sabato 12 giugno 2010

l’Unità 12.6.10
Cgil oggi in piazza a Roma I dipendenti pubblici diranno i loro no alla manovra che li colpisce
Sfila la rabbia di impiegati e insegnanti
I lavoratori pubblici oggi in piazza con la Cgil, contro la manovra economica che su di loro scarica molto del suo peso e in difesa della sanità, della scuola e degli altri servizi pubblici messi a rischio dai tagli
di Felicia Masocco

La manovra economica va modificata, così com’è non va, scarica gran parte del suo peso sui lavoratori e i pensionati. Quelli pubblici, in particolare. E il peso, lo ricordiamo, è di 24,9 miliardi di euro. A chiedere al governo e al Parlamento di fermarsi e rettificare le iniquità è la Cgil che oggi porta in piazza il lavoro pubblico, in tutte le sue declinazioni. Quelle della sanità, della scuola, dei servizi comunali, degli asili, dell’assistenza sociale, i vigili del fuoco, gli ispettori del lavoro, gli impiegati, i medici e gli altri. Donne e uomini che pagano direttamente i «sacrifici» chiesti al Paese perché avranno gli stipendi bloccati per tre anni, vedranno slittare la pensione di un anno, il Tfr gli verrà dato in tre rate.
CHI PAGA
Pagano perché il loro posto di lavoro viene cancellato: perché il loro ente o istituzione viene soppresso spazzando via anni di precariato che non avranno mai sbocco, oltre a centri che fanno ricerca e controllo. Sono lavoratori che pagano perché c’è il blocco del turn over, chi va via non viene rimpiazzato e chi resta prende in carico il lavoro degli altri. C’è poi chi non viene più messo in condizione di fare bene il suo lavoro: si pensi al divieto di usare per servizio l’auto propria e cosa può significare per un medico condotto che deve visitare un paziente o un ispettore del lavoro che deve raggiungere un cantiere fuori mano. Tutto questo ha interfaccia. Sono i servizi al cittadino utente, al cittadino paziente. Si chiama scuola e sanità pubbliche e sicurezza, visto che anche le forze di polizia sono penalizzate dai tagli. In piazza oggi ci saranno i lavoratori e i cittadini per dire semplicemente «Tutto sulle nostre spalle». Un corteo partirà alle 15 da piazza della Repubblica fino a piazza del Popolo dove dalle 17 parleranno i segretari di segretario della Flc (scuola e conoscenza) Domenico Pantaleo, la segretaria generale di Fp (pubblico impiego), Rossana Dettori e il leader Cgil Guglielmo Epifani. Dalla mattina, inoltre, in piazza del Popolo in cinque gazebo illustreranno ai cittadini gli effetti dei tagli sui servizi.
A fianco della Cgil saranno oggi delegazioni del Pd, di Sel, di Idv, di Pdci e Rifondazione comunista, il giudizio dato alla manovra è da tutti condiviso, è «è iniqua e sbagliata». «Lo è perché colpisce le fasce più in difficoltà nella società: gli statali, gli insegnanti, i ricercatori, i precari. Per questo motivo spiega il senatore Pd Ignazio Marino ho deciso di aderire alla manifestazione». «Il governo aggiunge punta tutto sul privato, abbandonando al degrado più totale il pubblico in tutti i suoi settori». Manifestano gli studenti universi-
tari (Ud) e la rete degli studenti medi. Ci saranno i consumatori e i pensionati dello Spi: è di ieri il dato eloquente sulle pensione degli italiani. il 72% non supera 1 mille euro; nel 45% dei casi non arriva ai 500. È facile immaginare cho cosa significa per loro avere meno servizi pubblici.

l’Unità 12.6.10
Guido Calvi: «Una legge a tempo. Serve ad arginare i danni per chi è sotto indagine»
L’obiettivo di governo è quello di bloccare altri scandali: non vuole danni d’immagine. Sarà bocciata al primo ricorso. Le notizie comunque sul web
di Maria Zegarelli

Sarebbe stato impensabile per i partiti della Prima Repubblica permettere quello che sta accadendo oggi. In questi sessanta anni di storia repubblica mai e poi mai c’è stata la possibilità di costruire un progetto legislativo così scardinante sia per l’intelligence investigativa sia per la stessa informazione democratica». Guido Calvi, docente di Filosofia del diritto, nonché senatore per tre legislature, guarda con grande allarme a quanto sta avvenendo. «Con questo ddl non si mina soltanto la possibilità di indagare, ma si tocca l’impianto democratico del Paese e parte di questa responsabilità è anche di chi in passato, davanti ad un uso dissennato dell’informazione, che a volte ha violato sia la privacy sia talune indagini, non è intervenuto nei tempi giusti con una legge giusta». Allarme, ma anche amarezza, «il problema che doveva essere affrontato è l’uso delle intercettazione. I Ds presentarono un ddl nel 1996 e Mastella ne presentò uno nella scorsa legislatura che fu approvato all’unanimità alla Camera, perché si distingueva tra intercettabilità e uso delle intercettazioni, ma non è mai diventato legge». Professor Calvi, perché formulare una legge che se resta così come è si fermerà davanti alla Corte Costituzionale?«Perché l’obiettivo del governo è quello di bloccare altri possibili scandali proprio in un momento in cui il governo sta chiedendo al paese enormi sacrifici economici. Le ultime inchieste grazie anche alle intercettazioni dal G8, all’Aquila, al caso Scajola, hanno scoperchiato un pentolone da cui escono ogni giorno notizie sconvolgenti: questo ddl serve ad arginare i danni all’immagine di un governo che è già in grande difficoltà e a tutelare molti malfattori che d’ora in poi sapranno come regolarsi. Ma questa maggioranza non tiene in conto un aspetto: sarà impossibile arginare l’informazione sul web e impedire la circolazione delle notizie». Quanto resisterà una legge così prima di arrivare davanti alla Consulta? «Saranno tempi brevissimi perché ci saranno una valanga di ricorsi davanti alla Corte Costituzionale da parte di molti magistrati. Basterà un processo per diffamazione per sollevare la questione di legittimità. Credo di poter dire che se entrasse in vigore a fine luglio, già nei primi mesi del 2011 potrebbe esserci un pronunciamento della Consulta».
La Corte costituzionale, altra spina nel fianco del premier.
«È evidente che uno dei prossimi obiettivi di Berlusconi sarà proprio la Consulta perché è l’ultimo baluardo che rimane alla tutela della legalità. Questa sarà la sua prossima battaglia: abbattere l’ultima frontiera, dopo che, stando al governo, ha paralizzato il Parlamento e la magistratura, imbavagliato la stampa, bloccato l’investigazione. A quel punto non resterebbe che il referendum, uno strumento difficile e dai tempi molto lunghi».
Una legge salva casta in piena regola che però deve fare i conti con l’articolo 21 della Costituzione e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Supererà l’esame? «I punti fortemente critici sono tre: l’articolo 21 della Costituzione, sulla libertà d’informazione; l’articolo 10 della Convenzione dei diritti dell’uomo che ha ormai valore di legge costituzionale e il principio di ragionevolezza applicabile dalla Consulta. Le norme di questo ddl, un vero pasticcio dal punto di vista giuridico, che incidono sull’intercettabilità e sull’uso delle intercettazioni, non potranno superare l’esame della Consulta. L’intercettabilità non avrebbe dovuto essere toccata in quanto uno degli strumenti principe dell’investigazione sulla criminalità organizzata e economica. Inoltre, aver stabilito un termine temporale così ristretto e la proroga ogni tre giorni per poter proseguire le intercettazioni è un’offesa all’attività investigativa dei magistrati e alla tutela dei cittadini davanti alla criminalità organizzata».
Come si organizzeranno i criminali?
«Le organizzazioni criminali di fronte alla limitazione della intercettabilità saranno caute nelle prime fasi delle trattative: chiunque si sia occupato di indagini sul traffico internazionale di droga sa quanto lunghe e complesse siano. Penso alle trattative tra ndrangheta calabrese e narcotrafficanti colombiani: per intercettarli occorre seguire un percorso lungo e complesso, tenuto conto che questi criminali cambiano continuamente schede telefoniche. La limitazione del tempo di intercettabilità andrà tutta a loro vantaggio. Questa legge produrrà effetti devastanti per la sicurezza».

il Fatto 12.6.10
Si può non firmare
Onida: nel ddl limiti incostituzionali
Il Presidente emerito della Consulta: «Ma il capo dello Stato non ha l’ultima parola»
di Silvia Truzzi

Il bavaglio dice: niente foto e dichiarazioni dei magistrati. La funzione è più importante della persona che la esercita. Principio valido per tutte le istituzioni chiamate in causa dalla legge “sulle intercettazioni”: ne abbiamo parlato con Valerio Onida, presidente emerito della Corte costituzionale.
Professore, ravvisa profili di incostituzionalità nel testo licenziato dal Senato?
Si stabiliscono limiti per la pubblicazione di atti non coperti da segreto, che abbiano pubblico interesse e siano verificati: è una limitazione indebita – e secondo me incostituzionale – alla libertà di informazione. Io sono d’accordo sul fatto di contenere le fughe di notizie su persone estranee e su fatti irrilevanti. E anche sul divieto di pubblicazione di foto e dichiarazioni dei magistrati. Ma queste sono questioni se-
condarie. Il punto chiave ovviamente è un altro. Se la legge sarà approvata ci sarà certamente un ricorso alla Consulta.
In casi del genere l’inconveniente è che per il ricorso alla Corte è necessario che si instauri un contenzioso. Cioè che ci sia una violazione della legge. Il nostro sistema non consente un immediato ricorso, come accade per esempio in Francia. Il che secondo me non è solo un difetto, perché il nostro sistema consente di valutare la legge al momento della sua applicazione, mentre l’altro favorisce una maggiore “politicizzazione” del giudizio della Corte costituzionale. Così mentre aspettiamo il giudizio di legittimità restiamo al buio. Che ne pensa?
L’applicazione anche per qualche mese di una legge che appaia restrittiva della libertà di informazione è un vulnus. “Appare” o “è” restrittiva?
In questo punto secondo me lo è. Poi giudicherà la Corte. Il presidente della Repubblica giovedì ha criticato “I professionisti della richiesta di non firma”.
Ha ragione. La firma del capo dello Stato non è la sanzione regia. Il re aveva una volontà deliberativa, il presidente della Repubblica è chiamato esclusivamente alla promulgazione.
Allora perché è stata prevista nella Carta la possibilità del rinvio? La potestà legislativa spetta esclusivamente alle Camere, non è in coabitazione con il Quirinale. E tuttavia è stato pensato per il capo dello Stato – che è collocato super partes e quindi in qualche modo chiamato a esercitare un’influenza su chi decide – questo potere di rinvio. Ma è un veto sospensivo, non l’ultima parola. Il capo dello Stato non può rischiare una riapprovazione che, se diventasse sistematica, si tradurrebbe in una sua delegittimazione. È un potere non un dovere: il presidente della Repubblica non è un giudice costituzionale e nemmeno il capo dell’opposizione.
C’è stata una reazione molto energica da parte dell’opinione pubblica. Sì, una sollevazione che raramente si è vista. Sarebbe auspicabile che accadesse più spesso di fronte a episodi legislativi gravi.
Forse di tutto questo il presidente della Repubblica potrebbe tener conto: non è alla sua persona che ci si rivolge, ma alla sua figura. Certamente, non si deve alterare però il ruolo del capo dello Stato. La sistematica richiesta di “non firmare” trascura questo ruolo. Probabilmente accade perché le leggi o i decreti di cui si occupa il governo mettono in discussione principi fondamentali: l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge o la libertà di stampa.
Sì, ma bisogna avere riguardo ai caratteri di fondo del nostro ordinamento. Il capo dello Stato, ribadisco, non è un co-decisore. Che effetto le ha fatto sentire il presidente del Consiglio dire che governare con questa Costituzione è un inferno? Queste dichiarazioni, fatte da un rappresentante delle istituzioni sono ridicole. Espongono al ridicolo chi le fa.
I tentativi di strappo ai valori della Carta sono stati tanti: forse per questo le persone non ridono.
Le parole sono spesso dei diversivi, soprattutto in politica. Mi spaventano molto di più i fatti, come questo progetto di legge.

l’Unità 12.6.10
Colloquio con Eric Jozsef
SCOOP a Berlusconia
Il reporter disperato chiede aiuto alla Francia
L’immaginario cronista incontra Eric Jozsef, corrispondente da Roma del quotidiano Libération. E si ricorda di certe sue esperienze birmane...
di Giovanni Maria Bellu

Una notizia censurata vale il doppio o il triplo
Eric Jozsef, classe 1964, è il corrispondente da Roma del quotidiano Libération. Vive in Italia dal 1992 e ha dedicato al nostro paese un saggio che s’intitola “Main basse sur l'Italie, la résistible ascension de Silvio Berlusconi” (A mani basse sull' Italia, la resistibile ascesa di Silvio Berlusconi).

Ha accettato di immaginare questo incontro col disperato reporter di Berlusconia e gli ha fatto capire come uno scoop può diventare doppio e triplo se, oltre alla notizia principale, ne contiene anche un’altra: la sua impubblicabilità nel paese dove la notizia è avvenuta.
Ieri abbiamo lasciato il nostro disperato reporter di Berlusconia nello studio dell’avvocato Paolo Mazzà il quale gli ha detto a chiare lettere che non deve assolutamente pubblicare il suo scoop. Un grosso scoop: un atto giudiziario che contiene la prova della corruzione di un ministro da parte di un imprenditore. Dopo il colloquio col legale, il reporter di Berlusconia ha deciso di far uscire la notizia attraverso un collega francese, Eric Jozsef, corrispondente da Roma di Libération. Lo incontra poco dopo e subito avverte un senso di imbarazzato disagio. Nella sua carriera ha girato il mondo e gli è capitato di incontrare colleghi validissimi che gli passavano notizie che loro non potevano pubblicare. Non aveva mai immaginato di potersi trovare in quella condizione.
Era da un anno che il reporter di Berlusconia ed Eric Jozsef non si vedevano. Più o meno dal tempo del caso delle escort a Palazzo Grazioli. Una vicenda rispetto alla quale Eric non ha condiviso tutte le scelte della stampa italiana. Per esempio non gli è piaciuta la pubblicazione delle “registrazioni rubate” della D’Addario. Ancora oggi ha il dubbio che abbia dato qualche pretesto in più per arrivare a questa legge, che definisce senza mezzi termini “infame”. Insomma, Eric non è un estremista della notizia e questo rassicura il reporter di Berlusconia. Metterà il suo scoop in buone mani, e ciò allevierà almeno in parte il dolore di averne perduto la titolarità.
Dopo un saluto malinconico, viene al sodo. Apre l’atto giudiziario, ne spiega in poche parole il contenuto. Eric Jozsef non ha un attimo di esitazione: «Lo pubblico senz’altro. Anzi di più. Questa per me non è una notizia, ma due...»
Il reporter di Berlusconia in questi giorni è un po’ frastornato. Ha il dubbio di non aver colto qualche passaggio fondamentale dell’atto giudiziario: «Qual è l’altra notizia?», domanda.
«L’altra notizia è che tu non puoi scrivere l'articolo. Che, insomma, questa notizia non può essere pubblicata in Italia».
Al reporter di Berlusconia qualcosa di simile, ma a parti invertite, era successo tempo prima in Birmania.
Però non aveva riflettuto su questo aspetto della “notizia doppia”. Ha un sussulto d’orgoglio.
«Caro Eric, l’avvocato mi ha spiegato che anche tu e il tuo editore potreste correre dei rischi. Se scrivi l’articolo per il sito del tuo giornale non ci sono problemi. Non chiedermi perché, è una complicata questione giuridica che si sostanzia nell’applicazione per analogia di una sentenza della Cassazione su un caso di diffamazione. Ma se lo scrivi per il giornale di carta allora... è diverso».
Il reporter di Berlusconia s’interrompe in attesa di una reazione. Ma Eric Jozsef resta assolutamente imperturbabile.
«Anche voi correte voi dei pericoli riprende il reporter di Berlusconia accalorandosi perché un po’ di copie di Libération arrivano anche da noi, vengono distribuite nelle principali edicole delle grandi città e questo potrebbe essere equiparato alla pubblicazione illegale e quindi sia tua, sia il tuo editore potreste essere chiamati a risponderne... Ma c’è una soluzione...»
«Quale?».
«Semplicissima: il giorno in cui esce il tuo articolo, dite alla distribuzione di non far arrivare il giornale in Italia!»
Ecco, finalmente l’imperturbabile collega ha una reazione. Il reporter di Berlusconia riconosce quella luce che si accende negli occhi di un giornalista quando la notizia che ha tra la mani diventa ancora più grande.
«Sarebbe clamoroso esclama Eric Jozsef Una cosa del genere oggi può succedere solo in certi paesi dove la libertà di stampa e anche di opinione sono controllate dai governi. Ci sarebbe sicuramente un ricorso alla Corte europea. In Francia abbiamo qualche esperienza: a volte succede che Libération, o anche le Monde, non vengano distribuiti perché il contenuto di qualche articolo non piace a chi governa».
«Dove?», domanda il reporter di Berlusconia temendo la risposta.
«Per esempio in Tunisia, in Algeria, in Marocco...».
«Ecco il documento, Eric», sibila il reporter di Berlusconia. E, avvilito e a mani vuote, si avvia verso la sua redazione.

Repubblica 12.6.10
Disobbedire, per la democrazia
di Nadia Urbinati

Questa legge va fermata «nell´interesse della democrazia, che deve garantire il controllo di legalità, e che deve assicurare trasparenza di informazione. Non c´è compromesso possibile su questioni di principio, che riguardano i diritti dei cittadini, i doveri dello Stato». Le parole di Ezio Mauro su Repubblica ripropongono il tema della disobbedienza civile, ovvero il limite oltre il quale obbedire può contribuire a riconoscere una legge ingiusta.
E lo ripropongono in un momento nel quale la democrazia costituzionale è a rischio poiché chi ha ottenuto la maggioranza per governare sta accampando pretesti per cambiare le regole: per governare secondo le proprie regole, per i propri desideri e interessi. L´Italia si trova di fronte a un bivio e la proposta di legge bavaglio è una tappa decisiva verso una pericolosissima fase anticostituzionale. Che cosa fare per impedire una nuova stagione liberticida? E prima ancora, come comportarsi di fronte a questa legge, se venisse approvata dal Parlamento?
Se questa legge passasse, molti cittadini si troverebbero fatalmente a dover decidere se rispettare la legge o rispettare la verità, se obbedire alla maggioranza o alla costituzione, poiché chiaramente la contraddizione tra le due è ormai aperta. Come ci ha fatto comprendere il presidente del Consiglio, la costituzione è un impaccio del quale lui vuole liberarsi; un impaccio come la libertà di stampa e l´autonomia della magistratura. Ma quando una decisione politica mette legge e verità, legge e Costituzione in contraddizione tra di loro, è la libertà di tutti a rischio. È su questo semplice ragionamento che si basa la disobbedienza civile, un´azione che è possibile solo dove la politica è sotto lo scrutinio permanente e pubblico dei cittadini e condotta nei limiti della costituzione.
È negli Stati Uniti che si è sviluppata la più ricca e completa teoria della disobbedienza civile: prima contro la schiavitù, poi contro la coscrizione obbligatoria per la guerra del Vietnam. La cornice ideale l´hanno tracciata David Henry Thoreau e Martin Luther King, i quali presero la strada della disobbedienza civile consapevoli che la loro scelta avrebbe comportato la repressione, ma senza per questo desistere. La disobbedienza è «civile» appunto perché fatta rispettando le leggi, perché chi disobbedisce accetta le conseguenze punitive previste. Non è dunque la legge che la disobbedienza civile rifiuta e contesta, ma una specifica decisione di una specifica maggioranza. La quale, quando provoca una reazione così radicale da parte dei cittadini, è davvero contro la legge, fuori della legge.
Thoreau nel 1846 rifiutò di pagare le tasse al governo federale per non contribuire a finanziare una guerra ingiustificata, quella contro il Messico, e una legislazione che sosteneva la schiavitù degli stati del Sud. Spiegò il suo gesto in una lezione al locale liceo pubblico di Concord, nel Massachusetts, che divenne il testo canonico della disobbedienza civile: se la coscienza del cittadino onesto è il sovrano ultimo della democrazia, quando la legge votata da una maggioranza la viola gravemente, la disobbedienza è un atto dovuto a se stessi, un dovere di onestà. Più politica ma non meno radicale la posizione che tenne Luther King, un secolo dopo, questa volta contro la segregazione razziale imposta da decisioni ingiuste. Il leader del movimento americano per i diritti civili scrisse dalla prigione di Birmingham, Alabama, un memorabile discorso-sermone nel quale, affidandosi ad autori religiosi e laici, da San Tommaso a Thomas Jefferson, giustificò la disobbedienza ad una decisione ingiusta con l´argomento che quest´ultima viola il patto fondamentale che tiene insieme la società civile e si mette, lei non i disobbedienti, fuori della legge. Anche per Luther King come per Thoreau, disobbedire era un dovere del cittadino se obbedire significava lasciare che la legge fondamentale venisse calpestata.
Disobbedire voleva dire non solo conservare la propria dignità di cittadini ma anche difendere lo spirito e la lettera della Costituzione. Al dispotismo della maggioranza si risponde riconoscendo obbedienza alla norma fondamentale. Questo principio fu ribadito da John Rawls negli anni della guerra in Vietnam. Rawls, in un saggio memorabile nel quale dettò una specie di statuto della disobbedienza civile, spiegò che questa è l´ultima ratio, una scelta che è fatta dai cittadini singoli e che viene dopo che tutti i passi politici per impedire l´approvazione di una legge sono andati a vuoto: dall´opposizione parlamentare, alle manifestazioni dell´opinione pubblica, al controllo di costituzionalità degli organi competenti. Alla fine, se tutto ció non ha sortito effetto, non resta che la responsabilità di chi individualmente si trova nella condizione di dover decidere se obbedire o no a quella legge.
La disobbedienza civile è per questo un segnale fortissimo di emergenza democratica perché con essa i cittadini si mettono individualmente nelle mani della legge proprio quando la disobbediscono: facendosi disobbedienti restano soli davanti al potere coercitivo dello Stato. Questa estrema ratio, quando necessaria, è una denuncia della situazione di incostituzionalità nella quale si trova a operare la maggioranza con la sua smania dispotica di liberarsi dalle regole. «Vogliamo arrivare a un nuovo sistema in cui non si debbano chiedere più permessi, autorizzazioni, concessioni o licenze», ha detto il Premier, definendo i controlli previsti dalla Carta «una pratica da Stato totalitario, da Stato padrone che percepisce i cittadini come sudditi».
Ma è lui, è una maggioranza che si vuole incoronare sovrana che ci farebbe sudditi e servi se passasse questa pericolosa politica anticostituzionale, se passasse questa legge bavaglio: la madre di tutte le leggi liberticide. Silenziare le opinioni, spegnere la mente dei cittadini rendendoli bambini idioti davanti a una televisione che commercia il nulla: è questa l´Italia che il nostro Premier ha costruito in questi anni, un serraglio di docili sudditi che egli chiama popolo della libertà. Dove si fermerà questo incalzante assalto alle nostre libertà fondamentali?

Repubblica 12.6.10
Il cavaliere impunito e la regola del silenzio
di Giorgio Bocca

Giù la maschera. Quello che vuole, che pretende la maggioranza al potere è l´impunità totale, il silenzio sui suoi furti e malversazioni. Ai tempi di tangentopoli la maggioranza al potere si accontentava di far passare i suoi furti per legittima pubblica amministrazione.
Ricordate la tesi del craxiano Biffi Gentili? Se i politici sono chiamati ad amministrare grandi città, grandi problemi con competenze da tecnocrati perché non devono essere pagati come tali? E se non lo sono perché si vuole impedire che si autofinanzino? Oggi la maggioranza al potere non ha più bisogno di questi sofismi. Rivendica il diritto di rubare attraverso la politica come un normale, dovuto diritto di preda. Al tempo di tangentopoli i socialisti craxiani ma anche quelli di altri partiti avevano nascosto i furti per mezzo della politica nei conti «protetti» cioè segreti in Svizzera a Singapore a Hong Kong. E avendo messo il bottino al sicuro si erano tolti anche il gusto di prendere per i fondelli i loro concittadini con la tesi assurda che l´autofinanziamento dei partiti non era solo una necessità ma un dovere di chi si faceva carico di amministrare lo Stato e la democrazia.
Oggi nella Italia berlusconiana il furto attraverso la politica è scoperto, normale. Appena si può si ruba e viene il sospetto che sia avvenuta una mutazione antropologica, che la maggioranza al potere sia convinta che l´uso della politica per rubare sia non solo normale ma lodevole e che le istituzioni abbiano il dovere di proteggerlo. L´Italia un tempo paese dei misteri, delle società segrete, delle congiure massoniche sotto l´egida del cavaliere di Arcore sta diventando una democrazia autoritaria dichiarata e compatta a difesa dei suoi vizi e dei suoi furti. Perché opporsi al bavaglio che viene imposto all´informazione? Non aveva ragione Mussolini ad abolire la cronaca nera e a coprire gli scandali del regime? Esiste un modo più efficace di lavare i panni sporchi in gran segreto senza che le gazzette li mettano in piazza? L´imprenditore Anemone che si rifiuta di rispondere ai magistrati che indagano sui suoi affari non è la pecora nera, l´eccezione ma la norma della società berlusconiana del fare tutto ciò che comoda ai padroni, senza pagare dazio.
La conferma della mutazione antropologica viene dal fatto che i politici presi con la mano nella marmellata mostrano più stupore che vergogna. La loro corruzione era normalissima, candida, da buon padre ladro di famiglia. A uno era bastato pagare una garconnière al centro di Roma, un altro aveva lasciato mano libera agli impresari edili dopo il terremoto in cambio di una revisione in casa sua dei servizi igienici, diciamo del funzionamento del cesso e del bagno. Ad altri ancora la possibilità di avere a spese dello Stato qualche mignotta, insomma la grande crisi della politica italiana, il grande rischio di una democrazia autoritaria, di una dittatura mascherata, morbida starebbe nella banalità del male, nei piccoli vizi nelle piccole tentazioni della cosiddetta classe dirigente.
Un´Italia senza misteri con un capo del governo schietto, schiettissimo. Che vuole? Che pretende? Il minimo di un uomo del fare più che del pensare: di non avere controlli, di non avere intralci e se gli viene in testa di allevare un cavallo nessuno si permetta di obbligarlo a tirar su una mucca. Che cosa ha scoperto il Cavaliere? Quello che avevano scoperto prima di lui tutti gli uomini autoritari del fare, che i controlli sono fastidiosi e a volte insopportabili. In una parola: che la democrazia è più complicata e faticosa della dittatura.

Repubblica 12.6.10
Ecco perché bisogna fermarla
di Roberto Saviano

La Legge bavaglio non è una legge che difende la privacy del cittadino, al contrario, è una legge che difende la privacy del potere. Non intesa come privacy degli uomini di potere, ma dei loro affari, anzi malaffari. Quando si discute di intercettazioni bisogna sempre affidarsi ad una premessa naturale quanto necessaria. La privacy è sacra, è uno dei pilastri del diritto e della convivenza civile.
Ma qui non siamo di fronte a una legge che difende la riservatezza delle persone, i loro dialoghi, il loro intimo comunicare. Questa legge risponde al meccanismo mediatico che conosce come funziona l´informazione e soprattutto l´informazione in Italia. Pubblicare le intercettazioni soltanto quando c´è il rinvio a giudizio genera un enorme vuoto che riguarda proprio quel segmento di informazioni che non può essere reso di dominio pubblico. Questo sembra essere il vero obiettivo: impedire alla stampa, nell´immediato, di usare quei dati che poi, a distanza di tempo, non avrebbe più senso pubblicare. In questo modo le informazioni veicolate rimarranno sempre monche, smozzicate, incomprensibili. L´obiettivo è impedire il racconto di ciò che accade, mascherando questo con l´interesse di tutelare la privacy dei cittadini. Chiunque ha una esperienza anche minima nei meccanismi di intercettazione nel mondo della criminalità organizzata sa che vengono registrati centinaia di dettagli, storie di tradimenti, inutili al fine dell´inchiesta e nulle per la pubblicazione. Il terrore che ha il potere politico e imprenditoriale è quello di vedere pubblicati invece elementi che in poche battute permettono di dimostrare come si costruisce il meccanismo del potere. Non solo come si configura un reato. Per esempio l´inchiesta del dicembre 2007 che portò alla famosa intercettazione di Berlusconi con Saccà ha visto una quantità infinita di intercettazioni di dettagli privati, di cui in molti erano a conoscenza ma nessuna di queste è stata pubblicata oltre quelle necessarie per definire il contesto di uno scambio di favori tra politica e Rai.
La stessa maggioranza che approva un decreto che tronca la libertà di informazione in nome della difesa della privacy decide attraverso la Vigilanza Rai di pubblicare nei titoli di coda il compenso degli ospiti e dei conduttori. Sembra un gesto cristallino. E´ il contrario. E non solo perchè in una economia di mercato il compenso è determinato dal mercato e non da un calcolo etico. In questo modo i concorrenti della Rai sapranno quanto la Rai paga, quindi il meccanismo avvantaggerà le tv non di Stato. Mediaset potrà conoscere i compensi e regolarsi di conseguenza. Ma la straordinaria notizia che viene a controbilanciare quella assai tragica dell´approvazione della legge sulle intercettazioni è che il lettore, lo spettatore, quando comprende cosa sta accadendo diviene cittadino, ossia pretende di essere informato. Migliaia di persone sono indignate e impegnate a mostrare il loro dissenso, la volontà e la speranza di poter impedire che questa legge mutili per sempre il rapporto che c´è tra i giornali e i suoi lettori: la voglia di capire, conoscere, farsi un´opinione. Non vogliamo essere privati di ciò. Mandare messaggi ai giornali, mostrarsi imbavagliati, non sono gesti facili, scontati. Non sono gesti che permettono di sentirsi impegnati. Sono la premessa dell´impegno. L´intento d´azione è spesso l´azione stessa. Il dichiararsi non solo contrari in nome della possibilità di critica ma preoccupati che quello che sta accadendo distrugga uno strumento fondamentale per conoscere i fatti. La legge che imbavaglia, viene contrastata da migliaia di voci. Voci che dimostrano che non tutto è concluso, non tutto è determinabile dal palinsesto che viene dato agli italiani quotidianamente. Ogni persona che in questo momento prende parte a questa battaglia civile, sta permettendo di salvare il racconto del paese, di dare possibilità al giornalismo - e non agli sciacalli del ricatto - di resistere. In una parola sta difendendo la democrazia.
©2010 Roberto Saviano/ Agenzia Santachiara

l’Unità 12.6.10
De Benedetti show: «Berlusconi è il Sordi della politica italiana»
Partito Democratico: «Pensavamo fosse un gatto selvatico è una balena spiaggiata»
L’Ingegnere ne ha per tutti: dal Pd che l’ha «molto deluso» ai sindacati «che a volte non fanno gli interessi dei lavoratori» Il successo del Premier? «La gente è disperata e l’opposizione...»
di S.C.

Premette che è qui a “Nord Camp” per parlare del tema delle tasse, sul perché puntare a ridurle e inserire una patrimoniale è di sinistra, ma fa sapere che è anche pronto a una chiacchierata più “light”. E però poi Carlo De Benedetti assesta fendenti a destra e manca, infierendo su Silvio Berlusconi «leader ex carismatico», «l’Alberto Sordi della politica italiana», uno che «è bugiardo ma è talmente fuori di testa da convincersi davvero in qualche momento di fare il bene del paese» ma non risparmiando batoste anche al Pd, partito che l’ha «profondamente deluso». Lui che fino al 2008 ha votato «quel che c’era, Pds, Ds» e poi dopo aver aspettato «finalmente questa innovazione nella politica italiana» si è ritrovato a pensare quello che Churchill disse dello sbarco degli alleati ad Anzio, che per il timore di imboscate da parte dei tedeschi commisero un grave errore e rimasero due mesi fermi prima di avanzare verso Roma: «Credevamo di aver sbarcato un gatto selvaggio, ci siamo trovati una balena spiaggiata».
L'editore del Gruppo l'Espresso è a Pacengo di Lazise per spiegare la sua ricetta sul fisco: «Bisogna abbassare le tasse alle imprese e ai lavoratori, e per tenere in equilibrio il sistema tassare le rendite e i patrimoni in modo di verso da oggi». Ad invitarlo è stato Enrico Letta, e l’Ingegnere vuole subito spazzare il campo da “dietrologie”, perché sa già che qualcuno dirà che è qui perché vuole «sostenere Letta come prossimo leader del Pd», per il quale confessa comunque «stima e amicizia». E poi, con Antonello Piroso che lo intervista, si lascia andare senza trattenere battute al vetriolo su Carlo Caracciolo («era molto tirchio»), Giampaolo Pansa («voleva diventare direttore dell’Espresso e invecchiando è andato in aceto»), i sindacati che «sono troppo legati alla politica e non sempre hanno fatto gli interessi dei lavoratori» e in particolare le organizzazioni (leggasi Cgil) che decidono di scioperare: «Gli scioperi ormai non servono a nulla, sono dei modi per penalizzare il lavoratore. L'unica certezza è la riduzione della busta paga, che già non è ricca».
In platea, tante persone rimaste tutta la mattina a lavorare su proposte riguardanti il fisco, l’immigrazione, il federalismo che ora ridono o applaudono, con Letta in prima fila e accanto a lui il ministro leghista Maroni che prima aveva detto di voler ascoltare un po’ De Benedetti prima di ripartire e poi decide di rimanere fino alla fine a godersi lo spettacolo. Che ha comunque nell’antiberlusconismo l’ingrediente principale. «Io ho sempre avuto una ritrosia personale ad essere cooptato», risponde l’Ingegnere a Piroso che gli domanda se nel capitalismo italiano si abbia successo solo per questa vira. Questo la accomuna a Berlusconi? E lui, secco: «Bè, no, lui è della P2». Poi racconta dell’ultima volta che ha incontrato il premier, invitato a colazione a casa di Gianni Letta. «Berlusconi mi accoglie e mi fa: “perché non mi vuoi bene?”. Ma come cazzo vuoi che ti voglio bene? Mi hai fregato sulla Sme, mi hai fregato sulla Mondadori e vuoi anche che ti voglia bene?». E se ha ancora tanto consenso tra gli italiani, la ragione non può essere che una: «Sono disperati». Perché l'opposizione è quella che è e Bersani «persona che stimo, ottimi ministro, persona perbene e caro amico, però, andiamo, qualche volta vorrei vederlo con un po’ più di entusiasmo».

l’Unità 12.6.10
Il potere politico attacca informazione e giudici perché garanti della legalità
Il procuratore di Milano: gli attacchi di Berlusconi hanno passato il segno, meriterebbero forse una risposta istituzionale. I magistrati sono sottoposti solo alla legge, non al governo
Intervista ad Armando Spataro

La magistratura e l’informazione sono sotto il tiro del potere politico perchè rappresentano la tutela della legalità e la trasparenza, sono i poteri di bilanciamento di una democrazia. È un brutto periodo per chi ha a cuore la democrazia in Italia, ma sono fiducioso: passerà anche questo».
L’appuntamento con Armando Spataro, procuratore aggiunto a Milano, è a casa sua. Prepara il caffè. Bisognerebbe parlare del suo libro, «Ne valeva la pena» editore Laterza, bisognerebbe chiedere a Spataro, protagonista di 34 anni di vita della Procura di Milano, di svelare se ancora ci sono dei buchi oscuri nella storia del terrorismo rosso o perchè governi di sinistra e di destra si sono comportati allo stesso modo quando si è trattato di bloccare l’inchiesta sul rapimento di Abu Omar. Ma si finisce per parlare dell’aggressione di Berlusconi alla giustizia, all’informazione, alla Carta costituzionale.
Spataro, i rapporti tra potere politico e magistratura sono mai scesi così in basso? «No, mai. Lo testimoniano anche i fatti di questi giorni. Francesco Saverio Borrelli diceva che il controllo della legalità esercitato dalla magistratura in modo autonomo non può essere gradito al potere politico, qualunque sia il colore della maggioranza di turno. Il potere della magistratura è infatti eccentrico rispetto ai programmi ed agli interessi di chi governa, ed è la Costituzione che ha scelto questo modello di magistratura: noi siamo sottoposti solo alla legge ».
Quando è iniziato questo processo di deterioramento? «Edmondo Bruti Liberati, nuovo procuratore capo a Milano, ha ben ricostruito la storia di questa crisi. Il peggioramento dei rapporti è iniziato negli anni Novanta con le inchieste della magistratura sulla corruzione, sulla commistione indebita tra politica ed economia, con Mani Pulite. In quegli anni è emersa l’estraneità della magistratura rispetto agli interessi della politica, quello è stato il punto di svolta. Da almeno 15-16 anni il potere politico si è messo di traverso, cercando di ostacolare o condizionare l’attività della magistratura».
Le parole di Berlusconi?
«Lo ha detto anche il CSM. Non si tratta di esercizio del diritto di critica, ma di “espressioni denigratorie che incidono sull’indipendente esercizio delle funzioni dei magistrati e ne delegittimano l’operato”. Avevo pensato di rinviare la pubblicazione del libro e di aggiornarlo con le aggressioni sistematiche alla magistratura, ma attacco dopo attacco non avrei mai finito».
Cosa si aspetta, ora?
«Gli attacchi hanno passato il segno da tempo e messo in crisi il principio della separazione dei poteri. Meriterebbero, forse, una risposta istituzionale adeguata al più alto livello». Perchè si è messo a scrivere, perchè ci consegna questo “verbale” da 600 pagine?
«Ho iniziato a scrivere di slancio, all’improvviso, spinto dall’amarezza e dalla delusione provate dopo che due governi, di diverso orientamento politico, avevano dato la stessa risposta su un caso importante come l’inchiesta Abu Omar. Opporre il segreto di stato in un caso drammatico di violazione dei diritti umani è stata una decisione politica che mi ha ferito. Ho scritto perchè avevo voglia di buttare fuori tutto quello che avevo dentro, una scelta forse autoterapeutica. E, forse con presunzione, ho pensato che il racconto di quanto ho visto nei miei oltre trent’anni di lavoro in magistratura potesse essere utile anche ad altri».
Quello del magistrato è un lavoro o una missione? «Il mio è un lavoro non una missione. Ma ho sempre ben presente la lettera che il mio collega e amico Guido Galli, assassinato dai terroristi, scrisse al padre per spiegare la sua scelta della magistratura, per fare qualche cosa per gli altri, per il paese, per le istituzioni. Ho sempre fatto il magistrato cercando di svolgere il mio lavoro al meglio delle mie capacità e competenze. Non mi è mai piaciuto, invece, l’approccio del magistrato come moralizzatore della società». Perchè è stato grave usare il segreto di stato nell’inchiesta Abu Omar? «Perchè con questa inchiesta l’Italia avrebbe potuto dare l’esempio, assumere un ruolo trainante in campo internazionale nella tutela dei diritti umani. Avrebbe potuto guidare quel cambiamento che solo oggi, grazie a Obama, inizia faticosamente a prendere corpo. Il caso Abu Omar ha invece segnato uno spartiacque: da quel momento il segreto di stato, la cui opposizione non può che essere un fatto eccezionale, è entrato in tanti altri processi. Opposto nel processo Telecom di Milano dall’imputato Mancini, nel processo di Perugia da Pollari e Pompa accusati di peculato, è comparso persino in un processo per diffamazione a carico di Magdi Allam. E sempre il Presidente del Consiglio ne ha confermato la sussistenza».
Lei ha fatto tutta la sua carriera a Milano, cos’è la Procura di Milano? «È casa mia. La Procura di Milano ha un’anima, forte e radicata nei magistrati che ci lavorano. Qui hanno lavorato e hanno lasciato il segno dell’impegno per la difesa della democrazia e delle istituzioni i miei amici Emilio Alessandrini e Guido Galli. Quando il potere politico attacca la Procura di Milano, ogni cittadino dovrebbe ricordarsi di questi uomini. Mi considero fortunato di aver fatto questa esperienza, di aver incontrato tanti valorosi colleghi. Milano, per me, è stata fondamentale, mi accolse che non avevo nemmeno trent’anni. C’era il terrorismo, ma era una città vivacissima piena di fermenti culturali e politici. A 28 anni mi trovai immerso nelle inchieste sulle Brigate rosse, gli omicidi. Sono cose che non si dimenticano». Lei è un personaggio pubblico, un magistrato molto noto, per i suoi critici “troppo potente”. Qual è la giusta dimensione della presenza pubblica di un magistrato, nel suo rapporto con i media? Non le pare che alcuni suoi colleghi esagerino?
«Il giudice vive e lavora da solo. Questa è la condizione generale. L’esposizione mediatica del giudice, la sua presenza pubblica, secondo un politico sensibile come Virginio Rognoni, è spesso la conseguenza del rilievo sociale del suo lavoro. Ovviamente diversa, e non la condivido, è la ricerca narcisistica dell’esposizione mediatica per la creazione del personaggio, una strada che porta alla demagogia e al populismo».
Cos’è la riforma della giustizia?
«E chi lo sa? Una cosa che trovo insopportabile è la retorica delle riforme condivise. Questa formula, molto usata negli ultimi tempi nel mondo politico, nasconde solo la debolezza e la frammentazione di quella politica che nelle riforme condivise trova la mediazione delle proprie divisioni a scapito dei principi. Dal 1989 ad oggi sono state approvate 83 riforme del codice, e oggi siamo ancora qui a discutere di riforme condivise. E quali sarebbero? Il processo breve, la separazione delle carriere o la separazione della sezione disciplinare dal Csm dallo stesso consiglio come chiede Luciano Violante? Volete ridurre il numero delle sedi giudiziarie come dicono da decenni a destra e a sinistra? Bene fatelo. In Piemonte ci sono 16 tribunali, eredità del passato sabaudo. Tagliate questi sprechi. E invece non succede nulla, salvo voler condizionare, per non dire di peggio, le inchieste della magistratura».
Anche il pd chiede la riforma della giustizia. Cosa ne dice? «Ho letto le proposte di Andrea Orlando, responsabile giustizia del pd: sono una serie di enunciazioni perfette in nome proprio delle “riforme condivise”, anche se non capisco cosa ci guadagnerà la giustizia».
In conclusione, valeva la pena scegliere la magistratura? «Sì, ne valeva la pena. Anche se viviamo anni difficili, le cose cambieranno, non possono non cambiare.Dobbiamo avere fiducia».

l’Unità 12.6.10
La Costituzione secondo Berlusconi
L’inferno del demagogo
di Nicola Tranfaglia

Sapevamo da tempo che il presidente del Consiglio non ama la Costituzione repubblicana. Negli ultimi vent’anni o quasi, a partire dal marzo 1994 in cui ha vinto per la prima volta le elezioni politiche nazionali, l’imprenditore milanese ha sempre parlato il peggio possibile della carta costituzionale. Gli italiani ricorderanno che anni fa la definì una “costituzione sovietica” perché troppo attenta alle esigenze delle masse lavoratrici italiane e, giorni fa, ha sottolineato che in essa si parla di lavoro ma non di imprese e tanto meno di mercato: cioè delle due parole che hanno fino a ieri contrassegnato la sua vita. Avrebbe forse potuto aggiungere che la costituzione non parla neppure di “amici degli amici”: espressione particolarmente cara a chi si iscrive negli anni Settanta alla Loggia massonica coperta P2 di Licio Gelli e a chi ha come amico particolarmente caro un uomo come il senatore Marcello Dell’Utri che di amici siciliani si intende molto,a leggere gli atti che lo riguardano nei processi di Palermo.
Ma oggi non è il caso di polemizzare con le strane amicizie di Silvio Berlusconi quanto di constatare che la sua concezione dello Stato e della democrazia è del tutto incompatibile con i principi e i valori della Costituzione repubblicana come altrettanto incompatibili appaiono i comportamenti dei suoi ministri leghisti che non festeggiano l’anniversario della Repubblica. Peccato che Berlusconi,come del resto i ministri Maroni e Calderoli,abbiano giurato fedeltà al testo costituzionale e dovrebbero comportarsi in maniera coerente: se se ne ha un giudizio negativo o non si riesce ad osservarne i dettami,l’unica soluzione è lasciare il proprio incarico e presentare le dimissioni al Capo dello Stato.
Ma non ci troviamo,a quanto pare,di fronte a persone coerenti e preoccupate della tenuta democratica del paese. Siamo al contrario di fronte a un demagogo populista che da tempo vuole svuotare gli articoli fondamentali della Costituzione e trasformare il nostro Paese in una sorta di regime autoritario dominato dalle televisioni e dai giornali asserviti al governo e alla sua ampia maggioranza parlamentare.
Sicchè gli attacchi alla Costituzione fanno parte della campagna di propaganda che dovrebbe servire a convincere sempre di più la maggioranza degli italiani che la Carta è inutile o peggio dannosa e che Berlusconi ha ragione a lamentarsi sempre di più per i lacci e i lacciuoli che il testo contiene impedendogli di fare tutto quello che vuole come “unto del popolo”. Basterebbe in fondo eliminare dalla Costituzione che all’articolo 1 recita «La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione» quell’affermazione pignola sui limiti e le forme.

il Fatto 12.6.10
Dati del 2007. E non c’era lo scandalo pedofilia
L’Otto per mille in caduta libera
Punizione terrena per la Chiesa
Il fisco sfiducia di fatto le politiche del Vaticano
di Marco Politi

Il 62 per cento degli italiani è convinto che le autorità ecclesiastiche nascondano gli abusi sessuali

Gli italiani bocciano la politica della Chiesa con l’arma fiscale. Per il secondo anno di seguito calano le adesioni all’8 per mille destinato alla Chiesa cattolica.
L'ultimo censimento registra quasi centomila “firme” in meno. E diminuiscono di un dieci per cento anche le offerte deducibili dalle tasse, passando da 16 milioni e mezzo di euro a 14,9. E’ il segno del malumore verso le scelte politiche della gerarchia ecclesiastica: dal sabotaggio del referendum sulla fecondazione assistita fino al veto contro una legge sulle coppie di fatto. In base al sistema di computo del ministero delle Finanze sono dati che si riferiscono a tre anni fa. Cioè alle dichiarazioni fiscali del 2007 (per i redditi del 2006). Ora negli ambienti ecclesiastici si diffonde la paura che quando arriveranno i dati del 2010 – l'anno dei grandi scandali sugli abusi sessuali del clero – crescerà il rifiuto dell'8 per mille alla Chiesa. D'altronde (sondaggio Demos&Pi-Repubblica) il 62 per cento degli italiani si dice convinto che le autorità ecclesiastiche “nascondono e minimizzano” gli abusi sessuali. In Germania già da tempo i fedeli usano il fisco per punire i vertici ecclesiastici, in Italia stanno imparando. Ieri, chiudendo l'Anno sacerdotale, papa Ratzinger è tornato sull'argomento. Dinanzi a quindicimila preti riuniti in piazza San Pietro ha evocato i “peccati di sacerdoti: soprattutto l'abuso nei confronti dei piccoli”. Nell'omelia Benedetto XVI ha esclamato: “Chiediamo insistentemente perdono a Dio e alle persone coinvolte”. Poi ha soggiunto: “Intendiamo promettere di voler fare tutto il possibile affinchè un tale abuso non possa succedere mai più”, anche vigilando sulla selezione dei candidati al sacerdozio. Il pontefice ha persino evocato il “bastone” del pastore contro i “comportamenti indegni” del clero. Ancora una volta, però, si è parlato di peccati e non di crimini. Chi si aspettava che Benedetto XVI desse solennemente indicazioni precise, riassumendo pronunciamenti dei mesi scorsi (necessità di assicurare giustizia alle vittime e impegno a deferire ai tribunali i preti colpevoli) è rimasto deluso. Ma – come vanno ripetendo da tempo le associazioni di vittime in vari Paesi – ormai “non bastano più le dichiarazioni di pentimento, contano solo i fatti concreti”.
Ed è qui che si vanno profilando, specie in Italia, nuovi scandali. Per l'occasione sono giunti a Roma rappresentanti della più grande organizzazione americana di “Sopravvissuti agli abusi del clero”: lo Snap. Peter Isley, uno dei dirigenti, ha affermato alla vigilia della cerimonia: “Chiediamo un'opzione chiara per la tolleranza zero, cioè l'annuncio che i preti-predatori saranno rimossi. Chiediamo la rimozione di ogni copertura e insabbiamento. Chiediamo piena trasparenza sui dossier degli ultimi trent'anni”. Nessuno dei tre punti è stato toccato dal discorso di Benedetto XVI. Gli archivi vaticani restano chiusi, impedendo che si faccia luce sui gravi insabbiamenti dei decenni trascorsi. E soprattutto la Conferenza episcopale italiana, che dipende praticamente dalle indicazioni papali, è clamorosamente alla retroguardia rispetto ad altri episcopati americani ed europei nelle misure concrete per scoprire gli abusi e punire i colpevoli. La diocesi di Roma, di cui è vescovo il Papa, non ha annunciato nessun numero verde, nessun referente ufficiale a cui possano rivolgersi le vittime. In Italia, di cui il Papa è direttamente la più alta autorità religiosa in quanto “Primate”, l'episcopato non ha voluto aprire nessuna inchiesta nazionale. E nemmeno sono stati creati centri di monitoraggio nelle varie diocesi. Ieri l'associazione di vittime “Caramella buona” ha ricordato pubblicamente che il “cardinale Bagnasco non ha mai risposto alla richiesta di un appuntamento”. E’ chiaro che l'istituzione ecclesiastica sta seguendo la politica del quaeta non movere, cioè non agitare le acque. In altre parole, se emergono abusi si interverrà. Ma non c'è nessuna direttiva perché le vittime – e ve ne sono tantissime che vivono in silenzio il trauma e la vergogna – si vadano a cercare e a scoprire.
Non meraviglia che l'indice di gradimento degli italiani nei confronti della Chiesa cattolica sia drasticamente calato. L'inchiesta Demos&Pi-Repubblica l'ha mostrata scesa al 47 per cento. Di pari passo, negli ultimi anni, è calata la fiducia al momento di compilare la dichiarazione dei redditi. Sul totale delle crocette, che ciascuno mette sulla sua dichiarazione, l’ultimo triennio calcolato dal ministero delle Finanze registra un calo costante delle adesioni cattoliche. Erano l'89 per cento nel 2005, sono scese all'86 nel 2006 e sono ulteriormente calate all'85 per cento nel 2007. Ma – sia ben chiaro – le firme espresse si riferiscono soltanto ad un terzo del numero totale dei contribuenti. Dunque quando si parla di un 80 per cento di “crocette” alla Chiesa cattolica ci si riferisce in realtà soltanto ad un trenta per cento circa delle dichiarazioni Irpef. E’ solo grazie al meccanismo truffaldino escogitato nel 1984 (meccanismo che ignora la volontà di fatto di due terzi dei contribuenti di lasciare i restanti soldi Irpef nel bilancio dello Stato) che nelle casse della Cei affluisce un ottanta per cento dell'8 per mille del gettito Irpef. Con il risultato che, stante la crescita del gettito fiscale, la Chiesa cattolica incassa sempre di più anche quando diminuiscono i “votanti” a suo favore. In concreto quest'anno va alla Cei ben un miliardo e 67 milioni di euro. Cento milioni più del 2009.

Repubblica 12.6.10
Scuole, scrutini bloccati così i prof contestano i tagli
Stop alle valutazioni finali in 4mila classi delle superiori
di Salvo Intravaia

Oggi ultimo giorno di lezione. Ma la protesta dei docenti prosegue anche lunedì e martedì
A rischio le prove d´esame: quella nazionale per gli alunni delle medie e la maturità

ROMA - Centinaia di scrutini deserti anche ieri in Puglia, Marche, Veneto, Umbria e Sardegna. E oggi si replica. Per fare saltare una riunione basta l´assenza di un solo professore e lo sciopero di Cobas e precari per denunciare i tagli a stipendi e organici scolastici sta avendo un successo inaspettato. Oltre 40 mila posti di lavoro in meno e una pesante decurtazione salariale hanno indotto molti docenti, amministrativi, tecnici e personale ausiliario a incrociare le braccia. «È andata molto bene e siamo soltanto al primo tempo: la maggior parte sciopererà lunedì e martedì», spiega Piero Bernocchi, leader dei Cobas. Secondo le rilevazioni del sindacato, lunedì e martedì in Emilia-Romagna sono stati bloccati gli scrutini in più di una classe su cinque. Buona anche l´adesione ieri in Veneto (12 per cento) e in Sardegna (26 per cento). «Complessivamente sono almeno 4 mila - afferma Bernocchi - le classi delle superiori dove non è stato possibile tenere gli scrutini».
L´iniziativa proseguirà lunedì e martedì in Abruzzo, Basilicata, Campania, Lazio. Liguria, Lombardia, Molise, Friuli Venezia-Giulia, Piemonte, Sicilia, Toscana, Valle d´Aosta e provincia di Bolzano. E, a questo punto, che possa essere intralciata la prova nazionale Invalsi del 17 giugno per gli allievi di terza media o l´esame di maturità, al via il 22 giugno con il compito di Italiano, è un´ipotesi tutt´altro che remota. «Dopo le nostre diffide - spiega il leader del sindacato di base - la maggior parte dei presidi, per non ostacolare l´effetto della protesta, ha convocato le riunioni dopo la fine delle lezioni, e non prima. Nelle classi dove non si sono potuti svolgere gli scrutini occorrerà ripeterli»,. In 12 regioni italiane le lezioni si chiudono oggi e solo dopo sarà possibile iniziare gli scrutini: lo sciopero potrebbe far slittare tutto in avanti. Complessivamente - tra elementari, medie e superiori - le classi da scrutinare quest´anno sono oltre 207 mila.
Intanto, con un fronte sindacale spaccato e con i leader che litigano, nel Paese la protesta contro i tagli prende anche altre forme. A Milano duecento tra insegnanti, genitori e studenti hanno improvvisato un "flash mob" in piazza Duomo. A Firenze, piazza Santissima Annunziata è stata trasformata in un´aula con tanto di banchi, cattedra e lavagna. A Torino, l´altro ieri è cominciata l´occupazione dell´ex istituto magistrale Regina Margherita da parte dei docenti. Mentre ieri a Cagliari si è svolto un sit-in di protesta davanti i locali dell´Ufficio scolastico regionale. I più colpiti dai tagli imposti da Tremonti saranno i soggetti più deboli, i docenti non di ruolo. Con la scomparsa di 40 mila posti già dal mese di settembre si troveranno in difficoltà 15 mila precari: i pensionamenti, appena 30 mila, indorano soltanto la pillola. E con la manovra da 25 miliardi varata pochi giorni fa il governo «mette le mani nelle tasche degli insegnanti», dicono i sindacati.
Tre gli effetti sugli stipendi di prof, maestri e personale non docente: niente rinnovo del contratto, blocco degli automatismi stipendiali e pesanti ripercussioni sulle pensioni. È la stessa relazione tecnica allegata alla legge di conversione del decreto che chiarisce i termini della questione. Il blocco degli scatti automatici (ogni 6 anni) peserà per quasi 19 miliardi di euro e produrrà effetti fino al 2048. Ogni addetto alla scuola, docente e no, perderà dal 2011 a fine carriera dai 29 mila ai 42 mila euro che non potrà più recuperare e avrà una pensione più "leggera". Oggi, supportata dagli studenti, sarà in piazza a Roma con due cortei la Flc Cgil. Lunedì 15, Cisl scuola, Uil Scuola, Snals Confsal e Gilda degli insegnanti manifesteranno sempre nella capitale e il 25 giugno sarà la volta dello sciopero generale indetto dalla Cgil.

l’Unità 12.6.10
Gramsci e Machiavelli profeti d’oggi
L’anticipazione Un’indagine insolita, un viaggio nelle viscere del pensiero dell’autore del «Principe», la metafora del «prigioniero disarmato»: un duello a distanza tra due giganti in cui leggere le radici e le sconfitte del presente
di Giulio Ferroni

Oggi siamo in grado di guardare al pensiero di Gramsci oggi non tanto e non soltanto per l’elaborazione di modelli politici direttamente applicabili, ma per seguirne il movimento drammatico, il processo di una scrittura che fa i conti con le più varie sollecitazioni dell’esperienza, mettendo continuamente in causa i propri orizzonti: segno eccezionale di resistenza entro la condizione carceraria e di risposta alla sconfitta della lotta politica e rivoluzionaria; interrogazione delle possibili strade di uscita dalla situazione storica, con ipotesi e svolgimenti che non possono non modificare e correggere linee di condotta e programmi energicamente prospettati negli anni precedenti.
Quella dei Quaderni del carcere è allora una originalissima dimensione saggistica, dialogo intellettuale ed esistenziale con la realtà contemporanea, vista attraverso la riflessione sulla precedente esperienza, le letture e gli studi che il prigioniero riesce ora a fare, il filtro e la distanza che il carcere impone: in questa scrittura vediamo così svolgersi un pensiero sempre «in situazione», che oggi non possiamo valutare come un funzionale strumento politico, ma piuttosto sollecita, come i grandi classici, atti di interpretazione, agendo dinamicamente con una forza di mediazione, di sollecitazione problematica. Questo pensiero non offre insomma (e comunque non ci può offrire ancora oggi, dopo i crolli finali del XX secolo) regole e modelli diretti di comportamento, indicazioni per l’azione: ma si impone con la sua lucidissima sfida alle difficoltà che il carcere poneva all’esercizio di un giudizio sul mondo, alla riflessione sulla realtà.
Questa ottica, e non certo quella del prontuario politico che cedettero di ricavarne i machiavellici nostrani, si rivela tanto più essenziale nel caso del rapporto con Machiavelli. Del resto nella storia del pensiero e nella pratica politica l’opera del segretario fiorentino è stata spesso recepita (e continua ad essere da molti recepita) come modello e suggerimento di comportamenti politici, di presunte regole ‘scientifiche’ della politica: io credo invece che la sua forza più autentica sta proprio nella sua spinta di mediazione, di sollecitazione problematica, addirittura di suggestione mitica (...); e proprio in questa chiave essa agisce nella riflessione di Gramsci.
Scendere nel cuore concreto della scrittura di Machiavelli porta a verificare che, più che elaborare norme per la gestione del potere, egli viene a registrare una situazione si sconfitta e di perdita, si scontra con una serie di difficoltà a cui risponde cercando rimedi adeguati o superandole con dei veri e propri ‘salti’ teorici, con appassionate diversioni verso l’immaginazione mitica. Io credo che proprio questo Machiavelli agisca più in profondità nel pensiero e nella scrittura di Gramsci. (...) Gramsci tende con forza a ricavare dalle distinzioni delle diverse prospettive in atto nell’opera di Machiavelli una linea di sintesi, di integrazione organica; egli vede in atto degli opposti necessari che devono convergere in un nesso tanto più produttivo, in quanto fulmineo, segnato da guizzante vitalità. (...)
Nella condizione dell’ex segretario fiorentino, nella concentrazione del suo impegno individuale, senza nessun esercito da condurre, Gramsci vede specchiata la propria stessa condizione di prigioniero, escluso dalla diretta lotta politica, dalla conduzione delle lotte in cui è impegnato il partito «moderno Principe».
REALTÀ & AZIONE
La nota già citata sul rapporto tra essere e dover essere ha uno svolgimento significativamente diverso nel Quaderno 8, 84, e nel Quaderno13, 16. Così essa prosegue (...) insistendo sull’opposizione Machiavelli-Savonarola, nel Quaderno 8, 84: «L'opposizione Savonarola-Machiavelli non è l'opposizione tra essere e dover essere, ma tra due “dover essere”, quello astratto e fumoso del Savonarola e quello realistico del Machiavelli, realistico anche se non diventato realtà immediata, ché non si può attendere che un individuo e un libro mutino la realtà, ma solo la interpretino e indichino la linea dell'azione. Né il Machiavelli pensava o si proponeva di mutare la realtà ma solo e concretamente di mostrare come avrebbero dovuto operare le forze storiche concrete per mutare la realtà esistente in modo concreto e di portata storica. (Il Russo ha accumulato molte parole a questo proposito nei Prolegomeni ma il limite e l'angustia del Machiavelli consiste poi solo nell'essere il Machiavelli un singolo individuo, uno scrittore e non il capo di uno Stato o di un esercito, che è pure un singolo individuo, ma avente a sua disposizione le forze di uno Stato o di un esercito e non solo eserciti di parole)» (Q 990-991). (...)
Nelle battute aggiunte con la difesa di Machiavelli dalla qualifica di «profeta disarmato» e nel reciso rifiuto di Gramsci verso quello «spirito a buon mercato» possiamo leggere un drammatico scatto difensivo nei confronti della propria stessa condizione e dello svolgimento del proprio pensiero: respingere i limiti del pensiero di Machiavelli significa respingere anche il pericolo di veder vanificato il proprio così determinato impegno teorico e politico, la sovrumana tensione del prigioniero solo e “disarmato”, senza Principe e senza esercito.

l’Unità 12.6.10
Così lo Stato e la Chiesa “sterilizzano” la scienza
di Antonio Gramsci

Le correnti filosofiche idealistiche (Croce e Gentile) hanno determinato un primo processo di isolamento degli scienziati (scienze naturali o esatte) dal mondo della cultura. La filosofia e la scienza si sono staccate e gli scienziati hanno perduto molto del loro prestigio.
Un altro processo di isolamento si è avuto per il nuovo prestigio dato al cattolicesimo e per il formarsi del centro neoscolastico. Così gli scienziati «laici» hanno contro la religione e la filosofia più diffusa; non può non avvenire un loro imbozzolamento e una «denutrizione» dell'attività scientifica che non può svilupparsi isolata dal mondo della cultura generale.
D'altronde: poiché l'attività scientifica è in Italia strettamente legata al bilancio dello Stato, che non è lauto, all'atrofizzarsi di uno sviluppo del «pensiero» scientifico, della teoria, non può per compenso neanche aversi uno sviluppo della «tecnica» strumentale sperimentale, che domanda larghezza di mezzi e di dotazioni.
SACRIFICI INAUDITI
Questo disgregarsi dell'unità scientifica, del pensiero generale, è sentito: si è cercato di rimediare elaborando, anche in questo campo, un «nazionalismo» scientifico, cioè sostenendo la tesi della «nazionalità» della scienza. Ma è evidente che si tratta di costruzioni esteriori estrinseche, buone per i Congressi e le celebrazioni oratorie, ma senza efficacia pratica.
E tuttavia gli scienziati italiani sono valorosi e fanno, con pochi mezzi, sacrifici inauditi e ottengono risultati mirabili. Il pericolo più grande pare essere rappresentato dal gruppo neoscolastico, che minaccia di assorbire molta attività scientifica sterilizzandola per reazione all'idealismo gentiliano.
da «Note di cultura italiana. 1) La scienza e la cultura»

venerdì 11 giugno 2010

Repubblica 11.6.10
Il perché di una pagina bianca
di Ezio Mauro

Una prima pagina bianca, per testimoniare ai lettori e al Paese che ieri è intervenuta per legge una violenza nel circuito democratico attraverso il quale i giornali informano e i cittadini si rendono consapevoli, dunque giudicano e controllano. Una violenza consumata dal governo, che con il voto di fiducia per evitare sorprese ha approvato al Senato la legge sulle intercettazioni telefoniche, che è in realtà una legge sulla libertà: la libertà di cercare le prove dei reati secondo le procedure di tutti i Paesi civili – nel dovere dello Stato di garantire la legalità e di rendere giustizia – e la libertà dei cittadini di accedere alle informazioni necessarie per conoscere e per sapere, dunque per giudicare.
La violenza di maggioranza è qui: nel voler limitare fino all´ostruzionismo irragionevole l´attività della magistratura nel contrasto al crimine, restringendo la possibilità di usare le intercettazioni per la ricerca delle prove dei reati. E nel voler impedire che i cittadini vengano informati del contenuto delle intercettazioni, impedendo ai giornali la libera valutazione delle notizie, nell´interesse dei lettori. Tutto questo, mentre infuria lo scandalo della Protezione Civile, nato con le risate intercettate ai costruttori legati al "sistema" di governo, felici per le scosse di terremoto che squassavano L´Aquila.
Le piccole modifiche che sono state fatte alla legge (si voleva addirittura tenere il Paese al buio sulle inchieste per quattro anni) non cambiano affatto il carattere illiberale di una norma di salvaguardia della casta di governo, terrorizzata dal rischio che i magistrati indaghino, i giornali raccontino, i cittadini prendano coscienza. Anzi. La proroga dei termini per gli ascolti, di poche ore in poche ore, è proceduralmente più ridicola che macchinosa. E le multe altissime agli editori non sono sanzioni ma inviti espliciti ad espropriare la libertà delle redazioni dei giornali nel decidere ciò che si deve pubblicare.
Ciò che resta, finché potrà durare, è l´atto d´imperio del governo su un diritto fondamentale dei cittadini – quello di sapere – cui è collegato il dovere dei giornalisti di informare. Se questa legge passerà alla Camera, il governo deciderà attraverso di essa la quantità e la qualità delle notizie "sensibili" che potranno essere stampate dai giornali, e quindi conosciute dai lettori. Attenzione: la legge-bavaglio decide per noi, e decide secondo la volontà del governo ciò che noi dobbiamo sapere, ciò che noi possiamo scrivere.
Con ogni evidenza, tutto questo non è accettabile: non dai giornalisti soltanto, ma dai cittadini, dal sistema democratico. Ecco perché la prima pagina di "Repubblica" è bianca, per testimoniare ciò che sta accadendo. E per dire che non deve accadere, e non accadrà.

Repubblica 11.6.10
Se la norma infrange il diritto
di Gustavo Zagrebelsky

È adeguato alla serietà delle questioni sollevate dal disegno di legge del Governo sulle intercettazioni telefoniche e sulle limitazioni alla libertà di stampa il dibattito, anzi la rivolta, che ne è seguita. Siamo alle fasi finali della procedura parlamentare ma la procedura parlamentare non chiuderà la partita, anche se l´impostazione della legge è ormai definita. I poteri d´indagine penale risulteranno ridotti e, parallelamente, l´impunità della criminalità sarà allargata; i vincoli procedurali, organizzativi e disciplinari saranno moltiplicati a tal punto che i magistrati inquirenti ai quali venisse ancora in mente, pur nei casi ammessi, di ricorrere a intercettazioni saranno scoraggiati: a non fare non sbaglieranno; a fare correranno rischi a ogni piè sospinto. La libertà degli organi d´informazione d´attingere ai contenuti delle intercettazioni disposte nelle indagini penali sarà ridotta fortemente e la violazione dei divieti sarà sanzionata pesantemente.
Tutto in proposito è stato ormai detto. Nulla potrebbe ancora aggiungersi e nulla potrebbe togliersi.
Al di là delle valutazioni circa le singole disposizioni, è stato anche colto il significato che una legge di questo genere non può non assumere presso l´opinione pubblica avvertita, nel momento attuale della vita pubblica del nostro Paese, mai come ora intaccata dalla corruzione: l´auto-immunizzazione con forza di legge di "giri di potere" oligarchico che intendono governare i propri interessi al riparo dai controlli, siano quelli della legge o siano quelli dell´opinione pubblica.
Tutto è stato detto per ora, ma la partita non si chiuderà di certo in Parlamento, nella dialettica tra la maggioranza e l´opposizione. La prima potrà sconfiggere la seconda con gli strumenti parlamentari di cui può far uso e abuso (la questione di fiducia in materia di diritti fondamentali) e così mettere per iscritto la volontà di chi comanda e fare la legge. Ma al di là della legge c´è pur sempre il diritto, e col diritto la legge deve fare i conti. Forse mai come in questo caso legge e diritto, lex e ius, queste due componenti dell´esperienza giuridica, sono apparsi così nettamente distinti, anzi, contrapposti. Quando ciò accade, la forza della legge è debole perché è avvertita come arbitrio e, prima o poi, anche se con costi e sofferenze, l´equilibrio sarà ristabilito.
Che cosa sia la legge, basta guardarne il testo. Che cosa sia il diritto, è cosa meno semplice ma più profonda. Innanzitutto, la legge dovrà passare alla promulgazione del Presidente della Repubblica, il cui potere di rinvio alle Camere è un´espressione non del capriccio personale ma del diritto. Poi la legge sarà sottoposta all´interpretazione, entro le coordinate dei principi del diritto; poi sarà sottoposta al controllo della Corte costituzionale, nel nome del diritto più profondo, su cui ogni legge deve appoggiarsi; poi sarà forse sottoposta a una valutazione popolare, in nome di quel diritto legale di resistenza che è il referendum abrogativo. Questo, nell´insieme, è il diritto con il quale questa legge dovrà fare i conti e questi sono i suoi strumenti. A ciò oggi si aggiunge il diritto dell´Europa, da cui la validità della legislazione degli Stati che ne fanno parte è condizionata.
* * *
Alla luce di questo quadro complesso, la legge che il Parlamento s´accinge a varare non supera il vaglio del diritto, soprattutto per quanto riguarda quello che a me pare il vizio macroscopico, che macroscopicamente tradisce una mentalità illiberale, o meglio autoritaria, di chi l´ha impostata, presumibilmente senza nemmeno rendersene conto (poiché altrimenti, pronunciando ogni giorno parole di libertà, certamente avrebbe evitato…). In ogni regime libero, l´informazione è un delicatissimo sistema di diritti e di doveri, in cui l´interesse dei cittadini a essere informati e il connesso diritto-dovere dei giornalisti di fare cronaca, onesta e completa, dei fatti di rilevanza pubblica incontra i soli limiti che derivano dal rispetto dell´onore e della riservatezza delle persone. Sono le persone offese che, ricorrendo al giudice, in un rapporto per così dire, paritario con il giornalista o il giornale, possono chiedere la riparazione del loro diritto violato. Il potere politico, governo o parlamento, non c´entrano per niente. Non possono prendere provvedimenti o stabilire per legge quel che i giornali, gli organi d´informazione in genere, possono o non possono pubblicare. Possono certo stabilire casi di segretezza o di riservatezza, per proteggere l´interesse al buon andamento di funzioni pubbliche (ad esempio, trattative diplomatiche, operazioni dei servizi di sicurezza, svolgimento di indagini giudiziarie, ecc.) e, a questo fine, possono prevedere sanzioni a carico dei funzionari infedeli che violano il segreto e la riservatezza. Ma non possono estendere il divieto e la sanzione agli organi dell´informazione i quali, quale che sia stato il modo, siano venuti in possesso di informazioni rilevanti e le abbiano portate alla conoscenza della pubblica opinione. In breve: il potere politico può proteggersi, ma non può farlo imbavagliando un potere – il potere dell´informazione – che ha la sua ragion d´essere nel controllo del potere. Potrà sembrare un´anomalia che la lecita auto-tutela della politica non si estenda fino alle estreme conseguenze, non investa la stampa. Ma in ogni regime libero un´anomalia non è, perché l´informazione appartiene a un´altra sfera e non può diventare un´appendice, una funzione servente, un organo della politica e del governo (come avviene nei momenti eccezionali della guerra o del pericolo per la sicurezza nazionale). È la separazione dei poteri (e l´informazione è un potere) a richiederlo e a determinare la possibilità della contraddizione. Sono i regimi autoritari, quelli in cui non vi sono contraddizioni. Ma allora, lì, la stampa vive delle informazioni che il potere politico, caso per caso o per legge non fa differenza, l´autorizza a rendere pubbliche; vive degli ossi che il padrone le butta.
Da dove traiamo questo principio d´autonomia e libertà della stampa? Innanzitutto dalla cultura e dalla civiltà costituzionale, cioè dal quadro di sfondo che dà un senso alla democrazia. Poi dall´art. 21 della Costituzione, che proclama il diritto alla libertà d´informazione senza limiti diversi dal buon costume, vietando per sovrapprezzo, e come rafforzamento, le autorizzazioni e le censure, cioè gli strumenti di asservimento della stampa conosciuti sotto il fascismo. Oggi poi è la Convenzione europea dei diritti dell´uomo, da quando, nel 2001, è assurta a livello costituzionale e al medesimo livello si collocano le interpretazioni che ne dà la Corte di Strasburgo, altra base sicura del diritto alla libertà della stampa. L´art. 10 § 2 della Convenzione ammette bensì "formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni", ma solo quando siano "misure necessarie in una società democratica" per tutelare certe esigenze di sicurezza, ordine pubblico, ecc., che nel caso della legge italiana certamente non ricorrono in generale. La Corte europea ha precisato che le limitazioni possono derivare solo da "bisogni sociali imperativi" (non esigenze di funzionamento di pubblici poteri), che le misure prese "non devono essere di natura tale da dissuadere la stampa dal partecipare alla discussione di problemi di legittimo interesse generale" e, nel celebre caso Dupuis contro Francia (7 giugno 2007), riguardante la pubblicazione di notizie coperte dal segreto processuale, che quando c´è di mezzo il diritto all´informazione, "il potere di apprezzamento degli Stati si arresta di fronte all´interesse delle società democratiche ad assicurare e mantenere la libertà di stampa". Si trattava, per l´appunto, di giornalisti che si erano documentati attraverso fughe di notizie o documenti e conversazioni confidenziali: tutte cose che le società libere non demonizzano affatto (pur cercando di impedirle da parte dei funzionari pubblici), quando vengono nelle mani di giornalisti.
* * *
Il disegno di legge che sta per essere trasformato in legge non tiene conto di tutto questo, anzi lo contraddice. A carico dei giornalisti e degli editori sono stabiliti divieti tassativi di pubblicazione. Sanzioni penali, disciplinari e amministrative li collocano in una ragnatela di condizionamenti, esterni e interni alle imprese giornalistiche, certamente incompatibile con la libertà della stampa di fare il proprio dovere "in una società democratica". Questi condizionamenti, altrettanto certamente, sono tali (si pensi a che cosa rappresenta per le piccole imprese giornalistiche la sanzione in denaro che può raggiungere diverse centinaia di migliaia di euro) da "dissuadere la stampa dal partecipare alla discussione dei problemi di interesse generale" come, tanto per fare un esempio di fantasia, la pubblica corruzione. Ci sono tutte, e sono evidenti, le ragioni per le quali questa legge finirà col cozzare contro quel diritto.

Repubblica 11.6.10
Ciccone, l´inventrice del post it giallo: difendiamo il diritto di conoscere
"Dal web alla piazza continueremo a protestare"
Contatteremo poliziotti, magistrati, giornalisti. Chiederemo a tutti come cambierà il loro lavoro con questa legge
di Tiziana Testa

ROMA - «Stiamo cominciando a contattare magistrati, poliziotti, giornalisti. Chiederemo a tutti di spiegare come cambierà il loro lavoro con questa legge. E poi lo racconteremo su volantini da scaricare online e da distribuire a ogni occasione. Nei quartieri, ai vicini di casa, sugli autobus, alle stazioni della metro. Perché la rete è importante, ma bisogna anche uscire dal web". Arianna Ciccone, 39 anni, giornalista, è l´ideatrice di Valigia blu, il network di cittadini mobilitati da mesi sulla libertà d´informazione in Italia. Parla in un´intervista a Repubblica tv, durante il lungo speciale dedicato al voto di fiducia al Senato sulla legge-bavaglio. E, dopo il risultato, parte alla carica. «Questa legge – dice - è contro tutti i cittadini. Danneggia il loro diritto di conoscere e anche il loro diritto alla sicurezza, visto che ostacola il lavoro dei magistrati. Farlo capire ai frequentatori della rete non è stato difficile, abbiamo già 206 mila iscritti al nostro gruppo su Facebook. Più complicato è portare il popolo della rete in piazza. E convincere chi non naviga in Internet. Perché il sentimento prevalente, oggi, è la sfiducia».
Il viaggio di Valigia blu è iniziato il 26 febbraio quando il Tg1, riferendosi al caso Mills, parlò di assoluzione invece che di prescrizione. La Ciccone si presentò davanti alla Rai con le firme di 155 mila persone che chiedevano una rettifica al direttore Minzolini. Oggi, con la battaglia sulle intercettazioni, la sua agenda è fitta: «Saremo a manifestare davanti a Montecitorio quando la legge tornerà alla Camera; chiederemo di assistere alla seduta, come abbiamo già fatto al Senato col post-it giallo sulla giacca; listeremo a lutto il nostro blog; parteciperemo a tutte le iniziative della Federazione nazionale della stampa». E Napolitano? «Invieremo mail al presidente per chiedergli di non firmare la legge. L´hanno già fatto 7 mila persone. Il capo dello Stato resta l´ultimo baluardo». E se Napolitano dovesse firmare? "Non ci fermeremo. Ci resta la raccolta di firme per il referendum".

Repubblica 11.6.10
La vittoria della società opaca
di Alexander Stille

L´argomentazione principale a favore di queste norme è più o meno questa: «Si immagina il povero cittadino che si vede sbattuto sulle prime pagine dei giornali - con sue frasi prese fuori contesto - e poi magari prosciolto perché il fatto non sussiste?», mi disse una volta Niccolò Ghedini, l´avvocato di Silvio Berlusconi e uno dei promotori della legge.In primo luogo, in tutti gli anni che ho girato l´Italia non ho mai sentito dire da un cittadino normale: «Quello che ci vuole in questo paese è una bella legge sulle intercettazioni telefoniche perché sono stufo di vedermi sbattuto in prima pagina per reati che non ho commesso!». Da cittadini normali ho sentito invece esprimere migliaia di volte il desiderio di essere liberi da un sistema soffocante di corruzione, clientela, favoritismi e crimineorganizzato che rappresenta una minaccia seria allo sviluppo dell´Italia e ai diritti più elementari dei suoi cittadini.
Il desiderio di una legge sulle intercettazioni l´ho visto esprimere solamente dai politici, e solo da una minoranza di essi, in genere quelli attorno a Silvio Berlusconi, il quale si è proprio stufato di vedersi sbattuto in prima pagina con conversazioni davvero imbarazzanti che rivelano frequentazioni assai discutibili e giochi di potere al confine tra il lecito e l´illecito. Il numero di persone intercettate - a differenza del numero di apparecchi messi sotto controllo - è in realtà stimato intorno ai 20.000 all´anno. Il telefono del primo ministro non è mai stato messo sotto controllo: ha soltanto la strana abitudine di parlare con frequenza allarmante con alcuni di questi 20.000 sospettati.
È non solo giusto ma importante che i cittadini conoscano gli indizi di reato, soprattutto in casi che riguardano l´amministrazione pubblica, prima di un processo. Immaginiamo per un momento che l´attuale proposta di legge fosse stata in vigore durante l´anno passato. Non sapremmo nulla dello scandalo della Protezione Civile e della "cricca" di appaltatori che ne hanno beneficiato. Il pubblico italiano continuerebbe a pensare che Guido Bertolaso è l´uomo dei miracoli e che il sistema della Protezione Civile - che salta le normali procedure d´appalto - è il modo migliore per fare opere pubbliche in Italia. Non sapremmo nulla dei massaggi e dei festini offerti a Bertolaso dall´imprenditore Diego Anemone. Il ministro Scajola sarebbe ancora al suo posto nel bellissimo appartamento comprato in buona parte con i soldi di Anemone. Le intercettazioni telefoniche probabilmente non sarebbero concesse in questo caso - non trattandosi di reati di mafia o di terrorismo - e, se fatte, non sarebbero state rese pubbliche.
Nessuno di questi signori è stato processato ed è del tutto possibile che nessuno di loro sarà condannato. Ed è giusto che sia così: le prove devono essere molto consistenti e i magistrati devono seguire procedure giudiziarie molto precise per garantire i diritti degli imputati. Ma qualcuno davvero pensa che sarebbe meglio se non sapessimo nulla di tutta questa palude? I magistrati sono costretti dalla legge, durante un´inchiesta, a fornire prove prima di arrestare un sospetto criminale o al momento di chiedere il rinvio a giudizio. A questo punto, molte prove - comprese le intercettazioni - diventano di dominio pubblico. Anche se gli imputati possono essere eventualmente scagionati, è giusto che il pubblico abbia la possibilità di conoscere il loro contenuto.
In primo luogo questo dà la possibilità alla società di reagire al malcostume, di cambiare rotta, di sostituire ufficiali pubblici sospettati di reati o semplicemente colti in comportamenti poco etici ma forse non illegali. In secondo luogo, il fatto che certi passaggi importanti non avvengano nel buio è una garanzia del funzionamento del sistema giudiziario e politico. Siccome nessuno è perfetto, compresa la magistratura, è giusto che l´opinione pubblica serva come controllo sia alla magistratura sia al mondo politico. È la ragione per cui i processi avvengono in aule aperte al pubblico. In Italia, abbiamo visto tanti processi affossati e finiti nel nulla nonostante prove agghiaccianti.
Poi, lavorando senza malafede, la magistratura può archiviare un caso sulla base di considerazioni tecniche. Il lavoro del giudice non è di stabilire la verità; ha un compito molto più limitato: stabilire se le prove, raccolte e presentate secondo criteri molto precisi, sono sufficienti per portare a una condanna. Il tribunale - per proteggere lo stato di diritto e semplificare una realtà potenzialmente infinita - limita molto il tipo di prove che può esaminare. È costretto a scartare alcuni elementi di prova per ragioni puramente tecniche: prove raccolte illegalmente o la parola di testimoni che non si presentano in aula. E poi anche il semplice passare del tempo - specialmente in Italia con la sua legge sulla prescrizione - può vanificare un processo. Questo non ha niente a che fare con la ricerca della verità che è il compito dello storico ma anche un diritto dell´opinione pubblica e quindi un dovere del giornalista.Molte prove hanno una grande importanza anche se non costituiscono un reato. Per esempio, intercettazioni fatte su Giuseppe Mandalari, un commercialista di Corleone considerato dalla polizia italiana come il fiscalista del boss Totò Riina, poco dopo le elezioni del 1994 hanno prodotto rivelazioni sconvolgenti. «Bellissimo, tutti i candidati amici miei e tutti eletti!», ha detto Mandalari dopo che il "Polo del Buongoverno" capeggiato da Berlusconi aveva vinto 54 seggi su 61 seggi in Sicilia. Poi nei giorni successivi tre politici della nuova coalizione vincente - due senatori e un deputato - hanno telefonato a Mandalari per ringraziarlo e uno gli ha mandato un fax con il curriculum di suo figlio. I tre parlamentari in questione non sono stati incriminati perché, evidentemente, non c´erano altre prove per dimostrare piena collusione con la mafia. E quindi con la nuova legge non sarebbero mai venute alla luce. Ma è giusto che siano state rese pubbliche anche in tempi rapidi. Il cittadino ha tutto il diritto di sapere se i suoi rappresentanti parlano con mafiosi o furfanti anche se fare ciò può non essere un reato.
Ormai, è un fatto acquisito, tra economisti e politologi, che la trasparenza sia fondamentale per una democrazia sana e che la trasparenza vada di pari con altre cose positive: la crescita economica, la libertà di stampa e lo stato di diritto. Nel novembre del 1999, la Transparency International ha rilevato che i costi di costruzione della metropolitana di Milano sono scesi del 57 per cento dopo l´inchiesta di Mani Pulite. Ma l´Italia da un po´ di tempo sta andando nella direzione sbagliata. Dal 2004 al 2009, l´Italia è scesa dal 42esimo al 63esimo posto nella graduatoria di Transparency. La corruzione, invece, cresce nel buio. Secondo la Corte dei conti, i contribuenti italiani perdono tra 50 e 60 miliardi di euro all´anno a causa della corruzione. Questa legge introduce buio dove finora c´è stata un po´ di luce.

il Fatto 11.6.10
Legge criminale e per i cruminali ma con Internet si può aggirare
Potremo leggere le notizie vietate grazie al Web globale
di Peter Gomez

In Birmania il regime vieta le videocamere e tiene sotto controllo la Rete. In Cina 40 mila funzionari comunisti si occupano della censura sul Web. Ma, nonostante le molte persone finite in prigione, attraverso Internet riusciamo lo stesso a vedere e sapere ciò che accade. Ebbene, ieri in Italia un esecutivo retto da un premier sedicente liberale ha fatto votare una legge di stampo birmano. Una norma che non impedirà solo la pubblicazione, anche per riassunto, delle intercettazioni non più coperte da segreto. Ma che pure vieterà agli elettori di rivolgersi ai media per diffondere video e file audio da loro registrati. A legge approvata, se un cittadino vedrà un sindaco o un parlamentare a cena con un boss mafioso e lo immortalerà col telefonino, rischierà la galera. Per questo tipo di riprese, effettuate da non iscritti all’Ordine dei giornalisti, sono previste pene fino ai 4 anni di carcere. Dobbiamo preoccuparci? Sì, perché la maggioranza dei nominati in Parlamento, terrorizzata dalle indagini sulla corruzione, dimostra di voler togliere agli italiani non solo la libertà di sapere, ma anche quella di dire. Dobbiamo aver paura? No, perché a ulteriore prova di come la Casta viva ormai in una sorta di realtà parallela, il cosiddetto legislatore non ha fatto i conti con la tecnologia. Gli uomini di Berlusconi – unico leader al mondo incapace persino di accendere un computer – non hanno ben capito quale tipo di mostro sia stato da loro partorito. Già a cominciare dalle prossime ore migliaia di file verranno inviati dall’Italia a siti esteri disposti a pubblicarli. Quando e se scatterà l’ora del Bavaglio (la legge è adesso alla Camera) il Web diventerà così la nuova frontiera degli uomini liberi. Ma per orientarsi, spesso sarà necessaria una guida. Anche per questo il nuovo sito de Il Fatto Quotidiano verrà alla luce nelle prossime settimane. Fin da ora ci impegniamo non solo a violare la legge con atti di disobbedienza civile, ma anche a segnalare i link dove trovare quelle che noi consideriamo vere
notizie. È inevitabile infatti che, in questo clima da fine impero, sul Web finisca per arrivare di tutto. Pure documenti o immagini (magari in reale violazione della privacy) che mai sul nostro giornale troverebbero spazio. Quindi continueremo a fare il nostro mestiere. Racconteremo i fatti. E in base alla nostra capacità di selezionarli chiederemo di essere giudicati. Non dai tribunali costretti ad applicare le norme Bavaglio. Ma dai lettori.

il Fatto 11.6.10
“Daremo asilo alle vostre notizie”
Mora (El Pais): È l’ultima tappa del regime
di Silvia Truzzi

Anche al tempo del regime fascista gli italiani che volevano sapere la verità potevano cercarla sui giornali stranieri. Ma non ne erano affatto contenti. Lo scriveva Indro Montanelli nel 2001, rispondendo a un lettore del Corriere. La censura trova sempre i suoi antidoti e oggi il rimedio potrebbe arrivare proprio dai giornali stranieri. Miguel Mora, corrispondente del Paìs da Roma, è in Italia dal 2008: l’anno scorso fu protagonista di un indimenticabile duetto alla Maddalena con Berlusconi, notoriamente poco abituato alle domande dei giornalisti. Nel caso si trattava dell’affare D’Addario: Mora gli chiese se non aveva preso in considerazione l’ipotesi di dimettersi. I giornali degli altri Paesi daranno asilo politico alle notizie italiane, se questo bavaglio dovesse diventare legge? Io ho ancora delle speranze. Spero che qualcosa succeda: se l’Europa protestasse o se il presidente della Repubblica decidesse il rinvio alle Camere. Forse non tutto è perduto, anche se Berlusconi mi sembra molto determinato. È un problema europeo e internazionale, non italiano. L’Italia ha una legislazione antimafia molto efficace, che altri Stati non hanno: se dovesse essere toccata, le conseguenze saranno terribili anche per gli altri Paesi. Ci saranno comunque giornali europei, e non solo, disposti a ospitare le notizie che il regime berlusconiano ha censurato.
Ha detto “regime”.
L’Italia è in un regime mediatico da anni. L’uomo che controlla l’80 per cento delle televisioni e ha interessi ovunque – dal calcio alla pubblicità – è il presidente del Consiglio. Se non è una dittatura è un regime populista-aziendalista. Questa legge è una spinta ulteriore verso una società meno informata e una magistratura indebolita nella lotta alla criminalità. È inquietante, ma è la conseguenza logica della politica di questi anni.
Perché l’Europa non fa nulla?
E perché l’Italia ha permesso a Berlusconi di essere eleggibile? L’Europa è un’unione monetaria, non politica. In Spagna, ma anche in Francia, abbiamo avuto fenomeni simili a Berlusconi: ma sono stati arginati. Perché gli anticorpi democratici di questi Paesi li hanno rifiutati. La responsabilità è di chi non l’ha fermato. È vero che in quel momento – nel ‘94 – c’era un grande caos nella politica italiana, ma doveva essere stabilita una soglia democratica da non valicare. La responsabilità dell’Europa c’è, ma c’è anche quella della sinistra italiana. Che è entrata in questo gioco, o perché ha pensato che fosse strumentale o perché non era in grado di governare.
Come ha reagito Zapatero all’abbandono di Berlusconi in conferenza stampa? Era esterrefatto: è la seconda volta che gli fa uno show, dopo quello della Maddalena l’anno scorso.
Napolitano ha detto: “I professionisti della richiesta al presidente della Repubblica di non firmare spesso parlano a vanvera”. Crede che firmerà il bavaglio?
Non firmare creerebbe un conflitto tra le istituzioni. Io credo che lui sarà onesto: se troverà aspetti di incostituzionalità, rinvierà alle Camere. Non capisco però questa frase sul “parlare a vanvera”. Se esiste questa possibilità perché non utilizzarla? Forse voleva solo dire, lasciatemi fare il mio lavoro in pace.
Forse non è il momento di andare per il sottile: si è parlato anche di inserire la pena detentiva per gli editori.
È una cosa inaudita. C’è un abuso di intercettazioni inutili. Questo è un problema che però si risolve in due minuti. Dietro c’è la volontà di punire la stampa e i magistrati, i nemici giurati di Berlusconi. Ma giornalisti e magistrati sono anche due importanti protagonisti dei regimi democratici.
Il premier ha definito la stampa italiana anche troppo libera... C’è un grande coraggio in alcuni quotidiani e in alcuni programmi televisivi. Sono gli eroi del giornalismo italiano. Ma sono un’eccezione. Tutti gli altri temono per il loro stipendio.

l’Unità 11.6.10
Inaugurazione a Roma della struttura di formazione politica. Collaborazione con Fare Futuro
Nel cda Soru e Calearo. Fra gli ospiti Zingaretti, Franceschini, Leoluca Orlando e Melandri
A scuola di «Democratica» Veltroni con Udc e Vendola
Veltroni presenta «Democratica», scuola di formazione politica rivolta alle nuove generazioni «che hanno voglia di assumersi responsabilità verso il paese». «Un luogo aperto, non la corrente di Walter».
di Jolanda Bufalini

Tomacelli 46 scala B, dove era la vecchia sede del Manifesto, per i più grandi, sopra lo showroom della Ferrari, per i più giovani. È la sede di “Democratica”, scuola di formazione politica presieduta da Walter Veltroni. L’aula è attrezzata per le lezioni con proiettori e collegamenti internet. C’è un sito che serve per le iscrizioni e per l’insegnamento a distanza. Iscrizioni libere e a modico prezzo per fidelizzare più che per finanziarie. «Luogo apertissimo», insiste Veltroni: «È l’aggettivo a cui tengo di più».
Scuola vera, «non una finzione per spacciare altro» rivolta soprattutto ma non esclusivamente ai giovani «che vogliano mettere un po’ d’ordine nelle idee etiche e sociali che i grandi sconvolgimenti del primo decennio del secolo hanno scombinato, ancorandosi a valori come competenza, legalità, ascolto». Dunque non un «pezzetto della corrente veltroniana» precisa subito Michele Salvati, che guida il comitato scientifico, e alla quale «non mi sarei iscritto nemmeno io ribatte Veltroni la sola parola mi fa venire il mal di stomaco, non l’ho mai fatta e per questo qualcuno mi rimprovera».
Democratica ha il sostegno di 151 parlamentari che si sono impegnati anche a contribuire finanziariamente, del Pd, di Sel, Idv, Api, Udc. Ha un CdA nel quale siedono Renato Soru, Maria Paola Merloni, Raffaele Ranucci, Guido Ghisolfi, Massimo Calearo, un direttore Salvatore Vassallo. Due donne al controllo del funzionamento della struttura: Anna Maria Malato (imprenditrice) sarà la tesoriera, Giovanna Marinelli, che ha fino a poco tempo fa diretto il Teatro di Roma, sarà il segretario generale.
In sala fra i primi arriva Leoluca Orlando, c’è Giovanna Melandri, Walter Verini, c’è Piero Terracina, sopravvissuto alla deportazione degli ebrei romani del 16 ottobre 1943. «È, con la mia famiglia, la persona a cui voglio più bene», dice Veltroni che, con Terracina, ha accompagnato ad Auschwitz centinaia di ragazzi delle scuole romane. Arrivano per il brindisi di inaugurazione Nicola Zingaretti, Giorgio La Malfa, Angelo Guglielmi, Dario Franceschini, Paolo Gentiloni, Savino Pezzotta.
FARE FUTURO
Democratica guarda al centro sinistra nella accezione più larga del termine. Una delle prime iniziative, illustrata da Salvatore Vassallo, sarà dedicata ad Ustica, coinvolgerà i familiari delle vittime «che hanno trasformato il dolore privato in impegno pubblico» e avrà come tema, introdotto da Giovanni De luna “la democrazia e il segreto”. Vi parteciperanno anche Pier Ferdinando Casini e Giuseppe Pisanu.
Il seminario estivo, dedicato alla legalità, si svolgerà in Calabria e sarà in collaborazione con “Fare futuro”. Apertura ma con discriminanti, spiega Salvati. Con Fare futuro sulla legalità c’è un discorso comune. E Veltroni ne approfitta per fare l’unica battuta direttamente politica della presentazione: «Quella di oggi è una brutta giornata per il paese, spero che alla Camera sia possibile discutere sulle intercettazioni, come è diritto del Parlamento fare».
Fra i temi dei seminari: il federalismo fiscale, le politiche pubbliche, la comunicazione. Quanto alla storia e alle idee, si punta sulle biografie di personaggi che potevano apparire minoritari ai contemporanei ma che la storia ha dimostrato essere molto lucidi: Piero Gobetti (ne parlerà Piero Fassino), i fratelli Rosselli (Fabio Mussi), Piero Calamandrei (Giorgio La Malfa), Beniamino Andreatta (Arturo Parisi)

il Fatto 11.6.10
“Con questi tagli serve una ribellione sociale”
Vendola lancia l’allarme dopo l’incontro con Tremonti: la manovra è un colpo allo stato sociale
di Luca De Carolis

Del 2013 e di primarie non ha voluto parlare “perché è un discorso prematuro”. Ma ha usato toni da leader dell’opposizione, evocando “una ribellione sociale importante”, contro “un governo intollerante, che sta trascinando l’Italia in un buco nero”. Nichi Vendola non ha fretta di candidarsi come capo del centrosinistra. Per il leader di Sinistra Ecologia e Libertà, il presente è fatto dell’emergenza democratica e sociale creata dalla destra. E ieri a Roma lo ha detto ad alta voce, nella doppia veste di governatore regionale e leader politico.
Nel pomeriggio Vendola si è scontrato con l’intransigenza del teorico dei tagli, Giulio Tremonti, poi in serata è andato a riempire di entusiasmo la folla in piazza del Pantheon, per la manifestazione nazionale di Sel contro la manovra. Tra un appuntamento e l’altro, in tanti gli hanno chiesto se si presenterà alle primarie, per diventare il candidato premier del centrosinistra nel 2013. Vendola ha preso tempo: “Il discorso è prematuro, perché adesso il centrosinistra deve riaprire i propri cantieri, ritrovare un patto tra politica e popolo. Se ritrova un popolo, ritrova un leader. E magari sarà proprio il popolo a trovare il leader”. Come a dire che la base va riconquistata, e che in vista di benefiche primarie bisognerà seminare parecchio. Senza stancarsi di ricordare alla gente che il governo le sta togliendo il futuro.
“La manovra è un colpo allo stato sociale, un massacro che renderà le Regioni amministratori fallimentari delle proprie risorse” sibila il leader di Sel. Ieri, assieme ad altri presidenti regionali, Vendola ha incontrato Tremonti, il ministro per i Rapporti con le regioni, Fitto, e il ministro per la Semplificazione normativa, Calderoli. I governatori speravano in qualche apertura sulla manovra, ma il ministro dell’Economia ha chiuso la porta a doppia mandata, confermando i tagli da macelleria sociale per gli enti locali.
Ma Vendola non ci sta: “Da parte del governo c’è un atteggiamento intollerante, una saracinesca chiusa, nessuna disponibilità a trattare la questione. Tremonti ci ha detto che sono i numeri che fanno la politica, e non il contrario. Ma la sua è una formula esoterica, un abracadabra”. A cui il leader di Sel risponde con una verità ben diversa: “Con questa manovra modello ‘Briatore’ le regioni vengono uccise, il ceto medio e popolare viene emarginato, e non si vede alcun elemento di crescita. L’Italia, soprattutto il Sud, sta finendo in un buco nero”.
Bisogna rialzarsi, e Vendola chiama all’adunata democratica: “Credo che ci siano tutti gli ingredienti sociali per una ribellione sociale importante”. Un appello pesante, nel giorno in cui il Senato ha detto sì alla legge-bavaglio.
“Vogliono sopprimere le intercettazioni perché danno la possibilità di entrare nei salotti buoni, dove spesso bella vita e malavita si incontrano” attacca il governatore della Puglia. A occhio e croce, un tipo poco salottiero.

l’Unità 11.6.10
Quella partita per la giustizia nel mondo
La revisione della Corte penale internazionale
di Emma Bonino

In Uganda sta per concludersi la Conferenza di revisione della Corte Penale Internazionale. L’avvenimento è più o meno passato sotto silenzio, eppure è stata un’occasione importante, sia per le vittime di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio, che per quanti si battono nel mondo per porre un limite all’impunità e affermare che può esserci pace senza giustizia. Ancor più importante è che la conferenza si sia tenuta in Africa. In effetti la Corte è spesso accusata di essere uno strumento “di stampo coloniale”, di Nord contro Sud. Non è così. Da Commissaria Ue, verso la fine degli anni Novanta, passavo più tempo su e giù per la regione dei Grandi Laghi che a Bruxelles, non solo per far fronte all’emergenza umanitaria, eredità di due genocidi che hanno sconquassato la regione in quel decennio, ma anche per battere a tappeto le capitali, alla ricerca di ratifiche. Il Partito radicale trasnazionale era attivo in Asia o in America Latina e alla fine, in soli quattro anni, nel 2002 la Corte ha preso a funzionare. La determinazione degli “Stati Parte” a dare corpo al principio del «No all’impunità, sì alla giustizia penale internazionale», emerge oggi rafforzata, anche in termini di opinione pubblica. Ancora una volta sono gli Stati africani a giocare il ruolo di punta. L’Uganda ha deferito alla Corte il caso del leader dei ribelli del Lord's Resistance Army, latitante nel Nord del Paese, lo stesso hanno fatto Congo e Repubblica centrafricana per altri criminali. Il Consiglio di Sicurezza ha deferito alla Corte il caso del presidente sudanese Bashir e la Corte, di propria iniziativa, ha aperto un’inchiesta sul Kenya. Troppo poco, diranno gli scettici, troppo lento, dicono gli impazienti, troppo politicizzata, dicono gli accusati, ma intanto la Corte esce rafforzata. Il Bangladesh ha appena ratificato e la Malesia ha annunciato la ratifica. Certo, mancano “grandi” potenze, ma in molti cominciano a riconoscere l’utilità della Corte. Kampala si è battuta per essere la sede di questo appuntamento, in segno di supporto alla Corte e al principio della giustizia internazionale, e per l’occasione ha chiesto a «Non c’è Pace Senza Giustizia» di preparare un evento che mettesse insieme vittime di guerra, delegati e protagonisti della Corte.
Così è stata organizzata una partita di calcio tra due squadre miste, capitanate dal Segretario Generale dell’Onu Ban Ki-moon e dal presidente ugandese Museveni. Nel ruolo di terzino, il ministro della Giustizia italiano Angelino Alfano. È stato un momento di condivisione emozionante, e quando ho fischiato la fine del match, con orgoglio ho visto vittime e ministri sedersi sul prato a discutere, come mai prima era avvenuto.

Repubblica 11.6.10
In tre anni 5 punti percentuali in meno, ma gli introiti aumentano per il maggior gettito fiscale In calo l´8 per mille alla Chiesa allarme Cei: perse 100mila adesioni
Monsignor Crociata "Nel 2010 un miliardo di euro ma la crisi si farà sentire presto"

CITTÀ DEL VATICANO - In fondo alla dichiarazione dei redditi sempre meno italiani scelgono di destinare l´8 per mille alla Chiesa. E i vertici del Vaticano si preoccupano. È il secondo anno che succede, e la tendenza - anche grazie a una possibile disaffezione dei fedeli per lo scandalo pedofilia - potrebbe aumentare nei prossimi anni. Nelle dichiarazioni fiscali del 2007 (introiti del 2006), le firme dell´8 per 1000 destinate alla Chiesa cattolica risultano infatti in sostanzioso calo. Lo attesta un documento uscito dall´Assemblea generale dei vescovi italiani, conclusasi due settimane fa a Roma, e diffuso ieri dall´agenzia Asca. Le firme a favore della Chiesa sono state l´85,01% del totale nel 2007, contro l´86,05% del 2006 e l´89,82% del 2005.
Il documento era stato presentato dal segretario generale della Conferenza episcopale italiana (Cei), monsignor Mariano Crociata. «Dobbiamo registrare con preoccupazione per il secondo anno consecutivo - scriveva Crociata - un calo percentuale delle firme dei contribuenti a favore della Chiesa cattolica». Sono infatti arrivate 14.839.143 adesioni, cioè ben 95.104 in meno rispetto all´anno precedente. «Le scelte favorevoli alla Chiesa cattolica - commenta il segretario generale della Cei - sono purtroppo diminuite sia in termini percentuali, sia in valore assoluto».
Ma nonostante l´evidente calo percentuale, la somma globale che dallo Stato arriva nelle casse vaticane risulta cresciuta. E ciò a causa della crescita generale del gettito fiscale avvenuta in quegli anni. La Chiesa ha percepito, nell´anno corrente 2010, 1.067 milioni di euro. Contro i 967 del 2009. Un aumento netto di quasi cento milioni. La Cei resta tuttavia preoccupata. «Per il meccanismo di posticipazione a tre anni del calcolo del gettito - spiega nella sua relazione monsignor Crociata - solo a partire dal 2013 sperimenteremo le conseguenze dell´attuale crisi economica sul gettito complessivo dell´Ire e quindi anche sulle somme dell´8 per mille». Per questo la Conferenza episcopale italiana ha deciso di destinare 30 milioni di euro dei fondi relativi all´anno in corso alla ricostituzione del cosiddetto "fondo di riserva", che lo scorso anno era stato svuotato per far fronte a un calo del gettito. Ribadisce il segretario generale Cei nel suo rapporto ai confratelli vescovi: «Un indirizzo fondamentale per la pianificazione e una prudente gestione delle risorse» dovrà essere «già a partire dal presente esercizio la ricostituzione del fondo di riserva».
Anche i dati restanti non paiono confortanti per la Cei. Calano nettamente (-9,9%) le offerte deducibili - volontarie - per il sostentamento del clero. E la somma raccolta nel 2009 risulta di 14,9 milioni di euro, contro i 16,5 del 2008. Monsignor Crociata a riguardo sostiene la necessità di un´attenta analisi interna: «Come ormai da diversi anni, con l´eccezione del 2007, anche questa volta ci troviamo di fronte a una riduzione di tale fonte di finanziamento, che impone un´approfondita riflessione sulle cause del fenomeno e sulle possibili strategie alternative di promozione e raccolta futura». Occorre «una proposta di rilancio» delle offerte volontarie, da prepararsi in autunno. Perché nonostante la cifra raccolta resti comunque cospicua, è però molto lontana dalle attese e dal fabbisogno di sostentamento del clero.
(m. ans.)

Repubblica 11.6.10
I difetti di una riforma universitaria che aggrava i problemi
La riforma Gelmini mette a rischio la cultura italiana
di Alberto Asor Rosa

Spariscono i Dipartimenti di Italianistica e di Filologia Cioè le cellule elementari della nostra vita letteraria e linguistica

L´intervento di Ivano Dionigi, Rettore dell´Università di Bologna, sul progetto di riforma universitaria in discussione alle Camere in queste settimane, è prezioso da molti punti di vista ma innanzitutto perché uno degli attori istituzionali più importanti di questa vicenda accetta di discutere in pubblico (come sarebbe stato giusto fin dall´inizio) le "segrete cose". Nel merito non sono però d´accordo con lui (quasi) su niente, e cercherò di dirlo sinteticamente.
1)Dal DPR 382 sono passati esattamente trent´anni. Nulla di più ragionevole che affrontarne la revisione. La legge Gelmini pone però in capo a tutto un fattore quantitativo: e cioè che ai Dipartimenti afferiscano un numero di professori non inferiore a trentacinque, che sale a quarantacinque in quegli Atenei in cui il numero dei professori superi le mille unità. Questa misura, di mero risparmio economico e che prescinde dal merito, e dunque iugulatoria dell´autonomia universitaria, non è stata minimamente contestata dai Rettori, i quali se mai ("Sapienza" di Roma), con singolare estremismo, portano il limite minimo consentito a cinquantacinque-sessanta. Queste misure colpiscono soprattutto (ma non solo) l´area umanistica; non vedo però perché proprio in Italia non si possa tener conto del fatto che un solo modello organizzativo-scientifico non vale per tutte le situazioni.
2)Ben prima della discussione della legge, è partita una frenetica corsa agli accorpamenti. Faccio qualche esempio (dai quali Dionigi si astiene). In negativo: penso che in tutte le nostre Università spariscano i Dipartimenti di Italianistica e, quasi dovunque, i Dipartimenti di Filologia classica e Filologia romanza: spariscono cioè le cellule elementari della nostra storia e identità, culturale, letteraria e linguistica.
3)Per andare al "positivo", bisogna prendere in considerazione un altro elemento della riforma: l´attribuzione ai Dipartimenti, oltre che delle funzioni di ricerca, anche di quelle didattiche. Ricerca e didattica sono congiunte, come osserva Dionigi: si tratta di vedere come. Quando le dimensioni degli accorpamenti superano il perimetro di una ragionevole specificità disciplinare o interdisciplinare, – e ciò avviene assai spesso, – essi producono organismi che non sono Dipartimenti più grandi, ma Corsi di studio, ovvero di Laurea. Le specificità disciplinari o interdisciplinari spariscono nel mucchio, o si inabissano (almeno si spera) nelle scelte individuali dei singoli docenti. Resta il riaccorpamento organizzativo di unità diverse, che possono dar luogo, alla fine e in un modo qualsiasi, a un titolo di studio (Storia, Filosofia, Lingue, Lettere moderne, Lettere antiche, talvolta Lettere antiche e moderne, ecc.). Quando non c´è neanche questo è persino peggio: gli accorpamenti appaiono puramente pretestuosi, e spesso persino risibili. Insomma: semplificare, concentrare, abolire, unificare, soprattutto risparmiare.
4)Si tratta di una tendenza drammatica, di cui neanche il centrosinistra mostra di essersi accorto. Forse perché, se la legge Berlinguer del tre più due ha aperto la strada alla licealizzazione dell´Università italiana, quella Gelmini ne scuote le fondamenta, mettendone in discussione il ruolo di sede privilegiata della ricerca.
5)Cosa c´è sull´altro piatto della bilancia secondo Dionigi? I fondi per avviare negli Atenei un processo di "meritocrazia". Per dire che la riforma Gelmini è davvero "buona", i Rettori aspettano di vedere se il Fondo di Finanziamento Ordinario sarà "almeno" quello degli anni precedenti e se verrà attribuito agli Atenei il promesso incremento meritocratico del 7% (!). Facile aspettarsi, nelle attuali condizioni economiche del Paese, che né l´una né l´altra aspettativa verrà soddisfatta. Ma anche se lo fosse, cosa fare di quei fondi se, non, semplicemente, tirare avanti in un deserto di rovine?