sabato 2 agosto 2008

l’Unità 2.8.08
Editoria, la solita «filosofia»: guai ai poveri, potenti intoccabili
La manovra azzera i fondi diretti a giornali di partito e cooperative. Ma non tocca un euro ai grandi gruppi editoriali
di Massimo Palladino


«Il taglio di 357 milioni del fondo per l’editoria, previsto nel prossimo triennio, andrà a debilitare ulteriormente realtà che già versano in una difficile situazione economica». Giovanna Melandri, ministro delle Comunicazioni nel governo ombra del Partito Democratico, boccia il provvedimento che riguarda l’editoria contenuto nella manovra triennale estiva. «Di fatto - continua la parlamentare democratica - è stata avviata la cancellazione del pluralismo culturale e politico della carta stampata italiana». Letta così, il dispositivo dell’articolo 44 contenuto nella manovra - titolo, «Semplificazione e riordino delle procedure di erogazione ai contributi all'editoria» - ha ben poco di rassicurante. Sotto la mannaia del ministro Giulio Tremonti rischierebbero un ammanco di fondi importanti giornali di partito, ma anche quotidiani come «Avvenire» o «Manifesto» e giornali a tiratura locale. In gioco il pluralismo dell’informazione, ma anche posti di lavoro. Per non dire delle enormi difficoltà che le cooperative editoriali dovranno affrontare per far quadrare i già sofferenti bilanci e farsi anticipare i contributi dalle banche.
Tanto per dare un’idea: nel 2008 il fabbisogno per l’informazione si aggirerebbe sui 590 milioni di euro, di cui 190 per i contributi diretti e 300 per quelli indiretti (agevolazioni fiscali, spese per elettricità etc.). Il precedente governo aveva previsto un fondo di 400 milioni, prontamente decurtato dall’intervento del ministro Tremonti che avrebbe tagliato circa 87 milioni di euro per l’anno corrente. Ma la vicenda, e questo è il paradosso, non riguarda i grandi gruppi editoriali. Verrebbero infatti colpiti i fondi diretti, ma non i 300 milioni di euro di contributi indiretti che sono ad appannaggio proprio dei gruppi editoriali che possono far leva anche sulla raccolta pubblicitaria. Oltre il danno, la beffa.
A chiedere un ripensamento della manovra sull’editoria è anche il presidente dell’ Associazione generale delle cooperative italiane (Agci), Rosario Altieri, che denuncia il dimezzamento delle risorse da 414 milioni a 200 milioni annui entro il 2011: «È inaccettabile la comunicazione parziale e fuorviante che viene fornita in proposito. In gioco - ha dichiarato Altieri - non ci sono solo i giornali di partito ma la totalità dell’editoria cooperativa e no profit». Il riferimento è alle testate locali, principale veicolo di comunicazione in molte realtà regionali. Una politica fatta di tagli secondo Altieri è «in aperta contraddizione con gli indirizzi del governo, che nel federalismo e quindi nel rafforzamento delle autonomie locali ha uno dei suoi assi programmatici».
Duro infine il giudizio di Giuseppe Giulietti, portavoce dell’associazione Articolo 21 e deputato di Italia dei Valori: «Quanto è accaduto in queste ore, non è accettabile. Restiamo convinti che si possa e si debba fare una riforma dell’ editoria fondata sul più ampio e positivo dialogo tra il governo e l’opposizione».

l’Unità 2.8.08
Piero Sansonetti. Direttore di «Liberazione»
Temo la scomparsa della sinistra italiana


«Con questi tagli, il governo mette in gioco anche gli equilibri politici».
Piero Sansonetti direttore di Liberazione, organo di Rifondazione Comunista, è drastico anche se in realtà spera che fino alla fine possano intervenire dei cambiamenti. Il dispositivo dell’ articolo 44 messo a punto dal ministro Giulio Tremonti, secondo il direttore di Liberazione, andrebbe a tagliare i contributi ai giornali, ma alla lunga inciderebbe anche sullo stato della democrazia del Paese.
Secondo quanto sostiene, il rischio chiusura per l’informazione partitica o edita da cooperative, avrebbe conseguenze anche sul clima politico.
«L’eventuale chiusura di Liberazione, ma anche del manifesto, dovrà essere letta come la scomparsa della sinistra politica italiana già esclusa dal Parlamento dopo il voto di aprile. Poi, come già detto da altri commentatori, in generale c’è in gioco la libertà di stampa. I giornali di informazione partitica influenzano infatti, più di quanto si possa pensare, l’informazione».
Cosa pensa della proposta della direttrice del Secolod’Italia? Lei ipotizza una tutela speciale ai giornali davvero di partito, come Liberazione, Secolo, Padania, Unità, Europa.
«Mi trova d’accordo, ma aggiungerei anche il manifesto, un giornale politico anche se non ha un partito alle spalle».
E Avvenire?
«No, Avvenire no».
Ipotizziamo che in autunno nulla sarà cambiato. Cosa direte ai lettori ?
«Intanto lavoriamo per far cambiare le misure previste in questa manovra. Detto questo, per settembre, abbiamo in cantiere una serie di iniziative, ma credo sia presto per parlarne».
m. p.

l’Unità 2.8.08
Gabriele Polo. Direttore de «il manifesto»
Qui è in gioco la libertà non solo il nostro futuro


Una foto nera e un titolo eloquente Ci vogliono chiudere. Così il manifesto in edicola ieri. Il direttore Gabriele Polo parla di un «diritto condizionato agli stanziamenti che di anno in anno verranno erogati», di un manifesto che comunque sarà sempre in edicola e di un’iniziativa pubblica per settembre.
Il quotidiano da tempo convive con crisi finanziarie e rischi chiusura. Questa volta come lo spega ai lettori?
«Proprio perché veniamo da una storia sofferta, troveremo il modo di salvarci. Siamo abituati a stipendi pagati con ritardo, al coinvolgimento fattivo di chi ci legge che in passato ha sottoscritto campagne di autofinanziamento e di sostegno. L’allarme però riguarda, è vero la stampa politica, ma anche i giornali locali, ricchezza autentica per il pluralismo dell’informazione. A leggere bene c’è una sottile linea di fondo che unisce questa misura con gli altri provvedimenti antidemocratici del governo».
Non può negare però che sempre in nome della libertà di informazione, siano stati sperperati soldi pubblici.
«È vero, ma la normativa sulla stampa cooperativa, parla proprio di un “bene comune” per la collettività. Quindi a prescindere dai bilanci, un bene meritevole di tutela che non può essere condizionato da equilibri contabili».
E intanto i grandi gruppi editoriali continueranno a usufruire dei finanziamenti indiretti esclusi dai tagli.
«Proprio così. Sarebbe meglio introdurre strumenti di verifica, il monitaraggio tra copie stampate e vendute. Mentre un certo tipo di stampa è a rischio chiusura, i grandi gruppi editoriali continueranno a privatizzare gli utili e collettivizzare le perdite. Insomma, si è scelto di tagliare i contributi diretti, invece che intervenire sugli sperperi».
E se le cose non venissero modificate?
«Abbiamo in cantiere una manifestazione pubblica, di massa sulla democrazia. E naturalmente l’informazione sarà al centro dell’iniziativa. Ripeto non è in discussione il futuro del manifesto, ma della libertà». m. p

l’Unità 2.8.08
Direttore de «Il secolo d’Italia»
Si tutelino i cinque giornali di partito


La scure dei tagli del ministro Tremonti si abbatte sui giornali di partito e cooperative non risparmiando nessuno, a sinistra come a destra. Flavia Perina direttrice del Secolo, il quotidiano di Alleanza Nazionale, non è però pessimista e anzi avanza una proposta.
Di fronte a questi tagli, targati centrodestra, e che riguarderanno anche il giornale da lei diretto, è più perplessa o imbarazzata?
«Chiariamo subito che è dalla passata legislatura che si riduce il bacino delle sovvenzioni economiche. Nonostante ciò sono cautamente ottimista e convinta che a partire da settembre, con la discussione della Finanziaria, si recupererà un atteggiamento positivo, autenticamente meritocratico. I tagli indiscriminati così come proposti non vanno bene, ma anche mettere sullo stesso piano i cinque giornali di partito (Liberazione, Secolo, Padania, Unità, Europa), con altri quotidiani non va nella stessa direzione. Quello che ipotizzo è una tutela speciale per i giornali di partito, portatori di storie particolari».
Una proposta pesante di scrematura che escluderebbe gli altri.
«La legge sul finanziamento pubblico all'editoria nasce per i quotidiani di partito, poi nel ciclone degli anni Novanta il principio è stato esteso a tutto il resto. Due parlamentari erano sufficienti a garantire le sovvenzioni pubbliche. Nelle cassette postali spesso arrivano fogli e giornali di aggregazioni politiche che nessuno conosce. Cerchiamo ora di invertire la rotta recuperando un atteggiamento selettivo».
Insomma i tagli vanno anche bene purché non riguardino gli organi partitici?
«Guardi che a dirla tutta, i quotidiani di partito hanno già dato. Mi riferisco alle ristrutturazioni, agli abbattimenti di costi che in questi anni hanno interessato Liberazione, Secolo, Padania, Unità, Europa. Operazioni non indolori, compiute con confronti veri, serrati ma con un atteggiamento di responsabilità».
m. p.

l’Unità 2.8.08
Anche il Senato vota contro il padre di Eluana
Sì al conflitto di attribuzione con la Cassazione. Il Pd lascia l’aula. Veltroni: «È una destra cinica»
di Roberto Monteforte


Dopo il sì della Camera arriva quello del Senato: il Parlamento apre il conflitto di attribuzione presso la Corte Costituzionale contro la decisione della Cassazione sul caso di Eluana Englaro. Un’«iniziativa strumentale e cinica», commenta Walter Veltroni. Il Pd anche a Palazzo Madama ha lasciato polemicamente l’aula mentre Pdl, Lega e Mpa votavano sì e Idv e senatori radicali ribadivano il no. Ormai è un vero accanimento nei confronti della ragazza in coma vegetativo permanente da 16 anni e contro i familiari che vorrebbero «staccare la spina», rispettando la volontà di Eluana. Approvata mozione Pd per far approvare entro l’anno il testamento biologico.

SARÀ LA CORTE Costituzionale a decidere se vi è stato o meno un conflitto di competenze tra poteri dello Stato, quello giudiziario e quello legislativo a proposito del caso Englaro. Se cioè, la Corte di appello civile di Milano, autorizzando la sospensione dell’alimentazione e dell’idradazione forzata della giovane che da 16 anni è in stato vegetativo permanente, abbia o meno violato le prerogative del Parlamento. Questa è la decisione presa ieri dal Senato a maggioranza. A favore della mozione Cossiga-Quagliarello hanno votato i parlamentari del Pdl, della Lega e del Mpa. Contro quelli dell’Italia dei Valori e i «radicali» del Pd in «dissenso con il loro gruppo» che, invece, hanno deciso di non partecipare al voto. Una decisione che ricalca quella già assunta a Montecitorio e che è stata spiegata dal senatore Ignazio Marino. «La maggioranza, che potrebbe mettere all'ordine del giorno una legge che interessa tutto il Paese, non lo fa. Lo ha fatto per difendere l'immunità del premier e non si occupa invece di qualcosa che riguarda la vita di tutti i cittadini». In una nota lo stesso segretario del Pd, Walter Veltroni chiarisce come «dal voto del Parlamento sul conflitto d'attribuzione non dipende affatto la drammatica vicenda personale di Eluana Englaro». «L'iniziativa del centrodestra è strumentale e cinica» commenta. «È il tentativo - ha chiarito - di limitare il potere della giurisdizione di decidere sulla base delle norme e dei principi del diritto». Questo è un piano che il Pd «respinge in blocco». Da qui la scelta di non partecipare al voto. Il punto vero è l’approvazione di una legge seria che regolamenti il testamento biologico. Il Pd incalza. Ha presentato una sua mozione, prima firmataria la presidente del gruppo Anna Finocchiaro, che impegna il Senato ad approvare entro il 2008 una legge in materia. La mozione passa. L’impegno è congiunto. Lo sottolinea anche una dichiarazione del presidente del Senato, Renato Schifani: «Sul tema delicatissimo del testamento biologico il Parlamento faccia la sua parte». In autunno vi sarà un’apposita sessione di Palazzo Madama.
Intanto vanno registrate le reazioni alla decisione della Procura generale di Milano di presentare ricorso contro la sentenza della Corte d'Appello che aveva autorizzato il padre della ragazza a interrompere l'alimentazione artificiale di Eluana. Non solo il medico della giovane, Carlo Alberto Defanti, attacca la decisione definendola «un ricorso ideologico copiato dagli studi dei medici cattolici». Ma anche il procuratore generale aggiunto di Milano, Gianfranco Montera non nasconde il suo imbarazzo. Prende le distanze dalla decisione assunta dai coleghi che finisce per «cozzare con la sentenza della Cassazione dell’ottobre 2007» sul tema, vero «decalogo» e «capolavoro giuridico e umano». Quello che bolla come «un mostro giuridico» è il ricorso alla Consulta per «conflitto di attribuzione» sollevato dal Parlamento. «In questo Paese - commenta - si soggiace alle necessità politiche e alle scelte ideologiche». Comunque nei prossimi giorni la Procura chiederà alla Corte d’Appello di sospendere l’esecutività della sentenza.
«Il vuoto legislativo è enorme» afferma il vice presidente del Comitato Nazionale per la Bioetica, Lorenzo D'Avack che aggiunge: «Le colpe dei politici sono altrettanto enormi» visto che «si discute dalla decima legislatura sul problema». Chi plaude alla decisione della Procura di Milano è mons. Rino Fisichella, presidente della Pontificia Accademia per la Vita: pone il problema dei limiti della scienza nel definire l’«irreversibilità» di uno stato come quello di Eluana.

l’Unità 2.8.08
Pd. Chiesta accelerazione della legge sul testamento biologico
Il non voto lascia strascichi. Tra rutelliani e teodem...
di Maria Zegarelli


Giornata controversa nel Partito democratico alle prese in Senato con il voto sul conflitto di attribuzione per il caso Eluana. Passi avanti verso un punto di sintesi, come il progetto di legge sul testamento biologico depositato con la firma di 101 senatori tre mesi fa, ma anche tensioni, come dimostra la decisione di non partecipare al voto dettata dalla consapevolezza che quello resta un terreno minato, malgrado le dichiarazioni unanimi sul fatto che quella di ieri non è stata una “via di fuga”. E poi ci sono i teodem. Lettura controversa, dunque, per la giornata politica di questo venerdì di inizio agosto.
È il botta e risposta fra i democratici a rivelare lo stato d’animo. Binetti, Bobba, Carra, Calgaro, Lusetti, Musella, Ria e Sarubbi (i teodem e i cattolici più intransigenti) firmano un comunicato per dire che il «Pd con sofferta mediazione ha offerto una importante manifestazione di unità e di compattezza non partecipando al voto sul conflitto di attribuzione», e aggiungono, in sintesi, che alla fine ha avuto la meglio la posizione dei «rutelliani», che non vogliono «collaborare in nessun modo a trasformare un dramma personale e familiare in una sentenza di morte». Il passo successivo è stato il deposito di un loro progetto di legge sul testamento biologico nel quale si prevede un deciso «no» all’eutanasia e all’interruzione dell’idratazione e della nutrizione artificiale del paziente. I malumori e le prese di distanza sono stati immediati. Non solo tra gli ex ds e gli ex popolari. Anche dagli stessi rutelliani sono arrivati i distinguo. «Non se esista nel Pd una corrente “rutelliana” - ha commentato a caldo Roberto Della Seta - ma di sicuro i rutelliani del Pd, cioè coloro che in questi anni, dalla nascita del Democratici in poi, hanno condiviso l’esperienza collettiva rappresentata da Rutelli, non possono essere confusi con le posizioni dei cosiddetti “teodem”, sul caso Englaro come in generale sulle questioni eticamente sensibili». Un colpo, per la minicorrente dei cattolici «duri e puri» che durante la scorsa legislatura ha cercato di imporre la linea al partito minacciando ogni volta di far mancare i voti necessari alla maggioranza a Palazzo Madama. Il loro “peso specifico” è in caduta libera eppure il Pd non può ignorare le posizioni che esprimono e che rappresentano una fetta di elettorato cattolico.
Di contro, nel pomeriggio il partito del Nazareno ha registrato come un proprio successo l’ approvazione a Palazzo Madama - il Pdl non ha partecipato al voto - di un ordine del giorno presentato dal Pd (firmatari Anna Finocchiaro, Luigi Zanda e Nicola La Torre) in cui si chiede che entro la fine dell’anno si arrivi a dotare il paese di una legge sul testamento biologico. Proposito auspicato anche dallo stesso presidente Renato Schifani. Ma il percorso - malgrado le intenzioni - non si annuncia per niente facile. Sarà importante giungere a maggioranze trasversali perché nello stesso Pd, ancora una volta, i teodem annunciano battaglia. Non sono d’accordo su uno dei punti fondamentali - e per questo non l’hanno sottoscritto - del disegno di legge depositato a Palazzo Madama, (primi firmatari Ignazio Marino, Anna Finocchiaro e Vittoria Franco) firmato da 101 senatori. Tra i 23 articoli che lo compongono c’è anche quello che prevede l’interruzione dell’idratazione e della nutrizione artificiale nei casi in cui le condizioni del paziente siano disperate. «Farraginoso, complesso e complicato approvare un testo come quello a cui ha lavorato Marino», commenta Paola Binetti avvisando che i teodem, «ma anche tanti altri del partito» non voteranno mai una legge che prevede l’interruzione dell’idratazione e della nutrizione artificiale. Per loro quella resta «una sentenza di morte». «Abbiamo già presentato una nostra proposta di legge, anzi tre», spiega la senatrice. Sintetica la risposta di un senatore Pd: «Abbiamo 101 firme per un testo di legge che è un grande lavoro di sintesi. I teodem? Non sono loro il partito».

l’Unità 2.8.08
Eluana, il Pd e la destra miope
di Roberto Zaccaria*


L’articolo di ieri di Miriam Mafai su Repubblica in merito alla drammatica vicenda di Eluana Englaro discussa giovedì alla Camera dei deputati deforma completamente la posizione del Partito Democratico.
Innanzitutto non c’è stato silenzio. Il Pd ha espresso formalmente la propria posizione all’inizio del dibattito in Aula attraverso il mio intervento, che tutti hanno potuto ascoltare e con grande attenzione. L’intervento è stato riportato dalle agenzie ed è facilmente leggibile come sempre nello stenografico immediato della Camera.
Non c’è stata astensione, perché il Partito Democratico, convinto che la proposizione del conflitto da parte del Pdl fosse una mossa tattica, manifestamente infondata dal punto di vista costituzionale e chiaramente strumentale ha scelto di non partecipare al voto, comportamento che si adotta, quando il provvedimento è del tutto estraneo alle regole parlamentari. Non è un caso del resto che un simile atteggiamento sia stato tenuto anche da un gruppo non trascurabile di liberali del centro destra (Della Vedova, Chiara Moroni, La Malfa ed altri).
Non c’è stata quindi nessuna “fuga del Pd” dall’esame del problema, come si legge nel titolo dell’articolo di ieri. È vero esattamente il contrario: è stata la maggioranza che attraverso la proposizione di un improbabile e rischiosissimo conflitto di attribuzioni ha messo in pratica una vera e propria “fuga dal Parlamento” dalla via maestra di una soluzione legislativa.
Su questi temi delicatissimi della disciplina della fine della vita c’è stato, soprattutto al Senato nel corso della XV legislatura, un ampio dibattito che aveva anche registrato positive convergenze. Un intervento legislativo equilibrato sarebbe oggi possibile sulla base, del divieto, da un lato, di praticare ogni forma di eutanasia e, dall’altro, dell’accanimento terapeutico, si potrebbe disciplinare al contempo l’alleanza nella terapia tra medico e paziente, l’equa distribuzione delle cure palliative e l'accompagnamento terapeutico. Questi concetti sono presenti, del resto, in un ordine del giorno presentato dal Pd al Senato su questa vicenda.
La strada del conflitto di attribuzioni davanti alla Corte costituzionale è costellata di errori di grammatica e rischia di diventare un pericoloso boomerang.
Non si possono sollevare conflitti contro provvedimenti giurisdizionali non ancora definitivi e il ricorso di ieri del procuratore generale di Milano contro il provvedimento della Corte di appello ne è chiaramente la prova; non si può contestare attraverso il conflitto il diritto dovere dei giudici di pronunciarsi anche nel caso di incompletezza della norma legislativa, perché in mancanza di una legge più chiara è il giudice del caso concreto che deve bilanciare i principi fondamentali anche costituzionali (art.12 delle preleggi).
Non si può in ogni caso considerare una sentenza per quanto importante della Suprema Corte di Cassazione, alla stregua di un atto legislativo perché nel nostro ordinamento quella decisione vale solo per il caso concreto deciso e non ha alcun valore di precedente vincolante in altri casi.
Ma c’è un rischio ancora più pericoloso nel voler chiamare in causa la Corte Costituzionale come una sorta di Giudice di ultima istanza sulla vicenda Englaro.
Il rischio estremamente concreto è che la Corte rifiuti molto presto un conflitto di attribuzioni così inconsistente e finisca col porre inevitabilmente, nella lettura mediatica, un ancor più pesante sigillo su tutta questa vicenda.
Di fronte ad un atteggiamento della maggioranza così miope e così irrispettoso del ruolo proprio del Parlamento che è quello di fare le leggi e di non impedire ai giudici di fare il loro dovere, non partecipare a questa messa in scena, era il minimo che si potesse fare.
Il rispetto per le istituzioni di garanzia significa anche non cercare di coinvolgerle in riti chiaramente strumentali.
* Vice Presidente Commissione Affari Costituzionali Camera dei Deputati

Corriere della Sera 2.8.08
Vita artificiale e libertà di scelta
di Giovanni Sartori


Tutto è cominciato con l'Enciclica del 1968 Humanae Vitae di Paolo VI.
A 40 anni esatti di distanza, l'altro giorno il Corriere ha accolto nella sua pubblicità la «Lettera aperta al Papa» del movimento dei Catholics for Choice (il diritto di scegliere) sottoscritta da un centinaio di organizzazioni cattoliche di tutto il mondo. L'esordio della Lettera è duro: «Le gerarchie cattoliche hanno fondato sulla Humanae Vitae la politica di opposizione alla contraccezione».
Politica, continua la Lettera, «che ha avuto effetti catastrofici sui poveri, ha messo in pericolo la vita delle donne ed esposto milioni di persone al rischio di contrarre l'Hiv». Ma il testo si ferma su questo problema ignorando il crescendo successivo.
Con Wojtyla e Ratzinger la contraccezione e l'aborto vengono condannate allo stesso titolo. Ma perché? Con quale logica? La contraccezione — lo dice la parola — impedisce la concezione.
E prevenire una gravidanza non è « uccidere », non è interrompere una gravidanza (aborto). Vorrei che qualcuno mi dimostrasse il contrario.
Un altro passo in avanti consiste nell'asserire che l'embrione è già vita umana. Per dimostrarlo la Chiesa dovrebbe distinguere tra «vita» e «vita umana», e provare che le caratteristiche della seconda sono già presenti nell'embrione. In passato, e con San Tommaso, la vita dell'uomo era contraddistinta dalla presenza dell'«anima razionale». Ma quest'ultima, per Tommaso, arrivava «tardi», in vicinanza della nascita e non certo dell'embrione.
Teologicamente parlando l'ostacolo è grosso, e Wojtyla lo supera dimenticandosi dell'anima e citando la scienza. Così: «La scienza ha ormai dimostrato che l'embrione è un individuo umano che possiede fin dalla fecondazione la propria identità».
Ma la scienza può soltanto attestare che l'embrione è programmato per diventare, dopo 9 mesi, un individuo umano ma non che lo è già sub specie di embrione. Anche se un uovo diventerà una gallina non è gallina finchè resta uovo; né io, mangiando un uovo, divento assassino di una gallina.
Dunque, in teoria qualsiasi vita è intoccabile (anche quella dei pidocchi o delle zanzare), visto che la Chiesa spesso e volentieri confonde tra qualsiasi vita e vita specificamente umana. In pratica, però, la vita intoccabile è solo la vita dell'uomo. Ma ecco ancora un ulteriore salto in avanti. Finora la vita umana era intoccabile «in entrata» (aborto) e anche «in pre-entrata» (contraccettivi); ma «in uscita» le persone erano lasciate libere di morire. Beninteso, non di suicidarsi ma di morire «naturalmente». Ma siccome la scienza ha inventato la sopravvivenza artificiale, ecco che oggi la Chiesa nega il diritto di morire anche a chi, come essere umano, è già morto.
L'ultimo caso è quello di Eluana Englaro, in coma profondo da addirittura 16 anni. A questo punto i genitori chiedono che venga staccata dal macchinario che la tiene in vita (in vita vegetale) e due tribunali (Cassazione e Corte d'appello) consentono. Apriti cielo! A distanza di pochi giorni il pg di Milano blocca. Il che implica che dovrebbe intervenire il Parlamento.
Sì, il Parlamento si dovrebbe svegliare nel consentire il «testamento biologico» di ciascuno di noi quando siamo ancora sani di corpo e di mente. Anche il legislatore «papista» lo potrebbe benissimo fare in tutta coerenza, visto che Wojtyla si era rimesso alla scienza per stabilire quando comincia la vita. E la scienza stabilisce che una persona è morta quando il suo cervello è morto, quando l'elettroencefalogramma è piatto e non rileva più onde magnetiche cerebrali. Punto e finito lì. Per me.
Ma non per la deputata azzurra Isabella Bertolini la cui mozione, sostenuta da 80 firme di neo-sanfedisti, chiede che il governo introduca «il divieto di qualunque atto che legittimi pratiche eutanasiche o di morte indotta».
Non facciamo finta di non capire. Questo testo impedirebbe il «testamento biologico». Già consentito negli Usa, in Gran Bretagna, in Francia, in Spagna, agli italiani non lo si vuole consentire. Poveri noi, e intanto povera Eluana.

Repubblica 2.8.08
Il forum di Repubblica.it catalizza molti delusi del Pd. "Indignati per la fuga dall’aula. Attenti, non vi votiamo più"
Sul web la protesta degli orfani della laicità
di Chiara Brusa Gallina


ROMA - Il mal di pancia del Pd viaggia anche su internet. Erano passati solo pochi minuti dalla decisione di astenersi alla Camera sul caso-Eluana, giovedì scorso, e sul forum aperto da Repubblica. it molti lettori hanno dato voce alla loro perplessità.
Il primo timore è per la laicità che non riesce a farsi largo nel partito di Walter Veltroni. «Dove è finito il laicismo del Pd?» si chiede Aldo2. Nei messaggi gli aggettivi si sprecano: «costernato», «amareggiato», «disilluso». «Fughe come quelle messe in scena dal Pd mi lasciano indignato» scrive Mariano48. A volte c´è una promessa di "ritorsione": «Cari deputati del Pd, con la vostra uscita dall´aula vi siete giocati il mio voto» scrive Dizzymisslizzy. E gli umori del popolo della Rete arrivano a mandare a tutti l´indirizzo del sito della Camera «per protestare contro l´ennesimo disgustoso episodio di asservimento all´estremismo cattofanatico dell´ala ultraclericale del Pd e contro la totale mancanza di laicità».
Poi ieri, su Repubblica, un commento di Miriam Mafai ha preso di mira «la brutta giornata di chi crede nel Partito democratico e nella laicità del nostro Stato». E i naviganti plaudono. «Condivido del tutto» afferma Berluschippo. Altri, come Napoleone 1805, azzardano previsioni: «A questo punto l´unica cosa che resta da fare al Pd, visto che al posto di autorizzare a staccare la spina ad Eluana ha preferito staccarla a se stesso, fatto irragionevole in politica, è dichiararsi assolutamente incompetente sulle questioni di coscienza e abdicare a partito di governo e ritirarsi a partitino di paese».
Infine, messaggi più ispirati ad argomentazioni di tipo strettamente etico. Alcuni hanno il tono di invettive. «Ma quale mente malata può calpestare la volontà di un padre che per 16 anni ha accudito la propria figlia? Chiedo rispetto ed ammirazione per queste persone, che vada oltre il Credo politico e religioso» dice Skin. E c´è anche chi, come Donrinofirenze, chiama in causa direttamente Gesù: «Io sono convinto che, se Gesù fosse qui ora, direbbe sì». Sottinteso: sì all´interruzione dell´alimentazione forzata di Eluana.

l’Unità 2.8.08
L’analisi. Se questo è l’inizio per chi vive di scuola c’è da stare poco allegri per il resto che il governo ci riserva
Ma dietro la lavagna ci finisce il diritto all’istruzione
di Marina Boscaino


Il Presidente del Consiglio è veramente un impareggiabile umorista: "Potremo tornare a sanzionare le intemperanze degli studenti più irrequieti mettendoli magari dietro la lavagna, come avveniva ai miei tempi". Eh, già: la nostalgia dei bei tempi passati. La chiosa dell’esimio statista al disegno di legge approvato dal Consiglio dei Ministri non lascia adito a dubbi: nel paese di Romolo e Remolo, delle corna, della boutade da scanzonato "gran simpatico" a tutti i costi, l’educazione è un problema serio e sentito, che viene affrontato (e commentato) con i più raffinati strumenti della ricerca pedagogica; e soprattutto attraverso un’analisi seria e attenta delle condizioni dell’esistente. Non deve stupire che per illustrare il provvedimento siano state spese le formule più trite (e più retrive) di un repertorio tradizionalista e miope, senza preoccuparsi di individuare strategie di analisi che vadano oltre l’osservazione (e la valutazione più scontata) degli episodi di bullismo. Il vuoto cosmico di costruzione di senso rappresentato dal Gelmini-pensiero sulla scuola viene riempito dalle continue incursioni di più abili e spregiudicati "addetti ai lavori" a vario titolo, come Brunetta e Aprea, la cui costruzione di senso coincide con l’individuazione di provvedimenti che proiettano un’idea di scuola irreggimentata e selezionata secondo parametri incondivisibili e per giunta improntati al risparmio. È per questo che la voce del ministro produce suoni stentati, banali, scontati: il problema è che, nel tentativo di riempire quel vuoto di idee, passano provvedimenti superficiali, improntati ad un efficientismo demagogico e senza respiro, nonché a una datatissima visione pedagogica. Come il restyling dell’educazione civica - Cittadinanza e Costituzione - nelle scuole secondarie: al ministro evidentemente sfugge che qualunque insegnante interpreti in maniera dignitosa la propria funzione ha come obiettivo fondamentale la creazione di cittadini consapevoli; e che lo strumento per raggiungere questo obiettivo sono le discipline tutte, attraverso l’individuazione di competenze trasversali.
Sarebbe stato forse opportuno chiedersi - prima di ricorrere a facili soluzioni improntate ad inflessibili quanto inopportune "strategie educative" - che cosa fanno società, famiglie, media e la scuola stessa per proporre alternative comportamentali che si oppongano alle derive di cui i giornali sono pieni. Valutare i comportamenti prima di aver messo a punto strumenti adeguati di educazione preventiva è la solita soluzione sbrigativa di chi non ha altre frecce al proprio arco che la banalità, ad effetto e punitiva. E mentre Gelmini ci dà l’interessantissima notizia che alcune case di moda vogliono cimentarsi nella creazione del grembiule - la divisa, come l’ha chiamata il premier - si concretizzano drammaticamente le conseguenze dei tagli del decreto 112: nel giro di 3 anni circa 2mila istituzioni scolastiche potrebbero "chiudere o essere accorpate". Una vera mano santa per gli alunni dei centri con meno di 5mila abitanti, che saranno costretti a ritmi proibitivi per raggiungere le scuole più vicine. A spese di comuni e province, se questi - taglieggiati come sono stati - riusciranno a mettere a disposizione mezzi di trasporto; a spese delle famiglie in caso contrario. Con buona pace del diritto allo studio.
Se il buongiorno si vede dal mattino, ci aspetta una giornata di bufera. Il panorama è disorientante: è quello di un governo che stigmatizza i comportamenti e rende più difficile l’esercizio dell’obbligo di istruzione; che antepone la logica del risparmio a quella della qualità del sistema; che sostiene la scuola privata e destabilizza quella pubblica; che sancisce definitivamente il doppio canale, quello dell’istruzione e quello della formazione professionale, con tutto il suo carico di iniquità socio-culturale-economica. Tanto rumore per nulla, si potrebbe dire, considerando la banalità delle proposte in una situazione problematica. In realtà, come una goccia che scava la pietra, si sta - attraverso provvedimenti superficiali e frettolosi - definendo un disimpegno totale sulle grandi questioni che riguardano il sistema scolastico. È da chiedersi se questo sia un male, considerando l’idea di scuola che la destra ha: un’idea che con il progresso del Paese non ha davvero nulla a che fare. Se il compito principale della scuola deve essere quello di individuare strategie per potenziare sistematicamente tutti quegli elementi costitutivi dell’identikit di un cittadino consapevole, grembiule e 7 in condotta, contrazione e tagli non sembrano provvedimenti che vanno in quella direzione. Ma, pericolosamente, indeboliscono l’esercizio della coscienza critica e un’idea di cultura e di educazione che abbiano il respiro più ampio dell’estemporanea e demagogica cura a malattie endemiche della nostra società (e, di conseguenza, del sistema scolastico) che meriterebbero di essere affrontate con ben altri strumenti.

l’Unità 2.8.08
San Mauro Pascoli «processerà» Togliatti
L’accusa: essere stato «uomo di Stalin». Succederà il 10 agosto


Bologna. Palmiro Togliatti processato in piazza con l’accusa di essere stato un «uomo di Stalin», ovvero agli ordini di una potenza nemica, ma con una difesa che lo dipingerà invece come un «padre della democrazia italiana». Succederà nella serata di domenica 10 agosto a villa Torlonia di San Mauro Pascoli, il paese della pianura romagnola dove il «processo» storico o culturale è diventato una tradizione dell’estate.
Il primo verdetto fu otto anni fa per l’omicidio di Ruggero Pascoli, padre del poeta; poi pubblici ministerì e difensori esaminarono le storie controverse del Passatore, di Giuseppe Mazzini, Secondo Casadei, Giuseppe Garibaldi, ma anche la Romagna di Mussolini e la cucina romagnola.
Il processo, promosso e organizzato dall’associazione pubblico-privato Sammauroindustria, che riunisce i principali imprenditori di San Mauro e l’amministrazione comunale, avrà un’accusa guidata da Marina Cattaruzza (Università di Berna) e Victor Zaslavsky (Luiss di Roma) e una difesa rappresentata da Maurizio Ridolfi (Università della Tuscia) e Carlo Spagnolo (Università di Bari). Presidente del tribunale il sindaco Gianfranco Miro Gori, fondatore del Processo, cancelliere che scriverà il verdetto in camera di consiglio Antonio Carioti, giornalista del «Corriere della Sera».

l’Unità 2.8.08
Rifugiati, impronte, ricongiungimenti. Maroni aspetta l’ok dall’Europa
Tra i punti più a rischio la schedatura per i cittadini comunitari e l’obbligo di iscriversi all’anagrafe e di avere un reddito adeguato
di Maristella Iervasi


Dopo le sonore «batoste» e i continui moniti sul pacchetto sicurezza da parte della Commissione europea, dell’Europarlamento, del Consiglio d’Europa; e non ultima la posizione del governo della Romania sulle norme per i nomadi (impronte comprese) il ministro leghista Roberto Maroni mostra cautela e prudenza. I 3 decreti legislativi che prevedono una stretta sul soggiorno dei cittadini comunitari anche attraverso l’uso delle impronte - (aggiunta fatta al decreto Prodi del 2007 con l’espressione: «rilievi dattiloscopici») -, sul riconoscimento dello status di rifugiato (con l’ipotesi di rigetto della domanda per infondatezza o evitare l’espulsione) e sui ricongiumenti familiari con l’obbligo del Dna, non entrano subito in vigore: sono stati inviati all’esame dell’Europa e salvo modifiche, verranno approvati definitivamente solo dopo l’estate. La decisione è stata presa ieri, a sorpresa, nel corso del Consiglio dei ministri in trasferta a Napoli. «Sono materie assai delicate - ha spiegato lo stesso Maroni. La procedura anomala è stata concordata con l’opposizione, in particolare con il collega ombra del Pd Marco Minniti che l’ha ritenuta assai utile». I 3 testi e anche il rapporto sul censimento dei campi nomadi sono stati dunque inviati a Jacques Barrot, Commissario europeo alla Giustizia, Sicurezza e Libertà. Che in serata ha precisato: «È un atto che appare come la testimonianza di una volontà di rispettare la legislazione europea».
Per evitare nuove bufere sul tema caldo dell’immigrazione Maroni ha scelto di andare con «i piedi di piombo». Alcune misure contenute nei dlg corrono infatti il rischio di essere censurate da Bruxelles. In particolare, il testo sulla libera circolazione dei cittadini comunitari. Il provvedimento dispone - tra l’altro - che la libera decisione giudiziale sull’istanza di sospensione cautelare del provvedimento di allontamento sia decisa entro 90 giorni. Ma non è questo il punto: profili di dubbia compatibilità con le norme Ue sarebbero emersi per la previsione della mancata iscrizione all’anagrafe tra i motivi che giustificherebbero l’allontanamento del comunitario. Così come l’obbligo di avere «risorse economiche sufficienti, derivanti da attività dimostrabili come lecite» quale condizione per poter soggiornare in Italia per oltre 3 mesi.
E non finisce qui. Si riparla di «impronte». Il decreto sui comunitari attualmente vigente - approvato dal governo Prodi dopo l’omicidio Reggiani da parte di un romeno - prevede che per l’iscrizione anagrafica ed il rilascio della ricevuta di iscrizione e del documento d’identità si applicano al comunitario le medesime disposizioni previste per il cittadino italiano. Viceversa, il decreto legislativo «corretto» da Maroni propone un’aggiunta: dopo le parole «cittadino italiano è stato inserito «compresi i rilievi dattiloscopici nei casi previsti dalla legge». Vale a dire, la schedatura del comunitario.
Un passaggio questo sul quale la Commissione Ue potrebbe esprimere dubbi. Idem per il trattenimento dei comunitari colpiti da provvedimenti di espulsione nei Cie (Centri di identificazione ed espulsione).

Corriere della Sera 2.8.08
Sicurezza Il sindaco leghista: multa se di notte nei parchi si è in più di due
A Novara vietato fermarsi in tre persone
di Alessandro Trocino


A Novara vietato fermarsi in tre o più persone in parchi e giardini, pena una multa fino a 500 euro. Il sindaco leghista Massimo Giordano firma l'ordinanza per «la situazione di degrado dell'ambiente urbano» e l'opposizione si scatena: «Incredibile. Ricorda le adunate sediziose del Ventennio».

Nei parchi di Novara Multe di notte se si è in tre o più. Pd all'attacco: come la repressione fascista delle «adunate sediziose»
Il sindaco leghista vieta di girare in gruppo

ROMA — Stazionare sì, ma al massimo in coppia e mai di notte. A Novara è scattato il coprifuoco notturno nei parchi e giardini. Vietato fermarsi in tre o più persone, pena una multa fino a 500 euro. Il sindaco leghista Massimo Giordano firma e l'opposizione si scatena: «È un'ordinanza incredibile che ricorda le adunate sediziose del Ventennio fascista. Ieri notte, in segno di disobbedienza civile, un gruppo di consiglieri e cittadini ha fatto irruzione al parco Valentino, per un assembramento non autorizzato e stanziale.
A motivare l'ordinanza, che prevede il divieto assoluto di «stazionamento», è «la situazione di degrado dell'ambiente urbano» e i continui «danneggiamenti» che subirebbero i parchi e giardini cittadini. Novara — «Nuara» in insubre — è una cittadina tranquilla. Qualcuno dice anche troppo. Centomila abitanti, pochi scippi e pochissime rapine, una percentuale di immigrati pari all'8 per cento, quasi tutti concentrati nel quartiere di Sant'Agadio. Ma il sonno dei residenti, e il torpore della città, parrebbero turbati da alcuni individui che, nottetempo, amano bivaccare nei parchi. Di qui l'ordinanza, che ha già ottenuto un primo effetto quasi miracoloso, ovvero ricompattare l'opposizione. Pd, Psi, Sd e Rifondazione hanno firmato un comunicato congiunto, nel quale paragonano il provvedimento ai divieti di riunione attuati dal Duce e spiegano che «dietro il paravento degli atti vandalici, si dà un ulteriore giro di vite alle pretestuose politiche per la sicurezza ».
Il sindaco Massimo Giordano, leghista doc, governa la città ormai da sette anni, con grandi consensi: alle ultime elezioni ha ottenuto il 66 per cento dei voti, portando la Lega al 22 per cento. Tanto che il gran capo del Carroccio Umberto Bossi è venuto in città a complimentarsi. E Giordano ha proseguito nel suo stile, simile a quello di tanti nuovi giovani sindaci leghisti. Attenzione quasi ossessiva alle esigenze di sicurezza dei cittadini e divieti a raffica, come quello contro il consumo di alcolici in stazione dopo le 18 e come la chiusura di un centro culturale di immigrati.
L'assessore alla Sicurezza Mauro Franzinelli spiega così l'ordinanza: «Serve per limitare i disturbi alla quiete pubblica. Ce l'hanno chiesta i cittadini». La protesta della sinistra? «Una legittima manifestazione di dissenso. Non li multeremo di certo». E il fascismo? «Quelli erano periodi drammatici, è un paragone assurdo. Qui si parla solo di limitare i frastuoni». La giovane consigliere del Pd Sara Paladini contesta: «Non c'è nessuna emergenza sicurezza a Novara: gli unici reati in aumento sono in famiglia, ma di quelli non ci si occupa mai».
Restano da chiarire i termini giuridici della norma. Il divieto è di «stazionamento ». Quindi parrebbe necessario, per essere in regola, deambulare. Anche il concetto di «gruppo» non è chiarissimo. «È un'ordinanza sperimentale — replica l'assessore Franzinelli — vale fino al 30 dicembre e serve solo per dissuadere i cittadini. Cerchiamo di risolvere un problema di cui la sinistra dovrebbe interessarsi, invece di limitarsi a accusarci di fascismo».

Corriere della Sera 2.8.08
Il modello La città rifatta in scala 1 a 1.000 per studiare gli interventi in centro
Da Giotto a Isozaki: la nuova (mini) Firenze
Tre anni di lavoro, un investimento di 250 mila euro: sarà mostrato al pubblico dal prossimo 19 settembre
di Paolo Conti


FIRENZE — Sposti l'antico Duomo di Firenze, incluso il campanile di Giotto, e scopri che il simbolo religioso e architettonico di Firenze è ben più piccolo del nuovo palazzo di Giustizia a Novoli. Oppure rileggi dall'alto, tra piazza dei Peruzzi e via Torta, il chiaro disegno dell'anfiteatro romano: le costruzioni medievali seguirono le fondamenta e quindi la sua sagoma. E scopri che palazzo Strozzi è in effetti grande quanto il cortile dell'Ammannati di palazzo Pitti: leggenda voleva che i Pitti desiderassero dimostrare d'essere ben più ricchi dei potenti con un palazzo che potesse «inglobare» quello degli Strozzi. Leggenda verissima. Il 19 settembre, nella sala d'Arme di Palazzo Vecchio, verrà mostrato al pubblico per due mesi il nuovo immenso modello di Firenze: 46 metri quadrati, superficie complessiva di 9,60 per 4,80 metri, un'altezza di 1-2 centimetri, una suddivisione in 16 pannelli ciascuno composto da numerose sezioni mobili che contengono interi isolati. Per la prima volta, Firenze sarà visibile a tutti con un colpo d'occhio in una scala 1 a 1.000 (proprio lo slogan che verrà utilizzato). Nemmeno si fosse in volo o si stesse navigando su Internet consultando un sito specializzato in mappe.
Facile immaginare che diventerà uno dei simboli di Firenze, pronto a trasformarsi in gadget per turisti.
Parlare di «plastico» sarebbe improprio, non c'è una sola scheggia di materiale che non sia naturale. Legno malese Jeloutong, chiaro e duttile, per gli edifici. Legno di pero più scuro, e più duro, per le costruzioni storiche o monumentali. In quanto alle acque dell'Arno, la traccia è sottolineata da strisce di radica olivata. Il verde dei parchi e delle colline è rappresentato da piccoli rametti di licheni: anche qui al naturale, nessun colore artificiale.
L'idea appartiene al sindaco Leonardo Domenici e dell'assessore all'Urbanistica, Gianni Biagi. Spiega proprio Biagi: «Firenze non si era mai data un modello intero della città. Abbiamo deciso di farlo cinque anni fa seguendo l'esperienza di Berlino. Ne abbiamo parlato con la Cassa di Risparmio di Firenze. E così l'abbiamo concretizzato». La realizzazione è dell'Aleph Laboratorio di architettura degli architetti Shaharad Pouladin, Nicola Malisardi e Vincenzo Giallorenzi. Tre anni di mini-cantiere, 250 mila euro di costo diluito nel triennio, 20 mila ore di lavoro artigianale affidato agli scalpelli di assistenti di studio specializzati in ebanisteria. Migliaia, forse milioni di mini-dadini di legno realizzati seguendo, dal cuore della città fino all'aeroporto di Peretola, la Carta tecnica regionale che fornisce le diverse informazioni: pianta, volume, altezza da terra a grondaia, forma del tetto. Per gli edifici storici, la mano dell'artigiano ha lasciato il posto al pantografo a controllo numerico azionato da un computer rifornito di disegno digitale.
Dice Gianni Biagi: «Il modello può sembrare solo una bella attrattiva per turisti. E non è escluso che diventi una delle prime realizzazioni in vista del futuro Museo della città che si aprirà a Palazzo Vecchio dopo il trasferimento degli uffici comunali nei locali lasciati dal Palazzo di Giustizia. Ma il modello sarà soprattutto uno strumento di studio sulla storia della città e di sperimentazione su possibili interventi urbanistici». Dice Aureliano Benedetti, presidente della Cassa di risparmio di Firenze che ha in gran parte finanziato il modello: «Nei nostri 180 anni di storia siamo sempre stati vicini alla città, sostenendo per esempio le opere per Firenze Capitale anche dopo che si decise per lo spostamento a Roma. Non è una semplice sponsorizzazione ma un contributo per la conoscenza della storia di Firenze».
Qualche curiosità. C'è già la Loggia di Isozaki agli Uffizi. Così come appare il nuovo teatro per il Maggio musicale, che verrà inaugurato nel 2011 a Porta Prato. Manca la gigantesca stazione per l'Alta velocità a Belfiore, 400 metri di lunghezza e 45 di larghezza, con l'immensa cupola trasparente di Norman Foster. Ci vorrà più tempo. Le Grandi opere ritardano anche per un modello in legno.

Corriere della Sera 2.8.08
Generazione «Z», l'ultima Cina
Integrati, consumisti, stressati: i ragazzi hanno cancellato Tiananmen
di Fabio Cavalera


PECHINO — La generazione «Z» è un grattacapo per la Cina. Sono gli ultimi arrivati, i figli minori della riforma economica promossa da Deng Xiaoping, quelli della classe anni Novanta: studiano come dannati e soffrono. Adesso, hanno scoperto il loro «libretto rosso», testimonianza dei turbamenti adolescenziali. Ridammi il sogno è un autentico bestseller che va a ruba da parecchie settimane e si è piazzato in testa alle classifiche.
Non può che essere uno di loro, uno dei dannati, l'autore del libricino. Tang Chao ha 14 anni e vive a Chengdu, nel Sichuan, la provincia del terremoto con 80 mila morti. Dicono che sia un fenomeno. Ma andiamoci molto cauti. Si è cimentato per puro caso al computer, non sapeva con chi confidarsi e nelle pause della scuola ha messo giù 200 mila caratteri costruendo un racconto d'amore e qualcosa di più: il manifesto realista di una fetta della società cinese, la meno cinese, la meno legata alla tradizioni, ai costumi, ai valori dell'antico Regno di Mezzo. La più introversa. Un piccolo universo — si fa per dire perché si tratta pur sempre di alcune decine di milioni di ragazzi — che sta scatenando la sua rivoluzione silenziosa.
Papà e mamma vogliono vederli, questi rampolli con la faccia liscia e i capelli nerissimi, a testa china sui libri? Loro non ci stanno. E contestano senza urlare, chiudendosi. Non che preferiscano disertare le lezioni. O, peggio, perdere il ciclo scolastico o abbandonare. Semplicemente, sentono il fiato sul collo, ogni giorno, ogni ora. Vogliono liberarsi dell'ombra dei genitori. E si capisce. Quella di spostare le frustrazioni e le delusioni personali sugli eredi è una vecchia e universale ossessione. Nelle famiglie cinesi, che investono fior di soldi e di speranze sulla carriera della prole, un po' di più.
Forse «colpa» di Confucio e di un'etica autoritaria che pone il rispetto delle relazioni gerarchiche al cuore di una filosofia di vita. O forse colpa di un passato, nemmeno tanto lontano: i papà e le mamme della generazione «Z» — zeta, ovvero l'ultima — erano bambini durante gli anni più difficili del comunismo e magari, attraverso i figli, esprimono a scoppio ritardato un intimo desiderio di riscatto. O forse, è l'estremizzazione di una cultura meritocratica e selettiva che ha soppiantato l'egualitarismo maoista. Nessuna via di mezzo. O è cosi — testa china sui libri — o sono guai. Obbedire e tacere.
I dolori prima o poi arrivano. Gli adolescenti crollano in preda a crisi depressive. Malattia diffusa. Inevitabile se la scuola chiede il massimo, se la famiglia chiede il massimo, se la società chiede il massimo. Non c'è mai il tempo di rifiatare, di riposare, di divertirsi. Le statistiche cinesi tacciono ma una psicologa, Deng Jun, sentita dal quotidiano di Hong Kong South China Morning Post, rivela che, solo alla sua hotline
di ascolto e supporto telefonico al disagio, nel giro di qualche settimana sono arrivate ben 2500 chiamate. Tante. Ma è un buon segno: i ragazzi si sbloccano e chiedono aiuto agli specialisti. In diversi casi, all'insaputa della famiglia, che considera l'intervento di un «esterno» al gruppo parentale un insulto o, peggio, un disonore.
I quattordicenni e i quindicenni cinesi delle città sono arrabbiati. Lo sussurrano gli insegnanti. Lo confermano le ricerche. Coccolati. Fin troppo coccolati. Cresciuti nella bambagia e viziati, gli adolescenti, i ragazzi delle medie e dei primi anni di liceo, questi figli unici, un po' secchioni e un po' sognatori, un po' tormentati e un po' consumisti, con l'iPod e il telefonino, individualisti e isolati, incollati al computer, mostrano segni di sofferenza e scoppiano. Tang Chao racconta questo mondo sconosciuto. Per la Cina è un fenomeno nuovo. Sia sociale sia letterario.
Li vedi per strada e ti sembrano tutti uguali. Le cuffie con la musica ad alto volume piantata nelle orecchie, le scarpe da ginnastica, magari griffate. Che differenza c'è con i coetanei italiani, europei, americani? C'è: il conflitto generazionale è marcato, il solco è più profondo. Gli adolescenti cinesi cercano modelli di crescita diversi, quello che hanno sotto gli occhi li perseguita e li soffoca. È la rottura con uno stile educativo che rischia di causare autentici drammi. Uno dei personaggi di Tang Chao si butta giù dalla finestra: i suoi genitori gli hanno impedito di vedere la compagna di classe che ama, temendo che un semplice incontro gli possa sottrarre tempo, energie, forze nella preparazione dei pesantissimi esami di accesso alle superiori. Una storia vera.
I costumi cambiano in fretta, con la velocità della luce. Non c'è fotografia migliore della Cina di quella che offrono i suoi giovani. Le trasformazioni di questo Paese si specchiano anche nei tormenti, nelle ansie e nelle mode che i ragazzi, i figli e ormai i nipoti del miracolo economico, vivono nelle strade e nelle scuole, al cinema e ai concerti. Una volta c'era la generazione di Tiananmen: impegno politico, lotta per la democrazia, solidarietà. Spazzata via, riassorbita. Poi è venuta la generazione degli anni Ottanta che ha goduto, per prima, del boom. E lo scenario giovanile è radicalmente mutato. Coloro che sono nati mentre in Tiananmen entravano i carri armati hanno scelto vie opposte. Più ricchi, più aggressivi, più colti, pronti magari a solcare l'Oceano e a chiudersi in un campus americano, sono l'anima di un nazionalismo che diventa risentimento antioccidentale quando avvertono che «la Patria è in pericolo». La generazione dei nuovi patrioti. Integrata alla perfezione nel sistema. La si è vista all'opera in primavera a difesa della torcia olimpica contestata in alcune capitali a seguito degli scontri e dei morti in Tibet.
La generazione «Z» è un'altra cosa ancora. È il volto più antagonista di una società che sta diventando altamente competitiva. Una ragazza, pescata fuori da una discoteca di Pechino, ha riassunto questo stato d'animo al South China Morning Post, con semplicità: «I nostri genitori credono che noi siamo uguali a loro. Sbagliano tutto. Noi vogliano essere l'esatto contrario. Vogliamo vivere in modo diametralmente diverso». È una ribellione spontanea, priva dei clamori della piazza, lontana dai riflettori ma condivisa da milioni di famiglie. Tang Chao, ultimo caso letterario della Cina, ha raccolto la voce di un'età critica. Nelle librerie Ridammi il sogno
— ridammi il sogno di vivere — è volato via. Suo padre, quando ha saputo che cosa gli aveva combinato Chao, ha confiscato il computer. Per paura che non studiasse più. L'editore, che aveva scoperto il manoscritto, però non si tira indietro e promette un seguito.

Corriere della Sera 2.8.08
Il vero Don Giovanni
Saura: nel mio film sul librettista di Mozart le avventure del libertino si intrecciano con l'opera
Il set Il regista spagnolo ha finito di girare a Roma la storia di Lorenzo Da Ponte: «Ci sono le sue memorie, non so che cosa è inventato ma non me ne preoccupo»
di Valerio Cappelli


ROMA — Lorenzo Da Ponte, l'abate che correva dietro a ogni gonna, il librettista della trilogia italiana di Mozart che scriveva i doppi sensi anche su di sé, e a una 16 enne dice che era pronta «per suonare il campanello », recitava a memoria Dante e giocava d'azzardo, e nella sua vita vagabonda fece il droghiere, il produttore di liquori, il farmacista; fu arrestato, a Venezia costretto all'esilio per volere della Santa Inquisizione con l'accusa di appartenere a una società massonica e di aver agito contro la chiesa, ma pesarono anche le denunce anonime per libertinaggio. Una vita da film. «Strano che il cinema non avesse mai pensato a lui, anche in Amadeus di Forman, che era un gran film, viene ignorato», dice Carlos Saura. Negli studi De Laurentiis sulla Pontina, gran via vai di parrucche, ciprie, nei e volti bianchi come fantasmi, ché il viso nel '700 doveva esaltare la gota colorata. Il 75enne regista spagnolo ha appena finito Io, Don Giovanni,
prodotto dalla Spagna e dall'italiana Edelweiss dopo i ritardi legati anche alla complessa nobiltà di un film in costume: sarà proposto al Festival di Berlino o a Cannes. E sapete chi è il Don Giovanni del titolo? Lorenzo Da Ponte.
Ebreo convertito al cristianesimo, il suo vero nome era Emanuele Conegliano e assunse il nome del vescovo che lo battezzò, che si chiamava appunto Lorenzo Da Ponte. Portò a New York la lirica e vi allestì per la prima volta il Don Giovanni, l'opera che troneggia al centro della sceneggiatura con cinque arie più ouverture e finale. «La trama si intreccia al Don Giovanni, la preparazione del debutto della sua opera e la storia di Da Ponte», dice Saura, l'autore di
Carmen Story. La storia del Don Giovanni attraverso la vita del suo librettista ricorda il meccanismo di
Shakespeare in Love. Ma le parole, con il maestro del gusto onirico e visionario, servono fino a un certo punto. E infatti si spiega mostrando i suoi bozzetti, come un regista teatrale. Il film, interamente girato negli studi, racconta dunque due storie parallele attraverso due momenti della vita di Da Ponte: eccolo giovinetto a Venezia e più tardi a Vienna, dove conosce Mozart. Saura evita Dresda, Londra, gli anni a New York e le altre fughe dell'abate con una vocazione, ma non per l'abito talare. «Raccontare tutta la sua vita? Non basterebbero tre film». Saura è circondato da premi Oscar come il direttore della fotografia Vittorio Storaro o acconciatori che lo sfiorarono con la nomination come Aldo Signoretti e Vittorio Sodano candidati per Apocalypto, che raccontano immalinconiti che qui «siamo al decadentismo delle ultime parrucche, nell'800 scompaiono del tutto. Mozart le adorava, ne aveva di verdi e azzurre».
Storaro ha fotografato Venezia deserta, all'alba, per riprodurla su pannelli dalla tonalità lunare, in contrasto alla sua Vienna dorata. Per il regista «la luce cambia il film, è un dono teatrale». I protagonisti sono giovani e tutte scommesse: Lorenzo Balducci è Lorenzo Da Ponte, Lino Guanciale è Mozart, mentre Tobias Moretti (il primo Commissario Rex) è Casanova che arriva fino alla tarda età. Antonio Salieri è Ennio Fantastichini, prima protesse e poi alla corte austriaca fece licenziare Da Ponte, ormai la bolla del borioso-invidioso è marcata sulla sua pelle, ma questo è un altro film e Saura ci riporta sulla sua carreggiata, mostrandoci il meraviglioso teatrino di Schönbrunn che ha fatto ricostruire, dove si finge la «prima» del Don Giovanni che invece nella realtà prese la strada di Praga. Don Giovanni arriva «in uno spazio misterioso» dove il Commendatore, prima d'essere trafitto, «è avvolto in un sudario». Il film termina col finale dell'opera, l'Inferno dove precipita Don Giovanni è evocato dalle parche, le dee che stabilivano il destino degli uomini indossano maschere veneziane tra guizzi di fuoco e lava del vulcano.
Il Da Ponte di Balducci: «Non sapevo nulla di lui, sono partito da zero, è furbo, cinico, le prodezze sessuali non gli hanno impedito di essere profondo nelle lettere. Saura è di poche parole, mi esorta a essere sfrontato».
«Ci sono libri e le sue memorie, su Da Ponte non so bene cos'è vero e cos'è inventato - dice Saura divertito - ma non ne sono preoccupato. Lo stesso si può dire di Mozart, avrò letto venti biografie su di lui e ognuna è diversa. Il mio film però è rispettoso con la storia di Mozart». Che rapporto hanno i due protagonisti nel film? «Amichevole. Nessuno dei due è un santo, quando a Mozart muore il padre Leopold, Da Ponte per distrarlo lo porta in un bordello ».

Repubblica 2.8.08
Immanuel Kant. La terza via. È nell'arte
di Giancarlo Bosetti


Un libro di Alessandro Ferrara rilegge la "Critica del giudizio" Proponendo una soluzione fra fondamentalismo e relativismo
In mancanza di un fondamento, chi ci impedisce di diventare una società di pazzi?
Sviluppare quella sapienza che consiste nel venire a patti con la pratica

Ritorna il Kant della terza critica, quella del giudizio. Un libro di Alessandro Ferrara, che appare in questi giorni in italiano a poche settimane dalla pubblicazione in versione inglese, presso la Columbia University Press - La forza dell´esempio, Feltrinelli (pagg. 262, euro 22) - tenta una via di uscita originale dall´impasse filosofica del nostro tempo, quella che blocca un po´ tutte le scuole al bivio tra fondazionismo e relativismo, tra metafisica e nichilismo, tra universalismo e pluralismo. E come si immagina dal sottotitolo, Il paradigma del giudizio, questa via di uscita si ispira a una ardita lettura della terza delle tre celebri critiche, quella che segue, alla Critica della ragione pura (che contiene la dottrina trascendentale della conoscenza) e alla Critica della ragione pratica (che contiene la dottrina morale). La Critica del Giudizio si presenta come un trattato di estetica, nel senso tradizionale di teoria dell´arte, anche se già nel suo autore essa aveva l´ambizione di riconciliare l´ambito della natura e della fisica con quello della libertà umana, introducendo nell´indagine sul bello e il sublime, il paradigma dell´"esempio" e il principio di finalità; ma qui Ferrara ne propone una lettura e uso assai più estesi.
Non è una novità che il grande filosofo tedesco sia accreditato di una sorta di "terza via", la novità è che Ferrara ne cerchi la chiave più preziosa non nella epistemologia e non nell´etica, ma nelle pagine sul "giudizio riflettente", il giudizio estetico.
Il confronto filosofico internazionale e interculturale è esposto nei nostri tempi in misura crescente alla frantumazione "provinciale": ogni contesto la sua teoria, ogni contrada le sue categorie e i suoi principi. Le sirene postmoderniste alzano il loro canto: decostruzionismo, ermeneutica, culturalismo, trionfo della differenza e con essa - ammoniscono, e non per caso, i due ultimi pontefici romani - del relativismo. Si capisce che il mercato delle idee sia favorevole per l´offerta di chi presume di disporre ancora - in regime di quasi monopolio - di una Verità di fede e di un Logos accreditato di portata generale.
Tra i filosofi, che non hanno in dote simili certezze, la svolta antimetafisica - detta anche "linguistica" - che ha sepolto, ad opera di Wittgenstein e seguaci, i fondamenti di ogni possibile "pensiero forte" - crea condizioni di gioco molto più difficili. Se non si può disporre di alcun fondamento su cui appoggiare le nostre idee al di fuori degli scambi di discorsi che possiamo farci l´un l´altro, se tutto quello che possiamo fare è dire frasi dentro contesti determinati, locali e datati, se non abbiamo chiodi cui appendere qualche dover essere, che cosa ci può garantire che non finiremo per arrenderci alle più stravaganti e arbitrarie abitudini di una qualsiasi comunità di pazzi, come nei film di Night Shyamalan (The village o Sesto senso) dove non si capisce più chi è il fantasma e chi è "reale"?
Quale pensiero ci garantisce che i decantati - e a tutti gli effetti meritevoli di esserlo! - principi generali dei diritti umani, della libertà, della democrazia, delle garanzie costituzionali siano qualcosa di più che discutibili usanze locali? Che risposta filosofica è in grado di dare la filosofia politica alla osservazione di chi li descrive come un "pacchetto illuministico" di origine locale, inventato tra Parigi e Londra e perfezionato a Philadelphia, ma non utilizzabile a Pechino, a Mosca, nel Darfur o a Ryad? Chi lo stabilisce che in assoluto è sbagliato costringere una donna a portare il burqa? O infliggere a un ladro la condanna del taglio della mano? Quale genere di suprema Ragione può decretare in questi casi?
La risposta di Ferrara consiste nella "forza dell´esempio", che funziona come il "giudizio riflettente" della terza critica: a differenza del "giudizio determinante" esso si aggira tra particolare e particolare, passa da caso a caso, perché il bello non si impone con la forza di una legge della fisica o di un imperativo morale, ma non è neppure inafferrabile. La critica d´arte non consiste in una serie di teoremi, ma nella capacità di discorrere di tante singole situazioni, e sa individuare qualche spiegazione di quel che è "piacevole" o non lo è. Essa esige la maturazione di quel genere di sapienza che Aristotele chiamava phronesis e che consiste nella capacità di venire a patti con la pratica. Il giudizio - avvertiva Hannah Arendt, un´altra fonte che ha guidato Ferrara nell´aprirsi la strada verso la sua filosofia del giudizio e dell´esempio - non si basa soltanto sulla coerenza rispetto a un principio, ma richiede anche capacità di distinguere, immaginazione, distacco, simpatia, imparzialità e integrità ed è la "più politica" delle attitudini umane.
Se sosteniamo, "per esempio", la causa della parità di genere, della uguale dignità e degli uguali diritti tra uomini e donne, non sarà la forza geometrica del principio a trionfare in forza di una sua superiorità logica o morale. Se mai questo principio si affermerà tra i clan somali o nei villaggi indiani e pakistani, imponendo la fine dei matrimoni imposti, o se mai scomparirà la potestà del marito sulla moglie nei paesi arabi dove sopravvive, questo avverrà grazie alla affermazione, nei conflitti politici e nelle infinite battaglie che saranno necessarie, degli esempi più convincenti. È più verosimile, oltre che auspicabile, che la potestà del marito sulla moglie scompaia nei paesi del Magreb piuttosto che non ritorni nelle costituzioni europee. Il che non dipende da un principio celeste, provvidenziale, essenziale o basato su categorie innate dell´intelletto. Sembra basarsi su un sensus communis che attraversa culture, epoche e linguaggi diversi, proprio come il giudizio estetico secondo Kant.
In verità gli allievi della scuola filosofica italiana che hanno faticato sulle pagine di Luigi Scaravelli e Emilio Garroni (anche se Ferrara non li menziona) avevano già imparato qualche decennio fa che la Critica del giudizio si muove verso una idea assai attuale della conoscenza, verso leggi empiriche, secondo un principio dell´unità del molteplice. Il Kant della terza critica, tra contraddizioni e ripensamenti (e propenso a fertili divagazioni) cercava un tertium che gli consentisse di trovare le basi per una composizione mite e accorta di quel problema che oggi noi chiamiamo "della differenza" di tempo e cultura. E lo trovava nella "forza dell´esempio". Che Ferrara isola molto bene e cerca di coniugare aderendo ai problemi posti dalle tensioni del mondo di oggi e dalle relazioni tra le culture. Lo fa in sintonia con uno spostamento generale della filosofia contemporanea: dalle ambizioni di una validità generale extrastorica verso un mondo che è sempre storico, condizionato, datato, attraversato da diversità. Se Gadamer ha insegnato a tutti che la nostra comprensione e valutazione degli eventi si costruisce a partire dai pregiudizi, Rawls ha corretto la dimensione astratta della sua iniziale teoria della giustizia per avvicinarla al vissuto delle tradizioni culturali, Bernard Williams ha posto la filosofia morale, inevitabilmente incompleta, a contatto con le concrete vicende della politica, Davidson e Hilary Putnam hanno formulato una dottrina del realismo "dal volto umano", capace di resistere alle obiezioni antimetafisiche, più mite, parziale e condizionata.
Tutto inutile? Sembra di sentire sullo sfondo la risata di Richard Rorty, il grande neopragmatista americano scomparso due anni fa: tempo perso cercare ragioni per i problemi del mondo con la filosofia, c´è una unica indiscutibile priorità, quella della democrazia sulla filosofia. Prendiamone atto, punto e basta. Alla filosofia dobbiamo rinunciare e chiudere bottega. Cosa che Rorty fece. Ma possiamo noi seguirlo in questa fine di esercizio? Il tentativo di Ferrara parla per coloro che vogliono continuare onestamente a provarci.

il Riformista 2.8.08
Pechino 2008. Il capo di stato: «però non fate politica»
Hu Jintao "libera" il web, ma solo un po'
di Emanuele Giordana


«Abbiamo accolto con favore la notizia che il sito di Amnesty sia accessibile dal centro stampa olimpico e probabilmente da altri computer a Pechino. Tuttavia, bloccare e sbloccare arbitrariamente determinati siti non basta a soddisfare l'obbligo di rispettare gli standard internazionali in materia di libertà d'espressione e d'informazione»: così, Roseanne Rife, vicedirettrice del programma Asia/Pacifico di Amnesty International dopo che la buona novella si affaccia nei notiziari. Pechino ha deciso di rimuovere la censura imposta ad alcuni siti internet e così sono tornati accessibili, quantomeno dal centro stampa dedicato agli inviati stranieri, i website di Bbc, Wikipedia, Human Rights Watch o dell'emittente americana Radio Free Asia e, appunto, di Amnesty. Inoltre, il comitato organizzatore dei Giochi ha garantito facilitazioni per l'accesso al web giudicato troppo lento. Ma fuori dal media centre restano comunque sbarrati molti siti "sensibili", anche se le testimonianze da Pechino dicono che alcuni dei website sarebbero parzialmente accessibili anche da altre parti della capitale. Politica della macchia di leopardo dunque, che non promette che una timida apertura con limitazioni parziali e sempre suscettibili di novità censorie. E non dev'essere un caso che, mentre Pechino da una parte apre, dall'altra inviti a non strumentalizzare politicamente le date olimpiche. Scende in campo direttamente il presidente Hu Jintao che, in una delle sue rare conferenze stampa, ribadisce che politicizzare l'evento può soltanto minarne la portata. Accompagna le sue raccomandazioni con un invito al dialogo e fa dunque un po' specie che uno dei siti ancora sotto oscuramente sia proprio www.thechinadebate.org, un forum creato da Amnesty per promuovere il dibattito sulla situazione dei diritti umani in Cina.
Insomma, nella Cina preolimpiadi il nervosismo è latente. Aumentato anche dall'arrivo di una cattiva notizia, pur se fortunatamente senza danni collaterali: un terremoto di magnitudo 6.1 della scala Richter è stato registrato nella provincia cinese del Sichuan, alle 4,32 di ieri mattina (ora locale). Una scossa di assestamento con epicentro nell'area compresa tra le contee Pingwu e Beichuan e la città di Mianyang City. Un leggero movimento tellurico è stato registrato anche nel Chengdu, dicono i sismologi cinesi. Assestamenti che risvegliano comunque la paura innescata dal recente sisma che ha colpito duro la repubblica popolare e il cui ricordo è tra l'altro appena legato ai guai (un anno di "rieducazione") passati dall'insegnante di una scuola media di Guanghan che aveva messo in rete immagini scattate dopo il sisma di maggio. Quanto al web restano off limits le pagine del Falun Gong che il governo di Pechino considera una minaccia per la sicurezza nazionale. Decisione che a molti non è piaciuta. E del resto i critici non smettono di parlare. Tra i tanti, Daniel Cohn-Bendit, l'ex leader del maggio francese, ha lanciato un nuovo appello ai governi occidentali affinché boicottino la cerimonia di apertura dei Giochi. «Andare all'apertura dei Giochi olimpici è un errore e sarebbe stato importante dare un segnale politico forte, tanto più che i cinesi non hanno rispettato nessuno degli impegni assunti quando si decise che i Giochi olimpici si sarebbero svolti a Pechino». Tra sì e no, vado non vado e prove di mini democrazia via rete, l'appuntamento dell'8 agosto si dimostra comunque interessante. E, politicizzati o meno, i Giochi in Cina resteranno un buon precedente per scrutinare chi li ospita. Dimostrando che lo sport non può comunque nascondere le verità che non piacciono ai governi.


venerdì 1 agosto 2008

l’Unità 1.8.08
Europee. Oggi la bozza Calderoli al Consiglio dei ministri


È un testo di mediazione quello che arriverà oggi in Consiglio dei Ministri. Roberto Calderoli e Umberto Bossi hanno lavorato di lima, tenuto conto delle posizioni dei piccoli e delle opposizioni, e alla fine hanno preparato una bozza di riforma elettorale per lo scrutinio europeo che dovrebbe trovare un’accoglienza favorevole. Almeno per quanto riguarda la questione dello sbarramento, previsto al 4%. Perché invece su liste bloccate e preferenze, le posizioni sono ancora lontane. Soprattutto con Berlusconi che non ha mai nascosto la propria avversione per la scelta del candidato e la propensione, invece, per il porcellum.
Quello di oggi si preannuncia comunque come una discussione preliminare, visto che poi l’eventuale disegno di legge dovrebbe essere lasciato al dibattimento in Aula per trovare larghe intese e, soprattutto, per non irrigidire le differenze interne alla maggioranza.
La bozza Calderoli prevede la soglia al 4%, l’aumento fino a dieci delle circoscrizioni, il tetto a tre liste per le candidature multiple e una preferenza. Se lo sbarramento dovrebbe avere largo consenso, visto che si tratta di una mediazione tra il 5% proposto dal Pdl e il 3% del Pd, per la preferenza si preannuncia una maggioranza trasversale. Contro le liste bloccate sul modello della legge elettorale italiana si sono già pronunciati il Pd, l’Udc e buona parte di An.
Ma mentre sullo sbarramento alza la voce il piccolo Movimento delle autonomie che mette in guardia il premier, la vera grana riguarda la questione di genere. Il Pd, infatti, aveva presentato un proprio progetto di legge che prevedeva la doppia preferenza con l’obbligo di alternanza, un uomo una donna. «Cosa intende fare la ministra Mara Carfagna - ha chiesto la ministra ombra Vittoria Franco - per garantire la rappresentanza di genere?».

l’Unità 1.8.08
Il presidente romeno Basescu smentisce Berlusconi in diretta tv
«Non approviamo le misure sulla sicurezza»
di Maristella Iervasi


Bambini vestiti a festa ed emozionatissimi più degli adulti. Ma nell’unico tavolone all’ombra, neppure uno striscione di benvenuto. Neppure un caffè. Solo decine di bottigliette d’acqua congelata. È stato accolto così dai suoi concittadini, il presidente romeno Silvio Traian Basescu. La comunità romena e rom del campo di via Candoni, alla periferia ovest di Roma nel quartiere Magliana Vecchia (460 persone, la metà minori, che convivono insieme ad altri 200 bosniaci), era già pronta fin dalla sera prima. «È una giornata speciale, arriva per la prima volta nel campo il nostro presidente: lui sa cosa deve fare per noi - dicono in coro Michele, Ottaviano e Alessandro dai loro container -. Lui sa cosa chiedere a Berlusconi e Maroni. Lui sa che l’Italia ci discrimina. Lui sa che vogliono le impronte dei nostri bambini... Noi abbiamo fiducia in Basescu e lo ascolteremo, poi semmai faremo le nostre domande». E così è. Con i giornalisti e cineoperatori «in prigione» sotto lo stretto controllo dell’Interpol rumena, comincia la visita. Mentre il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, arriva sul filo del cerimoniale di Basescu evitando la figuraccia istituzionale.
Papi, 5 anni, ripete a squarciagola «Basescu, Basescu»: non parla l’italiano però lo comprende. Patrizia, di un anno più grande, ripete a mo’ di canzoncina quello che vorrebbe dire al presidente: «Vedi lassù quegli alberi anneriti? Hanno dato fuoco gli italiani», ma si emoziona e tace. Parla per tutti Bambalau, il coordinatore del campo di via Candoni: «Sappiamo presidente, che vuole collaborare con il governo italiano. Sui comportamenti della gente italiana non mi esprimo perchè mi vergogno - sottolinea -. Noi vogliamo l’integrazione e chiediamo lavoro. Se guadagnassimo tutti e bene potremmo anche tornare in Romania».
Basescu stringe mani e fa un breve sopralluogo nel campo. Tutto è ordinato e pulito. Entra nel container dove abita Cassandra, 11 anni, che ha messo in bella mostra un orsetto, un coniglio e qualche bambola. Poi ritorna al centro del campo e comincia il suo discorso: «So che avete qualche problema - dice ai suoi concittadini - e sono qui per dirvi che non vi abbandoneremo. Quel che vedo in questo campo mi incoraggia, la collaborazione con le autorità italiane può continuare. Quello che non siamo riusciti a risolvere a casa - ammette -, l’integrazione della minoranza Rom in Romania, sarà risolto insieme con Roma. Dobbiamo trovare le soluzioni per i posti di lavoro, il soggiorno. I bambini devono andare a scuola. Tutti. Capiamo gran parte delle misure sulla sicurezza prese dal governo italiano, ma non possiamo essere d’accordo a un trattamento che è al di là delle norme Ue. Voi siete comunitari, siete cittadini europei. Dovete comportarvi come tali e la scolarizzazione è essenziale: l’etnia rom non ha opportunità se non manda i figli a scuola». E sul rispetto delle leggi, avverte: «La Romania non farà scudo per quelli che trasgrediscono, non li proteggerà».
Nessun riferimento, dunque, alla pesante presa di posizione del Consiglio d’Europa sui nomadi, nessun accenno al «caso» impronte e discriminazioni. Poi un pranzo di lavoro con Silvio Berlusconi e una conferenza stampa. Risultato: Basescu fa in un primo momento il cerchiobottista e Berlusconi sfodera la strategia del sorriso e si vanta di chiamarsi Silvio, proprio come il presidente romeno. «Cittadini rumeni discriminati in Italia? Sono preoccupazioni irreali create da certi ambienti e che non ci appartengono», dice Basescu all’inizio. «Dal governo italiano semplici misure di sicurezza per proteggere i suoi cittadini ma non sono norme contro i cittadini romeni». Poi, più avanti, colpo di scena, smentisce in diretta tv Berlusconi e ribadisce l’opposto: «Il governo romeno non approva, ripeto non approva, parte o gran parte delle misure sulla sicurezza». E sulla schedatura dei bimbi rom, il capo di Stato romeno pronuncia frasi che vogliono suonare come un altolà: «Le impronte ai bambini - precisa il premier romeno - saranno prese con l’autorizzazione dei genitori, del tutore legale o alla presenza di un giudice nei casi in cui non esista un documento di identità».
Berlusconi fa il padrone di casa e, con imbarazzo, cerca di garantire: «Non c’è nessun trattamento di disparità tra i cittadini italiani e quelli romeni: godono degli stessi diritti europei. Sottoporre i bambini rom all’identificazione con le impronte digitali non è una misura restrittiva, serve per garantire ai bambini di andare a scuola, di andarci veramente». Quanto alle relazioni dell’Europa e alla sonora batosta del Consiglio d’Europa sulle misure per i nomadi, Berlusconi commenta: «Il parlamento europeo ha dato una risposta politica basata su una irrealtà. Una disinformazione assoluta». Prossimo appuntamento il 9 ottobre, con il vertice intergovernativo tra l’Italia e la Romania.

l’Unità 1.8.08
Editoria a rischio: sui giornali di partito si abbatte la scure
Via i contributi diretti: nel mirino ci sono 229 testate. Ma sono state mantenute le agevolazioni per i grandi gruppi
di Luca Sebastiani


Vita (Pd): iniziativa lesiva di un fondamento della democrazia qual è la libertà di informazione

Le cifre
229 SONO LE TESTATE no profit, cooperative e di partito che hanno accesso ai contributi diretti.
12 SONO I QUOTIDIANI organi di partito.
13 TRA QUOTIDIANI E PERIODICI VARI, sono le teste legate a movimenti politici
170 SONO I MILIONI che mancano all’appello già nell’anno in corso
187 SONO i MILIONI che la manovra taglia per gli anni 2009 e 2010

SEMPLIFICAZIONE È con questa tranquillizzante dicitura che il governo ha sentenziato la condanna a morte di una parte del mondo editoriale italiano. E come spesso accade per i provvedimenti concepiti con disinvoltura dal ministro dell’Economia Robin Tremonti Hood, è ovviamente della parte più debole dell’editoria italiana che si parla. Quella cooperativa, politica. Quella cioè che non riuscendo a vivere della raccolta pubblicitaria, vive grazie ai contributi diretti dello Stato in virtù del principio che l’esistenza di una stampa libera, indipendente e pluralistica sia uno dei pilastri della democrazia.
Per essere concreti. Se alla fine la finanziaria estiva del governo verrà approvata con la stessa fretta con cui è stata partorita, giornali come il Manifesto, Liberazione, Europa, L’Unità o Il Salvagente, Il Foglio, Libero, Il Secolo, La Padania avranno di fronte a sè giorni bui. In termini di bilancio e posti di lavoro.
Il tutto è contenuto nell’articolo 44 del decreto legge 122, intitolato «Semplificazione e riordino delle procedure di erogazione ai contributi all’editoria». A leggerlo, di riordini, pur reclamati da più parti, non se ne vede l’ombra. Come di semplificazioni del resto. A meno che per semplificazione non si voglia intendere il colpo di scure ceco e indifferenziato dei contributi diretti, quelli appunto di cui vive l’editoria cooperativa, non profit e di partito, 229 testate in tutto. Quella fetta d’informazione, cioè, la cui raccolta pubblicitaria arriva al 20 per cento dei ricavi quando va molto bene.
Il fabbisogno per il 2008 dell’editoria nel suo complesso è stata stimata intorno ai 589 milioni di euro, 190 per i contributi diretti e 399 per gli indiretti, agevolazioni fiscali, elettriche e satellitari. Quei contributi di cui godono principalmente le grandi testate come il Corriere della Sera, La Repubblica o Il Sole 24 ore. Quei quotidiani, cioè, che spesso hanno nei loro bilanci sostanziose raccolte pubblicitarie. Qualche volta superiori agli incassi delle vendite. La finanziaria del precedente governo aveva già previsto per il comparto uno stanziamento di 414 milioni, dunque già al di sotto del fabbisogno. Ma ora Tremonti ha fatto di meglio e ha sforbiciato da quella cifra 87 milioni nel 2009 e 100 nel 2010 solo sui contributi diretti «lasciando intonsi i 305 indiretti», come dice un preoccupato comunicato di Mediacoop.
Insomma, un attacco tale al diritto soggettivo ai contributi diretti, che anche la maggioranza ha mugugnato parecchio. All’inizio di luglio in Commissione Cultura alla Camera votò un emendamento con l’opposizione in cui si chiedeva di «escludere qualsiasi riduzione delle risorse destinate ai contributi diretti». Ma per ora non c’è stato niente da fare e ieri Alessio Butti, senatore del Pdl, ha confessato di non poter nascondere la sua «profonda delusione per i tagli apportati indiscriminatamente all'editoria». Così, ha detto, si «mettono seriamente nei guai decine di giornali venduti in edicola, che hanno migliaia di abbonati e occupano centinaia di giornalisti». Anche il senatore del Pd Vincenzo Vita durante la discussione ha definito quello che sta avvenendo come un «delitto perfetto». «Un’iniziativa - ha detto - lesiva di un fondamento della democrazia qual è la libertà di informazione».

l’Unità 1.8.08
Oggi il governo taglia i fondi a tutti i giornali considerati politici
Radio Londra
di Furio Colombo


Ha ragione Il manifesto a definire “misteriosa” Radio Radicale. Come spiegare una radio simile in un Paese che ha subito (e subisce da tempo) un pauroso blocco delle informazioni, nel Paese della Rai visiva e della Rai parlata, in cui una questione testamento biologico te la spiega un vescovo, una di sospetta finanza viene affidata al presunto imputato, il presidente dell’azienda di un vasto spionaggio telefonico viene intervistato per scagionare se stesso, l’immigrazione si chiama “sicurezza”, l’estate nelle città deserte “emergenza”, con pattuglioni di lancieri e granatieri fra turisti storditi, l’immondizia a tonnellate scompare quando ti dicono che è scomparsa, senza uno straccio di spiegazione e di prova, e la frase: «le impronte digitali fanno bene ai bambini» viene ripetuta come un fatto ovvio, che balza agli occhi, e le reti oscurano i raid nei campi nomadi (che però l’Europa, che ha altre radio e altre televisioni, vede bene), in un Paese così una radio che non apre le notizie con il Papa, ti racconta tutto delle sofferenze di Coscioni e di Welby (e del corpo di Welby abbandonato fuori dalla chiesa), fa parlare una parte e l’altra senza giro rituale e infinto di voci fisse, ti dà le dirette dei fatti veri, ti racconta la guerra in Iraq (la vera storia) e il tentativo di salvare la vita a Tareq Aziz, questa è senza dubbio una radio misteriosa. Diciamo: estranea alla prevalente cultura italiana.
Riceve, certo, contributi per esistere. Ma trasmette tutto da tutto rendendo trasparente un Paese opaco fatto di realtà sovrapposte e impenetrabili, un Paese con le finestre murate a cura di editori, partiti, caste, e interessi speciali.
Non è né gradevole né gentile, Radio Radicale, e non è neppure la cosa più bella del mondo. Personalmente, e professionalmente, mi manca una terza parte (tutte le notizie che segnano un giorno, ripetute più volte al giorno). Ma mi mancano perché penso al solo modello “perfetto” che conosco, la «National Public Radio» americana che quasi ogni giorno dispiace ai politici di potere non perché sia di sinistra (è appena un po’ liberal) ma perché non tace su nulla. Radio Radicale, per i miei gusti, è un poco di destra (è appena un po’ troppo “di mercato”) e come la PBS non nasconde nulla. Ma gli manca il grande notiziario.
Però come saprei di Israele e Medio Oriente e della Cambogia, di Cina e Tibet e Birmania, di sperdute e abbandonate minoranze nel mondo, senza Radio Radicale?
E come comincerebbe la giornata politica di molti italiani (va bene, parlo soprattutto di addetti ai lavori) senza «Stampa e regime», la celebre rassegna stampa mattutina di Radio Radicale?
* * *
D’altra parte il 31 luglio, mentre questa nota viene scritta, è anche il giorno in cui il governo “liberale” ha tagliato tutti i sostegni a tutti i giornali considerati “politici”, a cominciare da Libero e dal Foglio, fino a l’Unità.
Perché la questione è diversa da una normale decisione di un normale governo? Perché è presa dal titolare del più grande conflitto di interessi del mondo. Quale conflitto di interessi? Quello del proprietario di quasi tutto ciò che si vede e quasi tutto ciò che si legge, che abolisce - o tenta di abolire - anche la minima concorrenza.
La questione “sostenere o no la stampa di partito” specialmente in momenti difficili è grave e seria e degna di dibattito.
Il taglio di Berlusconi però finisce per apparire una museruola, una finestra murata in più.
Se fossi Radio Radicale - che viene preservata, credo, soprattutto grazie alle dirette dalla Camera, dal Senato e moltissimi eventi politici del Paese (a volte unica fonte di cose veramente dette) - inserirei subito nei programmi ore messe a disposizione dei giornali morenti e delle loro voci che potrebbero finire per sempre nel polpettone quotidiano Rai-Mediaset. In un mondo di regime (che - ti dicono a Radio Radicale - non comincia con Berlusconi, è più radicato e più antico) potrebbe essere un’idea di salvezza.
furiocolombo@unita.it

l’Unità 1.8.08
Eluana, l’ingerenza dei deputati
E la Procura: stop alla sentenza
di Anna Tarquini


Dopo 16 anni «non è stata accertata con sufficiente oggettività l’irreversibilità dello stato vegetativo permanente di Eluana Englaro» e «non vi è certezza sul fatto che il paziente sia del tutto privo di consapevolezza». Con queste motivazioni la procura generale di Milano ha chiesto ufficialmente lo stop. Stop all’esecutività della sentenza dei giudici d’Appello che avevano autorizzato i tutori a staccare il sondino, e ricorso alla Cassazione perché dia un parere sulla sentenza milanese. Erano gli unici a poterlo fare, e lo hanno fatto poche ore dopo il sì della Camera al conflitto di attribuzione, cioè al ricorso alla Corte Costituzionale. Cosa accadrà è difficile dirlo ora. Potrebbe essere una corsa contro il tempo, potrebbe invece rivelarsi una ennesima sconfitta per la famiglia Englaro. L’avvocato degli Englaro ha commentato secco: «Motivazioni sconcertanti. Resisteremo».
Il ricorso del Pg è stato depositato ieri, ma non ancora la richiesta della sospensiva dell’esecutività della ordinanza. La Camera ci aveva messo appena mezz’ora a decidere che - sia la Cassazione, sia i giudici d’Appello - avevano scavalcato le prerogative del Parlamento con quella sentenza. Questo perché non essendoci una legge in Italia che disciplina il testamento biologico né tantomeno l’eutanasia - secondo il Pdl ma non solo - i giudici milanesi avevano creato un pericoloso precedente. Si sono riuniti alle 13.30 precise, alle 14.05 sul tabellone appariva l’esito del voto. Pochi interventi e tesi già note. Per il sì ha votato tutta la maggioranza di governo. Qualche astenuto, Italia dei Valori contraria.
Dopo lunga e travagliata discussione il Pd ha confermato la decisione di lasciare l’aula prima del voto. E questo non certo per ipotetici dissensi o condizioni poste dai teodem sulle questioni etiche. Semplicemente, come ha annunciato Zaccaria in aula, perché il Pd ritiene la richiesta di conflitto di attribuzione infondata. La Cassazione non si è sostituita al Parlamento, ha solo deciso - tra l’altro sulla base di una norma costituzionale, l’articolo 32 - che Eluana, in vita, si era espressa contro l’accanimento terapeutico.
La mediazione I cattolici del Pd hanno poi voluto chiarire: «Con una sofferta mediazione il Pd ha offerto un’importante manifestazione di unità e di compattezza non partecipando al voto sul conflitto di attribuzione». La nota è firmata da Paola Binetti, Bobba, Carra, Calgaro, Lusetti, Mosella, Ria e Andrea Sarubbi. «Depositeremo una nostra proposta di legge sul cosiddetto testamento biologico, per mettere in chiaro il nostro no deciso alla eutanasia».
Cosa accadrà? Solo il voto della Camera non avrebbe cambiato nulla per la famiglia Englaro. Non così il ricorso della Procura generale. «Questa è solo la politicizzazione del caso di Eluana Englaro. La sentenza c’è e non può essere né sospesa né annullata» aveva detto Franca Alessio, curatrice speciale della ragazza. «Per noi - ha invece spiegato l’avvocato Angiolini dopo il voto dell’aula -, la situazione oggi è uguale a ieri, e identica a tre settimane fa: la Corte d’Appello, come poi confermato dalla Cassazione, ha autorizzato il signor Englaro a porre fine alle sofferenze della figlia, ed è quello che farà quando lo riterrà opportuno, né prima né dopo».
La legge è chiara «Per interrompere una sentenza esecutiva come quella della Corte d’Appello ci vuole una richiesta esplicita di sospensione alla stessa Corte». Ora quella richiesta c’è e aveva visto bene il vicepresidente della Camera Maurizio Lupi (Pdl), tra i firmatari della richiesta di ricorso alla Consulta, che poche ore prima aveva detto: «I tempi? Crediamo che saranno molto brevi proprio per l’importanza del caso».
Otto disegni di legge in Parlamento, dalla richiesta di regolamentare il testamento biologico alla legalizzazione dell’eutanasia. Quando un anno fa si era vicini a una sintesi possibile delle varie proposte, una sintesi di garanzia che preludeva alla discussione in Commissione Sanità prevista per maggio, intervenne la Cei con una nota secca. «Non riteniamo necessaria una legge specifica sul testamento biologico». Tutto si fermò. I casi Welby, Nuvoli, Englaro, tornarono nelle mani dei giudici. Ieri Antonello Soro, capogruppo del Pd alla Camera, ha scritto a Fini. Il vuoto legislativo attorno al «fine vita» va colmato al più presto. Serve che il «testamento biologico sia in tempi rapidi calendarizzato a Montecitorio.

l’Unità 1.8.08
Eluana, l’ultimo affronto
di Maurizio Mori*


Una cosa è certa: i coniugi Englaro non avrebbero mai immaginato di innescare un caso storico di proporzioni tanto grandi. Volevano rispetto e giustizia per la loro figlia, della cui volontà si sentono gelosi custodi. Mai avrebbero pensato di arrivare a sollevare addirittura un “conflitto d’attribuzione” tra poteri dello Stato, giungendo così a mettere in crisi i massimi vertici della vita sociale e giuridica del Paese. Invece è capitato. Ieri, a maggioranza, la Camera ha approvato la mozione del centro-destra che afferma che su certi temi fondamentali come quello di Eluana Englaro spetta al Parlamento dare una risposta attraverso specifiche leggi e non a Corti specifiche sia pure quella di Cassazione. Oggi, voto simile è scontato al Senato. Un bel successo, che merita una pausa di riflessione.
Dal punto di vista pratico, per la vicenda umana di Eluana, la decisione del Parlamento è pressoché irrilevante sia perché la soluzione del conflitto è demandata alla Corte Costituzionale la cui risposta non sarà immediata, sia perché non è detto che la risposta sarà quella attesa dalla maggioranza dei parlamentari. A ben vedere, quindi, quella della attuale maggioranza è solo una mossa propagandistica fatta per accontentare quei cattolici fautori dello strenuo vitalismo: è una mossa che rassicura i difensori della sacralità della vita, i quali sentono che ci si muove per loro “ai massimi livelli”! Ma è anche un po’ di fumo negli occhi, perché per ora non cambia nulla o comunque non si fa altro che rimandare la questione ad altra sede - senza così urtare la sensibilità di alcuno.
Colpisce, infatti, come non si siano elevate voci decise a netto sostegno della decisione dei giudici. Non so se ciò sia dipeso da condizionamenti mediatici (la stampa, salvo sporadiche eccezioni, è orientata in direzioni ben precise), ma poco rilievo è stato dato ad eventuali elogi dei giudici che nel caso hanno difeso la libertà dei cittadini - come vuole la Costituzione e gran parte dell’opinione pubblica. Qui c’è un altro punto da chiarire: vari sondaggi negli ultimi giorni hanno confermato che circa l’80% dei cittadini sostiene la decisione della Corte di Milano e la posizione del padre di Eluana, Beppino Englaro. Ma anche questa notizia è passata sotto silenzio. Anzi, a leggere i giornali sembra proprio l’opposto, e che l’iniziativa lanciata di cattolici e dai vitalisti della “bottiglia d’acqua per Eluana” sia andata alla grande, invece di essere stata un grande fiasco con pochissimi sostenitori. Lo stesso capita coi neurologi, che in gran parte stanno col Gruppo di studio di bioetica e cure palliative della Società Italiana di Neurologia, che ha fatto sapere di avere studiato il caso Englaro già anni fa e di apprezzare la sentenza della Corte di Milano.
Colpisce come le forze a favore dell’innovazione non abbiano dato voce alle esigenze di modernizzazione bioetica che premono e sono forti nel Paese. L’Italia è un Paese avanzato e non può continuare a vivere in base a criteri vitalisti dettati dalla sacralità della vita. Ci sono certi processi storici che non si possono imbrigliare con decisioni parlamentari, tanto più quando esse sono “di facciata” come quelle prese col conflitto d’attribuzione. Non sono un costituzionalista e comunque è difficile prevedere quale sarà la soluzione della Corte Costituzionale al riguardo. Ma devo dire di essere istintivamente sorpreso (e un po’ spaventato) da affermazioni del tipo: «Decidendo della morte di Eluana la Cassazione si è arrogata un potere del Parlamento». Si lascia così intendere che sarebbe il Parlamento ad avere il potere di decisione sulla vita e sulla morte dei cittadini! Discorsi di questo tipo mi sembrano assurdi, perché dimenticano che anche il Parlamento ha dei limiti di fronte ai quali fermarsi: i diritti civili dei cittadini. La vita e la morte dei cittadini non appartengono al Parlamento né a nessun altro se non ai titolari medesimi. E se è così, allora il conflitto d’attribuzione è ben poca cosa. Come poca cosa è il ricorso sospensivo della Procura di Milano, annunciato ieri sera, che allunga le sofferenze degli Englaro.
Le varie difficoltà e i ritardi frapposti col tempo verranno visti per quello che sono: opposizioni frutto di nostalgici della sacralità della vita che vivono un po’ fuori del tempo, in un passato ormai chiuso che tuttavia lascia in molti il profumo di momenti che furono.
* Presidente della Consulta di Bioetica Onlus, Professore di Bioetica Università di Torino

Corriere della Sera 1.8.08
Nel Pd. La vittoria di teodem e rutelliani «E ora la legge anti-eutanasia»
di M.Antonietta Calabrò


ROMA — «Noi abbiamo tenuto duro: avevamo detto a chiare lettere che se il Pd avesse votato contro il conflitto, noi avremmo votato a favore». Paola Binetti, capofila dei teodem, (Bobba, Carra), cioè dei cattolici nel Partito democratico, e con loro i rutelliani (Calgaro, Lusetti, Mosella, Ria, Sarubbi) ieri mostravano grande soddisfazione. «Proprio a motivo del nostro atteggiamento — continua Binetti — già martedì scorso a Palazzo Madama era emerso nel nostro gruppo l'orientamento di non partecipare al voto». Della loro posizione si era fatto interprete e garante l'ex presidente del Senato, Franco Marini, e così, nel Pd, si è arrivati alla scelta del «non voto», nonostante il capogruppo alla Camera Soro abbia ribadito in Aula che sollevare il conflitto è sbagliato e che «non ce la si può prendere con i giudici ».
La linea dei teodem insomma è risultata vincente, mentre è rimasta nell'angolo quella della cattolica «adulta» e prodiana Bindi, l'ex ministro della Famiglia, che nell'ufficio di presidenza di Mon-tecitorio, mercoledì, si era apertamente dichiarata contraria a che ci si rivolgesse alla Corte Costituzionale. Anche se poi la Bindi, disciplinatamente, ieri in Aula, si è astenuta. «Oggi il Pd con una sofferta mediazione ha offerto una importante manifestazione di unità e di compattezza non partecipando al voto sul conflitto di attribuzione », hanno commentato i rutelliani. Ma hanno anche voluto subito mettere in evidenza che la nuova legge da tutti richiesta non potrà in ogni caso essere il lasciapassare per forme più o meno larvate di eutanasia, «inclusa la sospensione della nutrizione e della idratazione, che in nessun caso possono essere assimilate a qualsivoglia forma di accanimento terapeutico». «Il vuoto legislativo attorno al fine vita va colmato al più presto», ha scritto Soro al presidente della Camera Fini. Ma proprio per questo già ieri i teodem hanno depositato un loro progetto di legge alternativo a quello del collega di partito Ignazio Marino. Nel ddl della Binetti «ci sono altri due no altrettanto forti: no all'abbandono terapeutico e no all'accanimento terapeutico ». Viceversa «ci saranno anche tre sì chiari e decisi»: «alle cure palliative», «alla garanzia che la volontà del paziente sarà rispettata nei fatti e nelle intenzioni», «alla possibilità per il medico di fare obiezione di coscienza».
Quanto ad Eluana, per i parlamentari rutelliani del Pd «la sua vita appesa ad un sondino è la vera immagine della precarietà e non può che suscitare un profondo senso di smarrimento e un altrettanto profondo desiderio di tutelarla». Per questo, «nonostante tutta la comprensione e la compassione con cui partecipiamo alla vicenda della famiglia Englaro, vogliamo che Eluana viva, riaffermando che nessuno può assumersi la tragica responsabilità di togliere la vita ad un'altra persona ».

Repubblica 1.8.08
La fuga del Pd
di Miriam Mafai


Era lecito attendersi una posizione limpida ed equilibrata. A volte la prudenza rischia di apparire indifferenza

Dunque la Camera ha votato. E ha deciso di sollevare conflitto di attribuzione davanti alla Corte Costituzionale contro la decisione della Corte di Cassazione che aveva finalmente consentito alla richiesta del padre di Eluana Englaro di sospendere l'alimentazione e l´idratazione forzata della figlia in stato vegetativo permanente da ormai sedici anni.
La Camera ha votato e il pg di Milano ha fatto ricorso contro la sentenza, dunque la povera Eluana dovrà ancora restare attaccata a quel sondino, invecchiare così nel buio profondo di una morte non ancora ufficialmente certificata.
Da più di dieci anni giacciono di fronte alla nostre assemblee elettive proposte di legge intitolate dal cosiddetto "testamento biologico" grazie al quale ognuno di noi avrebbe il diritto di decidere della fine della sua vita, quando e come e perché staccare quel sondino e quelle macchine che possono tenerti immobilizzato, per anni, in quello spazio di morte che non è più la morte naturale di una volta, ma l´orrore di una zona intermedia in cui è una macchina che pompa il sangue, ti alimenta artificialmente per un tempo che può durare per anni. Per Eluana sono passati già sedici anni.
L´orrore di questa condizione inumana non conta nulla di fronte al voto dei nostri parlamentari. Non conta nulla nemmeno la sentenza della Cassazione che finalmente aveva acceduto alla richiesta del padre di Eluana.
Non conta nulla nemmeno il fatto che le nostre assemblee elettive, non siano riuscite nel corso degli anni passati a esaminare ed approvare una delle molte proposte di legge sul "testamento biologico" che metterebbero ognuno di noi al riparo da questa violenza esercitata sui nostri corpi alla fine delle nostra vita.
Ma quello che più mi ha colpito nella seduta di ieri della Camera dei deputati, di fronte a quel voto, è stata il silenzio dei parlamentari del Partito Democratico.
Il loro rifiuto di assumere una posizione e di esprimersi con un sì o con un no. Il loro ripiegare su un´astensione che appare una fuga dalle responsabilità.
Il caso Englaro è di fronte alla pubblica opinione e alle assemblee legislative da quasi dieci anni. Non è certamente colpa del Partito Democratico se una legge equilibrata sul testamento biologico non è stata ancora discussa e approvata. Basterebbe ricordare a questo proposito l´instancabile azione svolta da uno scienziato come Ignazio Marino, eletto senatore nelle file del Pd.
Questa battaglia continuerà, penso, al Senato, dove è stata recentemente presentata una proposta di legge sottoscritta da cento senatori del Pd, dell´Italia dei Valori e del Pdl.
Ma ieri, alla Camera, il Partito Democratico ha preferito non prendere parte alla votazione. Non mi convince la spiegazione che ne è stata fornita in aula. Sappiamo tutti che convivono nel Pd sentimenti e parlamentari laici e cattolici. Sappiamo tutti che una mediazione tra queste diverse culture richiede attenzione, intelligenza e prudenza. Ma ci sono casi e momenti in cui la prudenza rischia di apparire indifferenza o pavidità.
Attorno al caso di Eluana Englaro, alla sua tragedia e a quella del padre, attorno a un caso drammatico che investe la coscienza di tutti noi, era lecito attendersi una posizione limpida ed equilibrata dei deputati del Partito Democratico. Non c´è stata. È una brutta giornata, questa, per chi crede nel Partito Democratico e nella laicità del nostro Stato.

il Riformista 1.8.08
Lo Stato va in crisi per Eluana
UN'ACCUSA GRAVE CHE MINA L'EQUILIBRIO ISTITUZIONALE
di Mario Ricciardi


C on il voto favorevole della Camera si mette in moto il procedimento che potrebbe portare la Corte Costituzionale a pronunciarsi sul conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato relativamente alle sentenze sul caso Englaro. Secondo i parlamentari del centro-destra, che chiedono il ricorso a questo strumento di tutela, i giudici hanno violato il confine tra interpretazione e produzione del diritto, arrogandosi di fatto il potere di fare le leggi. Un'accusa di straordinaria gravità che aprirebbe una crisi senza precedenti nei rapporti - per niente sereni - tra magistratura e parlamento.
Tuttavia, ci sono almeno due ragioni di perplessità sulla pretesa avanzata con il voto della Camera. In primo luogo, c'è un dubbio di natura concettuale. Secondo i parlamentari che hanno votato a favore, la Corte di Cassazione avrebbe «travalicato i limiti della funzione ad essa affidata dall'ordinamento, esercitando di fatto un potere legislativo in una materia non disciplinata dalla legge e ponendo a fondamento della sua decisione presupposti non ricavabili dall'ordinamento vigente, neppure mediante l'applicazione dei criteri ermeneutici». L'allusione è ai due principi che la Cassazione ha proposto come guida per le future decisioni in materia, che hanno orientato la successiva pronuncia della Corte di Appello di Milano che ha autorizzato la sospensione dell'alimentazione di Eluana Englaro. Come si ricorderà, la Corte di Cassazione aveva stabilito che tale sospensione è lecita quando «a) secondo un rigoroso apprezzamento clinico la condizione vegetativa sia irreversibile e non vi sia possibilità di recupero della coscienza; b) la richiesta sia espressiva, in base a elementi di prova chiari, univoci e convincenti, tratti dalle precedenti dichiarazioni del malato ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, della sua identità e del suo modo di concepire la dignità della persona». Si tratta di standard formulati in modo generale il cui scopo è suggerire una cornice interpretativa, alla luce del diritto vigente, per le corti di merito che dovessero trovarsi in futuro a decidere su casi simili. Un modo di orientare gli indirizzi della giurisdizione che la Cassazione esercita abitualmente, e che risponde a una ragionevole esigenza di uniformità nell'applicazione del diritto. Suggerire, non ordinare, perché in un ordinamento in cui i precedenti - anche quelli delle corti superiori - non sono in senso stretto fonte del diritto non è immaginabile che la Cassazione abbia inteso produrre norme da applicare immediatamente, senza ulteriore valutazione da parte dei giudici di merito. Ovviamente la sentenza della Cassazione sul caso Englaro è criticabile, come tutte le sentenze, e non si può escludere che essa sia in parte il frutto di un ragionamento fallace. Tuttavia, un'interpretazione poco convincente del diritto da parte di una Corte non è un attacco alle prerogative del parlamento. Gli effetti legali della sentenza rimangono infatti strettamente nell'ambito della questione che le è stata sottoposta, che è quella della legittimità di una sentenza di merito.
La Cassazione non ha legiferato surrettiziamente, i principi che ha formulato sono aperti a revisione da parte di sentenze future, che potrebbero modificarli radicalmente, ad esempio specificandone i contenuti alla luce di considerazioni ulteriori. Dal canto suo, il parlamento rimane nella pienezza dei poteri e può legiferare come e quando ritiene opportuno sull'interruzione dell'alimentazione di una persona in stato di coma vegetativo permanente, anche se c'è stata una sentenza della Corte di Cassazione. A questa perplessità concettuale sull'iniziativa del parlamento, se ne accompagna una che riguarda il "galateo" istituzionale. Ricorrere a uno strumento concepito per situazioni eccezionali per impedire l'esecutività di una sentenza che ripugna - a torto o a ragione - a una parte dell'elettorato, è una leggerezza grave, che potrebbe avere conseguenze serie per un equilibrio tra poteri costituzionali che è fragile da tempo. Sarebbe davvero triste se la vicenda di Eluana Englaro diventasse il pretesto per l'ennesimo sfregio ai principi dello stato di diritto.


il Riformista 1.8.08
Per restare unito il pd se ne sta zitto
Ora la Procura chiede di fermare la sentenza
di Alessandro Calvi


Corte Costituzionale e Corte di Cassazione. Entrambe potrebbero occuparsi molto presto, direttamente o indirettamente, del caso di Eluana Englaro. Si tratta della ragazza da oltre 16 anni in stato di coma vegetativo permanente sulla quale di recente si è pronunciata, sulla base di una sentenza della Cassazione, la corte di appello di Milano, autorizzando la sospensione dell'alimentazione forzata.
Ebbene, proprio contro quella sentenza della Cassazione si è mossa ieri la Camera che ha dato il suo via libera al conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, chiedendo che la Corte Costituzionale stabilisca se la Cassazione abbia interferito o meno con le prerogative del legislatore. Lo stesso dovrebbe fare oggi il Senato. Se il Parlamento va al frontale con la Cassazione, la procura generale di Milano ha deciso di impugnare la sentenza della corte di appello, ricorrendo proprio in Cassazione. Insomma, un intreccio quasi inestricabile in cui rischia di finire stritolato Beppino Englaro, il papà di Eluana, che ieri, per bocca del legale di famiglia, aveva fatto sapere di voler andare avanti, dando esecuzione alla sentenza della corte di appello di Milano. Ora, però, l'iniziativa della procura generale potrebbe portare in linea teorica alla sospensione della esecutività di quella sentenza, effetto che invece l'iniziativa parlamentare non poteva avere.
Dunque, Beppino Englaro rischia, in un attimo, di vedersi sfuggire dalle mani ciò per cui aveva combattuto, in nome della figlia, per tanti anni ovvero, come ha spesso detto lui stesso, la possibilità di «liberarla». E comunque la pressione sulle sue spalle sta divenendo davvero forte. Quella della magistratura milanese, certo, ma anche quella della politica.
Ad aprire la strada alla possibilità di sollevare un conflitto di attribuzione tra Parlamento e Cassazione era stata una iniziativa del Pdl al Senato. Alla fine, però, complice il dibattito sulla manovra economica che si è preso la precedenza a Palazzo Madama, è arrivata prima la Camera che ha dato un via libera scontato ma anche sofferto. Che infatti Pd e Pdl debbano fare i conti con qualche smagliatura non è un segreto. A favore si è espresso il Pdl, seppure con qualche importante dissenso come quello di Benedetto Della Vedova - ex radicale come Quagliariello con il quale si è giocato quasi un derby. A favore anche Lega e Udc. Contro, invece, l'Idv. E contro sarebbero stati anche i radicali se non fossero stati impegnati a occupare le stanze della commissione di vigilanza sulla Rai. «Niente Aventino», era la richiesta al Pd. Invece, alla fine, Aventino è stato perché il Pd ha preferito non votare. La ragione l'ha spiegata ieri su queste pagine il vicepresidente del Senato, Vannino Chiti, sottolineando che il Pd non avrebbe partecipato al voto per non legittimare una «operazione politica cinica» e l'uso «strumentale di un dramma umano».
E così la giornata di ieri è terminata con un rimbalzo di notizie tra Parlamento e tribunali, tra Roma e Milano. E con il via libera a portare la decisione della Cassazione all'attenzione della Consulta. Soddisfatto, naturalmente, il Pdl. E soddisfatti anche i teodem del Pd per la «manifestazione di unità» data dal partito «non partecipando al voto». È una soddisfazione che porta con sé l'annuncio di una nuova proposta di legge sul testamento biologico che darà qualche grattacapo ai laici del partito. E, anche per questo, quella dei teodem è una soddisfazione che suona quasi come una beffa per il resto del Pd, costretto - anche per evitare di rendere pubbliche le divisioni al proprio interno - a ripiegare sulla strategia del silenzio, se non fosse per una lettera inviata da Antonello Soro a Gianfranco Fini per chiedere una sessione parlamentare dedicata al fine vita.
Oggi si replica in Senato. Non sono previste novità di rilievo se non un ordine del giorno del Pd che, nei contenuti, ricalca la lettera di Soro a Fini. Qualche mal di pancia potrebbe venire a galla nel centrodestra - anche qui ricalcando lo schema già andato in scena alla Camera - ma da quelle parti nessuno sembra agitarsi più di tanto. Il Pd, invece, non voterà, proprio come a Montecitorio. E ieri Donatella Poretti ha confermato lo marcamento radicale anche al Senato.
Insomma, si replica, con un Pd che ieri, se non ci fossero stati i radicali, per il timore di apparire diviso sarebbe rimasto in silenzio, trincerato dietro una posizione ufficiale che è quella di non legittimare l'operazione del Pdl. Si tratta di una posizione comprensibile e che fa perno sulla lettera di Soro a Fini e sull'ordine del giorno portato oggi in Senato per dimostrare che non è vero che il partito abbia perso la voce su temi così importanti. Ma è anche una posizione che, proprio nel chiedere che il Parlamento si attivi sul fine vita e nel negare che il non voto sia dovuto alle divisioni interne, non spiega come mai per ben due anni nella scorsa legislatura il Parlamento non sia stato in grado di farla quella legge. E allora il centrosinistra in Parlamento aveva la maggioranza.

il Riformista 1.8.08
Non ha partecipato al voto
Dietro l'assenza del Pd, forse un'apertura
di Gaetano Quagliariello


Ci sono vicende che riguardano il privatissimo dolore delle persone ma a causa delle loro conseguenze hanno una grande rilevanza pubblica e un'innegabile ricaduta sulla convivenza civile. Il caso di Eluana Englaro ne è un esempio emblematico.
Posto di fronte a queste situazioni, chi è investito della rappresentanza del popolo sovrano ha due strade davanti a sé. Può rispettare profondamente il dramma umano, senza per questo omettere di intervenire sulle conseguenze pubbliche che esso implica, esercitando così fino in fondo la propria responsabilità. Oppure si può trincerare dietro un rispetto formale e andare avanti, anche a costo di abdicare al proprio ruolo.
Leggendo quanto ha scritto ieri su queste pagine, mi sembra evidente che Vannino Chiti appartenga alla seconda scuola di pensiero. Non mi stupisce particolarmente. La scelta si comprende alla luce della storia politica e della tradizione culturale dalle quali Chiti proviene. Quel che invece trovo stupefacente è che chi manifesta questo tipo di approccio possa accusare di cinismo quanti hanno sempre distinto con rigore la dimensione privata del dramma umano di Eluana Englaro e le scelte dei singoli dalla dimensione pubblica che gli sviluppi giudiziari della vicenda hanno evidentemente e prepotentemente assunto.
Mi riferisco alla sentenza della Corte di Cassazione. In gioco non ci sono le convinzioni politiche o il credo religioso, e non c'è nemmeno l'opinione che ciascuno può nutrire sull'eutanasia, sulla vita e sulla morte o sulle dichiarazioni anticipate di volontà. In gioco c'è il fatto che sono stati ampiamente superati, su un tema delicatissimo, i normali confini della discrezionalità giudiziaria e della potestà interpretativa che certo spetta ai giudici.
La sentenza della Cassazione, infatti, non si è limitata - come avrebbe dovuto - a rispondere all'istanza di un cittadino rifacendosi, in assenza di una specifica legge di riferimento, alle norme e ai principi dell'ordinamento vigente e alle migliori pratiche mediche. Ha fatto molto di più: ha stabilito che la volontà del paziente in stato di incoscienza possa anche essere ricavata dal suo stile di vita. Ed è intervenuta in maniera assolutamente apodittica e assertiva sul punto sul quale il Parlamento si divide: se, cioè, alimentazione e idratazione artificiali debbano o meno essere considerate trattamenti sanitari. Ne risulta una sorta di ribaltamento dell'onore della prova: sviluppando in concreto il ragionamento della Cassazione, non sarebbe più il medico in scienza e coscienza a dover tenere conto di eventuali dichiarazioni pregresse del paziente non più in grado di esprimersi; al medico, in assenza di un cosiddetto consenso informato, sarebbe di fatto vietato alimentare, idratare e curare il malato!
È una sentenza abnorme, ancor più perché discostandosi dall'ordinamento vigente lede le prerogative parlamentari, cosa che al vicepresidente del Senato non dovrebbe sfuggire. Quanto alla "sfida" di porre alcuni paletti legislativi ai problemi relativi alla fine della vita, non sfuggirà al senatore Chiti che la scelta di elevare un conflitto di attribuzione per riappropriarsi degli spazi che la Costituzione assegna al legislatore è il necessario presupposto di un'assunzione di responsabilità che ci deve portare in tempi brevi a legiferare, affrontando il problema delle dichiarazioni anticipate di volontà nel più ampio contesto del "fine vita" per comprendere anche aspetti come l'accanimento terapeutico, le cure palliative e l'assistenza ai malati terminali. Tutto ciò per evitare due rischi contrapposti ma ugualmente preoccupanti: che la sentenza della Cassazione venga intesa come riferimento ineludibile per la giurisprudenza e traccia per il legislatore; o che venga considerata una sentenza come le altre, destinata ad essere smentita o confermata da successivi pronunciamenti in un far west in cui i vari casi vengono risolti non in base al diritto ma in base alle propensioni ideologiche e ai convincimenti filosofici di chi si trova a giudicare.
Di fronte a questo percorso non ci convincono le argomentazioni del senatore Chiti sul comportamento del Partito democratico. Se si è radicalmente contrari a una decisione, infatti, si vota coerentemente contro. Nella scelta del Pd di non partecipare al voto di oggi preferiamo vedere un'apertura, sebbene critica, alle ragioni di un'iniziativa che sarebbe giusto non valutare solo col criterio del successo o dell'insuccesso di fronte alla Corte Costituzionale, ma come viatico per una possibile collaborazione su un tema che non può lasciare nessuno indifferente.

l’Unità 1.8.08
Cammett, la fortuna di Gramsci in America
di Maria Luisa Righi


LA SCOMPARSA Addio al massimo studioso Usa del pensatore sardo. Interprete e divulgatore eccezionale delle «Lettere» e dei «Quaderni», fu artefice degli studi gramsciani in tutto il mondo

John Cammett è scomparso mercoledì scorso nella sua casa di New York. Nato nel 1927 era uno dei maggiori studiosi di Antonio Gramsci ed era stato un pioniere degli studi gramsciani nel mondo anglosassone. Quando pubblicò il suo primo articolo su Gramsci, cinquant’anni fa, dovette firmarlo con uno pseudonimo (Fred Hallett) per salvaguardare l’avvio della sua carriera accademica dagli strascichi del maccartismo. Il suo interesse per Gramsci era nato a Roma. Come raccontò lui stesso, agli inizi degli anni cinquanta, era stato licenziato per la sua attività sindacale nella fabbrica automobilistica di Detroit, dove aveva scelto di impiegarsi per svolgere lavoro politico. Aveva quindi ripreso gli studi sul Rinascimento italiano ed era venuto a Roma per approfondire le sue ricerche. Passando dalle Botteghe Oscure, rimase impressionato dall’imponenza della sede del partito comunista, situata oltre tutto in pieno centro e proprio alle spalle della Dc. «Negli Stati Uniti, - si disse - i comunisti sono pressoché clandestini, e qui in Italia riescono ad avere una sede così prestigiosa! Questo Pci deve avere qualcosa di particolare. Così mi misi a leggere gli scritti di Togliatti e ben presto incontrai Gramsci». Quando tornò negli Stati Uniti, chiese di cambiare la sua tesi di laurea, per affrontare il tema «Antonio Gramsci e il movimento dell’Ordine nuovo», grazie anche a un professore, come lo definiva lui, «veramente liberale», Shepard B. Clough, che lo incoraggiò «a perseguire una linea di ricerca che a quei tempi non era certo di moda».
La tesi discussa nel 1959 gli procurò, nel 1960, anche il premio per il miglior inedito dell’anno da parte della Society for Italian Historical Studies, istituzione di cui fu anche segretario. Grazie a una borsa di studio, Cammett tornò in Italia nel 1964. Era un anno cruciale per gli studi gramsciani: nei suoi ultimi anni di vita, Togliatti stesso aveva incoraggiato una «rivoluzione storiografica», favorendo la ricerca e la pubblicazione di nuova documentazione sulla storia del partito, e proprio nel 1964, uscirono l’antologia di Giansiro Ferrata e Niccolò Gallo, 2000 pagine di Gramsci (comprensiva di molti inediti, tra cui la famosa lettera del ‘26 al Cc del partito comunista russo), il rapporto di Athos Lisa del ’33 (apparso su Rinascita a cura di Franco Ferri), e si stava completando la nuova edizione delle Lettere dal carcere, che reintegrava i passi omessi nel 1947 e comprendeva 119 nuove lettere, (uscita l’anno successivo per Einaudi, a cura di Elsa Fubini e Sergio Caprioglio. Cammett frequentando assiduamente l’Istituto Gramsci poté accedere alla documentazione che veniva via via scoperta e ordinata, e ciò lo portò a «riscrivere per intero il manoscritto originale». Nel 1967, finalmente vide la luce il suo Antonio Gramsci and the Origins of Italian Communism, per i tipi della Stanford University Press. La ricerca si segnalava, non solo per essere il primo lavoro di ampio respiro sulla biografia del dirigente comunista in lingua inglese, ma anche per aver introdotto «non pochi elementi nuovi nel dibattito gramsciano», seguendo «con puntualità critica quella linea continua fra pensiero e azione» che caratterizzava l’esperienza politica e ideologica di Gramsci - come scrisse Domenico Zucàro, introducendo la traduzione italiana: Antonio Gramsci e le origini del comunismo italiano, (Mursia, 1974). Oggi Cammett è universalmente noto nel mondo degli studi gramsciani per aver dato il via, negli anni ’80, alla Bibliografia gramsciana, comprendente tutti gli scritti di e soprattutto su Gramsci. Propose infatti alla Fondazione Gramsci di occuparsi egli stesso di una nuova bibliografia, potendosi avvalere anche delle nuove risorse messe a disposizione dall’informatica, sia per la creazione di una banca dati che per l’accesso ai cataloghi elettronici delle biblioteche. Ma fondamentale furono anche i rapporti epistolari che John riuscì a intrattenere con studiosi di tutto il mondo, che condividendo l’amore per Gramsci, si sobbarcarono il compito di stilare bibliografie nazionali. Proposta accolta da Giuseppe Vacca, divenuto nel frattempo direttore dell’Istituto. Il risultato fu una prima bozza relativa agli anni 1922-1987, presentata per la prima volta al pubblico al convegno internazionale Gramsci nel mondo (Formia, 25-28 ottobre 1989). Il convegno, cui parteciparono studiosi, editori e traduttori di Gramsci provenienti da vari paesi europei, dagli Stati Uniti, dall’America Latina, dal mondo arabo, dalla Cina, dal Giappone, dal Sudafrica, fornì anche a Cammett l’occasione per trovare nuovi collaboratori per la bibliografia. La rete dei suoi corrispondenti già prefigurava quella International Gramsci Society, che Cammett propose di fondare proprio a Formia, insieme a Joseph A. Buttigieg e Frank Rosengarten, curatori delle edizioni statunitensi, rispettivamente, dei Quaderni e delle Lettere.
La mole di dati presentati contava solo di studi su Gramsci 6000 titoli, in 26 lingue, e destò grande meraviglia anche tra gli specialisti. L’elaborazione elettronica dei dati aveva consentito per la prima volta di compiere un’analisi quantitativa della fortuna di Gramsci per periodi, per tipologie di scritti, per lingue. La versione a stampa, relativa al periodo 1922-1988, uscita nel 1991, come «Annali della Fondazione Istituto Gramsci» contava già mille titoli in più e 28 lingue. Dopo quell’immane fatica, John era convinto di potersi limitare a pubblicare solo periodici aggiornamenti, ma non tenne conto della potenza della rete. Man mano che si facevano più numerose le banche dati, anche al di fuori dell’area statunitense, crescevano anche le informazioni su libri e saggi mai rilevati alle precedenti ricerche. Inoltre, dai primi anni Novanta, si registrò una ripresa significativa degli studi gramsciani, sia negli Stati Uniti, dopo l’avvio della traduzione dei Quaderni per la Columbia University Press, sia in Italia, stimolata dalle ricerche su Tatiana Schucht, dal recupero di nuova documentazione proveniente dagli archivi di Mosca, nonché dalla progettata Edizione nazionale degli scritti.
Così in pochi anni la mole di titoli cresceva a ritmi geometrici, e si dovette pubblicare un secondo volume, la Bibliografia gramsciana. Supplement updated to 1993, che raccoglieva 3428 nuovi titoli. Oggi, la Bibliografia gramsciana è un’opera aperta consultabile on line sul sito della Fondazione Istituto Gramsci (www.fondazionegramsci.org). Conta oramai oltre 17 mila titoli, in 40 lingue l’afrikaans, il bengalese, l’estone, il macedone, il Malayalam, l’occitano, l’albanese), e si pone come un riferimento imprescindibile per gli studiosi di Gramsci, che dobbiamo alla tenacia, alla passione e all’entusiasmo di un grande studioso. Grazie John.

l’Unità 1.8.08
Quando la maternità diventa un boomerang
di Adele Cambria


Le leggi che, in Europa, tutelano la maternità (non così negli Stati Uniti) sono un boomerang per il successo professionale delle donne, come ha dichiarato, creando scandalo, Nicole Brewer, responsabile della Commissione per le pari opportunità della Gran Bretagna? Forse la mia “antica” testimonianza al riguardo, potrà contribuire al discorso. E dunque: la prima gravidanza, nel remoto 1959, non mi creò nessun problema sul luogo di lavoro. Anzi, diventai giornalista professionista nella redazione del quotidiano il Giorno, ideato, fondato e diretto, a Milano, da Gaetano Baldacci, mentre ero incinta di quattro mesi e tutti lo sapevano. Semmai il problema fu che mi obbligarono, all’inizio del settimo mese, a smettere di lavorare, anche se stavo benissimo; ma la legge di tutela della maternità, mi spiegarono, lo esigeva. Così, un po’ malinconica, col mio pancione, trascorsi luglio e agosto sulla Riviera Ligure, a Nervi, guardando con invidia le mie coetanee che ballavano sulla già mitica «Rotonda sul mare», o andando a sentire i Platter’s in concerto («Only You»), ed arrabbiandomi un po’ perché non potevo scriverne. Ero, lo ammetto, molto attaccata al mio ruolo di cronista di costume - ma piangevo quando mi chiamavano “cronista mondana” - e le due o tre estati precedenti le avevo passate facendo chilometri sulle spiagge più alla moda o più popolari d’Italia, alla ricerca de «La Bella del Giorno», un concorso promozionale bandito dal mio quotidiano, in tutti i sensi modernizzatore rispetto alla seriosità dei quotidiani politici nazionali.
Nessun problema, dunque, per la prima gravidanza, i problemi semmai vennero dopo la nascita del bambino: non ebbi fortuna con le bambinaie, (che potevo permettermi), e la mia furia emancipatoria mi aveva ricondotto al giornale dopo 40 giorni. Non ero affatto una precaria, il posto di lavoro era garantito dalla legge a tutela della maternità, avrei potuto restare a casa anche un anno, ma una firma “giovane” e “femminile” (già allora ragionavo in questi termini) non sarebbe sparita per sempre? (Sarebbe stato pubblicato soltanto nel 1963 il bellissimo libro di Natalia Ginzsburg, «Le piccole virtù», in cui lei racconta che, mescolando il semolino col pomodoro per preparare la pappa ai figli, piangeva pensando che non avrebbe scritto mai più . Ma lei era una scrittrice, ed io una cronista!).
La soluzione - e per tutta la vita ne avrei avuto rimorso - fu quella di “deportare” il bambino da Milano a Reggio Calabria, dove mia madre l’avrebbe accudito per un anno. Intanto mi ero dimessa da il Giorno per solidarietà con Gaetano Baldacci, fatto fuori dall’accoppiata Segni/Malagodi, e mi ero trasferita a Roma, a Paese Sera. Era un giornale “povero”. «Noi non possiamo pagarla come nei giornali borghesi», mi aveva annunciato l’editore Terenzi, ed io: «Non importa, ma vorrei fare la cronista asessuata!» (Per dire che volevo uscire dalla gabbia dorata della cronaca mondana). Perciò, quando scoprii di aspettare un secondo figlio, sentii, ad intuito, che era meglio non dirlo, almeno nei primi mesi. Così, accudita dall’autista de L’Ora di Palermo, spaventatissimo dalle mie nausee, feci la traversata della Sicilia in macchina fino a Testa dell’Acqua, per intervistare un ergastolano liberato dopo trent’anni con l’ottima ragione che suo fratello - per il cui assassinio era stato condannato all’ergastolo - era vivo.
Furono due anni felici, quelli a Paese Sera, ebbi il secondo figlio senza che nessuno mi dicesse che ero obbligata a prendere il congedo preventivo di maternità, e tornai al giornale anche questa volta dopo 40 giorni. Ma fui invitata a dimettermi... Le ragioni c’erano tutte: il 27 ottobre 1962 era caduto, per un incidente tuttora misterioso, l’aereo di Enrico Mattei, e il Presidente dell’Eni era l’unico manager che desse la pubblicità anche a un quotidiano di sinistra, e, negli stessi giorni, il Paese Sera di Roma era stato “raddoppiato” da un analogo quotidiano del pomeriggio a Milano. Il mio direttore, Fausto Coen, mi disse che sarebbero stati costretti a fare 80 licenziamenti: «Lei ha avuto un bambino da poco - mi suggerì - potrà goderselo per un po’, ed è così brava che qualunque giornale borghese la assumerà...». Non gli dissi - non osai - che preferivo comunque stare a Paese Sera, e lui aggiunse la stoccata finale: «Io non posso licenziarla perché lei ha appena avuto un bambino ma, se non si dimette, saremo costretti a licenziare un padre di famiglia...».
Mi dimisi, ma senza risentimenti per il mio bravissimo Direttore, non era colpa sua, era colpa dell’aereo, era colpa di un mondo - cominciavo a capirlo - in cui l’emancipazione della donna consisteva, nel migliore dei casi, soltanto in una emarginazione collettivamente taciuta.
I giornali borghesi almeno erano più espliciti... Ne ebbi la prova qualche mese dopo, quando Alba De Cespedes mi introdusse come collaboratrice a la Stampa di Torino, dove lei, la grande scrittrice che aveva fatto la Resistenza, dirigeva «La pagina della donna». Non avevo un contratto ma lavoravo moltissimo, pubblicando anche 25, 26 articoli al mese, in tutte le pagine del quotidiano torinese (escluse quelle politiche e quelle sportive). Ero invitata anche, una volta al mese, alle riunioni col mitico Direttore, Giulio De Benedetti; ed ero anche l’unica, oltre a lui, a stare seduta, in quanto donna. Tutti gli altri, anche il povero Casalegno e lo storico Paolo Serini, in piedi. Un giorno - probabilmente perché Michele Tito, il capo della redazione romana, gli aveva trasmesso le mie richieste di regolarizzazione - Giulio De Benedetti mi si rivolse direttamente con queste parole: «Signora Cambria, lei ci tiene all’indipendenza del giornale su cui scrive?». «Certo che ci tengo!», risposi. «Allora deve capire: lei è giovane, è sposata, ha già due bambini... E se ne fa un altro, sarebbe a carico dell’azienda, che per questa ragione perderebbe un po’ della sua indipendenza...».

l’Unità 1.8.08
Prove tecniche di unione a sinistra


Parte la costituente: obiettivo, costruire un partito che cerca alleanze con il Pd per le prossime amministrative
Un appello per un percorso costituente della sinistra italiana: è stato presentato ieri a Firenze da cittadini appartenenti al mondo della politica (Sd e Pdci), del sindacato, della cultura, delle professioni, dell’associazionismo.
I promotori dell’appello chiedono di costruire un soggetto politico che unisca le forze della sinistra, che si allei col Pd fin dalle prossime amministrative e che renda partecipi i cittadini. Come si legge nel documento, «pur avendo posizioni critiche rispetto ad alcune delle scelte nelle varie giunte, è indispensabile mantenere alto il livello di confronto in primo luogo con il Pd, con una grande attenzione al mantenimento di un'alleanza nell'interesse della città».
Ma un altro punto qualificante è «rendere necessario che i cittadini, da subito, siano chiamati ad essere protagonisti delle scelte che porteranno alle elezioni amministrative e che i partiti della sinistra favoriscano questo percorso».
Lavoro, giovani, ambiente, diritti i temi di punta del documento, in cui non manca una «rielaborazione del lutto» sull’esperienza della Sinistra arcobaleno: «Quell’esperienza si è chiusa rimanendo a metà strada tra una federazione ed un accordo elettorale. Essa non può essere richiamata per liquidare l'ipotesi della costituente come fallimentare per tornare ad arroccarsi ognuno nella propria identità, magari più divisi di prima. La scomparsa della sinistra è possibile se tutti insieme non riusciremo a disegnare una prospettiva di speranza».
In cantiere fin da settembre una serie di iniziative per promuovere questo percorso costituente: politicamente, Sd parlerà con l’ala minoritaria e antidilibertiana del Pdci e con i vendoliani di Rifondazione comunista, in leggera minoranza nel partito. Ma in prima fila ci saranno anche settori della società civile.
Per ora in Toscana l’appello è stato sottoscritto, tra gli altri, da Antonio La Penna, docente della Scuola Normale di Pisa, Giorgio Bonsanti, docente universitario, Mario Ancillotti, musicista. Ma ci sono anche Mauro Faticanti, segretario Provinciale Fiom, Marco Montemagni, consigliere regionale Pdci, Alessia Petraglia, capogruppo Sd al Consiglio regionale, Anna Soldani, capogruppo Sd al Comune di Firenze. Non mancano operai, artisti, pensionati, esponenti dell’Arci e delle cooperative. Tommaso Galgani

Corriere della Sera 1.8.08
L'America e il mondo multipolare
Usa, fine dell'egemonia
di Francis Fukuyama


L 'opinionista del Newsweek, Fareed Zakaria, ha definito il mondo del futuro «un mondo post-americano».
Ho la forte impressione che le condizioni dell'economia globale stiano cambiando in modo drammatico. I presupposti sui quali era fondato il mondo della Guerra fredda, e questo lungo periodo di egemonia americana da allora, non basteranno più a guidare l'America nella realtà emergente.
Il primo, e più palese, cambiamento che gli Usa devono affrontare ha a che fare con l'evolversi di un mondo multipolare. Gli Stati Uniti restano la potenza dominante del pianeta, anche se il resto del mondo si affretta ad accorciare le distanze. Lo spostamento del potere in termini di forza economica è impressionante. Russia, Cina, India e gli Stati del Golfo Persico sono tutti in forte crescita, mentre l'America sprofonda nella recessione. Appare quindi evidente come il resto del mondo si sia sganciato dall'economia americana. La prova più eclatante del progressivo spostamento del potere sta, da una parte, nell'indebitamento degli Usa e, dall'altra, nelle riserve accumulate da molti Paesi nel resto del mondo. La Repubblica popolare cinese può contare su una riserva di 1,5 trilioni di dollari; la Russia, su 550 miliardi; la Corea del Sud, su 260 miliardi. E' inevitabile che affronteremo un mondo nel quale le scelte americane saranno sempre più limitate e vincolate.
L'evoluzione di un mondo economico multipolare è stata ampiamente studiata. Ciò che è cambiato nell'attuale assetto internazionale è che il mondo non è più dominato da Stati forti, ma da Stati deboli, talvolta addirittura fallimentari, dove i soliti strumenti del potere — in particolare, la forza militare — non funzionano più come una volta. Com'è nato un mondo di Stati deboli? La sua creazione è stata determinata dal coinvolgimento, nello sviluppo economico, di nuovi attori e gruppi sociali che precedentemente erano stati esclusi dal potere, come gli sciiti in Libano. E si estende anche al continente americano.
Un mondo di Stati deboli ha numerose ripercussioni per la potenza americana. Consideriamo questo fatto assai sconcertante: gli Stati Uniti spendono per la difesa quasi quanto tutto il resto del mondo messo assieme. Eppure sono trascorsi cinque anni e più dall'occupazione dell'Iraq, e fino a oggi non si è riusciti a pacificare completamente quel Paese. Il motivo va ricercato nel cambiamento del potere stesso. Stiamo cercando di utilizzare oggi, in un mondo di Stati deboli, il medesimo strumento — la forza militare — che abbiamo utilizzato nel mondo del secolo ventesimo, fatto di grandi potenze e Stati centralizzati. Non è più pensabile ricorrere al potere «duro» per creare istituzioni legittime sulle quali fondare una nazione.
Molte altre cose stanno accadendo nella politica internazionale, in reazione al predominio americano degli ultimi due decenni. Altri Paesi si stanno mobilitando contro gli Stati Uniti. Sono nate alleanze, come il Consiglio di cooperazione di Shanghai, con l'obiettivo esplicito di estromettere gli Stati Uniti dall' Asia dopo l'intervento militare in questa regione, successivamente all'11 settembre. L'America non è più in grado di chiamare a raccolta i suoi alleati democratici come avveniva in passato, e si è visto chiaramente in Iraq.
In breve, davanti ai nostri occhi c'è oggi un mondo che richiede abilità molto diverse. Se è giusto che l'America conservi la capacità di ricorrere, all'occorrenza, al potere «duro», non deve però dimenticare che esistono molti altri canali per proiettare quei valori e quelle istituzioni che assicureranno il perdurare della sua leadership nel mondo. Gli sforzi del governo Clinton nei Balcani, in Somalia e ad Haiti per contribuire alla creazione di nuove nazioni sono stati criticati come impegni da «assistente sociale». I detrattori sostengono che i veri uomini e i veri professionisti di politica estera non si abbassano a questi interventi, né si curano del potere «morbido », preferendo ricorrere al duro impatto della forza militare. Ma in realtà è bene che oggi la politica estera americana faccia leva sull'intervento sociale. Gli oppositori del potere americano nel mondo — i Fratelli musulmani, Hamas a Gaza, Hezbollah in Libano, Mahmoud Ahmadinejad in Iran, i leader populisti in Sud America — sono riusciti a raggiungere il potere perché offrono servizi sociali direttamente alle fasce più povere della popolazione.
Oggi le esigenze del ruolo di leadership per l'America appaiono pertanto assai diverse. E sollevano la questione: «L'America è davvero pronta ad affrontare un mondo nel quale non è più in grado di affermare la propria egemonia»?
Non credo che il declino americano sia inevitabile. Gli Stati Uniti possiedono enormi ricchezze di tecnologia, competitività e imprenditorialità; possono vantare un mercato del lavoro flessibile e istituzioni finanziarie fondamentalmente salde. I principali problemi attuali degli Stati Uniti sono quelli interni.
Esistono tre specifiche aree di debolezza alle quali gli Stati Uniti dovranno porre rimedio se vorranno superare gli scogli appena menzionati. Si tratta in primo luogo del calo di efficienza nel settore pubblico; secondo, di una certa pigrizia da parte degli americani quando si tratta di capire il mondo da una prospettiva che non sia quella degli Stati Uniti; terzo, di un sistema politico polarizzato che è diventato incapace persino di discutere le possibili soluzioni a questi problemi.
Negli ultimi anni abbiamo assistito a un numero assai deprimente di insuccessi politici dovuti all'incapacità dei funzionari pubblici nel programmare e attuare le politiche varate dal governo. Il caso più noto riguarda la mancata pianificazione dell'occupazione dell'Iraq e l'incapacità di affrontare la successiva, e imprevista, guerra civile. Negli ultimi anni sono state avviate due grandi riorganizzazioni del governo federale a Washington: la creazione del ministero della sicurezza nazionale e la riorganizzazione dei servizi segreti. Sorpresa: oggi gli americani dimostrano minori capacità in entrambe queste aree rispetto a prima della ristrutturazione.
Il secondo problema riguarda la pigrizia mentale americana per quel che attiene al mondo esterno. Dopo il lancio dello Sputnik, sul finire degli anni Cinquanta, gli Stati Uniti risposero alla sfida sovietica con massicci investimenti nella ricerca scientifica e tecnologica, che furono segno di grande accortezza e riaffermarono la leadership americana. Dopo l'11 settembre, l'America avrebbe potuto reagire in modo analogo, lanciando grandi investimenti per capire meglio quelle parti del mondo assai complesse, e fino ad allora trascurate, come il Medio Oriente. E' un vero scandalo che nella nuova e mostruosa ambasciata americana a Bagdad solo pochissime persone parlino correntemente l'arabo. Il terzo punto concerne la situazione di stallo che mina il sistema politico americano. La polarizzazione ha fatto sparire ogni dibattito serio su come risolvere queste sfide di lungo termine. La Destra non osa parlare di nuove tasse per finanziare i servizi pubblici essenziali. La Sinistra non osa abbordare la questione della privatizzazione della previdenza sociale né dell'innalzamento dell'età pensionabile. Pertanto la cultura politica che si è venuta a creare, come risultato di queste politiche, si rivela incapace di prendere le decisioni necessarie.
Ho delineato alcune linee guida che consentiranno all'America di affrontare il futuro, ma nessuno potrà mai beneficiare di un' America chiusa su se stessa, incapace di attuare importanti politiche e troppo divisa per prendere decisioni cruciali. Tale atteggiamento rischia di danneggiare non solo gli americani, ma anche il resto del mondo.
© THE AMERICAN INTEREST, 2008 Distribuito da Global Viewpoint/Tribune Media Services, Inc. Traduzione di Rita Baldassarre

Corriere della Sera 1.8.08
Polemiche Negli inutili occhi residuali delle specie che vivono sottoterra un chiaro esempio di come funziona il meccanismo evolutivo
La salamandra salva Darwin
I rettili senza vista degli abissi: una smentita vivente del creazionismo
di Christopher Hitchens


Credenze illusorie. La fiducia nel progresso lineare o in un «disegno intelligente» impedisce di comprendere i tanti arretramenti della natura

Capita molto di rado che si abbia occasione di pensare qualcosa di nuovo su un soggetto familiare, figuriamoci poi concepire un'idea originale su un tema dibattuto, e così qualche sera fa, quando ho avuto una tale illuminazione, il mio primo istinto è stato quello di dubitare del mio primo istinto. Per dirla in breve, stavo guardando la fantastica serie televisiva
Planet Earth («Pianeta Terra»), che vanta riprese fotografiche di altissimo livello, e si parlava delle forme di vita esistenti nel sottosuolo. Le grotte e i fiumi sotterranei rappresentano forse l'ultima frontiera inesplorata e la portata stessa delle scoperte, in particolare in Messico e in Indonesia, appare stupefacente. Si sono viste varie creature che abitano questi abissi, nel buio più totale, e sotto l'obiettivo della telecamera ho notato che queste creature — specie le salamandre — possiedono quella che chiamerei una fisionomia tipica. In altre parole, come tutti gli animali sono dotate di musi, bocca e occhi disposti nel medesimo ordine. Ma gli occhi di queste creature sono evidenziati solamente da piccoli affossamenti, o rientranze. Mentre mi sforzavo di capire il significato di questa osservazione, la voce autorevole di David Attenborough spiegava quanti milioni di anni ci sono voluti perché questi abitanti del sottosuolo perdessero l'uso degli occhi di cui avevano un tempo goduto.
Se seguite anche voi l'incessante dibattito tra i sostenitori della teoria darwiniana della selezione naturale e i partigiani del creazionismo, o del «disegno intelligente », capirete immediatamente a che cosa voglia alludere. Il creazionista (definiamolo per quello che è e priviamolo del fastidioso attributo di intelligente) parla invariabilmente dell'occhio con toni sommessi. Come ha fatto, si chiede, un organo talmente complesso ad aver percorso il lungo e accidentato cammino dell'evoluzione per raggiungere la sua attuale e magnifica versatilità? Il problema era stato enunciato correttamente da Darwin stesso, nel paragrafo «Organi di estrema perfezione e complessità» della sua opera L'origine della specie:
«Supporre che l'occhio, con la sua impareggiabile capacità di regolare la messa a fuoco a distanze diverse, di consentire l'accesso di varie gradazioni di luminosità e di correggere le alterazioni sferiche e cromatiche, si sia formato grazie alla selezione naturale mi sembra, non ho timore di confessarlo, del tutto assurdo». I suoi difensori, tra cui Michael Shermer nel suo eccellente Perché Darwin è importante, si rifanno ai progressi scientifici post-darwiniani. Non si affidano a quella che potremmo chiamare «la cieca fatalità»: «Secondo quanto presuppone l'evoluzione, gli organismi moderni dovrebbero evidenziare una varietà di strutture morfologiche, dalla più semplice alla più complessa, che rispecchino un percorso evolutivo progressivo piuttosto che un atto di creazione istantanea. L'occhio umano, per esempio, è il risultato di un lungo e complicato cammino che risale a centinaia di milioni di anni fa. All'inizio forse si trattava di una semplice struttura dotata di qualche cellula fotosensibile, che forniva all'organismo le informazioni necessarie su importanti fonti di luminosità».
Non andare oltre, intima Ann Coulter nel suo ridicolo libro Senza Dio. «La domanda interessante non è: come ha fatto un occhio primitivo a trasformarsi in un occhio complesso? La domanda cruciale è piuttosto: da dove sono arrivate queste "cellule fotosensibili"?» Le salamandre di Planet Earth sembrano fornire a questo semplice profano una risposta sconvolgente a tale domanda. Gli esseri umani sono quasi programmati a pensare in termini di progresso e di curve graduali, ma sempre ascendenti, anche quando si trovano davanti all'evidenza che il passato serba tracce di grandi estinzioni di specie, tanto quanto di grandi nuovi sviluppi. Pertanto persino Shermer allude inconsciamente a un «percorso» evolutivo che punta verso il futuro. Ma che cosa si può dire delle creature che hanno fatto dietrofront, che hanno imboccato il senso opposto, passando da una vista complessa a una vista primitiva, fino a perdere del tutto l'uso degli occhi?
Se qualcuno trarrà beneficio da questa indagine, non saranno certamente la Coulter e i suoi seguaci al Discovery Institute dei creazionisti. Al massimo possono citare la Bibbia: «Il Signore ha dato e il Signore ha tolto». Mentre la probabilità che la cecità regressiva delle salamandre delle caverne sia un altro aspetto dell'evoluzione per selezione naturale sembra, a rifletterci, talmente palese da sfiorare la certezza matematica. Ho scritto al professor Richard Dawkins per chiedergli se mi fossi imbattuto nel germe di una nuova teoria, e ho ricevuto la seguente risposta: «Gli occhi vestigiali, per esempio, sono la prova certa che queste salamandre che vivono in ambienti sotterranei devono aver avuto antenati assai diversi da loro, in questo caso, dotati di occhi. Anche questa è evoluzione. Perché mai Dio avrebbe creato una salamandra con occhi vestigiali? Se avesse voluto creare salamandre cieche, perché non crearle prive di occhi? Perché dotarle invece di apparati oculari residuali che non servono a niente e che sembrano per l'appunto ereditati da antenati che vedevano? Forse la sua tesi ha sfumature diverse da questa, ma non penso di averla mai incontrata finora nelle pubblicazioni scientifiche».
Consiglio la lettura del capitolo sugli occhi e la loro ricca e varia genesi nel libro di Dawkins Alla conquista del Monte Improbabile (Mondadori); inoltre, del capitolo intitolato «La storia del pesce cieco delle caverne», nella sua raccolta epica Il racconto dell'Antenato (Mondadori). In quanto a me, non sono in grado di aggiungere nulla sulla formazione di cellule fotosensibili, strutture oculari primitive e cristallini, ma sono certo dell'utilità dialettica di affrontare gli argomenti convenzionali all'inverso, per così dire. Per esempio, alla vecchia domanda teista, «Perché esiste qualcosa, quando potrebbe non esistere nulla?», siamo oggi in grado di controbattere citando le scoperte del professor Lawrence Krauss e altri, riguardo la futura distruzione termica dell'universo, lo «spostamento verso il rosso» evidenziato dal telescopio spaziale Hubble che mostra l'effettivo aumento nella velocità di espansione dell'universo, e la futura collisione della nostra galassia con Andromeda, che già occhieggia nel cielo notturno. Occorre pertanto riformulare la domanda: «Perché il nostro breve "qualcosa" sarà ben presto rimpiazzato dal nulla?» Solo quando saremo riusciti a scrollarci di dosso la nostra innata fiducia nel progresso lineare e a prendere atto delle innumerevoli regressioni passate e future, solo allora potremo afferrare la crassa idiozia di quanti credono ciecamente alla divina provvidenza e al cosiddetto disegno divino.

© Christopher Hitchens, distribuito da The New York Syndicate (Traduzione di Rita Baldassarre)

Repubblica 1.8.08
La vecchia polemica che ha diviso Bertinotti e Ferrero
La sinistra alla ricerca del salotto perfetto
di Michele Serra


Gli strascichi del congresso di Rifondazione riaccendono la vecchia polemica sui "salotti", che i Bertinotti sono accusati di frequentare con troppa assiduità, e i Ferrero invece diserterebbero (preferiscono i tinelli? Le verande? Le soffitte? Le sale d´aspetto? I bovindo, vedi Paolo Conte?). Bisognerebbe che ognuno si mettesse la mano sulla coscienza. Nei salotti (delle zie, degli amici, di chiunque possieda "un alloggio", come dicono gli annunci immobiliari) ci si siede più o meno tutti.
Non essendo cosa consona, prima o dopo la cena, accalcarsi in piedi nel corridoio, o rinchiudersi nel cesso più di un paio di minuti.
E dunque sarebbe ora di stabilire, una volta per tutte, entro quali limiti un salotto sia una normale camera con divano, e quando invece diventi quel luogo di infamia e di scialo borghese assolutamente da evitare se si vuole essere un compagno che non sbaglia.
Intanto: quale metratura? Le tende di broccato, valgono una penalità? Il tavolino di cristallo? Lo schermo ultrapiatto, di quanti pollici, visto che anche la casalinga di Voghera e il delegato Fiom, con grande sacrifizio, ormai ne possiedono uno grande come un cinemascope? E il rinfresco, e le bibite, da quale soglia di lussuria in poi divengono un´offesa alla sobrietà militante? Malissimo il caviale, è ovvio, ma le uova di lompo? E tra i long drink, si può tracannare un Manhattan con fettina di leim infilzata sul bicchiere, o è meglio attenersi al bianchino da tranviere?
In mancanza di attente analisi, e tipologie opportunamente calibrate, è evidente che si brancola nel buio, e si rischia di finire diritti nella colonna infame dei salottieri di sinistra, ovviamente radical-chic non essendosi ancora trovato un sinonimo decente di questo generico epiteto, abusatissimo (il tema "descrivi un radical-chic" è oramai classico per ogni apprendista giornalista, un po´ come nei tempi andati, alle elementari, "una giornata che non dimenticherò mai").
Quando poi, finalmente, saranno censiti tutti i "salotti di sinistra", magari con apposita targhetta che avverta l´incauto ospite e lo metta in guardia fino dal pianerottolo, meglio ancora dall´androne con ficus di plastica davanti all´ascensore, rimarrà però irrisolto l´altro corno del dilemma. E i salotti di destra? Non esistono più? E se esistono, come mai non è infame frequentarli, e anzi ci si ingozza volentieri di gianduiotti, nei salotti di destra, senza che la coscienza rimorda?
E saranno ancora, i salotti di destra, in qualche modo apparentabili a quelli della mia infanzia, quando signore e signori molto compiti, molto educati, si disponevano secondo il decoro sociale dell´epoca, le signore da una parte a discutere di messinpiega e di quella poveretta di Soraya, i signori dall´altro lato che più o meno a bassa voce si raccontavano barzellette grasse (le stesse di Berlusconi adesso) e a voce più alta lamentavano l´imminente arrivo dei comunisti? Oppure saranno slittati, quei vecchi salotti della vecchia borghesia, verso la becera deriva dei tempi nuovi, con non solo i divani rifatti, ma anche le facce delle madame, e le porte aperte anche a certi brillanti giovanotti, e ragazze leggere, che una volta non avrebbero neppure potuto avvicinarsi ai centri storici, altro che ai salotti...
Infine, è molto più semplice e vantaggioso, a pensarci bene, essere di destra: si possono frequentare salotti anche lussuosissimi, anche sibariti, anche con donne scosciate, e nessuno il giorno dopo, a un congresso di partito, avrà mai niente da ridire. Perché se esistono i radical-chic, non esistono, almeno come categoria conosciuta, i reazionar-chic, e dunque fortunati i politici e i papaveri e i pavoni della destra di potere che possono tranquillamente stravaccarsi anche su tre o quattro divani a sera, con il rischio massimo di essere chiamati "dandy" anche se sputano i noccioletti delle olive nei vasi da fiori. Poi ci sarebbero i salotti di centro, ma per ora sfuggono a classificazioni riconoscibili e a giudizi.

il Riformista 1.8.08
Il marxismo nel salotto Angiolillo
di Mambo


Il Riformista con l'intervista di Alessandro De Angelis a Lella Bertinotti ha aperto un dibattito che sfiora i momenti più celebri degli scontri teorici nel movimento operaio. La signora Bertinotti, che con una certa classe non ha mai reagito in questi anni a quanti rappresentavano lei e suo marito, ma soprattutto lei, come prigioniera dei salotti romani, ha rivelato che uno di questi, a casa De Benedetti, era frequentato da Paolo Ferrero e la sua compagna. Niente di male. Una stoccatina da parte di una signora con uso di mondo contro un moralista della domenica. Invece no. La compagna di Ferrero si è adirata e ha rilasciato a Gianna Fregonara del "Corriere" una dichiarazione che rischia di farci scavare a fondo nel marxismo e nei suoi lati oscuri. Dice la signora che nei salotti ci si può stare a condizione che, una volta tornati a casa, la coppia si interroghi «sulla redistribuzione della ricchezza». Capito? Ti fai una birra dalla Angiolillo e poi te la prendi con le ingiustizie del mondo. Ma c'è un risvolto preoccupante nelle parole della signora. Che vuol dire interrogarsi sulla redistribuzione dopo una cena a casa dei ricchi? Un malintenzionato penserebbe, leggendo la frase letteralmente, che tornati a casa i due facciano un resoconto delle ricchezze che hanno visto. Non sarebbero andati a una cena, ma avrebbero fatto un sopralluogo. Oddio, vuoi vedere che si può andare nei salotti solo se si programma un esproprio proletario?


Repubblica 1.8.08
Un suo libro sul rapporto tra il filosofo tedesco e il cristianesimo
Jaspers di fronte al dio di Nietzsche
L´autore di "Così parlò Zaratustra" svela il movimento con cui il cristianesimo distrugge se stesso aprendo un vuoto che nessuno saprà come riempire
di Sergio Givone


Tramonta l´idealismo tedesco ed entra in scena Nietzsche: sarà un´apparizione grandiosa. Ma non è la dottrina dell´eterno ritorno o l´idea del superuomo a spiegare il caso-Nietzsche. I concetti che caratterizzano il suo pensiero sono per lo più iperboli filosofiche. Possono voler dire tutto, ma in realtà non dicono quasi niente. Fra non poche ambiguità e contraddizioni l´opera di Nietzsche porta alla luce ben altro: ossia il movimento attraverso cui il cristianesimo distrugge se stesso e apre un vuoto che nessuno saprà come riempire.
È quanto sostiene Karl Jaspers in un magnifico saggio scritto poco prima della guerra, ma pubblicato soltanto dopo, Nietzsche e il cristianesimo, ora tradotto e prefato da Giuseppe Dolei per Mariotti (pagg. 141, euro 14). Nietzsche, dice Jaspers, ci mette in guardia: il cristianesimo è la nostra provenienza e il nostro destino. Per superarlo bisogna farsi carico di ciò che ne resta e di ciò che ne ha rappresentato lo sviluppo storico.
Non serve contrapporre al cristianesimo una prospettiva di segno contrario. E affermare, per esempio: la verità è una sola, quella della scienza, dunque la fede non ha più ragion d´essere.
Uno stanco ritornello. Quando i contenuti della fede vengono ridotti a favole e a menzogne dei preti si ottiene soltanto di scacciare la superstizione con una nuova forma di superstizione. Invece l´autentico anticristianesimo vuole annientare il cristianesimo, non semplicemente «scrollarselo di dosso».
Alla scuola del grande ateismo moderno (da Spinoza a Feuerbach su su fino a Ivan Karamazov, «fratello di sangue») Nietzsche ha imparato che la battaglia contro il cristianesimo dev´essere condotta con armi cristiane. Solo chi è intellettualmente onesto può permettersi di dichiarare che la fede non è più credibile. Ma è stato il cristianesimo ad instillare nei cuori quel particolare tipo di morale che consiste nel volere la verità a tutti i costi.
La verità incondizionata, assoluta, non una parvenza di verità, e tanto meno una verità buona a consolare ma non a convincere. In un´ottica cristiana Dio non esita a mandare al diavolo i suoi teologi, così premurosi e falsi, e a informarli che solo Giobbe ha avuto il coraggio di dire la verità su di lui.
Per un verso Nietzsche usa i toni più duri e sprezzanti: «A chi oggi mi risulta ambiguo nei riguardi del cristianesimo non do neppure la mano: c´è un solo modo di essere onesti in proposito: un no assoluto». Per l´altro parla di una tensione spirituale la cui origine è cristiana: «Anche noi che oggi indaghiamo, noi atei e antimetafisici, continuiamo a prendere il fuoco dall´incendio scatenato da una fede millenaria». Con Goethe Nietzsche ripete: solo Dio contro Dio, ci vuole Dio per far fuori Dio. La negazione e la soppressione del cristianesimo sono cosa del cristianesimo. Quel cristianesimo che costringe l´uomo ad aprire gli occhi sulla morte di Dio.
Che cosa rimane alla fine di questa tragedia più grande di qualsiasi tragedia del passato, anche se si tratta piuttosto di un naufragio, di un inabissarsi di ogni speranza e di ogni senso fin qui tenuti per certi? La risposta di Nietzsche è netta, inequivocabile: non resta più niente. O se si preferisce, resta il grande niente, resta il grande vuoto. Della cui vastità non abbiamo che una pallida idea, come dimostrano coloro, e sono i più, che vi si sono tranquillamente adattati, mentre altri, maggiormente consapevoli, continuano a porre domande.
Naturalmente è possibile tentar di colmare questa specie di sperdimento mentale o di vertigine con i detriti che il fiume della storia ha trascinato con sé. Tra di essi c´è per l´appunto la dottrina dell´eterno ritorno e l´idea del superuomo. Ma c´è anche la sostituzione del dio cristiano con Dioniso. Per non parlare del vagheggiamento d´un certo eroismo sublime, che dice sì alla vita così com´è, col suo carico di gioia e di sofferenza e indifferente al bene e al male. Cui segue però da parte di Nietzsche la confessione: «Sono l´opposto d´una natura eroica», immediatamente affiancata dal riconoscimento d´una certa affinità con Gesù, il mite predicatore delle beatitudini. Fino all´identificazione con la più improbabile delle divinità: Dioniso crocifisso.
Insomma, tutto e il contrario di tutto. Sembra che Nietzsche si diverta a fare le prove generali del fantastico spettacolo in allestimento per quando il mondo si sarà liberato dal cristianesimo. Per sé egli riserva la parte della stella danzante nel caos. Ma ci crede davvero? Non è lui il primo a sapere che la stella da cui viene un´ultima luce sul mondo è una stella ormai spenta? Qui Jaspers chiude con un avvertimento. Ed è che Nietzsche lancia «un grido micidiale» a coloro che si lasciano sedurre da lui e pretendono di portare avanti il suo pensiero, magari professandosi cristiani: «A questi uomini di oggi non voglio essere luce, da loro non voglio essere chiamato luce. Costoro, li voglio accecare: lampo della mia sapienza! Cavagli gli occhi!»

Repubblica 1.8.08
Goethe e Eckermann
Quelle conversazioni intessute d’armonia
di Pietro Citati


Sono uscite in una nuova edizione le memorie dei colloqui tra il grande scrittore tedesco negli ultimi anni di vita e il suo segretario, ricordi illuminati dall´infallibile forza della fedeltà
Ai salotti preferiva il piccolo studio dove poteva discorrere con la sua "stella polare
Quando il maestro morì si sentì in esilio. Ma poi lo sognò che diceva "Non sono morto"
Aveva trasformato la stanza in un piccolo zoo, con falchi, upupe, sparvieri, martore

Johann Peter Eckermann arrivò a Weimar nel giugno del l823, dopo aver percorso a piedi le strade polverose ed assolate che da Hannover conducevano nella Turingia. Pochi giorni dopo, venne invitato al Frauenplan, dove Goethe abitava. Salì l´ampia scala neoclassica, si aggirò tra i saloni illuminati, coperti di quadri e di stampe, ammirando i grandi busti di Giunone e di Antinoo e la copia delle Nozze Aldobrandini. Per la prima volta nella sua vita il modesto, poverissimo letterato sedeva accanto ai principi di questa terra: scrittori famosi, signore eleganti e pianiste alla moda che, come lui, raccoglievano nei loro taccuini le parole sublimi o insignificanti lasciate cadere dal nume di Weimar.
Ma Eckermann non amava gli splendori dei ricevimenti ufficiali; e preferiva raggiungere il piccolo studio presso il giardino, dove poteva discorrere da solo con la sua " infallibile stella polare". Sedeva vicino a Goethe in "tranquilla, amorevole conversazione". Con le ginocchia sfiorava le ginocchia di Goethe: i suoi occhi non si saziavano di guardare "quel volto robusto, bruno, pieno di rughe": le sue orecchie ascoltavano parole lente e posate, simili a quelle di un monarca carico d´anni; e si sentiva indicibilmente felice "come chi, dopo molte fatiche e lungo sperare, vede finalmente soddisfatti i suoi desideri più cari". Così, trascorsero quasi nove anni, durante i quali Eckermann rinunziò a vivere la propria esistenza. Candido, sensibile, infinitamente ricettivo, dotato di un´intelligenza calma e raccolta , si lasciò possedere da quell´immensa forza, che si agitava vicino a lui. La accolse nel suo spirito con una fedeltà devota e amorosa: ne assorbì le ultime, incomprensibili complessità; e persino il Faust II gli rivelò dei segreti che rimasero nascosti ad interpreti tanto più acuti e presuntuosi di lui (Johann Peter Eckermann, Conversazioni con Goethe negli ultimi anni della sua vita, a cura di Enrico Ganni, traduzione Alda Vigliani, prefazione Hans-Ulrich Treichel, Einaudi, pagg. 708, euro 85).
Quando Goethe morì, Eckermann rimase a Weimar. Continuò la sua solita vita. Catalogava le collezioni di Goethe: ordinava e preparava per la stampa, insieme a Riemer, i libri e gli scritti ancora inediti. Dava lezione di inglese al principe Carlo Alessandro: qualche volta era invitato a corte dal figlio di Carlo Augusto. Ma a Weimar, dopo che Goethe l´aveva lasciato, si sentiva in esilio. Tutta la forza, la gioia, l´amore e i desideri avevano abbandonato il suo spirito; e l´esistenza pesava su di lui come un incubo. Quasi solo, tristemente chiuso in sé stesso, si abbandonava alle proprie passioni infantili. Passeggiava tra le campagne e tra i boschi insieme a dei giovani amici: tirava con l´arco: studiava le mude delle capinere, dei merli gialli e dei rigogoli, gli strani costumi dei cuculi, il canto molle, malinconico, simile al suono del flauto, di certe allodole solitarie. Aveva trasformato sua stanza in un piccolo zoo, dove si aggiravano liberamente i giovani falchi, le upupe, gli sparvieri, un cane da caccia e una martora .
Passarono dei lunghi, intollerabili mesi, nei quali nessun ricordo aveva la forza di germogliare e di fiorire dentro di lui. Dopo giorni di abbandono e desolazione, Goethe gli apparve in sogno. Portava un cappotto scuro e aveva il volto fresco e colorito di chi vive all´aria aperta. "La gente pensa" gli disse Eckermann sorridendo "che Lei sia morto. Ma io ho sempre detto che non è vero; e ora con grandissima gioia vedo che avevo ragione. Non è vero, che Lei non è morto?" "Che sciocchi" rispondeva Goethe guardandolo ironicamente "morto? Perché mai dovrei essere morto? Sono stato in viaggio: ho veduto molti uomini e molti paesi. L´anno scorso ero in Svezia".
Consolato da questi sogni, durante il giorno Eckermann riusciva a scendere indisturbato nelle profondità della memoria. Il passato riaffiorava con i colori più freschi: vedeva di nuovo Goethe come se fosse vivo; e ascoltava il caro suono della sua voce . "In una giornata di sole, sedeva in carrozza accanto a me, con indosso la finanziera marrone e il berretto di panna azzurro, il mantello grigio chiaro posato sulle ginocchia. La carnagione abbronzata spirava salute, come l´aria fresca. Le sue parole intelligenti risuonavano all´intorno, coprendo il rumore delle ruote. Oppure mi rivedevo nel suo studio la sera, alla luce fievole della candela, lui seduto di fronte a me al tavolo, nella sua vestaglia di flanella bianca, la dolcezza d´animo di chi ha alle spalle una giornata ben trascorsa. Parlavamo di argomenti importanti ed elevati, e lui mi rivelava quanto di più nobile c´era nella sua natura; il mio spirito si infiammava al contatto con il suo. Tra noi regnava la più profonda armonia; mi porgeva la mano al di sopra del tavolo e io la stringevo. Poi magari afferravo il bicchiere colmo che mi stava davanti e bevevo alla sua salute senza dire una parola, mentre il mio sguardo riposava nei suoi occhi al di sopra del vino".
In quegli anni, quante altre persone cercarono di rievocare Goethe vivente! Grandi uomini di stato conservatori e oscuri studenti nazionalisti: geologi, filologi classici, storici, attori, violinisti, archeologi, astronomi, tenori e giuristi hegeliani: pittrici leziose e dame pettegole: gentiluomini russi ed inglesi: giornalisti francesi, ebrei di Boemia: Heine e Grillparzer, Mendelssohn e i fratelli Grimm, Schopenhauer, Alessandro Poerio e Mickiewicz – messaggeri di tutte le parti del mondo erano giunti a Weimar: avevano parlato con Goethe per qualche ora; e adesso risfogliavano i loro taccuini rielaborando antiche impressioni. Molti non avevano compreso nulla: qualcuno ricamava fantasticamente le parole di Goethe: qualche altro, che si era avvicinato "col batticuore e la testa cinta di nebbia", ricordava soltanto dei gesti senza importanza. Ma tutte queste testimonianze sono egualmente preziose. Il vecchio Goethe deve essere conosciuto così, attraverso mille echi e riflessi quasi anonimi, come se la sua forza preferisse manifestarsi e irradiarsi sopra tutti gli esseri umani.

il Riformista 1.8.08
Latorre: «Per ora inconciliabili con Ferrero»
«Lo dico da tempo, Vendola con noi»
di Alessandro De Angelis


«Ferrero ci dimostri dove vuole portare il partito». E ancora: «Le posizioni per ora sono inconciliabili». Nicola Latorre, vicecapogruppo dei senatori Pd, risponde al segretario di Rifondazione che su questo giornale aveva lanciato un appello a D'Alema: «Parliamo».
Senatore Latorre, cosa cambia, per voi, con la linea Ferrero? 
«Ho grande stima per Ferrero, ma la sua linea è un rifugiarsi in vecchi accampamenti, saccheggiati dalla storia, in cui non c'è più nulla. Nel paese esiste un'area a sinistra della sinistra riformista che non è un residuo del vecchio Pci, ma nella quale confluiscono culture che si inscrivono nel filone massimalista storicamente presente nella società italiana. Il tema della sua rappresentanza politica rimane».
Ferrero le dice: «parliamo». 
«Lo voglio dire in modo esplicito: il problema non è parlare con D'Alema. Ma è il rapporto tra Rifondazione e tutto il Pd, a partire dal suo segretario. Ferrero dice parliamo? E parliamo... Ma chi deve dimostrare dove vuole portare il suo partito è proprio Ferrero».
Niente alleanze, dunque? 
«Io sono convinto che la scelta fatta alle elezioni dal Pd era inevitabile. E Veltroni ha fatto bene a non allearsi con Rifondazione.
È stato un passaggio tattico inevitabile. Tuttavia ritenevo, e ritengo, che non bisogna dare a questo passaggio tattico un valore strategico. Nelle attuali condizioni considero sempre più complicata un'ipotesi di accordo politico e di governo nazionale con Rifondazione. Le posizioni sono inconciliabili».
Su quali punti? 
«Vedo che si tende ad assumere il conflitto sociale come una ideologia. Da qui ne deriva una incompatibilità tra i due termini: sinistra e governo. Su politica estera e politica economica poi, dentro Rifondazione, tornano vecchie parole d'ordine proprio nel momento in cui, su questi temi, si aprono nuovi scenari».
Quali? 
«Negli Stati Uniti pure i repubblicani rompono con il decennio Bush. E l'auspicabile successo di Obama può aprire una nuova fase nei rapporti transatlantici. Nella politica economica si sta facendo strada, in Europa, un'idea meno acritica della globalizzazione e di come si governa politicamente. Di fronte a questo Rifondazione ripropone vecchi slogan».
E le giunte? 
«Trasferire le logiche nazionali su questo livello sarebbe un grave errore. Naturalmente anche a livello locale le alleanze vanno verificate sulla base delle convergenze programmatiche».
Per il Pd, si apre uno spazio a sinistra? 
«C'è il rischio che si consolidi una sorta di bipolarismo imperfetto in cui uno dei due poli diventa una minoranza strutturale. Questo deve spingere noi del Pd a dedicarci di più a dare al nuovo partito un profilo politico e culturale, accelerando la costruzione della nuova sinistra nel paese. Voglio dire che partendo dal nostro profilo riformista dobbiamo essere in grado di dare risposte rilanciando alcuni valori: l'uguaglianza, intesa come pari opportunità, la solidarietà, il ragionare non come io ma come noi. Si tratta di valori che devono trovare slancio nella nuova sinistra che stiamo costruendo».
Sta invitando Vendola nel Pd? 
«Guardi, in un'intervista alla Gazzetta del Mezzogiorno , in tempi non sospetti dissi che vedevo bene Vendola nel Pd. Se lo ripetessi ora potrei essere frainteso. E non vorrei esserlo».
Sulle riforme è nato il patto della spigola D'Alema-Fini? 
«Le colazioni sono un tratto caratteristico della vicenda politica italiana, sin dagli albori della Repubblica. Al netto di questo, c'è un dato oggettivo: la transizione del nostro sistema politico si chiude solo facendo le riforme. Il presidente Fini per la sua alta carica istituzionali, e l'onorevole D'Alema non fanno patti. I patti spettano ai partiti. Ma sono senz'altro personalità che possono dare impulso al corso delle riforme».
Da dove si parte? 
«Sul federalismo abbiamo una nostra proposta, messa a punto dai presidenti delle regioni e da Chiamparino. Sulle riforme costituzionali ripartiamo dalla bozza Violante».
E sulla legge elettorale? 
«Andremo al confronto tenendo conto che il nuovo bipolarismo italiano si va riassestando attorno a un numero più contenuto di partiti che non può essere costretto nei confini del bipartitismo. Se poi si consolida il Pd e decolla il progetto, ancora incerto, del Pdl, la bozza Bianco che si ispira al sistema tedesco diventa sempre di più la risposta adeguata».
Veltroni è d'accordo? 
«Guardi che la proposta che facciamo non mette in discussione in alcun modo il bipolarismo e la possibilità di conoscere prima le alleanze. Anzi le dirò di più: è l'unico sistema che consente alle forze politiche di presentarsi con i loro programmi e il loro volto. In definitiva di correre liberi, come dice Veltroni».
Che pensa della bozza Calderoli sulle europee? 
«Non vorrei affrontare la discussione come se fossimo al mercato del pesce: noi volevamo la soglia del tre, Berlusconi del cinque, e, alla fine lui ha proposto il quattro».
Affrontiamola diversamente. 
«Il punto è che il voto per il parlamento europeo non serve ad esprimere un governo, ma la rappresentanza. È ad essa che bisogna dare dignità. E allora non possiamo non dire che abbiamo bisogno, tutti, di dare valore alle istituzioni europee e di recuperare attorno ad esse consenso, come ci ha mostrato il recente voto irlandese. Quindi giudico come completamente sbagliato piegare questa riflessione a logiche di politica interna».
Quindi? 
«Non voglio dare numeri, ma per noi la soglia deve essere bassa. Ripeto: bassa. E quella del quattro per cento indicata da Calderoli è alta. Per il resto la proposta di Calderoli è accettabile, compreso l'aumento delle circoscrizioni».
Il Pd si è diviso sul referendum di Di Pietro sul lodo Alfano. 
«La linea su Di Pietro è assolutamente condivisa nel partito e ho molto apprezzato le dichiarazioni di Veltroni di oggi (ieri per chi legge, ndr ) sul referendum. Proprio nel momento in cui difendiamo la centralità del parlamento, non possiamo seppellirla utilizzando lo strumento referendario».