpnD0of7ZGIgl31I8TA4dL/pagina.html
Repubblica 24.12.15
Mai così tanti i lavoratori a termine
Sono 2,5 milioni: crescita continua anche dopo l’entrata in vigore del Jobs Act
di Filippo Santelli


ROMA L’Italia non ha mai avuto così tanti lavoratori a tempo determinato. Quelli con la data di scadenza, un anno se va bene, qualche volt un mese. A dispetto del Jobs Act, con il nuovo contratto a tutele crescenti. E a dispetto della generosa decontribuzione attiva da gennaio che dovrebbe incentivare le imprese ad assumere in pianta stabile. Perché è vero, come rivendica il premier Matteo Renzi e conferma l’Inps, che le assunzioni a titolo definitivo dall’inizio del 2015 sono aumentate. Ma allo stesso tempo si sono anche impennate le posizioni a termine: nel terzo trimestre dell’anno, certifica l’Istat, sono arrivate a 2 milioni e 560mila, massimo storico. Esplose, ecco il paradosso, soprattutto dopo l’entrata in vigore della riforma del lavoro, come mostra una ricerca appena pubblicata da tre economisti italiani. Tra gennaio e ottobre 2015, sul totale del lavoro dipendente in Italia, l’incidenza del tempo indeterminato è scesa dall’86,4 all’85,4%. Mentre quella del determinato è aumentata dal 13,6 al 14,6%. Altro massimo storico.
La lieve ripresa dell’occupazione registrata finora, insomma, è fatta per la maggior parte di lavoro a tempo. Sui contratti aggiuntivi firmati da inizio anno, i rapporti attivati meno quelli cessati, solo il 16% è stabile. E le 906 mila assunzioni a tutele crescenti che secondo l’Inps hanno goduto degli incentivi voluti dal governo hanno fatto crescere il monte dei lavoratori a tempo indeterminato di appena 100mila unità: un contributo pubblico di 20mila euro per ogni posto fisso in più. La ricerca, condotta nell’ambito del progetto europeo IsiGrowth, parla di esplicito “fallimento” del Jobs Act nel creare occupazione permanente. «Da una parte c’è la congiuntura ancora incerta, che suggerisce alle aziende di non assumere in modo permanente», commenta Dario Guarascio, ricercatore in Economia alla Sant’Anna di Pisa, autore del paper insieme a Valeria Cirillo e Marta Fana. «Dall’altra c’è stato un messaggio contraddittorio del governo, che qualche mese prima della riforma del lavoro, con il decreto Poletti, ha liberalizzato i contratti a tempo determinato ».
Misura che ha aiutato le aziende ad assumere, trasfor-mando quel poco di ripresa in occupazione. Senza contare che un contratto da dipendente, seppure a scadenza, è sempre meglio per diritti e tutele di uno dei tanti rapporti autonomi a progetto, spesso finti. Almeno per ora però, nonostante il massiccio investimento di risorse sul contratto a tutele crescenti, la tendenza alla stabilizzazione dei contratti di lavoro si fatica a vedere nei numeri. Di certo non c’è per i più giovani, gli under25, tra cui la quota del tempo determinato sfiora il 60% del totale. E pure tra le persone assunte con il nuovo contratto a tutele crescenti, senza articolo 18, che ricevono in media una retribuzione dell’1,4% inferiore a quella degli assunti del 2014, e con un’incidenza dell’impiego part time, spesso involontario, molto superiore. Dal prossimo anno poi gli sgravi sui contributi per le aziende che assumono a tempo indeterminato diventeranno assai meno generosi, scendendo dal 100 al 40%. Convincerle a allargare l’organico sarà ancora più difficile.
Corriere 24.12.15
la delusione sociale di cui beneficia il grillismo
di Dario Di Vico


Tra i due litiganti alla fine il terzo gode. Dopo una stagione nella quale Matteo Renzi e i corpi intermedi se le sono date di santa ragione il risultato è l’aumento di consensi di Beppe Grillo.
Il premier ha fatto della disintermediazione uno dei suoi cavalli di battaglia sostenendo che tra i tanti motivi della bassa crescita italiana c’era proprio il potere di veto delle corporazioni consolidatosi nel rito della concertazione. Coerentemente con quest’analisi Renzi ha via via messo nel mirino i vizi dei sindacati e delle associazioni artigiane accusate di privilegiare le logiche di potere rispetto alla rappresentanza dei propri iscritti, di coltivare una visione della società ormai fuori registro e di aver chiuso le porte all’innovazione.
Fin qui poco da dire, e forse parecchio da condividere, ma Renzi avrebbe dovuto poi mostrare il dividendo della deregulation, avrebbe dovuto esibire alla base sindacale e al ceto medio un Pil scoppiettante. Non gli è stato possibile e così non ha incassato i frutti della sua campagna politica.
Per dirla con una vecchia immagine della politica ha scosso l’albero ma non ha raccolto le mele, la sua constituency non si è allargata, non ha aumentato il pescaggio sociale. È sempre elevato il consenso di opinione per Renzi e il Pd ma deriva più dalla capacità (politica) di presentarsi come l’unica offerta affidabile — da qui la forte attenzione dell’area centrista e degli imprenditori privati medio-grandi — che da un ampio convincimento (sociale) sui provvedimenti adottati. L’unica eccezione sono stati gli 80 euro e l’hanno infatti portato oltre quota 40.
I corpi intermedi, dal canto loro, attraversano una fase di grande stanchezza. Quando si riuniscono insieme le tre segreterie di Cgil-Cisl-Uil è un evento segnalato persino dalle agenzie di stampa e per confezionare un documento unitario passano settimane.
Rete imprese Italia che doveva portare alla creazione della rappresentanza unica del ceto medio produttivo non viene nemmeno più nominata. La Grande crisi li ha segnati, li ha portati a ripiegare sulla difensiva e a rimandare a tempi migliori i progetti.
Davanti all’attacco di Renzi la società di mezzo si è prima indignata e poi quasi rassegnata alla perdita di interlocuzione. Scontando l’irrilevanza si difende come può, ottenendo qualche misura ad hoc (l’aumento del contante) oppure riprendendo a scioperare.
Gli iscritti a Cgil-Cisl-Uil e gli artigiani/commercianti associati non si sono certo avvicinati elettoralmente a Renzi, anzi una parte dei lavoratori dipendenti ha cominciato a sostenere nei sondaggi la scelta del non voto mentre i piccolissimi imprenditori si sono via via avvicinati a Grillo.
Dalla fine della concertazione dunque più che il Pil ne hanno guadagnato i Cinquestelle. Non hanno dovuto far molto, è riuscito loro di porsi come piattaforma di riferimento dei delusi sia del renzismo sia della rappresentanza.
Il «piccolo» non vede risultati tangibili arrivare dall’Europa e dal governo e sospetta che le banche siano contro di lui.
Con tutta probabilità avrebbe aderito alla battaglia della disintermediazione, avrebbe lui stesso contribuito a lottare contro le corporazioni ma visto che Matteo Renzi si è fermato a metà del guado ora trova sfogo nel grillismo. Che da parte sua è riuscito in un’operazione tutt’altro che facile: ha sommato lo stock dei vecchi consensi che gli venivano dalla battaglia contro i costi della politica ai nuovi flussi costituiti dall’appoggio di chi si sente maggiormente colpito dalla crisi .