giovedì 28 dicembre 2017

Corriere 28.12.17
Libri, 6 italiani su dieci non leggono
I dati pubblicati dall’Istat fotografano l’inesorabile diminuzione dei lettori, con punte drammatiche al Sud. Impietoso il confronto con l’estero
Tra i ragazzi di 11-14 anni, legge il 72,3% di chi ha madre e padre lettori e solo il 33,1% di coloro che hanno entrambi i genitori non lettori
di Cristina Taglietti

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Ansa 21.4.17
4 milioni di lettori in meno, il 57% non ha mai letto

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Il Fatto 28.12.17
Un popolo che ha bisogno di eroi ma che legge Vespa e Fabio Volo
Da Milano a Palermo, il dominio di Mondadori. Si salvano gli indipendenti
di Fra. Mus.


Letterati di tutta Italia, mettetevi l’animo in pace. Questo Natale, dati ufficiali alla mano, segna il grande ritorno su scala nazionale di Fabio Volo (Quando tutto inizia) seguito dall’intramontabile Bruno Vespa (Soli al comando), tallonato da Ken Follett con La colonna di fuoco, Isabel Allende (Oltre l’inverno) e Dan Brown con Origin. Insomma un vero e proprio trionfo per la casa editrice Mondadori che, da Segrate, ha imposto il suo diktat sulle librerie, occupando quattro dei cinque primi posti delle classifiche di vendita nella settimana natalizia (come confermano i dati forniti dal gruppo Ubik). Posizioni confermate dalle librerie Feltrinelli, con eccezione proprio della vetta, con la Allende che scalza Volo dal podio. Un Natale 2017 all’insegna dei bestseller eppure non mancano i colpi a sorpresa, a partire dall’exploit di Zerocalcare con Macerie prime (Bao Publishing), ormai sdoganato al grande pubblico, Wonder di R. J. Palacio (Giunti) e Assassinio sull’Orient Express di Agatha Christie, entrambi trainati dai film in sala e infine, Lenticchie alla julienne di Antonio Albanese (Feltrinelli), prendendo in giro tutti gli chef e il loro linguaggio improbo alla tv. Ma non è tutto, visto che probabilmente sbaragliando ogni pronostico ha venduto molto bene anche la biografia di Michelle Hunziker, Una vita apparentemente perfetta (Mondadori).
Benone gli italiani, guidati da Gianrico Carofiglio (Tre del mattino) e Alessandro D’Avenia (Tutte le storie sono storie d’amore), l’instancabile De Giovanni, Di Pietrantonio e Cognetti, con le trionfali fascette dei premi Campiello e Strega in bella vista e Donato Carrisi con L’uomo del labirinto (Longanesi). Ma dappertutto è andata così?
Le librerie indipendenti di tutta Italia, invece, hanno preso tutta un’altra strada. Alla Modus Vivendi di Palermo, Fabrizio ha consigliato da vicino i suoi clienti, “orientandoli su un acquisto locale”. Hanno vinto la raccolta Un anno in giallo e Borgo Vecchio di Giosuè Calaciura (Sellerio), Simonetta Agnello Hornby (Nessuno può volare) e il giovane Carlo Loforti (Malùra, Baldini&Castoldi). E “dopo la scelta di rompere con Amazon, è cresciuto l’acquisto di E/O e i lettori hanno premiato Il club dei bugiardi di Mary Karr”. Un titolo azzeccato vista la querelle. Alla libreria IoCiSto nel quartiere del Vomero, Alberto ci conferma che sulla piazza napoletana stravince Maurizio De Giovanni con Souvenir (Einaudi), seguito da Wanda Marasco (La compagnia delle anime finte, Neri Pozza, finalista allo Strega), Lorenzo Marone, Roberto Saviano (Un bacio feroce, Feltrinelli) e Jeffery Deaver, “che si è affezionato ai nostri lettori”. Da Libri&Bar Pallotta, a Roma, sul piazzale di Ponte Milvio, Carla dichiara con un certo orgoglio: “Qui non hanno vinto né Volo né Vespa” e alla fine trionfano Augias, Follett, Cazzullo e poi il giallo Brighton (Michael Harvey, Nutrimenti) e Con molta cura dello scomparso Severino Cesari, “perché ci riguarda un po’”. Ancora più particolari le scelte dei lettori alla libreria Marco Polo di Venezia in cui trionfa, fatalmente, Marco Polo di Viktor Šklovskij (Quodlibet) seguito da Zerocalcare, Cromorama di Falcinelli (Einaudi) e una selezione di titoli Iperborea “ormai felicemente fidelizzati ai lettori lagunari”, come afferma Claudio al telefono.
Infine, direttamente da La Scatola Lilla a Milano, la libraia Cristina Di Canio, fra un cliente e l’altro, comunica la sua top five che inizia con L’estate che sciolse ogni cosa (Tiffany McDaniel, Edizioni Atlantide), passando per Tre Piani di Eshkol Nievo (Neri Pozza), Il mare dove non si tocca (Fabio Genovesi, Mondadori), Il caso David Rossi del giornalista del Fatto Davide Vecchi (Chiarelettere) e, infine, La ferrovia sotterranea di Colson Whitehead, edito da Sur.

Repubblica 28.12.17
Vaticano
Ior, spionaggio e trame segrete dietro la cacciata del numero due
di Paolo Rodari


L’ufficio di Giulio Mattietti, ex direttore aggiunto dello Ior, per anni capo dell’Information Technology (It) dell’Istituto, silurato il 29 novembre scorso senza motivazioni ufficiali, è chiuso sprovvisto degli appositi sigilli. A conferma che con la sua fuoriuscita non ha avuto nulla a che fare le gendarmeria.
Tutto è stato gestito dai vertici della banca vaticana, il presidente Jean- Baptiste de Franssu e il direttore Gianfranco Mammì in primis. Si voleva che Mattietti non portasse nulla via con sé dall’ufficio. I timori, tutti da verificare, erano che potesse alimentare una nuova fuga di documenti sia fuori sia dentro le sacre mura.
Ancora oggi, quattro giorni dopo la clamorosa intemerata del Papa contro i « traditori » della curia che una volta allontanati si dichiarano « martiri del sistema», in molti si domandano cosa celi questo licenziamento. Si tratta del colpo di coda della vecchia gestione oppure di un passo falso di un mondo in rivoluzione? Di certo la vicenda s’inserisce in un quadro di incomprensioni fra Segreteria di Stato, Segreteria per l’Economia e vertici dello Ior, punti di vista differenti in merito a chi ascrivere la gestione delle finanze in attesa che nel 2018 Francesco riformi la curia.
Il motivo del licenziamento di Mattietti, secondo quanto apprende Repubblica, è che era in grado di disporre, e quindi potenzialmente di offrire internamente, informazioni sensibili sul lavoro dell’Istituto stesso. L’ufficio dell’It non si trova nello Ior, ma dall’altra parte della cittadella vaticana, vicino a palazzo San Carlo. Una distanza che ha aumentato la diffidenza nei suoi confronti da parte dei vertici dello Ior, l’ex presidente Ernst Von Freyberg, prima, De Franssu e Mammì oggi, che lo hanno considerato in questi anni un corpo estraneo. Fu Von Freyberg a vagliare per primo la possibilità del suo licenziamento ma senza successo. Soffriva, il banchiere tedesco, la stima e la fiducia che potenti monsignori della Segreteria di Stato riponevano in Mattietti tanto che, sostanzialmente, si sentiva controllato. Un sentimento nutrito nei suoi confronti anche da De Franssu e Mammì i quali, forti di un legame con Francesco, sono invece riusciti a cacciarlo. Mattietti il 27 novembre scorso ha scritto ai superiori dello Ior chiedendo di conoscere i motivi del licenziamento. Una mossa che sembra poter sortire qualche effetto se è vero che per evitare ulteriori voci il Vaticano gli concederà presto il pensionamento.
Segreteria di Stato e Ior, Commissione cardinalizia che sovrintende l’Istituto e segreteria per l’Economia. È sull’asse di questi dualismi che ancora oggi le finanze vaticane non riescono a trovare un compromesso per far terminare gli scandali e l’accusa di non volere la trasparenza. La Commissione da tempo si è mantenuta un passo indietro rispetto al lavoro del board laico presieduto da De Franssu il quale, insieme al prefetto della Segreteria per l’Economia George Pell, oggi di fatto non più facente funzioni essendosi trasferito in Australia per difendersi dalle accuse di pedofilia, nel 2014 spinse per la creazione del Vatican asset management ( Vam), che sarebbe dovuto divenire il perno dell’architettura economica della Chiesa. Contro l’operazione De Franssu-Pell si oppose la Segreteria di Stato che convinse il Papa a stare dalla propria parte. Decisioni che pesano ancora oggi all’interno di equilibri sempre labili.
Francesco, all’inizio del suo pontificato, sembrava propenso a chiudere lo Ior: «San Pietro non aveva una banca » , disse. Poi ha deciso di mantenere in piedi un Istituto votato a gestire i risparmi delle missioni sparse nel mondo.
Ma gestire le finanze senza scandali non è facile. Recentemente, per controllare meglio l’Apsa, Francesco ha creato un nuovo incarico, quello di amministratore, affidandolo a Gustavo Óscar Zanchetta, fino a luglio vescovo di Orán, in Argentina. Una nomina arrivata nelle stesse ore in cui il Procuratore generale Francesco Mollace ha chiesto di ripristinare l’imputazione di corruzione, oltre a quella di calunnia, con conseguente condanna a quattro anni e mezzo di reclusione

il manifesto 28.12.17
La Costituzione non è mai al sicuro, occhio ai programmi elettorali
1947-2017. La Carta come una bussola nella sfida del voto
di Anna Falcone


Sarà la cifra tonda, sarà che questo compleanno della Costituzione arriva dopo la schiacciante vittoria referendaria del 4 dicembre, fatto sta che mai come quest’anno la ricorrenza della firma è stata fortemente sentita dagli italiani, che hanno partecipato in tanti alle iniziative organizzate per l’occasione in tutta Italia. E non solo per rinnovare il ricordo: questa celebrazione e il messaggio che ne scaturisce assumono un valore cruciale per le prossime elezioni politiche.
Lo hanno giustamente sottolineato Felice Besostri ed Enzo Paolini nell’articolo pubblicato ieri sulle pagine di questo giornale. Perché chi ha vinto la battaglia referendaria, e continua a difendere davanti alle Corti le ragioni della legittimità costituzionale delle leggi elettorali, o a sostenere chi lo fa, non potrà sottrarsi, al momento del voto, a un giudizio di coerenza fra schieramenti politici e rispetto del voto referendario.
Il fatto che a 70 anni dalla sua entrata in vigore la Costituzione è e rimane, in gran parte, inattuata rappresenta – per chi voglia raccoglierla seriamente – la sfida politica per eccellenza delle prossime elezioni. Non a caso, molti elettori ed elettrici, che non si rassegnano all’esistente, chiedono agli schieramenti in campo di ripartire proprio dall’attuazione della Costituzione e dalla implementazione dei diritti già riconosciuti dalla Carta quale antidoto alle inaccettabili diseguaglianze del nostro tempo. Un passaggio necessario, se non indispensabile, per rafforzare la credibilità dei programmi politici e, auspicabilmente, ricucire quel rapporto di fiducia fra politica e cittadini mai così in crisi. Un vulnus democratico tradotto in un astensionismo che sfiora ormai il 55% dell’elettorato: dato più che allarmante a cui non ci si può e non ci si deve rassegnare.
Rilanciare il messaggio della necessaria difesa e attuazione della Costituzione – in particolare delle norme che garantiscono il pieno e trasparente esercizio della democrazia e attribuiscono alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli che alimentano e aggravano le condizioni di diseguaglianza fra cittadini – diventa, allora, cruciale, soprattutto alla vigilia di una tornata elettorale le cui regole saranno scandite dall’ennesima legge elettorale ad alto rischio di incostituzionalità.
Pur nella piena consapevolezza che la Costituzione non delinea un programma univoco, capace di blindare le scelte dei diversi governi – è necessario riconoscere, infatti, e una volta per tutte, che esiste un nucleo duro di principi e diritti fondamentali inderogabili che ogni forza politica deve impegnarsi ad attuare, nelle forme e nei modi che ritiene più opportuni, per rispettare quella fedeltà alla Costituzione che li lega indissolubilmente alla Repubblica e ai suoi compiti costituzionali. Un patto democratico di diritti e obiettivi programmatici, inequivocabilmente vincolanti, che deve tornare ad essere il cuore di ogni programma elettorale. Soprattutto a Sinistra.
Sia chiaro: non è un’indicazione di voto, ma il suggerimento a una riflessione suppletiva sul voto e su chi auspicabilmente si impegnerà in maniera chiara e credibile a difendere e attuare la Costituzione. Nella piena consapevolezza che un tale ambizioso obiettivo, per essere concreto, deve essere condiviso da tanti, e non è monopolizzabile da pochi o da forze marginali. Perché la Costituzione non è perfetta, né intoccabile, ma è l’unico punto certo che abbiamo, il primo “bene comune” in cui si riconoscono gli italiani in questa difficile fase di transizione democratica. Se questa virerà verso il restringimento progressivo degli spazi di partecipazione e di democrazia o verso modelli più avanzati dipenderà anche dal se e come eserciteremo il nostro diritto di voto.
In tal senso, l’astensionismo, anche come forma estrema di protesta, più che sortire un ‘ravvedimento’, rischia di favorire le destre nel prossimo Parlamento, e con esse la formazione di uno schieramento largo e più ampio della compagine del futuro governo che, se non arginato, potrebbe trovare i numeri per unire le forze di quanti – avendo fallito le riforme del 2006 e del 2016 – potrebbero convergere su un progetto analogo, se non peggiore. Un’operazione che, (ipotesi remota, ma non impossibile) qualora dovesse raccogliere il sostegno dei 2/3 dei componenti di ciascuna Camera potrebbe non dare spazio neppure alla raccolta delle firme per chiedere il referendum costituzionale e, con esso, il pronunciamento popolare.
Per questo è necessario sollecitare le forze politiche in campo affinché si pronuncino, tutte, sul loro programma costituzionale: sul se e come intendano intervenire sulla Costituzione; sul se e come intendano dare attuazione al suo nucleo duro di principi e diritti inderogabili; sul se e come intendano metterla “in sicurezza” da possibili incursioni di future maggioranze gonfiate. Perché non ci si debba più trovare in futuro a contrastare una riforma o, peggio, una riscrittura della Carta, di parte e neppure menzionata nei programmi elettorali e adeguatamente dibattuta nel Paese. Ai tanti italiani che si sono recati al voto il 4 dicembre, almeno questo, è dovuto.

Il Fatto 28.12.17
Gli eletti illegittimi non cambino la Carta
di Tomaso Montanari


Tra le pochissime stelle polari capaci di orientare i cittadini in occasione delle elezioni di marzo brilla, luminosa, quella della Costituzione promulgata settanta anni fa e ancora assai più giovane e vitale di qualunque forza politica oggi all’orizzonte. È questo il sentimento di quella cospicua parte del ‘popolo del 4 dicembre’ che oggi si chiede se andare a votare alle politiche, e – se sì – a chi dare il proprio voto.
Cittadini che, prima ancora, si domandano se nella prossima legislatura, breve o lunga che sia, dovranno trovarsi di nuovo a difendere la Costituzione.
Fantapolitica? All’ultima Leopolda Matteo Renzi ha parlato del referendum in questi termini: “Abbiamo perso quella sfida, ma la rifarei domani mattina perché era giusta”. E solo ieri l’astro nascente di Carlo Calenda ha sentenziato sulla necessità di affidare ad una Assemblea Costituente (!) il compito di fare ciò che Boschi e Renzi non sono riusciti a portare a compimento.
Un’iperbole, un modo di dire: o qualcosa di più? Sappiamo bene che l’idea di cambiare la Costituzione in senso ‘esecutivista’ e tendenzialmente autoritario è vecchia quanto la Costituzione stessa. E se nel prossimo Parlamento non riuscirà a formarsi una maggioranza, si creeranno le condizioni ideali per chi vorrà riprovare ad inalberare la bandiera equivoca della ‘governabilità’, additando nel parlamentarismo della Costituzione la causa di tutti i mali. Se aggiungiamo a questo dato di lunga durata l’intramontabile funzione delle riforme costituzionali come arma di distrazione di massa (utilissima a distogliere l’attenzione collettiva da povertà, disoccupazione, erosione dei diritti, corruzione politica…) non si può escludere che un nuovo Nazareno nasca proprio su un nuovo accordo per l’ennesimo stravolgimento della Carta. Cosa possono fare, oggi, quei cittadini del No, per provare a scongiurare una simile eventualità? E cosa possono fare le associazioni come Libertà e Giustizia, che non intendono dare indicazioni di voto, ma vogliono almeno provare a costruire una bussola che serva ad orientarsi?
Possiamo e dobbiamo chiedere ora a tutti i partiti un solenne ed esplicito impegno a non cambiare la Costituzione, nella prossima legislatura. Mi pare già di sentire i motteggi sulla intangibilità della ‘Costituzione più bella del mondo’ (un epiteto stucchevole, coniato da chi, all’ultimo momento, saltò sul carro del Sì). Ebbene, non è così: nessuno pensa che la Costituzione sia immutabile, e una grandissima parte di coloro che (da sinistra) hanno votato No, concorda, per esempio, sull’urgenza di togliere dall’articolo 81 l’aberrazione del pareggio di bilancio imposto dal governo Monti e votato dal Pd di Bersani (2012).
Ma anche una de-riforma urgente come questa (senza la quale non solo la prima parte, ma anche gli stessi principi fondamentali della Carta, diventano solo una enunciazione poetica) non potrà avvenire nella prossima legislatura: per la stessa ragione per cui si deve chiedere un impegno preventivo a non mettere le mani sul testo costituzionale. Quella ragione è che il prossimo Parlamento sarà eletto con una legge incostituzionale.
Naturalmente, dovrà essere la Corte Costituzionale a dire se il fatto che il Rosatellum renda i voti non liberi e non eguali basti o no a renderlo formalmente incostituzionale. Tuttavia, molti insigni costituzionalisti si sono già pronunciati in questo senso (tra loro Gustavo Zagrebelsky, su questo giornale): e l’immoralità e la truffaldinità di questa legge elettorale sono incontestabili. Il fatto che l’attuale Parlamento, illegittimo, abbia approvato una riforma costituzionale è stato definito, dallo stesso Zagrebelsky, un “furto di democrazia”. Ecco, noi chiediamo ai futuri parlamentari di impegnarsi a tenere giù le mani dalla democrazia.
Certo, se anche la Corte dichiarerà il Rosatellum incostituzionale, lo farà scrivendo che il principio di continuità dello Stato impone che il Parlamento illegittimamente eletto rimanga in carica: e “qui soltanto – scriveva Carlo Levi nell’Orologio, 1947-49 – poteva saltare fuori la bella teoria della continuità dello Stato. Un continuità che vuol dire immobilità, o peggio ritorno indietro … Che vuol poi dire semplicemente poter restare sempre seduti sulla medesima seggiola”. Ecco, ai partiti che chiedono il nostro voto noi chiediamo, a nostra volta, questo impegno: l’impegno formale a ricordarsi della propria illegittima elezione attraverso una legge elettorale indegna, e dunque l’impegno – che è poi davvero il minimo – a non votare, e anzi a combattere, qualsiasi tentativo di cambiare la Costituzione.
Ci aspettiamo una risposta chiara, esplicita, pubblica: in primo luogo dal Movimento 5 Stelle e da Liberi e uguali, che hanno manifestato vigorosamente contro il Rosatellum. Ma anche i silenzi saranno assai utili: per capire chi votare, a marzo. Anzi: chi non votare.

Il Fatto 28.12.17
Sogno o son desto: Calenda propone una Costituente
di Silvia Truzzi


Momenti complicati: mezza Italia è a letto con l’influenza, l’altra mezza sta cercando di riaversi dagli eccessi culinari. In molti però ieri mattina devono aver fatto un salto sulla sedia, chi pentendosi di aver esagerato con gli alcolici, chi pensando a effetti collaterali particolarmente violenti degli antipiretici: allucinazioni da tachipirina (o “tacaipirinha”, a seconda). Tanto diffuso sgomento, dopo due giorni di astinenza dai quotidiani, è stato causato da un’intervista del ministro Carlo Calenda al Corriere della Sera. Come è noto, in questo periodo assistiamo (non senza una certa pena), agli sgoccioli della legislatura dei voltagabbana; contemporaneamente ricorre il settantesimo della Costituzione. Da settimane sui giornali si celebra la povera vecchia signora, così saggia eppure vittima di attacchi seriali negli ultimi decenni. L’ultimo, un anno fa, con la riforma Renzi-Boschi che, su mandato di Giorgio Napolitano, stravolgeva un terzo della Carta. Tentativo fallito grazie alla provvidenziale presenza di spirito di circa 20 milioni di italiani che hanno inequivocabilmente detto no. Eppure il ministro dello Sviluppo economico non si capacita. Sentite con che toni: “Abbiamo perso la sfida della costruzione di un sistema più forte ed efficiente. Ritengo questo nodo fondamentale in uno scenario internazionale pieno di incertezze. La sicurezza nazionale viene messa a rischio da un sistema che rallenta l’implementazione delle decisioni (ma come parlano? ndr), favorisce il prosperare di particolarismi e ci trasforma nella Repubblica dei ricorsi al Tar e dei feudi locali. La prossima legislatura dovrà avere al centro questo tema, diventato tabù dopo il referendum. Forse la strada giusta, per aumentare il coinvolgimento dei cittadini, potrebbe essere quella di un’assemblea costituente”.
Oibò, qualcosa di grosso ci deve essere sfuggito. Sarà il Senato – che una volta portata a casa la pelle ha giustamente pensato di mettere mano al proprio Regolamento, ottenendo molti di quei risultati promessi dalla riforma – a mettere a rischio la sicurezza nazionale? O sarà forse il non abolito Cnel? Anche l’intervistatore è un po’ scosso dai toni ultimativi, (tipo report di Confindustria per intenderci). E domanda al ministro ragione della necessità di una Costituente. “È l’unico modo per aprire in maniera ordinata la terza Repubblica invece di subire la dissoluzione caotica della seconda. Serve un luogo per affrontare le pulsioni diverse emerse dal referendum costituzionale e da quelli di Lombardia e Veneto. Un luogo per porre fine alla kermesse delle leggi elettorali estemporanee, ridisegnare il rapporto tra esecutivo e legislativo, affrontare il tema di una democrazia efficace, che peraltro affiora in tutti i Paesi occidentali”. I costituenti si stanno certamente rivoltando nelle tombe a sentir parlare di “coinvolgimento dei cittadini” come fosse un’elargizione del sovrano, loro che hanno discusso per giorni su quale verbo accostare alla parola sovranità, decidendo per “appartenere” perché se una cosa ti appartiene nessuno te la può portare via. Molti passaggi qui riportati hanno un che di inquietante, perché, oltre a evocare inesistenti scenari catastrofici, suggeriscono l’idea che la sovranità del popolo non sia sufficiente. Che esista qualcosa di sovraordinato, che sa meglio di noi qual è il nostro bene. Cosa sono poi “le pulsioni emerse dal referendum costituzionale”, se non la chiara volontà del popolo di proteggere la Costituzione? Cioè il contrario di quel che Calenda propone? Il trucchetto di sfigurare la Carta per ridurre vieppiù il Parlamento a una larva, in favore dell’esecutivo, è una stregoneria che non incanta più. Eh già, ministro: è dura da spiegare agli amici brussellesi, ma è meglio che non si facciano illusioni.

La Stampa 28.12.17
Il ritorno
D’Alema inizia in Puglia il tour elettorale
“Legislatura costituente”
Prima tappa nel suo Salento, dove partì anche Prodi “Non credete a Renzi, il nostro vero leader è Grasso”
di Fabio Martini


C’è qualcosa di nuovo, anzi d’antico negli umori dell’opinione pubblica alla vigilia della campagna elettorale e se ne sta accorgendo Massimo D’Alema ogni volta che pronuncia questa battuta: «Vedete, io me ne sono andato per fare largo alle nuove leve, ma visti i risultati ho fatto male…». Puntualmente scatta l’applauso. Un battimani non solo politico: accanto ad un diffuso rancore, in giro sta cominciando ad affiorare anche una certa nostalgia per quelli di prima. Massimo D’Alema, tornando in campo, non immaginava di ritrovarsi in favore di vento. Per ora solo un venticello, ma vai a sapere. Ma è altrettanto vero che per D’Alema ci voleva un certo coraggio nel riproporsi una volta ancora, lui che nella vita ha fatto tutto: dal presidente del Consiglio al segretario del Pds, dal ministro degli Esteri al presidente della Bicamerale. E tornando, trent’anni dopo la prima volta, D’Alema ha deciso di ricominciare esattamente dove, nel 1987, tutto era cominciato: in Puglia. Eccolo a Tricase, nel tacco salentino: «Un tempo questo era un comune cattolico-democristiano: il Pci aveva due consiglieri comunali, la Dc 22…. Ricordo la prima volta che venni qui, negli anni Ottanta: mettemmo il palco fuori quella bellissima chiesa e quando i cittadini uscirono alla fine della messa, appena videro la falce e martello, scapparono. Sul sagrato della chiesa, l’unico che mi rimase ad ascoltare, era il parroco. Si chiamava don Tonino Bello. Stavolta mi ha invitato un gruppo cattolico e parlerò nel teatro parrocchiale».
Dalla bianchissima Tricase è partita la campagna elettorale del “candidato” D’Alema e proprio qui, ricorda lui, «iniziò il viaggio del pullman dell’Ulivo di Prodi» e dunque «si tratta di un luogo ad altissimo contenuto simbolico». Un mese prima della formazione delle liste, con grande anticipo su tutti gli altri, è partita la campagna dalemiana. Con un programma di appuntamenti che sembra tirato fuori dall’album dei ricordi: ore 11, Nardò, sala Cream&Caramel, incontro col mondo agricolo salentino; ore 14,30, Ruffano, Calzaturificio Mariapia, visita azienda e incontro con i lavoratori; ore 15, Patù, riunione con i volontari della campagna elettorale; ore 18,30 Teatro Tricase, apertura campagna elettorale; ore 21, Marina di San Gregorio, cena con gli elettori.
Un porta a porta all’antica, che prelude ad un ritrarsi del D’Alema “nazionale”? Un suo auto-confinamento nel Salento, per lasciare spazio a Pietro Grasso? «Non presterò il fianco ai giochetti di Renzi, che continua a ripetere che il “vero capo” è D’Alema. Questo gioco se lo era inventato Berlusconi nel 2001, quando il candidato del centrosinistra era Rutelli. Renzi ripete stancamente, ma anche in questo è un imitatore. No, il leader è Grasso e presto si affiancheranno altre personalità importanti». Nella campagna di D’Alema sembra ben celata anche un’ambizione al momento inconfessabile: quella di riuscire a conquistare un collegio sulla carta impossibile per un piccolo partito come il suo. E magari di risultare l’unico, tra i Liberi ed eguali, capace di questo exploit in tutta Italia? «È molto difficile fare queste valutazioni, soprattutto con questa legge elettorale, sgangherata ed inefficace, che si presenta come uninominale maggioritaria, anche se poi gran parte degli eletti saranno votati di “risulta”. Certo, potrebbe contare il fatto che quando sono stato deputato del Salento, ho fatto tante cose per questa terra; che nel collegio di Gallipoli il centrosinistra perdeva e io vincevo. Però l’ultima volta che si è votato con i collegi era il 2001 e ora qui la squadra da battere è il centrodestra, che può mettere in campo uno squadrone».
E sul dopo-elezioni? Lo scenario proposto da D’Alema non segue la corrente di chi dà per scontata l’ingovernabilità: «Nessuno sarà in grado di disporre di una maggioranza per governare. Per questo penso che si aprirà una legislatura inevitabilmente costituente e si dovrà mettere mano ad alcune regole istituzionali e ad una legge elettorale, con un metodo – spero – meno arrogante e fallimentare di quello sinora dispiegato da Renzi». Un contesto – ecco la novità – dentro il quale Massimo D’Alema pensa che la sua lista farà la sua partita: «Si era sbagliato chi ci aveva immaginato come un gruppetto di vecchi comunisti. Noi avremo molte carte da giocare, non saremo una forza marginale». Anche se i Cinque stelle, dopo le elezioni, proponessero un governo col Pd («purché Renzi sia out», fanno sapere) e con Liberi ed eguali? «Per noi le discriminanti programmatiche e dei valori sono fondamentali e quindi molto dipenderà dagli orientamenti che preverranno nei Cinque Stelle…», dice un D’Alema che non scarta scenari. E già pregusta il ritorno in “serie A”.

La Stampa 28.12.17
Tutti in corsa per i voti dei moderati
di Lucia Annunziata


Il convitato di pietra della prossima campagna elettorale non è un’idea, ma uno stato d’animo: il malcontento. Chi più riuscirà a rappresentarlo, o a sanarlo, sarà il vincitore, si dice. Come mai allora ovunque si guardi, a destra come a sinistra, tutte le forze politiche lanciano messaggi mirati soprattutto ad ottenere i consensi dell’area moderata?
In primissima fila ai blocchi di partenza, non a caso spicca la figura di Silvio Berlusconi, l’unico leader che ha attraversato (quasi) intatto il ventennio. E’ nella sua versione proporzionale, ma fa da perno all’unica coalizione che può raggiungere una maggioranza. Silvio e il partito che guida da sempre sono entrambi ridotti nelle forze: Silvio ha venti anni in più, ha varcato gli ottanta, e Forza Italia quasi venti punti in meno rispetto ai fasti del passato. Ma entrambi sono, in questa loro semplice resistenza all’usura, diventati la prova materiale (e psicologica) che non tutto cade, o si deteriora. Questo atto di sopravvivenza , in tempi che hanno consumato ideologie, idee, partiti e reputazioni, vale da solo un programma politico. Curiosamente, infatti, il Silvio che oggi torna a raccogliere consensi indossa abiti totalmente diversi da quelli del primo Silvio.
La discesa in campo nel 1994 fu un atto di sfida, la promessa/minaccia di un Prometeo che voleva riscrivere il panorama della politica italiana – e ci riuscì, rompendo il panorama tardopost-guerra-fredda che durava in Italia da troppo tempo. Il sistema dell’epoca non lo amò molto – come poi si è visto. Ma non è stato alla fine cancellato. E oggi torna come la nemesi di sé stesso: Silvio oggi è leader rassicurante (per la sua stessa durata). Promette tranquillità, continuità, non si è fatto attrarre da sovranismi, da guerre contro l’Europa, ma nemmeno dalla favola del populismo che accontenta tutti gli altri leader a destra. Il re dei moderati, insomma.
E qui incontriamo Matteo Salvini, erede ma solo per via formale, di quella Lega con cui Silvio ha costruito in passato le sue fortune. Passato il tempo in cui la sua attività politica sconfinava nel goliardismo, con provocazioni più atte ad attirare l’attenzione mediatica che a costruire un partito, Salvini guida una Lega che del passato ha perso persino il nome Nord con cui si identificava. La Lega è sempre forte lì dove è nata e governa, il Veneto e la Lombardia, ma a Salvini è sempre stata stretta questa regionalissima identità – le patrie locali un po’ lo fanno soffocare, si ha l’impressione. Da quando ha mosso i suoi primi passi, molti di questi passi hanno calcato suolo e suggestioni estere: la Russia di Putin, l’identitarismo dei francesi lepenisti, l’ironia separatista inglese di Farage, e l’America di Trump. Salvini ama i grandi temi, e ne ha trovato uno perfetto alla fine: il rifiuto dell’immigrazione come grande collettore di ogni suggestione identitaria, bianca, e indipendentista. Ovviamente a Salvini è rimasto il gusto di scuotere, e dunque di spararle grosse – ma alla fin fine in questa vigilia elettorale le parole più gravi le ha già messe nell’armadio – di rompere con l’Europa non si parla molto, e di campagne contro i migranti non si sente tanto. Del resto Salvini ha davanti una partita ben più grande: quella di declinare il malcontento in chiave tale da attirare anche una parte dei moderati di destra che sta oggi con Berlusconi. E questo sì che sarebbe un colpo: come va ripetendo da un po’, «se batto Silvio anche di un solo voto faccio il premier».
Il Principe dello «scontento» è per ora, comunque, il più giovane dei politici che calcherà la scena elettorale. Luigi Di Maio è il candidato premier del movimento che ha per primo intercettato e aiutato a coagulare lo scontento in forza politica. Sono stati i pentastellati il maglio che ha spaccato la struttura (già esanime) della Seconda Repubblica. Il loro programma appare dunque, fin da questo inizio, quello destinato al maggior successo. Le cifre dei poll gli danno numeri da primo partito. Alla lettura dei quali sorge tuttavia una domanda: ma perché un movimento dedito ad aprire il sistema «come una scatoletta da tonno», presenta come proprio candidato a Palazzo Chigi Luigi Di Maio, giovane con abiti ed abitudini, nonché idee molto istituzionali, o magari meglio ancora dire moderate?
Il punto di caduta per i pentastellati nella campagna elettorale è dunque, un po’ come per la Lega, il giusto equilibrio che saprà trovare fra scontento e moderazione: dopotutto, una cosa è aizzare con i «vaffa», altro è governare.
L’area moderata, chiamata riformista e moderna, è dichiaratamente anche il bersaglio di Matteo Renzi in questa che sarà la sua prima campagna elettorale nazionale: come ricorderete l’ex premier è riuscito ad arrivare a Palazzo Chigi prima che in Parlamento. L’idea con cui si è presentato in politica è quintessenzialmente moderata – rompere con il passato ideologico della sinistra tradizionale. A questa idea ha sacrificato molto. Ha subito la sconfitta del referendum, ha perso Palazzo Chigi ed ha rotto (o ha subito la rottura, come preferite) un partito forte e di lunga tradizione quale il Pd. Ora che c’è un nuovo Pd renziano, è l’ora per Matteo Renzi di mettere alla prova davvero la sua capacità di attrazione nonché la sua capacità di formare il destino della nazione. Sullo stesso banco di prova anche per lui: l’area moderata. Direttamente, prendendone i voti. O indirettamente, magari, come tutto lascia pensare dalle scelte del Pd, in una grande coalizione fra le forze di Berlusconi e quelle di Renzi. Che sarebbe poi la creazione di un grande fronte moderato al centro.
Le forze radicali sono invece quasi tutte raccolte intorno a nuclei minori. Liberi e Uguali, movimento dei fuoriusciti dal Pd non pare goda al momento di grandi favori elettorali. In ogni caso, la nuova formazione ha scelto come guida un ex magistrato, una figura superistituzionale come l’ex presidente del Senato Grasso. Cos’è questa scelta se non una forma di rassicurazione contro gli strappi per chi vota a sinistra?
Moderati ovunque, insomma. Sotto la coltre pesante di scontento, appare la richiesta di non portare il Paese a sbattere.
Ma se questa è la domanda segreta delle urne, va a finire che vero vantaggio nella campagna elettorale lo godrà il governo Gentiloni che ha chiuso le Camere ma non si è dimesso, e che, secondo molti auspici, potrebbe essere pronto a continuare anche dopo il voto. Dopotutto, è il governo che finora, poll alla mano, pare abbia più rassicurato il Paese.

il manifesto 28.12.17
Ius soli, ultimo scontro nel Pd. Appello della sinistra al Colle
Diritti. "Servono almeno altre due settimane", Cuperlo e Manconi si rivolgono al capo dello stato. Ma i renziani: non cambia la politica, non facciamolo bocciare per riaffrontarlo nella prossima legislatura
di Daniela Preziosi


La vicenda dello ius soli è politicamente chiusa da mesi ma l’avvicinarsi dello scioglimento delle Camere (fra stasera e domani Mattarella, sentiti i presidenti di Camera e Senato, darà la comunicazione ufficiale) ha fatto impennare, per l’ultima volta, lo scontro fra senatori. Luigi Manconi, icona di battaglie civili, scrive al capo dello Stato per chiedergli di consentire di tentare un voto. «Il tempo c’è e va ricordato che, il 23 dicembre, mancato il numero legale, il Senato ha deciso di riconvocarsi per il 9 gennaio, dopo una pausa di ben 16 giorni. Basterebbe prolungare la legislatura di un paio di settimane e prevedere il voto – che so? – per il 18 marzo: e si avrebbe così la possibilità e l’agio di discutere una legge tanto essenziale e lungimirante».
Gianni Cuperlo, ex capo della minoranza Pd ora battitore solitario (e forse per questo ricandidato da Renzi senza storie) aggiunge un po’ di poesia pop: sullo ius soli «non può e non deve finire così». «Quegli scranni vuoti nell’ultimo giorno utile – dice – , la fuga dei senatori 5 Stelle, quel brindisi leghista, il dispiacere profondo per quelle assenze del Pd (29, ndr), sono un’immagine da cancellare». Mdp attacca invece il premier: «Dopo voucher e legge elettorale, per la terza volta Gentiloni si appresta a venir meno alla parola data» attacca Alfredo D’Attorre. C’è chi tenta la distrazione di massa: il quotidiano «la Repubblica» sferra un attacco micidiale (nelle intenzioni, almeno) al presidente Grasso e chiede di ricalendarizzare lo ius soli al Senato. L’inquilino di Palazzo Madama, ieri tutto il giorno occupato a celebrare i 70 anni dalla firma della Costituzione, resta in silenzio «Gli assenti il 23 dicembre non sono frutto di una casualità ma di una scelta politica», spiega però chi lavora a stretto contatto con lui. Il presidente dunque nel rispetto del suo ruolo super partes non può che prendere atto di quello che è successo. Se avesse fatto diversamente, peraltro, si sarebbe aperto il cielo contro la sua conduzione d’aula.
Il presidente Mattarella legge tutto. Ma non risponde . Legge anche l’appello straziante dei ragazzi di «Italiani senza cittadinanza» e quello dei Radicali italiani a loro volta promotori della legge di iniziativa popolare «Ero straniero» per la cancellazione della Bossi-Fini, altro fallimento della legislatura. Il ragionamento di Manconi non farebbe un plissé dal punto di vista logico. Ma finge di non considerare quello che appare invece un macigno politico al Colle: il rischio di esporre Gentiloni a una sconfitta. Che di fatto equivarrebbe a una sfiducia. Mattarella è convinto che l’attuale premier, se preservato da rovesci finali – ma anche dai confronti battenti della campagna elettorale – potrebbe essere l’uomo chiave della stabilità del Paese nei primi passi della prossima legislatura, quando con ogni probabilità ci vorrà del tempo per comporre una nuova maggioranza.
Ma c’è una cosa in più che al Colle non può sfuggire. A non essere convinto dello ius soli è proprio il Pd. E il suo leader Renzi. Che dopo averne promesso l’approvazione nel programma del suo governo (e averlo mantenuto in quello del successore) ai tempi in cui la legge godeva dei favori popolari, si è poi reso conto che un provvedimento pro-stranieri in campagna elettorale si sarebbe trasformato in un assist alle destre. La sostanziale contrarietà dei 5 stelle ha dato lo stop finale. «La proposta così com’è non va bene. Ci sono errori tecnici. Quali? Ora non ho tempo di spiegarli», ha ammesso il senatore Maurizio Buccarella al «Corriere della sera»: un’autodenuncia involontaria.
Per questo ieri mentre nel Pd le lacrime di coccodrillo inondavano le agenzie, i renziani di polso hanno raffreddato gli spiriti flebili del proprio partito.
Come Rosa Maria De Giorgi: «Non basta desiderare una iniziativa sacrosanta perché essa si traduca in legge, perché in una democrazia servono condizioni politiche e parlamentari. Ciò che è successo sabato scorso, con la mancanza del numero legale, è un episodio fine a se stesso. La verità, ripetuta in ogni modo possibile, è che nonostante appelli e mobilitazioni in questo parlamento e in Senato in particolare i numeri per approvare la legge non ci sono. E peggio che non votare lo ius soli sarebbe farlo bocciare in aula, creando anche un precedente pericoloso per riproporre la legge nella prossima legislatura e creando un ulteriore sfregio alle centinaia di migliaia di ragazzi, italiani di fatto, che attendono con ansia e speranza di veder riconosciuta loro la cittadinanza. Gli unici ad essere stati contenti, in caso di arrivo del provvedimento in aula, sarebbero stati M5S e la Lega di Calderoli, che vogliono solo la bocciatura della legge». Ergo: votate il Pd per fare lo ius soli, ma al prossimo giro. Dove le condizioni «politiche e parlamentari» saranno in realtà assai più sfavorevoli di questa legislatura. Che pure non ha avuto i numeri per approvarlo.

Repubblica 28.14.17
Missioni militari 2018 meno uomini schierati ma sui fronti più caldi
L’Italia si troverà in prima linea nelle coalizioni Nato, Onu e Ue Dal Niger ad Afghanistan e Libano: rischio jihadisti e nodo migranti
di Gianluca Di Feo


ROMA Si prepara un anno difficile per i militari in missione all’estero. Tra la nuova spedizione in Niger e il mantenimento delle operazioni in Libano, Afghanistan e Libia, ci ritroveremo in prima linea nelle zone più calde del pianeta sotto tre diverse coalizioni — Nato, Onu ed Ue — spesso, come accade nel Mediterraneo, sovrapposte tra loro. Oggi il Consiglio dei ministri discuterà il piano elaborato dai vertici della Difesa che prevede la riduzione delle truppe in alcune aree, come il dimezzamento del contingente in Iraq dopo la sconfitta dell’Isis e il prossimo ritiro dei missili anti-aerei dislocati in Turchia per conto dell’Alleanza Atlantica. Alla fine del 2018, quindi, ci saranno meno soldati in azione ma le nostre forze armate si troveranno impegnate in situazioni ancora più rischiose.
NIGER. Un primo nucleo di parà è già nella capitale Niamey per preparare lo schieramento della task force, richiesta dal governo nigerino nel quadro dell’accordo tra 5 nazioni del Sahel e dell’intesa europea disegnata da Roma con Parigi e Berlino. Una parte dei 470 militari della Folgore si occuperà di formare i battaglioni locali nella capitale; il resto prenderà posizione dalla fine della primavera nel caposaldo di Madama, da dove contribuirà a pattugliare le rotte dei trafficanti di uomini e dei jihadisti diretti verso la Libia. Le nostre truppe saranno autonome rispetto al dispositivo francese presente da anni nell’area e probabilmente verranno affiancate da unità tedesche e spagnole. Due le minacce. La natura del Niger, con distanze sterminate e deserti attraversati solo da piste carovaniere, dove la sabbia logora qualunque mezzo terrestre ed aereo. Inoltre in tutto il Paese si registra un aumento delle incursioni dei gruppi fondamentalisti, attivi soprattutto ai confini con il Mali e con la Nigeria.
AFGHANISTAN. Come ha annunciato il ministro Roberta Pinotti a
Repubblica, l’Italia chiederà di ridurre le dimensioni del nostro contingente ma non la sostanza della missione. Circa 250 persone impiegate in ruoli di supporto dovrebbero venire rimpiazzati da altri alleati della Nato. Rimarrà però invariato il numero dei militari — poco meno di 700, attualmente fanti della Sassari — che si occupano di addestrare i reparti afgani, coordinandone anche le attività sul campo contro i Taliban. Nella regione affidata alla supervisione italiana c’è il distretto di Farah, a ridosso del confine iraniano, dove l’offensiva fondamentalista è particolarmente virulenta. A novembre più di cento alpini della Taurinense sono stati trasferiti nei fortini intorno a Shindand minacciati dall’assalto delle milizie islamiche: si sono schierati “spalla a spalla” con i soldati locali per riorganizzarli e permettergli di riconquistare il territorio perso. L’ultimo contrattacco condotto dai battaglioni afgani sotto “regia italiana” si è concluso alla vigilia di Natale.
LIBANO. Dopo un decennio di calma, la missione dei caschi blu che ha permesso la fine dell’ostilità tra Libano e Israele torna a essere sotto pressione. Le brigate di Hezbollah stanno cominciando a ritirarsi vittoriose dalla Siria, più agguerrite e meglio equipaggiate di prima. La tensione con Israele sta crescendo di giorno e in giorno. E tra i villaggi sciiti e il territorio israeliano c’è solo la Blu Line presidiata da oltre mille italiani sotto bandiera Onu. Per questo da ottobre il contingente è composto dalla Brigata Folgore, con i parà del Nembo e i blindati del Savoia Cavalleria, la più operativa delle nostre unità, che dovrà mantenere il cessate il fuoco sul confine: un compito in cui peserà soprattutto il rispetto di tutte le comunità della zona conquistato in questo decennio dagli italiani.
IRAQ. La disfatta del Califfato permette di ridefinire lo schieramento italiano, arrivato a sfiorare le 1500 persone. Anzitutto alla diga di Mosul, dove il cantiere del consolidamento è stato protetto da 500 soldati: oggi non c’è più il pericolo di attacchi in grande stile dell’Isis e quindi ne rimarranno circa 200. Nel corso del 2018 rientrerà in patria lo squadrone di otto elicotteri e 130 uomini che da Erbil è pronto a intervenire per recuperare feriti e personale isolato. Programmata anche una graduale diminuzione degli aerei da ricognizione schierati in Kuwait. Resteranno invece attive le unità di carabinieri e forze speciali che addestrano i nuclei antiterrorismo e la polizia federale di Bagdad. Sarà mantenuta pure una consistente aliquota di istruttori in Kurdistan, meno però dei 350 attuali. Il problema anche in questo caso è la logistica, perché i reparti italiani sono sparsi in diverse località.
LIBIA. Oggi ci sono due distaccamenti. Uno nell’aeroporto di Misurata gestisce l’ospedale da campo allestito durante i combattimenti contro l’Isis a Sirte, conclusi da oltre un anno: impegna quasi 300 persone con un centinaia di veicoli. L’altro a Tripoli si occupa di formare la guardia costiera libica e contribuisce alla manutenzione delle motovedette. Per entrambi è allo studio una riorganizzazione, che però dipenderà dal quadro politico e militare del paese, sempre molto incerto. A largo delle coste libiche invece sono attive tre missioni navali: quella italiana “Mare sicuro”, quella europea “Sophia” per il contrasto ai trafficanti di migranti, quella Nato “ Sea Guardian” per la prevenzione dei movimenti di terroristi e del contrabbando di armi. Il contributo a queste operazioni non cambierà, nella convinzione che la nostra sicurezza dipenda proprio dal controllo del Mediterraneo.

La Stampa 28.14.17
Scuola, sanità ed enti locali
Contratto atteso da 2,7 milioni
Corsa contro il tempo per estendere a questi lavoratori gli aumenti concessi agli statali Il governo spera di farcela entro oggi. Per gli arretrati “una tantum” di 570 euro a testa
di Roberto Giovannini


I 247mila «statali» (dipendenti dei ministeri, oltre che di Inps, Inail e agenzie fiscali) hanno il loro contratto. Ma in realtà il grosso dei dipendenti pubblici, dagli enti locali, alla scuola, alla sanità, ovvero oltre 2,7 milioni di lavoratori, ancora attendono la firma dei rinnovi contrattuali. Come è sempre successo in passato in realtà le regole fissate per gli «statali» in senso stretto poi vengono copiate per gli altri rinnovi. Serviranno tuttavia una serie di passaggi per completare l’intera procedura, che il governo e i partiti di maggioranza hanno intenzione di accelerare per evidenti ragioni elettorali, per conquistare consensi a suon di aumenti salariali ed arretrati (stimati in una «una tantum» di 570 euro).
Il primo di questi passaggi è la consegna da parte dell’Aran - l’agenzia contrattuale del governo per il settore pubblico - della relazione tecnica del contratto che verrà trasmessa, si presume entro la giornata di oggi, al governo. Il testo sarà poi trasmesso alla Corte dei conti che dovrà certificare la congruità delle cifre con gli stanziamenti in legge di bilancio e agli organi di controllo, per poi tornare all’Aran per la firma definitiva di governo e sindacati. Secondo le previsioni, in tutto serviranno un’altra decina di giorni; poi toccherà agli altri comparti, ovvero scuola, sanità e personale degli enti locali. Non si sa in quale ordine.
Non sarà una passeggiata, però. Sicuramente il settore più caldo e problematico sarà quello della scuola, che per la prima volta aggrega nello stesso contratto anche università e personale della ricerca. Si tratta di un comparto molto «popoloso»; e c’è tanta attesa perché il rinnovo arriva dopo ben otto anni di blocco contrattuale. E in più in particolare la Cgil ha intenzione di approfittare dell’occasione per modificare la riforma della scuola varata da Matteo Renzi. «Vorremmo rimettere mano a tante cose della “Buona scuola” che non ci sono piaciute», avverte il segretario confederale Cgil Franco Martini.
A breve saranno pronte le piattaforme con le richieste dei sindacati - che ovviamente dovranno stare all’interno del quadro economico stabilito per gli statali - e intanto già oggi i sindacati sono convocati all’Aran per i rinnovi delle Rsu, in particolare per definire il calendario delle elezioni a tre anni dalle ultime.
Superata questa fase emergenziale, nel giro di un mese poi entrerà in funzione la «Commissione paritetica sui sistemi di classificazione professionale». Questo organismo, introdotto dal contratto, entro il mese di maggio avrà il compito non facile di definire un profondo restyling dei «mestieri» della pubblica amministrazione. Non un semplice lavoro tecnico di riclassificazione del personale, ma il tentativo, spiegano al governo, di far fare un salto di qualità culturale e mappare i mestieri venuti fuori con l’innovazione tecnologica, ma anche con le moderne filosofie dell’organizzazione. Spunteranno quindi «nuove figure», ad esempio in campo informatico; si definiranno «figure polivalenti», in grado di ricoprire più funzioni, trasversali a più uffici. E si dovranno prevedere anche opportunità di progressione economica, con una revisione degli schemi tradizionali di remunerazione. Insomma gli effetti si faranno sentire su carriera e busta paga.

La Stampa 28.14.17
“Volti nuovi e impopolarità di Trump. Così parte la riscossa dei democratici”
L’ex ambasciatore Thorne: finito un ciclo storico, il presidente è una zavorra per i repubblicani
Nel voto di Midterm di novembre i liberal possono riconquistare un ramo del Congresso
di David Thorne


Negli ultimi anni la politica americana ha visto una perfetta oscillazione tra i due principali partiti: otto anni di amministrazione Clinton seguiti dagli otto di George W. Bush e quindi dagli otto dell’amministrazione Obama. Ma, mentre le presidenze vanno e vengono, la direzione della politica americana, fin dal 1974, è stata punteggiata da «ondate» elettorali – grandi capovolgimenti con cui l’elettorato esprime con forza, spesso con rabbia – il proprio scontento per lanciare un messaggio a chi governa.
Ho vissuto la prima di queste «ondate», nel 1974 - da consulente politico. Quell’anno ero in prima linea nella campagna del Congresso e con i miei soci mi occupavo di un’elezione speciale nel Michigan – in un distretto marcatamente repubblicano – che finì a sorpresa con un’inaspettata vittoria dei democratici. Era il preavviso di un cambiamento di rotta - e nel novembre del 1974 i democratici presero 49 seggi parlamentari ai repubblicani – un netto ripudio di Nixon e del suo partito nell’era post-Watergate – aprendo le porte a una classe storica di futuri leader democratici. Nel corso degli anni abbiamo visto altre inversioni di rotta di questo genere: nel 1980 per il Gop (Grand Old Party, il Partito repubblicano), nel 1982 e nel 1986 per i democratici, nel 1994 per i repubblicani con la rivoluzione di Gingrich, poi nel 2006 e nel 2008 i democratici hanno conquistato una maggioranza congressuale di proporzioni quasi storiche e nel 2010 c’è stata la rivoluzione del Tea Party.
Ricorsi storici
La storia è destinata a ripetersi nel 2018? Mi sa proprio di sì. Negli ultimi sessanta giorni, i democratici hanno ottenuto una serie impressionante di vittorie contro i candidati sostenuti da Trump. Un democratico ha vinto il governatorato della Virginia contro il repubblicano Ed Gillespie appoggiato da Trump innescando così un drastico cambiamento nella Camera dei Delegati. Il democratico Philip Murphy (il nostro ambasciatore in Germania mentre ero a Roma) ha vinto in New Jersey dopo otto anni di Chris Christie. Ma queste vittorie non sono nulla rispetto all’euforia che ha salutato il trionfo di Doug Jones in Alabama nell’elezione speciale per un seggio al senato contro il candidato di Trump, Roy Moore, accusato di molestie sessuali. L’Alabama non mandava un democratico al Senato dal 1990.
Cosa significa tutto questo? Si sta preparando uno tsunami democratico, o questa ondata si spegnerà e morirà prima di colpire le coste politiche nel novembre 2018? Oltre ai recenti risultati elettorali, ci sono una serie di segnali che indicano una significativa riscossa democratica.
Durante il mio incarico a Roma per conto del presidente Obama nel 2009, ricordo molti segnali d’allarme lanciati dai miei amici al Comitato nazionale democratico. I repubblicani non solo stavano raccogliendo molti più soldi, ma c’erano molti altri candidati repubblicani a incarichi locali e nazionali pronti a scendere in campo. Obamacare era diventato una parolaccia, il Tea Party stava ribaltando la politica, e persino le elezioni speciali del Massachusetts, indette per il seggio lasciato vacante dal defunto Ted Kennedy, erano state vinte da un repubblicano. Fu questo il primo segnale dell’ascesa dei conservatori del «Tea Party» alle elezioni del 2010 che destabilizzarono l’agenda di Obama per il resto della sua presidenza.
I democratici non sono riusciti a contrastare la rimonta conservatrice in modo efficace perché erano divisi, mentre i repubblicani facevano sempre più presa sull’elettorato.
Ma ora, a fine 2017, in un momento analogo del ciclo elettorale, dopo un anno di costante opera di disgregazione da parte del presidente, è in corso la dinamica opposta. I democratici hanno vinto le elezioni speciali in posti chiave con un margine considerevole e, cosa forse ancora più minacciosa per i repubblicani, stanno schierando molti nuovi candidati. Nel 2009, ad esempio, in questo momento i repubblicani avevano 56 nuovi candidati contro i 28 dei democratici: un rapporto di due a uno. Oggi i democratici hanno oltre 291 nuovi candidati contro i 71 dei repubblicani, un rapporto di quattro a uno, e il loro numero sta ancora crescendo. I miei amici democratici ricordano come nel 2009 assistettero impotenti all’ascesa degli avversari.
Il vantaggio
Le elezioni di metà mandato si terranno tra 10 mesi e nei sondaggi i democratici hanno tra i 10 e i 18 punti di vantaggio: è un livello di guardia. Per i repubblicani, Trump è ormai una pietra al collo, che li spinge a fondo. Basti considerare che 11 mesi prima che il loro partito fosse battuto alle elezioni di Midterm del 1994 e del 2010, Clinton e Obama avevano il 54% di consensi, Trump è al minimo storico con il 35%.
In base alla mia esperienza politica è difficile rovesciare una tendenza di questo genere. Certo, la politica si gioca sulle emozioni, ma anche sui numeri e ora i numeri sembrano decisamente a favore dei democratici.
L’intensità è un fattore sempre difficile da valutare in termini elettorali in un anno intermedio. I democratici sono galvanizzati. Ma la mappa delle elezioni al Senato favorisce il Partito repubblicano, anche dopo l’Alabama. I democratici devono difendere i seggi negli Stati «rossi» in cui Trump rimane relativamente forte.
La base populista
La base politica populista e conservatrice di Trump è rimasta salda e tutte le sue decisioni politiche e diplomatiche sembrano dirette solo a volersene conservare il favore. Questa lealtà è un dato che non dovrebbe essere sottovalutato. Il jolly, in questo caso, è la nuova legge fiscale. Trump otterrà credito per la vittoria, con un beneficio economico a breve termine, o la riforma diventerà un nuovo Obamacare - un impopolare fardello? Forse, come dicono i repubblicani, l’alta marea fa galleggiare tutte le barche e tutti ne beneficeranno. Questo risultato contribuirebbe inevitabilmente a salvare in parte i repubblicani nelle elezioni di Medio termine.
Ma nel 2010 la ripresa economica ha aiutato ben poco i democratici. Inoltre, la nuova legge fiscale fa poco per la classe media e per i poveri, elettori di Trump in posti come il Michigan, il Wisconsin e l’Ohio. Se la delusione in campo economico inizia a infiltrarsi in quella base - che ha già mostrato segni di sfilacciamento nei sobborghi bianchi - questo insieme al crescente vantaggio numerico dei democratici, mi porta a prevedere per il prossimo novembre un significativo riallineamento politico in America.
Potrebbe davvero arrivare un’onda - un’onda blu per i democratici, che potrebbero riconquistare un ramo del Congresso e rovinare per sempre il corso della presidenza Trump.

La Stampa 28.12.17
Usa, la violenza degli Antifa per combattere i suprematisti
I movimenti di sinistra usano i metodi dell’ultradestra per fermare l’odio
di Paolo Mastrolilli


Il movimento del nazionalismo bianco, rilanciato con forza sulla scena politica americana in corrispondenza con la campagna presidenziale di Donald Trump, ha generato la sua nemesi. Un movimento Antifa, cioè antifascista, pronto ad usare gli stessi metodi violenti degli avversari della destra alternativa, Alt-right, contro cui sta conducendo la sua «resistenza». Il risultato, qualunque sia l’opinione che ognuno ha su queste due forze opposte e drammaticamente uguali, è che l’America rischia di scivolare sempre di più verso una spaccatura che sconfina nel tribalismo, e davvero minaccia di esporla alla decadenza.
Durante le presidenziali la destra estrema, razzista e suprematista, non aveva fatto mistero di sostenere Trump. E lui aveva fatto il possibile per non perdere i suoi voti, ad esempio quando aveva detto di non poter prendere le distanze dal neonazi David Duke perché non conosceva bene le sue posizioni, salvo poi ravvedersi. La Alt-right, corteggiata dal consigliere Bannon, si era sentita incoraggiata dalla sua vittoria. E a Charlottesville aveva ucciso un avversario, durante un fine settimana di proteste in cui aveva acceso le torce dei linciaggi del Ku Klux Klan, e contestando la rimozione della statua del generale sudista Lee aveva gridato che «gli ebrei non ci rimuoveranno».
Sull’altro fronte, questa offensiva ha generato un movimento opposto e uguale, che M. Scott Mahaskey ha documentato con un fotoreportage pubblicato dal sito Politico. Mahaskey è andato alle proteste degli Antifa, dimostrando che ormai usano gli stessi metodi dei nazionalisti bianchi: «Vogliono reprimere con la forza ogni forma di promozione dell’odio», gli ha detto il professore di Dartmouth Mark ray che li studia. E pazienza per il Primo emendamento della Costituzione, che in teoria garantirebbe anche ai neonazi il diritto di esprimersi. Scott lo ha provato scattando foto a Berkeley, mentre gli Antifa colpivano un sostenitore di Trump con un cartello dove c’era scritto «No Hate», no all’odio. Solo l’intervento del giornalista radio Al Letson, che si era gettato sul corpo della vittima per fargli scudo, aveva evitato il peggio. L’Fbi, secondo Mahaskey, è molto preoccupata da questa dinamica, e si aspetta un’esplosione di scontri violenti durante il 2018, perché i nazionalisti bianchi hanno in programma una serie di manifestazioni, e gli Antifa hanno promesso di andare a tutti questi eventi per contrastarli.
Ci sarebbe da discutere se neonazi e antifascisti possono essere messi sullo stesso piano morale, ma il problema è più grande della loro rivalità, e riguarda la spaccatura culturale che ormai affligge l’America da trent’anni. L’inizio di questa dinamica si può far risalire all’elezione di Bill Clinton nel 1992, che fu rifiutata dai repubblicani. In passato c’erano stati scontri politici duri, ma una volta eletto un presidente si accettava, e si faceva almeno il tentativo di trovare punti di contatto bipartisan, tipo Reagan con lo speaker democratico della Camera O’Neill. Con Clinton questo è cambiato, forse perché dietro c’era una spaccatura culturale su temi considerati non negoziabili, come quelli della vita o della fede religiosa. La situazione era peggiorata con Bush, mentre dopo l’elezione di Obama l’attuale leader repubblicano al Senato, McConnell, aveva detto che la sua missione era farlo fallire a ogni costo.
Trump non ha nemmeno provato a diventare il presidente di tutti gli americani, perché non pensa di poter attirare voti fuori dalla sua base. Questa strategia ha funzionato bene nelle elezioni del 2016, e lui si prepara a ripeterla nel 2020. È un leader «consequential», cioè sta cambiando il Paese, ma solo realizzando i desideri dei propri sostenitori. Se i tagli alle tasse o la crescita economica gli consentiranno di allargare il numero dei suoi elettori, bene; sennò punterà a rivincere con la stessa coalizione del 2016. Il problema è che governando in maniera così partisan accentua la spaccatura tribale dell’America, che sta diventando la vera emergenza e l’ombra sul suo futuro.

La Stampa 28.12.17
Ritornare da Auschwitz
La tragedia degli ebrei italiani
Elisa Guida racconta le peregrinazioni dei superstiti che rientrarono dai campi, tra solidarietà e indifferenza
di Mario Toscano


Al termine della Seconda guerra mondiale, circa un milione di cittadini italiani attendeva con ansia di rientrare in patria. Erano prigionieri di guerra catturati dagli eserciti alleati tra il 1940 e il 1943, militari fatti prigionieri dai tedeschi dopo l’armistizio dell’8 settembre, lavoratori coatti, deportati politici e razziali. Un Paese devastato dalla guerra e dalla sconfitta e una società alle prese con la propria ricostruzione politica, materiale e morale, dovevano impegnarsi nel favorire il ritorno e il reinserimento di una massa di persone provata da esperienze drammatiche e da terribili sofferenze.
Alla scarsezza delle risorse disponibili, si aggiungevano le conseguenze della condizione di Paese sconfitto: l’Italia, infatti, non poteva organizzare direttamente missioni di soccorso, in particolare per i deportati, ma limitarsi all’assistenza dei reduci nel momento in cui rientravano nei confini nazionali. In questo drammatico contesto, particolarmente difficile era la situazione dei pochi ebrei sopravvissuti alla deportazione (meno di 700 su oltre 8.000 deportati). Perseguitati e deportati in quanto ebrei, non tornavano né in quanto italiani - formalmente non rientravano nella categoria dei reduci - né in quanto ebrei - non essendo prevista per essi nessuna iniziativa specifica. Le delicate e complesse problematiche di questa vicenda sono affrontate con rigore e sensibilità in un volume di Elisa Guida (La strada di casa. Il ritorno in Italia dei sopravvissuti alla Shoah, Viella, 2017), che integra i dati forniti dalla documentazione archivistica con le testimonianze individuali, illuminando gli aspetti istituzionali della questione con le suggestioni, le immagini e gli stimoli offerti dalle esperienze degli scampati allo sterminio.
Ampia attenzione è dedicata alla lunga marcia verso casa dei sopravvissuti al lager di Auschwitz, segnata da storie drammatiche, tra cui spicca la dettagliata ricostruzione di quella del sedicenne Piero Terracina, che offre una vivace testimonianza sul ruolo potenziale delle istituzioni e dei loro rappresentanti nel contribuire a lenire le ferite inferte dalla deportazione. Ricoverato nel sanatorio di Soci, sul mar Nero, appresa casualmente la notizia della presenza di un rappresentante diplomatico italiano a Mosca, il giovane avviò una corrispondenza - rinvenuta nell’archivio del ministero degli Esteri - alla quale l’ambasciatore Pietro Quaroni rispose con parole di conforto ed esortazione, utili a mitigare il clima incerto e difficile che dominava l’attesa del ritorno.
Attraverso lo studio delle vicende individuali, Guida illustra con cura le condizioni (la salute, l’età, la solidarietà) che potevano favorire il difficile ritorno a casa, e soprattutto indaga sul suo significato di viaggio interiore, di parentesi tra due fasi drammatiche dell’esistenza, nel richiamo frequente al racconto paradigmatico di Primo Levi.
Una tregua tra la guerra da cui si usciva e quella che si profilava per continuare a vivere, in cui esplodeva il contrasto tra il mondo esterno e il mondo interiore dei sopravvissuti; affioravano il timore e le angosce di fronte alla prospettiva di rientrare in case vuote di persone e di affetti e il divario incolmabile tra il sogno e la realtà del rimpatrio, esplicitato da tanti episodi che testimoniavano il disinteresse diffuso per i tormenti patiti, come documenta la delusione di un sopravvissuto al momento del rientro in patria: «che c’eravamo messi in testa?». Una domanda drammatica che non può essere lenita, alla quale questo volume fornisce un inquadramento storicamente adeguato e umanamente partecipe.
Il famigerato cancello del lager di Auschwitz, oggi nel sud della Polonia, con la scritta «Arbeit Macht Frei» (Il lavoro rende liberi)

La Stampa 28.12.17
L’anno del traffico tra stelle e pianeti
Al via le nuove missioni su Marte e Mercurio La Cina vuole la Luna e il Giappone punta agli asteroidi
di Antonio Lo Campo


Il 2018 sarà un grande anno per l’esplorazione del cosmo. Soprattutto per l’esplorazione del nostro Sistema Solare. Si torna su Marte con una sonda Nasa e Cina e India sono pronti per la Luna, mentre l’Europa punta a Mercurio. «Scusate il ritardo» è lo slogan della missione «InSight».
Doveva decollare qualche giorno prima di «ExoMars», nel marzo 2016, ma vari problemi tecnici ne hanno fatto slittare il lancio al prossimo 5 maggio, in cima ad un razzo Atlas V. Dovrà raggiungere Marte in otto mesi e tentare una discesa sulla Elysium Planitia. In questa regione la sonda americana studierà ciò che avviene al di sotto della superficie, dalle caratteristiche geologiche fino all’attività sismica.
La riscossa dell’Asia. Il prossimo marzo toccherà all’agenzia spaziale indiana tentare un secondo lancio verso la Luna. La sonda «Chandrayaan 2» è più grande e complessa della precedente, la numero 1: consiste in una parte orbitante e in un modulo di atterraggio che dovrà «allunare» assieme a un rover di realizzazione russa.
Sulla Luna, però, puntano a tornare anche i cinesi. Rimandata al 2019 la missione di recupero e rientro a Terra dei campioni selenici, per l’autunno 2018 è in programma il lancio di «Chang’e 4»: il robot sarà il primo a far discendere sulla faccia nascosta del satellite un modulo di atterraggio e un rover, che la esplorerà per 90 giorni. È questa la seconda missione lunare consecutiva dell’agenzia spaziale cinese, dopo che «Yutu» (portato da «Chang’e 3») compì un’esplorazione nel 2013.
Un po’ prima, in giugno, è previsto invece l’arrivo sull’asteroide Ryugu della sonda giapponese «Hayabusa 2»: deve recuperare un campione roccioso grazie a un paio di «lander», mentre la cugina della Nasa «Osiris-Rex» raggiungerà un altro asteroide. Si tratta di Bennu, che può contenere indizi preziosi sulla storia del Sistema Solare.
A caccia di altri pianeti. Un’altra data-chiave è il 20 marzo, quando un razzo «Falcon 9» porterà in orbita da Cape Canaveral il satellite Usa «Tess» (acronimo di «Transiting Exoplanet Survey Satellite»). Una volta collocato in una posizione molto ellittica attorno alla Terra, dovrà identificare nuovi esopianeti: da quelli di dimensioni e caratteristiche terrestri fino ai giganti gassosi. In particolare dovrà rivelarne le caratteristiche, a cominciare da quelle - fondamentali - dell’atmosfera.
In una finestra tra luglio e agosto 2018 a partire sarà un’altra missione della Nasa, la «Parker Solar Probe». Obiettivo è il Sole e lo raggiungerà con una serie di «flyby», vale a dire di giganteschi rimbalzi, sfruttando la gravità di Venere: arriverà alla minima distanza dalla nostra stella nel dicembre 2024, ad «appena» 5,9 milioni di chilometri, otto volte inferiore all’attuale record.
Show di «Bepi Colombo». Con una finestra di lancio che si aprirà il 5 ottobre sarà il momento della sonda europea dell’Esa «Bepi Colombo»: è molto italiana non solo nel nome, ma per la tecnologia e la scienza «made in Italy» a bordo. Realizzata con il contributo della Thales Alenia Space, verrà inviata verso Mercurio da un vettore «Ariane 5». È stata dedicata allo scienziato italiano Giuseppe «Bepi» Colombo: fu lui, nel 1974, grazie a una serie di calcoli interplanetari, a convincere la Nasa a modificare il programma della «Mariner 10». Inizialmente ideata solo per l’esplorazione di Venere, eseguì diversi «flyby» con Mercurio, fino ad allora mai visitato. Ma stavolta «Bepi Colombo» sarà la prima sonda inviata appositamente per compiere una dettagliata esplorazione del misterioso pianeta più vicino al Sole.

Corriere 28.12.17
Oltre a re, poeti e filosofi ecco i Greci comuni
Bongustai maschilisti e cittadini impegnati
di Eva Cantarella


Un giorno ad Atene. Perché Atene, di tutta la Grecia? Per due ragioni: perché è la città sulla quale abbiamo più informazioni e perché è quella alla quale pensiamo quando torniamo con la mente a quel mondo che abbiamo per tanto tempo e troppo a lungo mitizzato, arrivando a parlarne come del «miracolo greco». E anche se oggi sappiamo che alle spalle del presunto miracolo stavano millenni di contatti e reciproci influssi con le più antiche civiltà orientali, verso le quali i Greci (e l’Europa) hanno non pochi debiti culturali, questo non impedisce che Atene continui a essere un punto di riferimento imprescindibile della nostra storia. Ed è per questo e in quest’ottica che cercheremo di individuarne le ragioni ripensando, soprattutto, alla vita quotidiana della massa eterogenea di persone che in età classica vi conviveva. Ma come, in quali condizioni?
Dal punto di vista urbanistico, la città era divisa in due parti: quella alta, sull’Acropoli, dove abitavano gli dèi, nei loro splendidi templi, oggetto di orgoglio degli Ateniesi e di ammirazione dei visitatori; e quella bassa, il centro cittadino dove si trovava l’Agorà, una larga piazza aperta circondata da edifici pubblici, e dove gli Ateniesi trascorrevano praticamente la giornata. Nelle loro abitazioni, infatti, essi passavano ben poco tempo. D’altronde le case non erano molto confortevoli: collocate, tranne che nei quartieri più eleganti, ai lati di strade prevalentemente strette, umide e tortuose, garantivano un benessere molto limitato. A causa della scarsità d’acqua molte non avevano servizi igienici: quel che andava eliminato veniva depositato in strada, o più spesso gettato dalle finestre. Inoltre stare in casa non era molto stimolante. Unica compagnia i bambini e le donne (la cui sola funzione era quella riproduttiva) che, non partecipando alla vita sociale, passavano gran parte della giornata in una zona a loro riservata, lontana dall’ingresso, così da non essere esposte a sguardi estranei: anche se non è vero che vivevano chiuse nei ginecei (in Grecia non esistevano), le donne elleniche erano pesantemente discriminate.
Detta la qual cosa, peraltro, va anche detto che vi erano persone trattate molto peggio di loro: gli schiavi (per Aristotele «strumenti animati»), considerati oggetto di proprietà e non soggetto di diritto, a dare un’idea dei cui rapporti umani con il padrone (e quindi delle loro condizioni di vita) soccorre la regola per cui, se chiamati dal padrone a testimoniare in giudizio in suo favore, data la loro presunta natura menzognera prima di farlo dovevano essere sottoposti a tortura. Ma poiché la schiavitù, oggi inconcepibile, nell’antichità era considerata naturale, passiamo a un’altra crudelissima ingiustizia, più tipicamente greca: la sorte dei pharmakoi , veri e propri capri espiatori mantenuti a spese pubbliche al fine di essere bruciati vivi per placare l’ira degli dèi quando questi mandavano una pestilenza o altro segnale che comunicava la loro indignazione.
E che dire dell’avarizia degli ateniesi di fronte alla concessione agli stranieri della cittadinanza? A darne un’idea basterà ricordare che non la riconobbero neppure ai meteci, gli stranieri residenti ad Atene la cui attività era fondamentale per l’economia cittadina (e che comunque pagavano alla città una apposita tassa). Per non parlare, sul piano della politica internazionale, del loro imperialismo e di quel che accadde agli abitanti dell’isola di Melo, spietatamente e freddamente sterminati per essere rimasti neutrali nella guerra contro Sparta.
Atene insomma aveva i suoi difetti, e la vita in città non pochi lati negativi. Ma questo non impedisce che, per altri aspetti, essa riserbi inaspettate e piacevoli sorprese. Se torniamo sull’Agorà, nella zona del mercato, scopriamo ad esempio che il commercio era sottoposto all’attento controllo di una serie di funzionari specializzati, ad alcuni dei quali spettava il compito di controllare che pesi e misure corrispondessero ai dettami di legge e a quanto dichiarato dalle parti; ad altri quello di fissare il prezzo del grano, e ad altri ancora di controllare che i prodotti venduti fossero genuini e non adulterati. E a proposito di alimenti è doveroso ricordare che la Grecia è il Paese dove è nata la gastronomia e gli chef erano personaggi così conosciuti e celebrati da indurre persino Platone nel Gorgia a citare un tal Mithaeus, definendolo come «il Fidia delle cucina».
E veniamo infine all’aspetto più interessante della vita dell’uomo greco, l’impegno quotidiano che occupava il suo tempo e i suoi pensieri: il mestiere di cittadino. Il sistema politico era una democrazia radicale e diretta, tutti i cittadini avevano il diritto di partecipare alle pubbliche assemblee in cui si decidevano a maggioranza le questioni di pubblico interesse, sia ordinarie sia straordinarie, e i voti dei partecipanti avevano tutti lo stesso valore. Come negare ai Greci il merito e la grandezza di aver inventato il concetto di democrazia? Troppo facile oggi mettere in evidenza i limiti dell’applicazione di quel concetto. Come dimenticare che le cariche pubbliche venivano assegnate per sorteggio, e che a evitare i possibili rischi il sorteggiato per accedere alla carica doveva superare un esame ( dokimasia ), durante il quale gli si chiedeva tra l’altro se aveva pagato le tasse e fatto il servizio militare? E ancora: a chi aveva dilapidato il patrimonio Solone aveva vietato di partecipare alle assemblee perché, scrive Eschine, «credeva impossibile che uno stesso uomo fosse cattivo nelle questioni private e buono in quelle pubbliche, e che non si dovesse concedere la parola a chi era capace nei discorsi, ma non nella vita». Come non essere colpiti dal fatto che millenni or sono i Greci pensavano che le cariche pubbliche dovessero essere esercitate da persone degne, e cercassero di assicurarsi che questo accadesse? Per continuare a esser loro grati dell’eredità che ci hanno lasciato non c’è bisogno di mitizzarli: basta pensare che neppure loro erano perfetti.

Corriere 28.12.17
Condanna e conquista. Il lavoro rende uomini
L’opera creativa per trasformare l’ambiente
Fattore di produzione e fonte d’identità sociale
di Antonio Carioti


Tra le componenti essenziali della vita quotidiana, in ogni epoca, c’è il lavoro, anche se le sue forme e declinazioni variano molto con il tempo, dal punto di vista materiale come da quello culturale: «Fino all’affermazione dell’etica protestante — ricorda a tal proposito lo storico Stefano Musso — il lavoro è visto come una sorta di dannazione divina, una punizione inflitta all’uomo per fargli scontare il peccato originale. Poi al contrario diventa partecipazione dell’uomo stesso all’opera creativa di Dio, assumendo quindi una dimensione ideologica di grande valore. Sotto un altro profilo, il lavoro in epoca preindustriale occupa tutta la vita e tutto il giorno, dall’alba al tramonto, ma ha ritmi piuttosto blandi e prevede interruzioni di vario genere legate alla socialità. Con la produzione di massa il lavoro diventa oggetto di un contratto, con cui il dipendente mette le sue energie e capacità a disposizione di un imprenditore. E comincia il conflitto per la riduzione degli orari, inizialmente lunghissimi, che diventa uno degli impegni primari delle organizzazioni sindacali. Ormai è netta la distinzione netta tra tempo di lavoro e tempo libero».
Musso ha curato la parte relativa al XX secolo dell’opera in più volumi Storia del lavoro in Italia , in corso di pubblicazione presso l’editore Castelvecchi. Il direttore del progetto, Fabio Fabbri, sottolinea che sarebbe sbagliato considerare questo fenomeno da un’angusta prospettiva economicista: «Bisogna guardare alla figura del lavoratore come elemento centrale della struttura sociale, analizzando le analogie e le differenze tra le diverse epoche. Sotto il profilo giuridico il contratto di lavoro salariato nasce in Italia a fine Ottocento, ma è chiaro che forme di dipendenza nella prestazione d’opera risalgono molto indietro nel tempo. In epoca romana c’è l’istituto della schiavitù, che copre un caleidoscopio molto ampio di attività. E bisogna vedere dove collochiamo, per esempio, gli artigiani che lavoravano nelle prime officine tessili del Medioevo».
Un tema di grande interesse è quello dell’occupazione femminile, che ha conosciuto, osserva Musso, diverse trasformazioni nel corso del tempo: «Non si tratta di un fenomeno recente. A parte le incombenze domestiche, le donne hanno sempre lavorato nelle diverse attività a conduzione famigliare e hanno sempre dato un contributo notevole all’agricoltura e all’allevamento del bestiame. Anche alla prima industrializzazione hanno partecipato in modo massiccio nell’industria tessile, che fu all’epoca il settore trainante della manifattura. È anche vero però che le operaie tendevano a lasciare il lavoro quando si sposavano e avevano figli. Comunque anche da mamme non si limitavano a fare le casalinghe, quasi sempre integravano il bilancio famigliare, spesso assai magro, con attività a domicilio, soprattutto di sartoria, o a tempo parziale: svolgevano compiti di lavandaie, stiratrici, collaboratrici domestiche. Sparivano dalle statistiche ufficiali sull’occupazione, ma operavano in una sorta di economia grigia. Solo in tempi piuttosto recenti, a partire dagli anni Sessanta e Settanta, le donne italiane sono entrate stabilmente nel circuito del lavoro regolare, per conquistarsi un’autonomia o per portare a casa un altro stipendio oltre a quello del marito».
Insomma, se esaminato in una prospettiva ampia, spingendosi oltre i dati forniti dalle fonti istituzionali, il campo del lavoro si rivela una chiave di lettura preziosa delle trasformazioni sociali: «A mio parere — sostiene Fabbri — si tratta dell’asse portante e unificante della storia umana, uno strumento eccezionale di lettura sincronica delle diverse civiltà. Ovviamente bisogna esaminarlo in tutti i suoi aspetti: il lavoro non è mai stato solo un fattore di produzione, si è sempre incrociato con fattori culturali e religiosi. Ecco perché, se per esempio ci riferiamo all’età romana, non basta occuparsi degli agricoltori o degli schiavi domestici: bisogna considerare i commercianti, i medici, gli attori, i militari, gli artisti, la prostituzione. Tutto ciò ha anche ricadute attuali, perché accendere i riflettori sulla figura del lavoratore a tutto tondo vuol dire anche porre l’esigenza di rivalutarne il ruolo per contrastare la disgregazione sociale della nostra epoca».

Repubblica 28.12.17
Blitz
Barbareschi in manovra 4 milioni in più all’Eliseo
E Franceschini si arrabbia
Luca Barbareschi, 61 anni, ha preso la gestione e la direzione artistica del Teatro Eliseo di Roma nel 2015. Ha dichiarato ad aprile 2017 la crisi del teatro di via Nazionale. A maggio la manovrina gli ha garantito 8 milioni di euro (in due anni) extra Fus. 4 milioni sono stati cancellati dal Codice dello Spettacolo e ora gli vengono ridati con l’emendamento alla legge di bilancio
di Anna Bandettini Valentina Conte


I nuovi fondi grazie all’emendamento Prestigiacomo approvato in sordina con il sì del governo. Il ministro: “Una forzatura, io informato solo dopo”
RomaSembra quasi un appuntamento fisso: “ l’emendamento Barbareschi” di fine anno. Era successo nel 2016 con la richiesta del senatore pd Astorre - poi ritirata - nel Milleproroghe. È successo di nuovo la notte del 20 dicembre, durante le ultime battute per l’approvazione della manovra, quando in commissione Bilancio della Camera, presieduta da Francesco Boccia ( Pd), viene approvato un emendamento presentato da Stefania Prestigiacomo (Forza Italia) per assegnare 4 milioni di euro nel 2018 al teatro Eliseo di Luca Barbareschi. L’emendamento passa all’unanimità, grazie anche a una furbata: un ritocco alle tabelle del bilancio dello Stato, senza mai citare né il regista produttore, né la sala romana di via Nazionale, teatro da tempo in difficoltà.
« Barbareschi si è rivolto a Forza Italia per recuperare i 4 milioni che prima gli erano stati assegnati e poi tolti » , ammette l’ex ministro Prestigiacomo. «Si danno soldi a tutti i teatri, se c’è necessità. Non vedo perché non si debba aiutare anche l’Eliseo, uno dei più importanti d’Italia. E poi il mio emendamento, approvato con il parere positivo di Boccia e anche del governo nella persona del sottosegretario Baretta, prevede solo un generico aumento del Fondo unico per lo spettacolo di 4 milioni. Sarà il ministro Franceschini, se riterrà, a destinarli a Barbareschi, come da loro precedente accordo. Così almeno mi ha detto Barbareschi».
Reagisce subito il ministro della Cultura Dario Franceschini, da mesi impegnato a contrastare i finanziamenti “ ad personam” all’Eliseo: « Trovo quell’emendamento un errore e una forzatura. Ovviamente io devo rispettare tutte le decisioni del Parlamento, ma si deve sapere che sono stato informato ad approvazione già avvenuta, nel caos dell’ultima notte della legge di Bilancio. Una cosa è aiutare un teatro privato in difficoltà, come il Parlamento aveva già deliberato di fare, un’altra cosa aggiungere ulteriori 4 milioni. Tutto ciò contrasta con lo spirito della nuova legge sullo spettacolo dal vivo che abbiamo approvato proprio per introdurre migliori criteri di distribuzione delle risorse pubbliche legati a principi di equità e a parametri oggettivi».
A ben vedere, i fatti sono diversi da come li racconta Prestigiacomo. Lo rivela il resoconto parlamentare. La deputata di Forza Italia «precisa che l’emendamento è volto ad integrare il finanziamento di cui all’articolo 22, comma 8 del decreto legge 50 del 2017». Il riferimento è alla manovra correttiva della scorsa primavera. In quel decreto legge è lo stesso governo a stanziare 2 milioni per il 2017 «in favore del teatro di rilevante interesse culturale “ Teatro Eliseo”, per spese ordinarie e straordinarie, al fine di garantire la continuità delle sue attività in occasione del centenario della sua fondazione».
Denari che però in Parlamento si moltiplicano per quattro, grazie a due emendamenti dei deputati Giorgetti (Fi) e Boccadutri ( Pd) approvati all’unanimità: 8 milioni, metà per il 2017 e il resto sul 2018. Si scatena la bufera in tutto il mondo del teatro. Critiche, accuse, polemiche fortissime. È così che nel Codice dello Spettacolo, approvato in novembre, almeno i 4 milioni del 2018 ( impossibile toccare quelli del 2017) vengono dirottati sui teatri delle quattro Regioni terremotate. Barbareschi non ci sta. E chiede alla Prestigiacomo di ripianare la cifra in manovra, « perché, mi ha detto, aveva già impegnato progetti e poi il ministro è d’accordo » , racconta lei. In commissione Bilancio dunque Prestigiacomo non nasconde la finalità dell’emendamento. E i deputati sanno cosa stanno votando.
E ora cosa succede? Il ministero della Cultura ritiene di avere le mani legate. I 4 milioni sarebbero vincolati all’Eliseo. Alla faccia delle fondazioni liriche, ad esempio. Per le più virtuose tra loro il “premio” si riduce da 20 a 15 milioni. Per l’Eliseo sale.

Repubblica 28.12.17
L’Est europeo
Depenalizzate le tangenti Bucarest torna in piazza
Dopo la Polonia, anche la Romania va in battaglia contro i giudici. E prepara lo scontro con l’Ue
di Andrea Tarquini


Ormai in Romania la maggioranza eletta al potere punta al tutto per tutto, alla vittoria finale contro società civile e magistratura anticorruzione. Poco dopo il passaggio definitivo a Varsavia delle leggi che secondo la Ue abrogano l’indipendenza del potere giudiziario (e anni dopo simili passi in Ungheria), i deputati del Partito socialdemocratico di governo hanno approntato una legge per depenalizzare la corruzione per ogni reato contestato sotto i 200mila euro. Giorni fa, avevano fatto passare leggi che limitano l’autonomia dei giudici sottoponendoli agli ordini del ministero della Giustizia e minacciandoli di sequestro dell’abitazione.
Invano il capo dello Stato, il liberalconservatore europeista Klaus Iohannis, ha lanciato l’allarme. «Se continuano cosí, toccherà alla nostra Patria, dopo la Polonia, incorrere in procedure punitive del’Unione europea accusati di violazione di valori costitutivi e principi dello Stato di diritto; chi non lo vede o fa finta di non capirlo vive sulla luna», ha detto il presidente. Sa che la società civile è migliore dei governanti, vuole difendere l’appartenenza alla Ue grazie a cui la Romania ha la piú alta crescita in Europa. Ma il Partito socialdemocratico al potere vuole salvare i suoi molti politici di rango da sospetti, indagini e condanne. A cominciare dal leader storico Liviu Dragnea, il personaggio piú influente del maggiore paese balcanico. Già condannato con la condizionale, non può ricoprire incarichi esecutivi, ma è presidente della Camera e i suoi lo seguono senza condizioni. Dice la sua su ogni nomina. Anche ora, notano fonti diplomatiche e della Giustizia, che è nuovamente indagato per malversazione di fondi europei nella ristrutturazione di un centro sportivo.
La proposta di legge di un gruppo di deputati del Partito socialdemocratico ( che fa parte nella Ue del Partito socialista europeo) prevede di depenalizzare i presunti reati di corruzione per somme inferiori all’equivalente di duecentomila euro. E poi: derubricare condanne non oltre i tre anni. Pene piú leggere per chi accetta tangenti. Depenalizzare tentativi di ottenere favori sessuali in cambio di aiuti sul lavoro o simili. E incassare tangenti per conto di altri non sarebbe piú reato.
È la seconda volta in un anno che la maggioranza ci prova. Alla fine dell’anno scorso fu costretta alla marcia indietro dopo l’ondata di proteste della società civile. Le proteste ora sono tornate, appaiono endemiche. Il primo ministro Mihai Tudose ieri ha voluto tendere la mano ai dimostranti. Ricevendo rappresentanti della società civile e promettendo loro che dialogherà con l’Unione europea. «Ma l’esito di questo incontro non ci ha soddisfatti», hanno detto in serata i dirigenti delle Ong, « non ci resta che tornare a chiamare i cittadini in piazza».

Repubblica 28.12.17
Intervista a Laura Codruta Kovesi (Dna)
di A. Tar.


“La lotta alla corruzione è la difesa dei valori europei”
Diffamata e minacciata, Laura Codruta Kovesi non ha paura.
Guida la Directia Nationala Anticoruptiei (Dna), è l’eroina della società civile.
Quale futuro ha la lotta alla corruzione in Romania?
«Mi sento molto legata al dovere e motivata, con tutto il team.
Lavoriamo con professionalità e responsabilità. Per contribuire all’obiettivo dei cittadini: costruire una società più pulita dove la corruzione sia eccezione e non regola. Le nostre indagini hanno svelato metodi per drenare risorse pubbliche a beneficio di privilegiati e a spese della maggioranza».
E la società civile vi capisce?
«Anno dopo anno, sempre più cittadini hanno capito quanto sia pericolosa la corruzione e importante colpirla. Per loro è priorità».
Perché tanti cosiddetti vip sfidano la legge?
«Identificarli e punirli è importante, ma non basta, servono misure preventive nel diritto penale. Abbiamo individuato le aree vulnerabili: nomine pubbliche, Sanità, infrastrutture, appalti, pubblica istruzione».
Quali sono le sue priorità nella battaglia?
«Le priorità le decidiamo ogni anno secondo l’evoluzione del fenomeno criminale. Negli ultimi anni: corruzione in servizio sanitario, appalti, uso dei fondi europei, con effetti a catena. E la corruzione blocca lo sviluppo, la qualità della vita degenera. Un profondo effetto-domino nelle strutture costitutive di una società.
Cattive strade a caro prezzo, anche con fondi europei, pazienti costretti a pagare per servizi medici, edifici privati costruiti in una notte su suolo pubblico.
Dobbiamo combattere».
Ha ricevuto minacce o intimidazioni?
«Negli ultimi anni il metodo d’intimidazione più usato erano attacchi pubblici dei politici indagati. Ora sono passati a leggi e proposte di legge contro la nostra indipendenza ed efficienza. La diffamazione contro la DNA e la giustizia ha raggiunto livelli incredibili, da calunnie fino a contratti con aziende specializzate in intimidazione o disinformazione. Ora vogliono cambiare le leggi per toglierci indipendenza e depenalizzare per salvare indagati condannati in nove casi su dieci. La sfida più critica è garantire l’indipendenza della DNA e la stabilità della legislazione anticorruzione».
I politici indagati la accusano di essere di parte, lei che cosa risponde?
«Non produciamo dossier politici. Ci basiamo su prove. Ci attaccano per esautorarci e intimidire. Ma siamo nella Ue, ci battiamo per valori europei».

mercoledì 27 dicembre 2017

Corriere 27.12.17
Lo spettro massonico
La chiesa condannò i «liberi muratori» esagerando molto la loro influenza
Un saggio di Fulvio Conti, pubblicato in un volume a cura di Giorgio Fabree Karen Venturini (il Mulino), mostra che le logge ebbero una parte di rilievonella Rivoluzione francese e sotto Napoleone, non nel Risorgimento italiano
di Paolo Mieli


Perfino Gioacchino Belli, che pure fu un implacabile fustigatore del malcostume nello Stato pontificio, ebbe sentimenti non simpatizzanti nei confronti della massoneria e condivise al fondo l’ostilità della Chiesa ai liberi muratori. Nel 1838 Belli scrisse un sonetto, Li rivoltosi , in cui lasciò trasparire la propria diffidenza per i massoni: «Chiameli allibberàli o fframmasoni/ O ccarbonari, è sempre una pappina/ È sempre canaijaccia ggiacubbina/ Da levàssela for de li cojjoni». Segno che il pregiudizio antimassonico si diffuse nell’Ottocento anche in ambienti che non possono essere considerati di stretta osservanza cattolica. Nel saggio Dalla condanna al dialogo: tre secoli di relazioni tra Chiesa e massoneria — che uscirà nel libro, edito dal Mulino, curato da Giorgio Fabre e Karen Venturini, La Chiesa tra restaurazione e modernità (1815-2015) — Fulvio Conti ricostruisce le condanne della Chiesa a partire dalla lettera apostolica In eminenti (1738), con la quale, esattamente un secolo prima del sonetto del Belli, papa Clemente XII stabiliva il divieto, pena la scomunica, di affiliazione alla massoneria e ad altre associazioni dello stesso tipo «contrarie alla sicurezza dei regni» nonché — a suo dire — in grado di causare «mali gravissimi non solo alla tranquillità degli Stati, ma anche alla spirituale salvezza delle anime».
La massoneria aveva all’epoca 21 anni. Il suo atto di nascita, ricorda Conti, viene infatti comunemente individuato nella decisione adottata da quattro logge inglesi, il 24 giugno 1717, di dar vita alla Grand Lodge of London. Sei anni dopo la «loggia madre» si dotò di un corpo di norme statutarie, Constitutions of the Free-Masons , codificate dal reverendo James Anderson, pastore della Chiesa presbiteriana scozzese. La Chiesa cattolica intuì immediatamente che quello dei «Liberi muratori» era un fenomeno con grandi potenzialità di proselitismo e si sentì minacciata. Nel 1739, l’anno successivo a quello della succitata lettera del Papa, un editto del cardinale Giuseppe Firrao, segretario dello Stato pontificio, ribadì il divieto per i fedeli di affiliarsi a quelle «perniciosissime aggregazioni», minacciando la confisca dei beni e addirittura la pena di morte per coloro che non avessero obbedito all’ingiunzione del pontefice. Proprio così: la pena di morte. Punizioni che per di più avrebbero dovuto essere inflitte, secondo l’editto, «irrimediabilmente e senza speranza di grazia». Ma queste disposizioni caddero sostanzialmente nel vuoto. E, anzi, durante la guerra di Successione austriaca (il conflitto che tra il 1740 e il 1748 consacrò, su versanti opposti, Maria Teresa d’Asburgo e Federico II di Prussia) «ideali e modello associativo della libera muratoria», scrive Conti, «conobbero una grande espansione grazie alla nascita di logge militari, che ebbero una particolare diffusione nel mondo germanico». Così il successore di papa Clemente, Benedetto XIV, con la bolla Providas Romanorum Pontificum nel 1751 si sentì in dovere di aggiungere di suo uno specifico invito a tutti i sovrani e ai governi a che bandissero la massoneria. Tra i più lesti ad accogliere l’esortazione papale, in quello stesso anno, furono Carlo di Borbone a Napoli e Ferdinando VI a Madrid. Nel contempo però — a bilanciamento dell’iniziativa pontificia — si ebbe una certa sovrapposizione tra le idee della massoneria e quelle dell’Illuminismo.
Poi la Rivoluzione americana del 1776 presentò, secondo Conti, «la realizzazione empirica, nell’elaborazione costituzionale e nella pratica di governo, dei valori espressi dalla cultura dell’Illuminismo». E della massoneria. La Gran loggia d’Austria giunse a proclamare che «ogni loggia era una democrazia», mentre la massoneria danese negli anni Sessanta affermava che la «libertà repubblicana» era un bene oltremodo prezioso. Nel 1779 la loggia parigina Noef Soeurs, a cui era affiliato Voltaire assieme a molti altri intellettuali, accolse con grandi elogi Benjamin Franklin e presentò i propri appartenenti come «cittadini della democrazia massonica». E a ridosso della Rivoluzione francese — come ha individuato Giuseppe Giarrizzo in Massoneria e Illuminismo nell’Europa del Settecento (Marsilio) — non pochi segmenti europei dell’universo liberomuratorio divennero vere e proprie «strutture terroristiche» dirette a favorire la conquista francese dei Paesi confinanti, nonché l’avvento di governi repubblicano-rivoluzionari in vari Stati italiani e tedeschi, in Svizzera e in Austria. È in questo contesto che viene pubblicato, nel 1797, il celeberrimo libro del gesuita Augustin Barruel considerato primogenito di ogni teoria «cospirazionista»: Memorie per una storia del giacobinismo . In esso viene esposta la tesi del complotto massonico che sarebbe stato all’origine della Rivoluzione francese. Tesi che nella seconda metà del Novecento sarebbe stata oggetto di un importante studio di Reinhart Koselleck, Critica illuministica e crisi della società borghese (Mulino) e per certi versi anche della Critica della Rivoluzione francese (Laterza) di François Furet.
Conti ritiene che queste ipotesi interpretative siano suggestive, ma debbano essere contestualizzate e fortemente circoscritte nel tempo e nello spazio. Senza indulgere «alla costruzione di simili teoremi, i cui passaggi risultano talora difficilmente dimostrabili», l’influenza della massoneria sulla Rivoluzione francese «appare tuttavia indubbia… sia dal punto di vista ideologico (basti pensare all’apporto dato dalle logge alla diffusione dell’idea egualitaria e alla sperimentazione di forme di rappresentanza democratica), sia sotto il profilo organizzativo, con molte figure del mondo liberomuratorio che rivestirono contemporaneamente ruoli direttivi durante l’esperienza rivoluzionaria o nel giacobinismo europeo». Successivamente — ha notato Franco Della Peruta in un saggio che compare nel volume, curato da Aldo Alessandro Mola, La massoneria nella storia d’Italia (Atanòr) — tutti quelli che raccolsero le bandiere della rivoluzione fecero propri metodi organizzativi e simboli massonici. In toto o quasi, ha scritto Giarrizzo. Ma, secondo Della Peruta, i rivoluzionari si differenziavano dalla massoneria per la pratica attivistica e cospiratoria. Sotto questo aspetto «il terreno sul quale germinarono non è tanto quello delle logge dei Franchi muratori quanto piuttosto quello delle congiure repubblicane del 1794-95, delle cospirazioni patriottico-unitarie del 1798-99, delle esperienze giacobine».
Il periodo napoleonico, prosegue Conti, vide la massoneria divenire «un fenomeno à la page», svuotata del messaggio cosmopolita delle origini e «impegnata apertamente a sostenere i disegni espansionistici dell’impero». Napoleone la utilizzò come strumento di governo e «nelle terre cadute sotto il suo dominio favorì la diffusione delle logge, che si riempirono di militari, di burocrati e di funzionari del regime».
Nel 1805 fu fondato a Milano un Grande Oriente d’Italia che «sancì l’aggregazione delle numerose logge sotto un unico centro organizzativo nazionale». Il ruolo di gran maestro, «ad eloquente testimonianza degli stretti legami esistenti fra potere politico e cariche massoniche», fu affidato a Eugenio di Beauharnais, appena insediato come viceré del Regno d’Italia. Qualche tempo dopo si costituì un Grande Oriente napoletano che, fra il 1806 e il 1808, fu guidato dal re di Napoli Giuseppe Bonaparte e, in seguito, da Gioacchino Murat. Conti accredita le stime secondo cui «nei territori italiani a egemonia francese si contarono circa ventimila affiliati, in larga parte funzionari civili e militari», che frequentarono le logge assieme ai rappresentanti dei ceti emergenti dei commerci, delle imprese e delle professioni. E riprende le tesi di Gian Mario Cazzaniga — curatore di La massoneria. Storia d’Italia, Annali, 21 (Einaudi) — secondo cui l’adesione alle logge fu per molti un fenomeno di convenienza ma, ad un tempo, esse costituirono un veicolo di circolazione delle idee liberali e un «laboratorio dell’unità nazionale». È sempre Cazzaniga a mettere in evidenza la «doppia realtà» della massoneria milanese e di quella napoletana: «Da una parte una adesione di massa, superficiale e provvisoria, a liturgie più dinastiche che muratorie, dall’altra una più ristretta e convinta rete liberale di spirito repubblicano, figlia spirituale degli Idéologues e degli Illuminati di Baviera, non senza presenze dell’esoterismo cristiano, che prepara ed anticipa le battaglie per le riforme costituzionali e per l’indipendenza nazionale».
Ma, come documenta Aldo Alessandro Mola in Storia della massoneria italiana (Bompiani), dopo la sconfitta del Bonaparte e in epoca di Restaurazione la Libera muratoria cedette gradualmente il passo ad altre associazioni segrete. Rimase, per così dire, sullo sfondo. La massoneria fu sostanzialmente inerte tra il 1830 e il 1870. Inoltre — mette in chiaro l’autore — «non ebbe alcun coinvolgimento diretto nelle prime due guerre di indipendenza e, più in generale, non prese parte alcuna alla cospirazione patriottica e dei moti risorgimentali». Di qui, il paradosso. Mentre «la massoneria risultava di fatto pressoché annientata, la Chiesa continuava a vedere in essa l’oscura ispiratrice di tutti i suoi principali nemici: il liberalismo, la democrazia repubblicana, il movimento patriottico che si batteva per l’Italia unita con Roma capitale, il laicismo positivista e materialista». Di questa bizzarria si accorse Gaetano Salvemini, che nel febbraio 1914 così scrisse ad Alessandro Luzio: «La leggenda che il Risorgimento italiano sia stato opera della massoneria è stata creata dai clericali, i quali, incapaci di rendersi conto di questo fenomeno, lo attribuirono al diavolo» (la lettera è riportata in un libro dello stesso Luzio, La Massoneria e il Risorgimento italiano , edito da Zanichelli). Ma Pio IX e il suo successore Leone XIII continuarono a osteggiare senza tregua i Liberi muratori. Lo stesso fecero i Papi successivi. In Francia dal 1884 nacquero associazioni e giornali (cattolici) antimassonici. Nel 1887 «La Civiltà Cattolica» annunciò la formazione di una Lega per combattere la massoneria. Che poi confluì nell’Unione antimassonica, la quale nel 1896 tenne un convegno a Trento, città (all’epoca austriaca) che nel 1545 aveva ospitato il Concilio antiluterano.
Adesso — anche per effetto dell’offensiva cattolica — il clima era cambiato e, dopo l’avvento al potere della Sinistra (1876), la massoneria ebbe ben cinque presidenti del Consiglio: Depretis, Crispi, Zanardelli, Fortis e Boselli. Oltreché gli amministratori di alcune importanti città, primo tra tutti il sindaco di Roma (tra il 1907 e il 1913) Ernesto Nathan. All’avvento del fascismo, per avviare il percorso che avrebbe portato nel 1929 ai Patti lateranensi la Chiesa di Pio XI pretese e ottenne da Mussolini la messa al bando delle «associazioni segrete». E impose a don Sturzo le dimissioni dalla segreteria del Partito popolare, accusandolo di favorire, con il suo antifascismo, proprio la massoneria. Cosa che provocò una risentita lettera del sacerdote l’8 luglio del 1923. E neanche dopo la caduta del fascismo, la fine della guerra e il ripristino in Italia della democrazia le cose cambiarono. Né con Pio XII, né con Giovanni XXIII. Fu solo all’epoca di Paolo VI che si allentò la presa. Nel 1974 una lettera del prefetto della Sacra congregazione per la dottrina della fede, il cardinale croato Franjo Seper, all’arcivescovo di Filadelfia, pur ribadendo il veto ai fedeli di iscriversi ad associazioni massoniche, affermava che la scomunica doveva applicarsi soltanto a «quei cattolici iscritti ad associazioni che veramente cospirano contro la Chiesa». Il gesuita Giovanni Caprile fece notare che implicitamente si ammetteva l’esistenza di «associazioni massoniche che nulla hanno di cospiratorio contro la Chiesa e contro la fede». Le cose si fermarono lì. Ma quando nel 1978 morì Paolo VI, la «Rivista massonica» pubblicò un corsivo anonimo in cui si leggeva: «È la prima volta — nella storia della massoneria moderna — che muore il capo della più grande religione occidentale, non in istato di ostilità coi massoni».
Nel 1980 la Conferenza episcopale tedesca, dopo sei anni di incontri con esponenti delle Grandi logge di Germania, dava alle stampe una «Dichiarazione circa l’appartenenza di cattolici alla massoneria» in cui si accusava la Libera muratoria di non essere «mutata nella sua essenza» e si dichiarava che l’adesione ad essa metteva «in questione i fondamenti dell’esistenza cristiana». Successivamente tutte le principali personalità della Chiesa, fino a Joseph Ratzinger, hanno ribadito — pur senza particolare enfasi — la condanna della massoneria. Finché, a sorpresa (quantomeno per i toni), nel febbraio 2016 è comparso sul «Sole 24 Ore» un articolo del cardinale Gianfranco Ravasi dal titolo Cari fratelli massoni che ha riproposto le aperture della stagione di Paolo VI. Ma i tempi di una deposizione delle armi che possa essere considerata definitiva appaiono ancora lontani.

Corriere 27.12.17
La rivista «Harvard Working Knowledge» si occupa dell’opera sull’arte della mercatura scritta da Benedetto Cotrugli, nato nel Quattrocento
L’etica del capitalismo non è protestante, la inventò un italiano
di Daniele Manca


Di regali il Rinascimento ne ha fatti parecchi all’Italia e al mondo occidentale. Ma solo negli ultimi mesi anche l’economia e gli affari stanno scoprendo che gli debbono qualcosa in più. Non tanto e non solo per la partita doppia che Luca Pacioli delineerà in maniera compiuta nel suo Summa de arithmetica, geometria, proportioni et proportionalità nel 1494. Ma per un altro libro, precedente, la prima opera del genere chiamato in inglese how to do . Un manuale di business. Come fare il mercante iscrivendo però la professione in un’architettura di princìpi, di valori, di dedizione. Quell’etica del capitalismo che possiamo pensare abbia avuto origine proprio da un manoscritto del 1458 pubblicato a Venezia solo nel 1573 a firma di Benedetto Cotrugli.
Il Libro del’arte de la mercatura è stato tradotto quest’anno in inglese da John Francis Phillimore e pubblicato dalla prestigiosa Palgrave Mc Millan: The Book of the Art of Trade . Se n’è parlato a Venezia lo scorso febbraio. Ca’ Foscari e il suo ex rettore Carlo Carraro, assieme al banchiere Fabio Sattin che ha fatto da trait-d’union con Dante Roscini, docente a Harvard, e uno dei maggiori storici viventi, Niall Ferguson, sono idealmente le persone attorno alle quali il fenomeno Cotrugli è andato affermandosi. Tanto da sbarcare alla prestigiosa università di Boston lo scorso ottobre e sulla prestigiosa rivista «Harvard Working Knowledge» a fine novembre.
Comprensibile l’attenzione. La domanda dalla quale sono partiti gli studiosi è semplice: come è possibile che un mercante italiano (le sue origini sono a Dubrovnik, al tempo chiamata Ragusa), del XV secolo possa insegnare qualcosa agli imprenditori di oggi, ai businessmen ? La risposta è nella storia stessa di Cotrugli, che si ritrova a dover fare il mercante mentre stava studiando all’Università di Bologna. Entrando nel mondo del commercio lo trova disorganizzato, senza una vera cultura, indisciplinato, preda di uomini che, incuranti delle leggi e delle regole, pensano solo a come arricchirsi.
Nel libro, diviso in quattro parti, si descrive invece un nuovo tipo di mercante. Capace di essere generoso con i poveri come lontano dalla politica. «Generalmente con nessuna corte non è conveniente al mercante impicciarsi et macime d’avere magistrati o administrationi, perché sono cose periculose, et quelli tali non sono di ragione da essere reputati mercanti, ma offitiali», scrive Cotrugli. Una professione da esercitare con onore, integrità, diligenza. E sebbene siano necessarie astuzia e scaltrezza, con queste non si deve esagerare.
Anche la successione deve essere preparata con cura e guidata dalla meritocrazia. I figli dovranno avere tutori che insegnino loro l’arte e facciano capire princìpi come quelli sul denaro. «Al tuo figliol non lasci maneggiar danari fino a che cognoscha che cosa è il danaro et quanto val, et con quanta fatica si guadagna», scrive il mercante filosofo. Come ha spiegato Roscini alla rivista di Harvard «ci sono concetti che rimandano alla corporate social responsibility e alla responsabilità verso la comunità». Concetti che solo qualche secolo più tardi faranno capolino tra le riflessioni sul capitalismo e i suoi fondamenti.

La Stampa 27.12.17
Missione militare italiana in Niger
Domani il via libera per 470 soldati
di Francesco Grignetti


L’arrivo di nuovi barconi, in questo scorcio finale di 2017, non stupisce più di tanto il ministero dell’Interno. Se la rotta libica nella seconda metà dell’anno è stata drasticamente ridimensionata, non si è però mai chiusa del tutto. Basta scorrere i numeri degli arrivi: 11.461 a luglio, 3.920 ad agosto, 6.282 a settembre, 5.984 a ottobre, 5.641 a novembre, 1.872 al 22 dicembre. In totale, 35.163 arrivi contro 111.214 nello stesso periodo del 2016.
La Dottrina Minniti funziona soprattutto perché sono diminuiti i passaggi attraverso il deserto. «Siamo riusciti a impedire che la Libia diventasse un collo di bottiglia», spiegava nei giorni scorsi. Merito di un lavoro coordinato con i colleghi di Ciad, Mali, Burkina Faso e Niger.
A proposito di Niger: domani il consiglio dei ministri ufficializza una nuova missione militare in quel Paese, che passerà gradatamente da 120 fino a 470 soldati. Apparentemente sarà una missione solo italiana di addestramento alle forze di sicurezza locali, ma di fatto sarà un impegno multinazionale visto che si inserisce in uno sforzo europeo (con francesi e tedeschi) e uno africano (a beneficiare del training e dei rifornimenti saranno all’inizio solo i nigerini, ma è previsto un allargamento alle forze di sicurezza di Mali, Ciad, Burkina Faso e Mauritania).
Scopo della missione, aiutare le forze locali a controllare il proprio territorio. Non basta più pattugliare il Mediterraneo, infatti. O impegnarsi per la stabilizzazione della Libia. «Il lavoro - ha spiegato il premier Paolo Gentiloni nei giorni scorsi - deve continuare, concentrando l’attenzione e le energie sul mix della minaccia del traffico di essere umani e il terrorismo nel Sahel».
Resta lo scandalo dei centri di detenzione in Libia. Le Nazioni Unite si sono impegnate a svuotarli prestissimo con rimpatri assistiti verso i Paesi di origine o con accoglienza all’estero per chi ha diritto all’asilo. Di qui il numero di 10.000 persone vulnerabili (con timbro Unhcr) che i Paesi Ue promettono di accogliere attraverso i «corridoi umanitari». Ma il piano è tutto sulla carta. La nuova Austria di estrema destra, per dire, è già sulle barricate.
E non c’è solo il corridoio che passa per la Libia a portare i migranti in Europa. Frontex, braccio operativo della Ue per la difesa dei confini, segnala che si è rivitalizzata la rotta del Mediterraneo occidentale che porta in Spagna (3.900 arrivi a novembre) e quella del Mediterraneo orientale con sbocco in Grecia (3.700 persone).

Corriere 27.12.17
Sinistra divisa sulla missione, critica anche la Lega
Scontro sui soldati in Niger
Calenda: «Occorre una nuova Costituente, le riforme non vanno fermate»
di Lorenzo Salvia e Fiorenza Sarzanini


L’ invio dei militari italiani in missione nel Niger è l’occasione di un nuovo litigio con la sinistra. «Un brutto regalo» commenta Liberi e uguali che accusa il ministro Marco Minniti di «non aver brillato per trasparenza». Critica anche la Lega. Il cambio di strategia voluto per accrescere il peso del nostro Paese in Europa. Il ministro dello Sviluppo Carlo Calenda in un’intervista al Corriere chiede «una Costituente».

ROMA Ministro Carlo Calenda, che voto darebbe alla legislatura che sta per finire?
«Non spetta a me dare voti. Avevamo due grandi emergenze, quella economica e quella istituzionale. Sul primo versante il bilancio è positivo per merito di tanti fattori: la Bce, la capacità di reazione delle imprese italiane ma anche la politica economica dei governi Letta, Renzi, Gentiloni che ha ridotto il deficit liberando risorse per la crescita. I problemi non sono alle nostre spalle, ci vorranno anni per comporre le fratture sociali ed economiche della grande crisi. Ma i governi di questa legislatura, primo fra tutti quello Renzi, hanno fatto molto di più per la crescita dell’insieme degli altri governi della Seconda Repubblica».
E sull’altra emergenza, invece, quella istituzionale?
«Abbiamo perso la sfida della costruzione di un sistema più forte ed efficiente. Ritengo questo nodo fondamentale in uno scenario internazionale pieno di incertezze. La sicurezza nazionale viene messa a rischio da un sistema che rallenta l’implementazione delle decisioni, favorisce il prosperare di particolarismi e ci trasforma nella Repubblica dei ricorsi al Tar e dei feudi locali. La prossima legislatura dovrà avere al centro questo tema, diventato tabù dopo il referendum. Forse la strada giusta, per aumentare il coinvolgimento dei cittadini, potrebbe essere quella di un’assemblea costituente».
Addirittura. E perché?
«È l’unico modo per aprire in maniera ordinata la Terza Repubblica invece di subire la dissoluzione caotica della Seconda. Serve un luogo per affrontare le pulsioni diverse emerse dal referendum costituzionale e da quelli di Lombardia e Veneto. Un luogo per porre fine alla kermesse delle leggi elettorali estemporanee, ridisegnare il rapporto tra esecutivo e legislativo, per affrontare il tema di una democrazia efficace, che peraltro affiora in tutti i Paesi occidentali».
La cosa più importante che ha fatto come ministro?
«Industria 4.0, il piano Made in Italy e la Strategia energetica nazionale sono stati i tre pilastri dello sviluppo. I dati sulla produzione industriale, sugli investimenti privati e sulle esportazioni confermano che la strada è quella giusta. Ma se questo è il “gioco d’attacco” sono altrettanto orgoglioso di quello che abbiamo fatto per i settori industriali in difficoltà con una politica commerciale più forte contro il dumping, il rafforzamento del golden power contro gli investimenti predatori e il lavoro sulle crisi industriali, dall’Alcoa al protocollo contro le delocalizzazioni dei call center. Siamo riusciti a riportare al centro l’industria e il lavoro e questo era il mio obiettivo politico».
E la cosa più importante che invece non siete riusciti a fare?
«Come ministro, il ritardo nella costruzione di quello che dovrebbe essere il nostro Fraunhofer (la rete tedesca degli istituti di ricerca applicata per le imprese, ndr ), rimasto per un anno in balia delle “navette” tra ministeri e organi di controllo. E poi non aver avuto il tempo di presentare una seconda legge sulla concorrenza più incisiva dopo la prima approvata con anni di ritardo. Per i governi nel loro insieme, abbiamo mancato l’obiettivo di sconfiggere il rancore e la sfiducia nel futuro, ancora troppo diffusi nel Paese. Anche per colpa di molti errori di comunicazione che hanno dato il senso di un distacco con la parte del Paese che ancora soffre.
Sulla vendita di Alitalia è vero che state stringendo con Lufthansa?
«Abbiamo tre offerte. Le valuteremo con molta attenzione e a metà gennaio inizieremo la negoziazione in esclusiva».
D’accordo, ma la compagnia tedesca è in vantaggio rispetto a easyJet e al Fondo americano Cerberus oppure no?
«Ripeto, abbiamo tre offerte. Il nostro obiettivo è raggiungere un accordo prima delle elezioni. Oggi Alitalia è gestita meglio e finisce l’anno avendo lasciato sostanzialmente intatto il prestito ponte. Ma è un’azienda fragile che non può sopravvivere da sola attingendo illimitatamente al denaro pubblico».
E sull’Ilva? C’è il rischio che il compratore, ArcelorMittal, si ritiri?
«Non lo so. Ha chiesto garanzie sugli investimenti allo Stato per tutelarsi nel caso in cui i ricorsi al Tar invalidino tutto, magari fra due anni. È inaudito: 5,3 miliardi di euro per un investimento industriale nel Sud non si vedevano da 40 anni. Ma la cosa incredibile è che nel merito del piano ambientale non ci sono osservazioni rilevanti»
Be’, con il governatore della Puglia Michele Emiliano ormai siamo allo scontro quotidiano.
«Nell’ultimo incontro abbiamo rivisto punto per punto le richieste di Comune e Regione, in larghissima parte accettate, a partire dall’anticipo della copertura dei parchi minerari. Nel giro di poco più di 24 mesi Ilva potrebbe diventare la migliore acciaieria europea, liberando una città ostaggio del dilemma salute/lavoro che non è degno di un Paese civile. Il sindaco mi ha chiesto garanzie per ritirare il ricorso. Gli ho proposto di firmare con istituzioni, investitore, parti sociali un accordo di programma. Spero davvero che prevalga quella responsabilità invocata da tutti i sindacati, oltre che da Gentiloni».
Ha detto più volte che alle prossime elezioni non si candiderà. Non glielo chiedo di nuovo. Ma, da cittadino, chi voterebbe?
«Il mio campo è quello del centrosinistra. Del resto ho servito, e ne sono orgoglioso, sotto tre presidenti del Partito democratico che in modi diversi hanno mostrato qualità e capacità. Guardo con grande interesse all’operazione di Emma Bonino, è fondamentale che l’alleanza con il Pd vada in porto. Ma sopratutto mi batterò perché il centrosinistra recuperi il linguaggio della realtà e della responsabilità contro quello della fuga dalla realtà dei 5 Stelle e della Lega. La prossima legislatura è molto pericolosa».
Pericolosa? E perché?
«La fine degli stimoli della Bce, un’Eurozona orientata a minore flessibilità, l’Occidente sempre più diviso e il Mediterraneo tornato al centro delle crisi. Non è tempo di rottamazioni, slogan e leadership solitarie ma di costruire un ampio fronte liberal democratico capace di mettere in sicurezza il Paese mentre attraversa il più difficile crocevia nella storia del Dopoguerra».
ROMA L’obiettivo è indicato nel decreto che sarà approvato dal Consiglio dei ministri: «Rafforzare le capacità di controllo del territorio delle autorità nigerine e dei Paesi del G5 Sahel (Niger, Mali, Mauritiana, Chad e Burkina Faso) e lo sviluppo delle Forze di sicurezza nigerine per l’incremento di capacità volte al contrasto del fenomeno dei traffici illegali e delle minacce alla sicurezza». È dunque la lotta agli schiavisti e ai fondamentalisti dell’Isis lo scopo primario della missione militare annunciata alla vigilia di Natale dal premier Paolo Gentiloni e dalla ministra della Difesa Roberta Pinotti per l’invio di soldati in Niger. Un impegno concordato oltre un mese fa con il presidente francese Emmanuel Macron che si inserisce in una nuova tattica politica sul piano internazionale: concentrarsi in quelle aree ritenute di «prioritario interesse strategico» e dunque il cosiddetto Mediterraneo allargato, dunque Africa del nord, Sahel, Medio Oriente, Corno d’Africa e Paesi del Golfo. E dunque rimanere in coalizione con Parigi e Berlino proprio per avere un ruolo attivo in Africa e dunque essere interlocutore privilegiato in sede europea.
I tempi
Dopo il via libera del governo il decreto dovrà essere ratificato dal Parlamento. Negli anni scorsi è capitato che il voto sulle missioni slittasse tra febbraio e marzo, ma poiché la legislatura è ormai al termine in questo caso bisognerà procedere in fretta e dunque è possibile che venga calendarizzato già a metà gennaio. Si procederà in base all’articolo 61 della Costituzione sugli «atti urgenti e indifferibili». Saranno prorogate le missioni già in corso e si aggiungerà quella per l’invio del contingente in Niger.
I 470 soldati
I primi a partire saranno i militari del Genio che si occuperanno del quartier generale e delle altre necessità primarie. Sono 120 i soldati inseriti nel primo contingente che dovrebbe stabilirsi nel Sahel entro i primi di marzo, mentre per la fine dell’anno si arriverà «fino ad un massimo di 470 unità, per una media di impiego di circa 250 unità. L’Esercito schiererà «addestratori, sanitari, genio militare, unità di supporto, unità di protezione». I mezzi terrestri a disposizione saranno 120 oltre a due aerei da ricognizione. Lo Stato maggiore sta analizzando ogni necessità in accordo con gli altri Stati che già si trovano nell’area, vale a dire Stati Uniti, Francia, Germania e i Paesi africani.
La tattica
Le resistenze dei comandi militari hanno finora impedito che si decretasse il ritiro del contingente dall’Iraq, ma la questione rimane aperta. E infatti all’invio dei soldati in Niger si affiancherà il progressivo rientro di quelli che sono tuttora impegnati in Afghanistan e gli altri che si occupano della sorveglianza della diga di Mosul. Anche tenendo conto che quella zona può diventare rischiosa per lo scontro tra forze governative e peshmerga. Nei colloqui avuti con Francia e Germania è stato ribadito come la scelta di andare in Sahel entrando a far parte di quella coalizione si trasforma «nel primo sviluppo di una concreta strategia di difesa europea».

Roma Quello di domani sarà il Consiglio dei ministri numero 65 della XVII Legislatura. L’ultimo del governo Gentiloni. Servirà per decidere l’invio di 470 soldati italiani in Niger. Una missione, ha detto il premier Paolo Gentiloni, «per sconfiggere il traffico di esseri umani e il terrorismo», perché «l’Italia ha l’obiettivo di costruire dialogo, amicizia e pace nel Mediterraneo e nel mondo».
Sarà l’ultimo atto del governo, ma rischia di trasformarsi anche nell’ennesimo scontro all’interno della sinistra, con Liberi e uguali che parla di «brutto regalo sotto l’albero» e accusa il ministro dell’Interno Marco Minniti di «non aver brillato per trasparenza».
Domani Gentiloni terrà anche la tradizionale conferenza stampa di fine anno e concluderà così il suo esecutivo. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella si avvia a sciogliere le Camere già domani pomeriggio, il che prelude alla fine della legislatura e all’indizione di nuove elezioni. Il 4 marzo è la data più probabile visto che, per la Costituzione, «le elezioni delle nuove Camere hanno luogo entro settanta giorni dalla fine delle precedenti».
Fino ad allora però, il governo Gentiloni dovrebbe restare in carica per gli affari correnti, tra cui anche il voto del Parlamento sulle truppe italiane in Niger. Una scelta dell’ultimo minuto che però non piace a molti. «Non serve» per il vicepresidente del Senato Roberto Calderoli (Lega) che invita il governo a «usare quei soldi per pattugliare i nostri territori e mari». Mentre Pippo Civati e Andrea Maestri di Liberi e uguali parlano di «brutto regalo sotto l’albero di Natale», senza «una discussione seria e approfondita su una questione così importante di politica estera». I 5 Stelle definiscono «priorità la lotta ai trafficanti» ma «senza sviluppo sarebbe azione sterile» e perciò «aspettiamo di conoscere le regole di ingaggio dei nostri militari».
In tutto ciò si inserisce la questione sullo Ius soli, il cui esame al Senato è saltato il 23 dicembre per mancanza del numero legale. Il presidente Grasso lo ha calendarizzato il 9 gennaio, ma di fatto ne è stata decretata la morte, visto che le Camere si scioglieranno prima. E se Lega e Forza Italia esultano, Mdp accusa il Pd di «scelta politica: ha tenuto ferma la legge sulla cittadinanza per paura di perdere consensi». E Avvenire , quotidiano dei vescovi, sentenzia: «Scelta da ignavi».

Il Fatto 27.12.17
Effetto Etruria, nei sondaggi il Pd crolla ai minimi storici
Fine legislatura - Domani Mattarella può già sciogliere le Camere, la campagna elettorale inizia con Renzi ben sotto la “soglia Bersani”: i dem sono attorno al 23%
Effetto Etruria, nei sondaggi il Pd crolla ai minimi storici
di Tommaso Rodano


Negli ultimi giorni della legislatura il Partito democratico tocca forse il punto più basso della sua storia. A leggere i sondaggi pubblicati nei giorni di Natale, non è più solo un lontano ricordo il famoso 41% delle Europee del 2014 (che Matteo Renzi ritiene di aver eguagliato – perdendo – nel referendum costituzionale dell’anno scorso), ma pure la soglia del 25,4% del Pd di Bersani nelle Politiche del 2013.
Domani il presidente della Repubblica Sergio Mattarella dovrebbe firmare lo scioglimento delle Camere (malgrado le tenui speranze di chi chiede un ultimo colpo di coda sullo ius soli). E forse già domani il Consiglio dei ministri, che si riunisce per la discussione sulle missioni militari, potrebbe scrivere il decreto che fissa le prossime elezioni al 4 marzo.
Il Pd inaugura malissimo la campagna elettorale: nell’ultimo anno la flessione è stata praticamente inesorabile. Il 2017 è iniziato con le ferite ancora fresche del referendum, è proseguito con la scissione di Bersani e Mdp, la nuova incoronazione di Renzi nelle primarie di fine aprile, la sconfitta nelle Amministrative di giugno e poi nelle Regionali siciliane di novembre. Si sta chiudendo, infine, con la batosta Etruria nella commissione parlamentare sulle banche. In ogni passaggio, eccetto le primarie, la lenta erosione delle percentuali dei dem è stata consequenziale ai fatti.
Gli ultimi numeri, per le ambizioni di Renzi, sono i più pesanti di sempre. Arrivano dall’istituto Ixé, li ha pubblicati il sondaggista Roberto Weber sull’Huffington Post. Il partito a guida toscana tocca il suo nuovo minimo: 22,8%. La rilevazione precedente era datata 6 dicembre (23,1%), da allora sono andati perduti altri tre decimali.
A fare impressione, nella ricostruzione di Weber, è la serie storica: da luglio a oggi il Pd ha lasciato sul campo quasi 5 punti percentuali (27,5 – 22,8%), oltre un milione e mezzo di voti potenziali. Nello stesso periodo il Movimento 5 Stelle è cresciuto dal 27 al 29% e il centrodestra nel suo complesso dal 33,2 al 36,6% (con una flessione della Lega e una risalita di Forza Italia). Si arresta, per Ixé, la crescita di Liberi e Uguali, la nuova lista di sinistra guidata da Pietro Grasso (dal 7,5 del 6 dicembre all’attuale 7,3%).
In linea con queste cifre anche il sondaggio realizzato da Tecné per Tgcom24. Anche qui il Pd si allontana dalla “soglia Bersani” delle ultime Politiche: il partito di Renzi è al 23% e nell’ultimo mese avrebbe perso oltre un punto percentuale (a novembre era al 24,2). La coalizione di centrodestra (Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia e cespugli) sfiora il 40% (38,5) e sopperisce anche alla netta flessione del partito di Salvini (in un mese passa dal 15,8 al 14,1%). I Cinque Stelle perdono mezzo punto e scendono al 26,9. Balzo in avanti di Liberi e Uguali, la lista di Grasso, dal 5,4 al 7,9%. Tecné ha studiato anche “l’effetto Etruria”: per il 65,7% degli intervistati, le recenti rivelazioni su Maria Elena Boschi hanno dato un’immagine negativa dell’ex ministra; si tratta di “ingerenza politica” e “conflitto d’interessi” (un’idea condivisa anche da parte degli elettori del Pd, il 21% degli interpellati).
Per il presidente di Tecné Carlo Buttaroni (intervistato da ilsussidiario.net) il legame tra Renzi e gli ex elettori si è incrinato in modo irreversibile: “È facile costruire un rapporto quando non c’è un pregresso, perché si costruisce senza macerie. Ma quando si rompe la fiducia, come nei rapporti senimentali, danno fastidio anche i tentativi di riconciliazione”. E l’incidenza del caso Etruria è ancora più grave, “va oltre il caso specifico, quello delle banche coinvolte nei fallimenti”.
I riflessi dell’affaire Boschi sono stati rilevati anche dall’Istituto Piepoli in un sondaggio pubblicato su La Stampa il 22 dicembre: secondo il 47% del campione, la sottosegretaria “dovrebbe ritirarsi dalla vita politica” in seguito alle novità emerse dalla commissione d’inchiesta sulle banche. Solo per un intervistato su quattro (il 25%) Maria Elena Boschi dovrebbe andare avanti (questa percentuale ovviamente è molto più alta – 60% – tra gli elettori del Pd). Ma per Nicola Piepoli, presidente dell’istituto omonimo, l’effetto Etruria “è marginale”. Il vero problema di Renzi è la frattura a sinistra: “Ora che ha un leader riconoscibile e apprezzato come Grasso, il partito di chi ha fatto la scissione raccoglie percentuali importanti per un mercato sempre più esiguo come quello del centrosinistra”. “Bisogna allearsi con i propri simili, non combatterli”, conclude il sondaggista, “la guerra la vince chi non la fa”.

Il Fatto 27.12.17
E la (imbarazzante) Boschi dove la metto? Il giro d’Italia dei collegi per paracadutarla
Da noi no! - Da Arezzo a Ercolano, dalla Basilicata al Trentino: un incerto pacco elettorale
di Lorenzo Vendemiale


Da Arezzo a Firenze, passando per Lazio, Basilicata o Trentino Alto Adige, per approdare a Pompei o magari a Lucca: Maria Elena Boschi è diventata un “pacco elettorale” e la sua ricandidatura in Parlamento si sta trasformando in una specie di Giro d’Italia.
Dopo le ultime rivelazioni nella commissione d’inchiesta sulle banche, il Pd non sa più dove piazzare la sottosegretaria alle prossime elezioni. La collocazione naturale sarebbe la “sua” Toscana, che però si è fatta piuttosto inospitale per il caso Etruria. Così i vertici dem stanno pensando di spedirla altrove. Fedelissima di Renzi, paladina della riforma costituzionale bocciata dai cittadini e con l’immagine acciaccata dalle manovre bancarie (ma “senza pressioni”, per carità), Boschi in questo momento rappresenta un bel rompicato per il Partito democratico: impossibile scaricarla, ma difficile trovarle un posto.
Al Nazareno, sul suo conto, c’è quasi un alone di mistero: da Renzi a Gentiloni, i big hanno assicurato che “sarà ricandidata”. Nessuno, però, ha specificato dove, né tantomeno come: un paio di settimane fa la diretta interessata aveva detto in televisione, ospite di Otto e mezzo su La7: “Mi auguro che sia in Toscana”. Ma si trattava solo di un auspicio: in via ufficiale neanche un vago indizio su come succederà, se correrà sia nel maggioritario che nel proporzionale e in quale Regione o provincia. E così fioccano le indiscrezioni, si moltiplicano le ipotesi di listini e collegi più o meno blindati per l’ex ministra.
Già a inizio novembre, sulla stampa e a palazzo, era stato immaginato lo scenario di una Boschi candidata nel Lazio, magari proprio a Roma, comunque lontana dalla Toscana e dalle banche a cui tanto da vicino è stata associata di recente. E ancora non erano emersi tutti i dettagli sulla sua sollecitudine nel tentativo di salvare la banca del territorio (e cara al papà). Da allora è stato un continuo girovagare, in cerca della poltrona giusta. A dicembre sembrava quasi certa la sua corsa in Campania, nel collegio di Ercolano, sotto l’ala protettrice del sindaco Ciro Bonajuto, suo grande amico e campione del renzismo. Altri, invece, prevedevano una sfida diretta a Luigi Di Maio a Pomigliano, casa del leader del Movimento 5 Stelle.
Un azzardo forse troppo grosso. Per questo è saltata fuori la strada che porta nella Basilicata dei fratelli Pittella o addirittura in Trentino Alto-Adige: qui, tra Bolzano e la Bassa atesina, avrebbe potuto esserci un posto sicuro. Peccato che l’idea non sia piaciuta per nulla agli autonomisti di Svp, che rivendicano quei seggi per i parlamentari altoatesini: contro di lei è partita persino una raccolta firme tra gli attivisti locali per rispedire al mittente il “pacco Boschi”. Così negli ultimi giorni si è tornati a parlare di una candidatura in Toscana: la sua Arezzo, ovviamente, oppure Firenze, fortino di Matteo Renzi. L’ultima idea in ordine di tempo è Lucca, collegio abbastanza sguarnito dal centrodestra che, secondo La Verità, sarebbe stato suggerito da Denis Verdini; Forza Italia è pronta a rispondere schierando Deborah Bergamini, responsabile comunicazione degli azzurri.
La scelta del collegio, comunque, rappresenta solo metà del problema. Visto il crollo nei sondaggi e le proiezioni negative sulla conquista dei collegi maggioritari, il modo più facile per assicurare la rielezione della Boschi (come degli altri big del partito), è quello del listino proporzionale, che garantisce al Pd dei posti sicuri in ogni collegio plurinominale.
Insomma, a meno che non sia proprio lei a decidere di giocarsi tutto nella sfida in un collegio maggioritario, alla fine Boschi avrà il suo paracadute e resterà deputata. Anche per il proporzionale ci sono le ipotesi più disparate: dalla solita Toscana alla Lombardia, dalla Campania alla Sardegna. O forse tutte (il limite è 4).

Il Fatto 27.12.17
I Radicali spaventano Renzi: “Aiutateci o corriamo da soli”


È una delle poche liste rimaste a sostegno di Renzi, dopo la fuga della sinistra e il ritiro di Pisapia. Ora il Pd rischia di perdere anche i Radicali, stavolta per un problema meramente tecnico e non politico: per presentare la lista “+Europa con Emma Bonino”, il partito ha bisogno di raccogliere le firme, ma con le norme attuali avrebbe solo nove giorni di tempo per farlo. Troppo poco. Così il segretario Riccardo Magi minaccia di non far parte della coalizione: “Andare da soli è l’unica possibilità per essere presenti alle elezioni”, spiega. “Noi siamo tra i pochi a non avere esenzioni e dover raccogliere le firme. Tuttavia, la legge stabilisce che gli apparentamenti per i collegi uninominali vengano presentati il 20 gennaio, ma il termine della presentazione delle firme è fissato per il 29”. Per evitare questo scenario, Magi chiede un intervento sulle regole: “Crediamo che il solo modo di evitare tale disparità sia tutte le liste coalizzate indichino i candidati con le modalità previste per le liste esonerate dalla raccolta firme”. La deroga, però, non è ancora arrivata. E così i Radicali avvertono: “Purtroppo, dopo gli appelli a Mattarella e a Gentiloni, non avendo ricevuto chiarimenti, a oggi siamo costretti ad andare da soli”.

Republica 27.12.17
La coalizione dem
Bonino e il Pd vicini alla rottura “Non facciamo alleanze al buio”
La legge obbliga i Radicali a raccogliere le firme prima che siano ufficiali gli apparentamenti “Se non c’è un chiarimento correremo da soli”
di Silvio Buzzanca


Roma «Nella legge elettorale c’è un baco, una contraddizione interna che non ci permette di fare l’apparentamento con il Pd. Dal 3 gennaio, in assenza di un chiarimento, cominceremo a raccogliere le firme per correre da soli » . Riccardo Magi è il segretario di Radicali italiani che insieme a “+ Europa” di Benedetto Della Vedova hanno dato vita alla lista “+Europa con Emma Bonino”.
Lista che doveva essere uno dei petali delle alleanze del Pd, che rischia però di fare la fine di Campo progressista di Giuliano Pisapia, lasciando piuttosto solo Matteo Renzi alle elezioni.
La questione ha apparentemente un sapore molto tecnico, il “baco” di cui parla Magi. Ma nasconde più di un problema politico e sostanzialmente una mancanza di fiducia da parte radicale nei confronti del Pd.
Tutto parte dalla nuova legge elettorale dove sono previsti gli apparentamenti nella parte proporzionale. Il termine per dichiarare queste “alleanze”, in caso di voto il 4 marzo scadrebbe il 20 gennaio. Il termine per la presentazione delle firme nei collegi proporzionali scadrebbe invece il 29 gennaio. Dunque in caso di fallimento di un accordo fra Pd e radicali all’ultimo minuto questi avrebbero solo nove giorni per raccogliere le firme e correre da soli.
In pratica Bonino e Magi temono di restare in mezzo al guado, senza apparentamento e senza liste. E siccome le firme le devono raccogliere ugualmente pensano di farlo per andare da soli. Bonino e gli altri parlano così di « legge elettorale anticostituzionale, discriminatoria».
Ma indicano anche una via di uscita, il “ chiarimento”, invocato da Magi: «Stabilire che l’indicazione dei candidati nei collegi uninominali di una coalizione avvenga, per tutte le liste coalizzate, secondo i tempi e con le modalità previste per le liste esonerate dalla raccolta firme » . Così tutti correrebbero alla pari.
Che è quello che poi Bonino, Magi e Della Vedova sono andati a chiedere nei giorni scorsi a Sergio Mattarella e Paolo Gentiloni. Il presidente della Repubblica ha capito il problema e ha anche convenuto sul fatto che questa parte della legge crea una discriminazione fra le liste.
Così nei giorni convulsi dell’approvazione della legge di Stabilità erano venuto fuori anche un ordine del giorno e un emendamento che sanava la situazione. Ma è saltato perché il forzista Renato Brunetta e la Lega hanno fatto il diavolo a quattro, per evidenti problemi di cassetta elettorale, e alla fine sono riusciti ad affossare tutto. Dunque problemi tecnici e problemi politici si mischiano. Qualcosa che può essere catalogato sotto la voce “ mancanza di fiducia”. Soprattutto da parte della Bonino e dei suoi radicali che, magari, attendono una mano da parte di un Pd ricco di potenziali autenticatori per la raccolta delle firme.
Ma soprattutto manca la fiducia su una raccolta di firme al “buio”, senza una trattativa vera sui collegi uninominali e i listini del proporzionale. Dunque “+Europa con Emma Bonino” dovrebbe attendere che il Pd assegni i collegi e i posti sicuri al suo nterno. Una scelta che, secondo voci, dovrebbe avvenire in Direzione fra il 15 e il 20 gennaio. Troppo tardi e rischioso per la Bonino che dice ai suoi: « Non posso ballare il tango con qualcuno che vuole ballare il twist e aspettare pure fino al 20 gennaio».

il manifesto 27.12.17
Da una guerra «umanitaria» all’altra
Italia in Africa. No allo ius soli, sì a una nuova avventura militare. L'annuncio della nuova missione militare in Niger.
di Tommaso Di Francesco


Da una guerra «umanitaria» all’altra. La scia nefasta non si ferma. Nemmeno a Natale, nemmeno per le feste. Così il presidente del Consiglio Gentiloni, ex pacifista – insieme all’altra ex pacifista, la ministra della difesa Pinotti – proprio dal ponte di una nave militare ha annunciato l’ennesimo intervento militare mascherato da soccorso umanitario. Dove? Siccome abbiamo sconfitto il jihadismo dell’Isis a Mosul, sposteremo quelle truppe nell’Africa sub-sahariana, per fermare «i flussi dei migranti e il terrorismo». A Mosul i bersaglieri ufficialmente proteggevano la diga di Mosul e gli investimenti lì dell’impresa italiana del gruppo Trevi (famosa per i rcenti crolli in borsa). A Mosul l’estremismo jihadista, la cui origine deriva dalla distruzione dello Stato iracheno per effetto di tre guerre occidentali – del terrore provocato da queste guerre si preferisce tacere -, lascia sul campo il corpo dilaniato dell’Iraq in un conflitto intestino che ancora brucia.
La frontiera del sud-Sahara è lunga più di 5mila chilometri, più che impossibili da controllare, più che permeabili alle fughe dei disperati dall’Africa in generale e dal Sahel in particolare; da quell’Africa dove divampano 35 guerre e dove il nostro modello di rapina depreda le risorse e per farlo unge le corrotte leadership locali (dalla Nigeria al Niger, dal Mali al Ciad al Burkina Faso, ecc.).
In questa situazione il governo che si avvia a chiudere i battenti, dentro una legislatura finita, annuncia l’invio di centinaia di soldati italiani, facendo perfino trapelare la possibilità – e sarebbe la vergogna delle vergogne – che sulla missione, della quale non sappiamo nemmeno il costo e chi la pagherà, si voti subito. Insomma, no allo ius soli ma sì ad una nuova avventura militare africana.
Come se quella in Libia del 2011 non si fosse dimostrata insieme fallimentare e generatrice del disastro che ne è seguito e del quale vediamo le conseguenze ogni giorno, nelle morti a mare e nelle guerre mediorientali che non finiscono. Dobbiamo però stare tranquilli dicono i generali che già prendono armi e parole: sarà una missione «no combat». Ma che senso hanno regole d’ingaggio affidate alla televisione e che presentano i militari italiani come «addestratori», quando in loco – in Niger – invece già si combatte duramente e da tempo, come dimostra la recente uccisione proprio in Niger – con tanto di polemica tra le famiglie delle vittime e uno sprezzante Donald Trump – di quattro marines delle forze speciali Usa?
Naturalmente «addestrarli» – facendo un favore al neocolonialismo francese di Macron che in Niger è di casa – vuol dire «aiutarli a casa loro», aiutarli a rinfocolare la guerra che alimenta il circolo vizioso delle stragi, delle fughe e dei profughi. Per le quali c’è una svolta: una sorta di Concordato sulle migrazioni.
È stato in questi giorni l’altro campione governativo, il coloniale Minniti che ha ricevuto, insieme al benedicente cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei) l’arrivo di 162 migranti salvati con un corridoio umanitario «legale» dai centri di detenzione in Libia, indicando anche che potrebbero essere 10mila i migranti che potranno arrivare in Europa regolarmente dai campi e dalle carceri libiche, con la garanzia dell’Unhcr, che verificherà in Libia chi ha diritto alla condizione di rifugiato e chi no, e della Conferenza episcopale italiana; e poi, secondo gli obiettivi attribuiti all’Organizzazione mondiale dei migranti (Oim), dovrebbero essere invece 30mila i migranti giudicati senza diritto d’asilo, che dovranno tornare a casa con rimpatri «volontari».
Onestamente, siamo davvero contenti per i primi arrivati, i 162 liberati dalle condizioni di detenzione in Libia, e davvero felici per l’annuncio dei, forse, 10mila nel 2018 – meno invece per i 30mila già previsti come «ricacciati» a casa. Ma perché intanto il governo italiano ha contribuito a chiudere la rotta del Mediterraneo intrappolando in Libia da 700mila a un milione di persone – dalle stime della stessa Onu?
Perché, per un esodo che è epocale, abbiamo criminalizzato le Ong che soccorrono sulle coste libiche i migranti? Perché li abbiamo consegnati al controllo delle cosiddette autorità libiche, le stesse che dovrebbero garantire la svolta natalizia-concordataria di Minniti, e che invece continuano a non controllare alcunché, in un Paese in guerra e in mano a centinaia di milizie che volta a volta si chiamano esercito governativo o guardia costiera, ognuna delle quali gestisce centri di detenzione e di tortura fin qui per conto nostro?
Di quell’Italia ormai capofila, con il Codice Minniti, dell’Unione europea sui migranti, mentre i Paesi europei a ovest si aprono a parole e a Est si chiudono minacciosi e razzisti con i muri, rifiutando perfino la misera ripartizione di un’accoglienza che invece dovrebbe essere epocale. Mentre scriviamo è stato salvato nella notte un barcone con 250 migranti, ma si teme per la sorte di altre due imbarcazioni di fortuna per ora pericolosamente disperse tra Libia e Canale di Sicilia.
Francamente, gli annunci del trio Gentiloni-Minniti-Pinotti risultano angusti e oscuri anche da un punto di vista elettorale. Così accontentiamoci del solo principio che avanza, anche quello fortunato per chi capita. È il principio della lotteria. Come per il migrante numero centomila sbarcato a Lampedusa prima dell’estate: grazie alla nascita miracolosa della piccola Miracle, avrà l’atto di nascita della figlia e quindi forse la possibilità di ottenere il diritto d’asilo.

il manifesto 27.12.17
L’«utilità», non marginale, di Donald Trump
Stati uniti. L’annuncio continuo del caos prepara il ritorno al neo-keynesismo militarista
di Enzo Modugno


Ma gli Stati Uniti sono in buone mani? C’è motivo di ritenere che il presidente Donald Trump, nonostante la cattiva stampa, stia invece realizzando le aspettative del mondo degli affari. Le sue decisioni, deplorate perché producono tensioni, sarebbero invece funzionali al buon andamento dell’economia. Potrebbe suggerirci questa conclusione un saggio di Paul M. Sweezy del 1960, Teoria della politica estera americana, che individuava le ragioni profonde della politica estera statunitense nella tendenza permanente dell’economia capitalistica alla depressione, che può essere superata da adeguati «stimoli esterni»: ma non eliminata in quanto tendenza perché la depressione riaffiora se diminuiscono questi stimoli. Tra questi è sempre disponibile una vasta spesa pubblica, preferibilmente militare perché quella civile lede molti interessi (il keynesismo militare è poi definitivamente prevalso col neoliberismo).
La pressione degli interessi di un capitalismo sempre sull’orlo di crisi devastanti reclama la corsa al riarmo – scrive Paul M. Sweezy – e il compito principale della politica estera diventa quello di offrirne le necessarie giustificazioni.
IL PRESIDENTE TRUMP sta eseguendo meglio di alcuni suoi predecessori questo importante compito. Infatti «tener viva la tensione internazionale» significa giustificare la spesa per le armi e ogni dollaro dato al Pentagono fa aumentare il Pil di circa tre dollari entro un anno e con effetto duraturo, come hanno concordemente dimostrato molti studi (tra gli altri anche quelli di Francesco Giavazzi e di Perotti e Blanchard, Working Paper n.7269). Una prospettiva irresistibile per un capitalismo sempre a un passo dalla crisi economica, che è il vero inconfessabile nemico che rode dall’interno l’impero.
KEYNESISMO MILITARE dunque, sul quale c’è, ma sembra che si stia perdendo, un patrimonio teorico che ha avuto inizio ben prima che lord Keynes gli concedesse questo nome, da Rosa Luxemburg ad Antonio Gramsci, e che poi è continuato da Kalecki a Sweezy a Joan Robinson, fino a riparare in Vaticano.
Può essere utile perciò un breve promemoria.
BERGOGLIO E ROSA LUXEMBURG. Il papa che va al fondo dei problemi, condannando la guerra ha parlato, unico leader al mondo, dei profitti derivanti dagli armamenti «che spiegano molti conflitti, compreso quello in Siria», rinnovando l’attenzione su quell’importante aspetto del militarismo che è la sua funzione economica. La cui prima analisi appunto si deve a Rosa Luxemburg, in un saggio del 1898 e in articoli e discorsi, 1913-1915, sul militarismo tedesco.
Bergoglio infatti è un gesuita e conosce i sacri testi suoi e i sacri testi del movimento operaio. Dunque Rosa Luxemburg, in polemica con Bernstein, con preveggente chiarezza, descriveva la funzione economica del militarismo come «una forza impulsiva, propria, meccanica, destinata a rapida crescita» perché le spese militari erano indispensabili al capitalismo: costituivano un mercato addizionale per assicurare alla produzione una nuova domanda più regolare, con un ritmo di sviluppo costante. «Il militarismo quindi rappresenta il più proficuo e imprescindibile tipo di investimento, promosso dagli stessi capitalisti tramite l’apparato parlamentare e la manipolazione operata dalla stampa». Rosa Luxemburg, che fu uccisa perché militante di un partito operaio, oggi sarebbe stata accusata di «complottismo»: si trattava invece di una lucida analisi di ciò che si sarebbe chiamato keynesismo militare, «il più proficuo investimento» che ha dominato il Novecento.
GRAMSCI. Un tema ripreso da Antonio Gramsci che nel 1917 denunciava «le trame dei seminatori di panico stipendiati dall’industria bellica che dalla guerra ci guadagna». Gramsci fu vittima del fascismo, ma oggi quegli «stipendiati» avrebbero accusato anche lui di «complottismo».
DIALETTICA DEL MILITARISMO. Se, da un lato, la funzione aggressiva del militarismo – che serve al dominio su mercati, risorse e campi di investimento e al dominio di classe interno – tende rapidamente alla vittoria e all’annientamento del nemico, d’altro lato invece la funzione economica del militarismo tende a prolungare lo scontro, evoca il nemico, lo sceglie, lo provoca, lo enfatizza, lo produce se non c’è: e questo, come ha scritto Paul M. Sweezy, è uno dei compiti principali della politica estera del governo Usa. Anche Alain Joxe, lo studioso francese di studi strategici, ha scritto: «La Corea del Nord è un caso raro, quindi diventa necessario, per rilanciare l’economia con la corsa agli armamenti e la guerra, produrre continuamente zone di intervento, e gli Usa procedono in tal senso». Col presidente Trump procedono sia la Guerra al Terrore – che ha sostituito la Guerra Fredda perché «qualcuno doveva pur fare il nemico» (Henry Kissinger) – sia la tradizionale tensione con la Corea del Nord che ha raggiunto livelli mai toccati prima.
LA FUNZIONE ECONOMICA del militarismo però si presenta come militare ma è militarmente priva di senso, produce un apparato bellico abnorme che oltrepassa ogni possibile esigenza strategica.
LA FUNZIONE MILITARE invece, nonostante l’esibizione del massacro, diventa inessenziale perché ha la sua verità nell’altra, è solo mimata, non tende alla soluzione ma alla continuazione del conflitto, come le interminabili guerre asimmetriche seguite alle guerre mondiali. Sulla guerra in Iraq ha scritto John Keegan, massimo storico militare inglese: «non poteva neanche chiamarsi guerra».
È IL CAPOVOLGERSI dell’economico e del militare, dell’essenziale e dell’apparente che si rivelano come le figure ricorrenti di un oscuro processo dialettico. È necessario rovesciarlo per scoprire il nocciolo economico entro il guscio militare. Troveranno la sintesi non nella vittoria ma nella guerra infinita, nell’esibizione di morte, insomma nella gestione militare del ciclo economico.
La versione ufficiale invece scompone di continuo questa totalità complessa, ne spezza artificialmente il divenire, esibendo ossessivamente la minaccia esterna, mostrando cioè un solo momento separato, estrapolato dal procedere della società capitalistica. Sono queste le fake news che governano il mondo, indispensabili alla sopravvivenza di questo modo di produzione.
JOAN ROBINSON. Come stanno le cose infine lo ha mostrato con chiarezza sulla New Left Review, anche Joan Robinson, economista tra i maggiori del ‘900: «Le recessioni non si possono evitare se non con le spese militari, e poiché per giustificare gli armamenti si deve tenere viva la tensione internazionale, risulta che la cura è peggiore del male»

La Stampa 27.12.17
Trump taglia i fondi all’Onu
dopo il voto su Gerusalemme
Mantenuta la promessa di Nikki Haley: 285 milioni di dollari in meno La mossa del presidente compatta i repubblicani verso il voto di Midterm
di Paolo Mastrolilli

L’amministrazione Trump ha tenuto fede alla minaccia di tagliare i finanziamenti all’Onu, dopo la risoluzione approvata dall’Assemblea Generale che bocciava il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele.

Lunedì l’ambasciatrice Haley ha annunciato che gli Usa ridurranno di 285 milioni di dollari il loro contributo al bilancio regolare del Palazzo di Vetro. Così però Washington punirà l’organizzazione, invece dei 128 Paesi che le hanno votato contro, esercitando lo stesso diritto alla difesa della loro sovranità nazionale, che Trump ha invocato per la sua decisione di trasferire l’ambasciata da Tel Aviv.
Per il biennio 2018-2019, l’Onu ha approvato un bilancio da 5,4 miliardi di dollari. Secondo la regola che distribuisce i contributi in base al pil dei Paesi, gli Usa dovrebbero pagare il 22% di questa cifra, che nello scorso biennio era ammontato a 1,2 miliardi. Da qui verranno tolti 285 milioni, incidendo in particolare su viaggi, consulenze, e altre spese operative. Il taglio è stato negoziato domenica, e la Haley lo ha annunciato così: «Non consentiremo più che la generosità del popolo americano venga abusata o rimanga senza controllo. In futuro, potete essere certi che continueremo a cercare maniere per migliorare l’efficienza dell’Onu, proteggendo i nostri interessi».
Il taglio è una rappresaglia politica, peraltro minacciata apertamente durante il dibattito su Gerusalemme, che ha poco a che vedere con le questioni economiche. L’amministrazione Trump, come quella di Bush figlio, ha un’avversione ideologica nei confronti dell’Onu per almeno tre ragioni: primo, la sua dottrina sovranista non accetta l’idea di organizzazioni multilaterali che possano imporre la loro volontà sul governo americano, anche se questo nel caso del Palazzo di Vetro è impossibile, perché avendo il potere di veto gli Usa possono bloccare qualunque risoluzione legalmente vincolante del Consiglio di Sicurezza che non condividono; secondo, le Nazioni Unite sono percepite come nemiche di Israele; terzo, l’organizzazione è fondamentalmente progressista e liberal, promuove principi come la salute riproduttiva o la lotta ai cambiamenti climatici, e quindi ha un’agenda generalmente avversa, se non opposta, a quella del governo Usa in carica. Quindi ogni occasione per attaccare l’Onu è apprezzata dalla base di Trump e può quindi giovare al partito repubblicano in vista delle elezioni del novembre 2018 per il rinnovo parziale del Congresso di Washington.
I difetti di questa visione sono principalmente due. Il primo sta nella natura dell’organizzazione. Il Palazzo di Vetro è solo una struttura dove i 193 Paesi del mondo si incontrano e discutono. Anche se venisse abbattuto, le posizioni globali resterebbero quelle. Su Gerusalemme, ad esempio, 128 Paesi sarebbero contrari al riconoscimento. Senza l’Onu non avrebbero una piattaforma per farlo sapere, ma sul piano politico concreto il problema resterebbe invariato. Il secondo difetto sta nel fatto che le Nazioni Unite le avevano volute proprio gli Usa, per difendere i loro interessi. È vero, ad esempio, che Washington paga il 22% del bilancio, ma ciò significa che il resto del mondo paga il 78% rimanente. Con questi soldi, ad esempio, si finanzia l’assistenza ai rifugiati che scappano dalla Siria in Giordania, stretto alleato degli Usa nella lotta al terrorismo, che senza gli aiuti Onu sarebbe già esploso.

Il Fatto 27.12.17
Bye bye Navalny Putin si blinda. Opposizione zero
di Leonardo Coen


I tre giorni del Condor Navalny. Tutto comincia domenica 24 dicembre, quando, da un palchetto improvvisato sul lungo fiume della Moscova (nessuno gli ha concesso l’uso di una sala), l’avvocato-blogger Alexei Navalny, il più credibile degli oppositori di Putin, annuncia che è “fiero” di presentarsi come “candidato di tutta la Russia” alle prossime elezioni presidenziali del 18 marzo 2018, nonostante lo scorso ottobre la Commissione Elettorale Centrale russa (Cec) lo abbia dichiarato “inelegibile” sino al 2028 in virtù di una condanna (5 anni) per presunte mazzette ai danni della filiale russa di Yves Rocher. Poi si reca alla sede della Commissione e deposita il dossier di candidatura, con le 300mila firme necessarie.
Lunedì 25 dicembre – il Natale ortodosso si celebra il 7 gennaio – la Commissione elettorale presieduta da Ella Pamfilova convoca Navalny per ufficializzare il responso. Una decisione lampo, fin troppo sospetta. Navalny si rivolge ai 12 membri della Cec: “Non vi chiedo un atto d’eroismo, non avete una pistola puntata contro la tempia. Vi chiedo solo di fare il vostro lavoro di funzionari dello Stato e di applicare la legge, ossia ciò per cui siete pagati dai vostri concittadini”. Appello inutile. Undici membri della Cec (uno si è astenuto) hanno rigettato la candidatura, motivando il no con la condanna a 5 anni per corruzione: “Sarebbe occorso un miracolo”, aveva detto giorni fa la 64enne Pamfilova, anticipando in un certo senso l’imbarazzante verdetto.
Navalny commenta: “È evidente che i processi contro di me sono stati una montatura: vi ricordo che la Russia è stata condannata dalla Corte Suprema dei Diritti dell’Uomo”.
Appena la sessione della Cec si conclude, sul web russo è immesso un video in cui Navalny invita gli elettori a scioperare: “Chiediamo a tutti di bloccare queste elezioni. Non riconosceremo il risultato del voto. Putin è terribilmente spaventato e ha paura di rivaleggiare con me”. La “controcampagna” si avvale pure di un nuova inchiesta sulle fortune di Dmitri Peskov, portavoce del Cremlino e fedelissimo di zar Vladimir.
Ieri l’Unione europea ha espresso seri dubbi sul pluralismo politico in Russia. Peskov ha replicato: “Che la candidatura di Navalny sia stata respinta non pone in alcun modo risvolti negativi sulla legittimità delle elezioni”.
Insomma, tutto normale. Le regole sono state rispettate. Anzi, la Pamfilova annuncia che saranno accolti centinaia di osservatori, a monitorare il voto. Ilia Iashin, uno dei più stretti collaboratori di Navalny, ironizza: “Putin può recitare bene in tv il ruolo di macho, ma se hai paura d’affrontare il tuo solo vero oppositore, il tuo machismo non vale un soldo”.
Peskov mette in guardia Navalny: “L’appello al boicottaggio deve essere attentamente studiato per vedere se infrange la legge”. Parole come un tintinnìo di manette. Navalny ci è abituato: quest’anno, in galera, ci è finito 3 volte. Oggi, però, incassa una vittoria morale. Lo zelo della Cec dimostra quanto Putin tema il dissenso. Vuole evitare l’effetto indignazione, l’ondata anti-corruzione. Così si è disfatto del popolare e pericoloso antagonista. Farà un boccone della candidata Xsenia Sobchak: utile a dimostrare che il voto è “pluralista”, la divetta tv si batte “contro tutti” che, nel politichese russo, vuol dire contro nessuno.

Il Fatto 27.12.17
Per gli scritti anti-semiti di Céline ebrei contro l’editore Gallimard
Annunciate nuove pubblicazioni nel 2018


Più è proibito e più desta curiosità. Era già successo con il Mein Kampf, diventato un best-seller da 85.000 copie vendute. Tornato in vendita, un paio di anni fa, nelle librerie a opera dell’Istituto di storia contemporanea di Monaco dopo 70 anni di divieto. Il testo aveva decretato un successo inaspettato. Ora, invece, la casa editrice parigina Gallimard ha intenzione di ristampare i libri antisemiti di Louis-Ferdinand Céline, in accordo con la vedova dell’autore, per la primavera del 2018. Francis Kalifat, presidente del Consiglio rappresentativo delle istituzioni ebraiche di Francia, ha chiesto all’editore di non procedere alla ripubblicazione perché si potrebbe “fomentare” l’ondata “razzista, xenofoba e antisemita” che sta montando in Europa. Presa di posizione anche da parte del governo francese: Frédéric Potier, delegato interministeriale alla lotta contro il razzismo e l’antisemitismo, ha scritto a Gallimard per chiedere “garanzie” a proposito della ristampa.
Céline, nei suoi scritti, denunciava la rovina della Francia per mano degli ebrei e dei capitalisti, invocando un nuova alleanza con la Germania di Hitler con lo scopo di predisporre uno scontro tra Stati ariani e Stati giudeizzati. Con la fine della Seconda guerra mondiale, nel 1945, Céline fu accusato di antisemitismo e collaborazionismo, guadagnandosi, così, l’esilio dalla Francia.