sabato 4 novembre 2006

Corriere della Sera 4.11.06
STORIE ITALIANE Torna in libreria, in edizione aggiornata, «I ragazzi che volevano fare la rivoluzione» di Aldo Cazzullo
Violenza politica
Il codice ambiguo di una stagione
Lotta continua come simbolo di un decennio dove gli eufemismi mascheravano la durezza degli scontri
di Aldo Cazzullo


Il tema della violenza fu il primo ostacolo che mi trovai di fronte. Capire fino a che punto Lotta continua si fosse spinta nella fase magmatica tra l'autunno caldo e il caso Calabresi, considerata dagli stessi protagonisti come la più confusa ma anche la più creativa, prima che il gruppo diventasse un piccolo partito e un buon giornale. E in particolare nella primavera del 1972, nei mesi della morte di Feltrinelli (riconosciuto proprio da Calabresi sotto il traliccio di Segrate) e di Franco Serantini (morto di botte in carcere e accostato da Sofri a Pinelli).
Miaccorsi subito che imiei interlocutori avevano elaborato una sorta di codice, un dizionario di eufemismi: «antifascismo militante» per scontri con i fascisti, cominciati nel '68 a botte, proseguiti con le molotov e conclusi a fine stagione a colpi di pistola; «violenza di massa» per gli scontri con la polizia in cui, dopo la fine dell'agente Annarumma e dello studente Saltarelli («La gente dei quartieri dice: ieri Pinelli/ ce l'hanno assassinato, e oggi Saltarelli/ Compagno Saltarelli, noi ti vendicheremo/ burocrati e padroni tutti li impiccheremo»), la morte data o subita è messa nel conto; «violenza d'avanguardia» per pestaggi di capi Fiat, roghi di auto, attentati dinamitardi; «lotta armata» per terrorismo.
A leggere i documenti teorici e gli articoli di giornale scritti dai dirigenti di Lotta continua, quasi mai si incrocia l'apologia del terrorismo; quasi sempre anzi il terrorismo viene condannato, tranne in alcuni casi (il più noto è l'articolo firmato «Marcello Manconi» e pubblicato sui
Quaderni piacentini, in risposta alla lettera aperta con cui Luciano Pero annunciava il suo addio in polemica con la linea sul caso Calabresi). Ma in tutti i documenti dei primi anni Settanta si trovavano già le parole d'ordine che da lì a poco i terroristi avrebbero tradotto in brutale e cruenta pratica: il «processo popolare», la «giustizia proletaria», e pure quella «lotta di popolo armata» citata nell'inno di Lotta continua.
Appunto, le canzoni. Chicco Galmozzi, già militante a Sesto San Giovanni, poi fondatore di Prima Linea (gruppo terrorista nato da una diaspora di Lc, come prima i Nuclei armati proletari; ma da Lotta continua venivano pure brigatisti come Walter Alasia, Riccardo Dura, Patrizio Peci), nel suo negozio a Milano mi raccontò il percorso dal servizio d'ordine all'omicidio politico, attraverso i cortei interni — «alla Breda erano talmente violenti che dovevamo intervenire io e Arialdo Lintrami delle Br, due terroristi, a strappare i capi dalle mani degli operai» —, gli assalti alle armerie, i primi ferimenti, per poi riassumere tutto in una battuta: «Del resto, un gruppo che aveva canzoni come L'ora del fucile chi poteva attrarre?».
Però L'ora del fucile, da cantare su una musica country americana, evoca ancora la «violenza di massa», il Che, il Vietnam: «Tutto il mondo sta esplodendo/ dall'Angola alla Palestina/ l'America Latina sta combattendo/ la lotta armata vince in Indocina», per poi concludere, accomunando le rivolte antifranchiste e antisovietiche e accostandole a quelle operaie e contadine in Italia: «Ovunque barricate da Burgos a Stettino/ e anche qui da noi, da Avola a Torino/ da Orgosolo a Marghera, da Battipaglia a Reggio/ la lotta dura avanza i padroni avran la peggio» (ritornello: «Cosa vuoi di più compagno per capire/ che è suonata l'ora del fucile?»).
Ma c'è un'altra canzone, intitolata non a caso
La violenza, molto breve perché da cantare più volte a ritmo sempre più accelerato, in cui i colpi e il sangue non sono quelli inferti dai vietcong o dai fedayn ma la battaglia quasi quotidiana di piazza, e i feriti non sono marines o parà israeliani ma i poliziotti per cui Pasolini aveva simpatizzato: «Oggi ho visto nel corteo tante facce sorridenti/ le compagne di quindici anni, gli operai con gli studenti/ quando poi le camionette hanno fatto i caroselli/ i compagni hanno impugnato i bastoni dei cartelli/ e ho visto le autoblindo rovesciate e poi bruciate/ tanti e tanti baschi neri con le teste fracassate/ La violenza, la violenza, la violenza, la rivolta/ chi ha esitato questa volta lotterà con noi domani».
Invano Giorgio Pietrostefani — cinque ore nel carcere di Pisa: una tra le testimonianze più utili per la comprensione della storia di Lotta continua — mi spiegava che all'inizio non era così, che D'Alema non poteva aver mai tirato una molotov perché nel '68 a Pisa molotov non ce n'erano, «al massimo uno dava una spinta al carabiniere e l'altro si inginocchiava dietro per farlo cadere». Per quanto sapessi che l'anno dopo a Milano Annarumma sarebbe morto con una sbarra conficcata nel cranio, già solo l'idea di far cadere a terra un carabiniere mi pareva estranea, remota, sbucata da un tempo incomprensibile se visto con altri occhi.
Non c'è stato dirigente o militante di Lc (alla fine dell'inchiesta le interviste sarebbero state oltre sessanta, quasi tutte registrate, trascritte e sottoposte all'interlocutore per eventuali correzioni) cui non abbia posto la questione della violenza. Suscitando reazioni molto diverse. Alcuni partivano con interminabili tirate citando teorici orientali dell'arte della guerra, strateghi greci, von Clausewitz. Altri discettavano delle diverse dimensioni delle chiavi inglesi e di arti marziali. Il tono poteva essere evasivo o compiaciuto, reticente o sincero. Mi consigliavano di sentire Fabrizio Salmoni, indicato come un duro del servizio d'ordine, e mi trovavo di fronte un raffinato e smilzo studioso con gli occhiali.
Mi parlavano negli stessi termini di Steve Della Casa, e io leggevo le sue recensioni cinematografiche sul settimanale della Stampa «Torinosette». Ma poi, a forza di domande, e grazie anche al clima di fiducia che si era creato con alcuni protagonisti (con Guido Viale ad esempio abbiamo discusso molte volte, e gliene sono grato), le cautele, le esitazioni, le reticenze, gli eufemismi potevano anche incrinarsi; e si cominciava a capire meglio. Restavano però discordanti le reazioni alle domande sul caso Calabresi. Chi negava (Erri De Luca li chiama «i trasecolati»), chi dubitava, chi ammiccava. Non possiamo essere stati noi; è possibile che siamo stati noi; siamo stati noi ma non lo si può dire (...).
Quando il libro uscì, nel settembre del '98, temevo che sarebbe stato considerato troppo duro dai protagonisti e troppo accondiscendente dagli antagonisti. Fu accolto bene dagli uni e dagli altri, il che mi lasciò il dubbio di aver sbagliato qualcosa. Furono favorevoli le recensioni di Luigi Bobbio (che aveva scritto una storia politica di Lotta continua dieci anni prima) sull'
Unità, di Giovanni De Luna sulla Stampa, di Furio Colombo su Repubblica. De Luna e Colombo ebbero poi un confronto pubblico molto vivace: Furio fu severo con gli ex militanti di Lotta continua, cui rimproverò di aver nuociuto alla causa operaia nei duri anni Settanta torinesi; Gianni Riotta era d'accordo con lui; parte del pubblico no. Dalla provincia arrivarono molti inviti per altre presentazioni.
Quando poi sono tornato sull'argomento con un altro saggio, più breve, dedicato al caso Calabresi (ma anche all'urgenza della grazia a Sofri), gli inviti non sono stati rinnovati. E in effetti la mia opinione su quegli anni è oggi più severa di quella che avevo maturato quando scrivevo dei ragazzi che volevano fare la rivoluzione. Non per questo è necessario cambiare una riga del libro, se non gli inevitabili aggiornamenti. Di opinionisti è già pieno il giornalismo italiano. Ho voluto raccontare una storia. La storia non è cambiata, ed è questa.

Corriere della Sera 4.11.06
IL CASO Il filosofo ottiene la sospensione di «Ich nicht», dove si allude alla sua gioventù nella Hitlerjügend
Habermas «nazista»? Il tribunale blocca il libro di Fest
L'editore: «Faremo ricorso, è soltanto un aneddoto del passato»
Nell'autobiografia dello storico un episodio contestato che accosta l'intellettuale al nazismo
E il filosofo Habermas bloccò il libro di Fest
di Gian Guido Vecchi


L'ACCUSA «Aveva tentato di inghiottire il biglietto in cui esaltava Hitler»Il filosofo tedesco Jürgen Habermas ha ottenuto da un tribunale di Amburgo il blocco delle vendite dell'autobiografia di Joachim Fest, «Io no». In un passaggio del libro dello storico, morto da poco, compare un personaggio ardentemente nazista in cui sarebbe riconoscibile lo stesso Habermas: il tribunale ha ravvisato nel passaggio gli estremi della diffamazione.

L'ultimo libro di Joachim Fest s'intitola Ich nicht, «Io no», e Jürgen Habermas deve averlo preso alla lettera: non gli andava, e c'è da capirlo, di finire nel frullatore mediatico come lo scrittore Günter Grass, altro intellettuale di riferimento della sinistra tedesca. La storiella circolava da tempo, una leggenda metropolitana alimentata dalla Rete e dall'astio che ha diviso una generazione di intellettuali tedeschi, quelli che alla caduta di Hitler erano ancora dei ragazzini e hanno passato il dopoguerra a fare i conti con il passato del proprio Paese. Si raccontava che uno dei maggiori pensatori della Germania e del resto del mondo, un bel giorno, avesse ingoiato un biglietto compromettente come fosse un bigné: poche righe scritte quand'era un giovane nazista entusiasta e vaticinava, a dispetto dell'evidenza, la vittoria del Fuhrer. L'amico cui era inviato, anni più tardi, gliel'avrebbe mostrato per poi vederlo scomparire, stupefatto, nell'augusto stomaco.
Nessuno ci avrebbe fatto caso, non fosse che la storiella, nel frattempo, è stata maliziosamente ripresa nell'autobiografia di Joachim Fest, il grande storico scomparso a metà settembre, quasi un testamento intellettuale appena uscito in Germania: Ich nicht, appunto.
E Jürgen Habermas non l'ha presa bene: il grande filosofo si è rivolto agli avvocati e ha ottenuto che le vendite fossero immediatamente bloccate. Il tribunale di Amburgo, per la precisione, ha imposto all'editore Rowohlt di sospendere la diffusione dell'opera e ristamparla dopo aver eliminato il passaggio incriminato, cioè la famosa storiella. La casa editrice ha annunciato ricorso, «nel libro non c'è nulla su Habermas, si tratta unicamente di un superamento aneddotico del passato», però ha annunciato che già lunedì circoleranno le prime copie ripulite dalla faccenda del biglietto ingoiato, anche perché l'alternativa sarebbe pagare una multa di 250 mila euro.
Del resto, non è che Habermas avesse proprio le traveggole. Nel libro, in effetti, non si fa il nome del filosofo a proposito del biglietto hitleriano. Però si narra di questo pensatore, «uno dei maggiori del Paese», che nel crepuscolo del Terzo Reich «aveva una posizione di guida nella Hitlerjügend» e tempo dopo, ormai negli anni Settanta, si esibì nell'ingestione del famoso biglietto: un gesto che Fest, perfidamente, definisce «liquidazione di sinistro». Ed è qui che l'allusione si fa trasparente: la definizione, di per sé un po' oscura, è identica al titolo dell'articolo con cui Habermas, nell' 86, aveva attaccato lo stesso Fest a proposito di Ernst Nolte e delle sue tesi sull'Olocausto.
La storiella, così, finisce per intrecciarsi con qualcosa di più serio, quasi un regolamento di conti post mortem sulla Storia e le responsabilità della Germania. Fu Joachim Fest, allora vicedirettore della Frankfurter Allgemeine Zeitung, a pubblicare nel fatidico '86 le tesi di Nolte sul nazismo e sulla Shoah come reazione ai massacri del comunismo. Fest non condivideva le idee di Nolte ma ne difese il «diritto ad esprimersi». E così lo storico liberal-conservatore si assicurò il livore della sinistra repubblicana, in testa gli intellettuali del Verfassungspatriotismus, il «patriottismo della Costituzione» di Habermas.
La Germania, il nazismo, la storia, gli intellettuali. Così, dopo vent'anni, la polemica si è riaccesa. Favorita, va da sé, dalle confessioni di Grass sul suo passato nazista. Con una differenza notevole: nel caso dello scrittore, si tratta delle sue parole, in quello del filosofo di un pettegolezzo che il (presunto) testimone ha nel frattempo smentito. L'amico del biglietto si chiama Hans-Ulrich Wehler, nel frattempo divenuto anch'egli storico, prima di morire Fest gli aveva scritto per farsi confermare la vicenda e si era visto rispondere che non era vero. Habermas avrebbe scritto a Wehler il biglietto per rimproverargli le assenze alle lezioni di pronto soccorso e magnificargli le magnifiche sorti e progressive di Hitler. Ma in realtà il «documento» non aveva nulla di particolare, nient'altro che un foglio prestampato della Hitlerjügend che il giovane Habermas poteva al massimo aver firmato, e nessuno lo ingoiò. Del resto, il filosofo non aveva mai nascosto la sua appartenenza alla gioventù hitleriana, anche perché c'era poco da nascondere: alla fine della guerra aveva 14 anni, e un ragazzino non poteva certo rifiutarsi di partecipare alle esercitazioni.
A quanto pare, tuttavia, le precisazioni non sono servite. Lo «scandalo» Habermas è stato anticipato giorni fa da un articolo pubblicato dal periodico Cicero e firmato da Jürgen Busche. In una lettera aperta, il filosofo aveva già risposto: ricordando di aver già smentito da anni le accuse d'essere stato un nazista. Quanto a Busche, lo ha accusato di essere un «delatore» interessato solo a diffondere menzogne. Non una parola su Fest, probabile aspettasse di vedere il libro. Ma lo scopo di tutto questo, nelle parole del filosofo, richiama in qualche modo la vicenda Grass: «Vogliono spazzare via una generazione scomoda di intellettuali».

Corriere della Sera 4.11.06
I rivoluzionari sbagliati di Loach
di Giulio Giorello


«Non è forse giusto diritto di chi è invaso e conquistato opporsi ai propri nemici?» — dichiaravano nel 1649 i Livellatori che avevano respinto l'ordine di andare a combattere gli irlandesi «da sempre ribelli»: furono schiacciati e l'Irlanda conobbe la repressione.
Come un «leveller» si esprime ora Ken Loach («la Repubblica», 1 novembre), insofferente a ogni vincolo frutto di imposizione — a proposito della resistenza irlandese e della successiva guerra civile negli anni Venti del Novecento. È il tema del suo ultimo film, atteso nelle sale italiane. Non sono mancate accuse di simpatia per i «terroristi» dell'IRA: Loach avrebbe fatto propria la tesi per cui «se il dominio è ottenuto con le armi, è con le armi che occorre rispondere», non diversamente da quanto sosteneva Joe Cahill (1920-2004) — uno dei capi repubblicani, che è stato però tra gli artefici del passaggio «dalle pistole alla politica» nel processo di pace per l'Irlanda del nord (si veda B. Anderson, Joe Cahill, Una vita per la libertà, Bompiani).
In realtà, Loach ha dato una lezione di etica e di storia. Su un punto dissento: quando (nell'intervista) sembra accomunare la «resistenza ai poteri iniqui» dei repubblicani d'Irlanda all'attuale guerriglia irachena. Perde così la specificità di secoli di «potere inglese», e non rende giustizia al sacrificio dei repubblicani irlandesi che hanno creato un movimento antisettario, riunendo nell'ideale di una Repubblica democratica donne e uomini di ogni provenienza e religione. Per dirla con una ballata: «Non ci sono più protestanti, cattolici o atei, ma solo combattenti contro la tirannide».

Corriere della Sera 4.11.06
Le lanterne rosse di Franco Fortini
di Antonio Carioti


La grandezza del letterato Franco Fortini è indiscutibile. Ma Daniele Balicco, giovane studioso dell'ateneo di Siena, ritiene che anche dal suo pensiero politico si possano ricavare preziosi insegnamenti. Sull'argomento ha scritto per l'editore Manifestolibri un saggio denso e appassionato, di lettura non facilissima (lo dice il titolo stesso: Non parlo a tutti), ma ricco di osservazioni interessanti.
Ne esce il ritratto di uno spirito inquieto, capace di intuizioni acute come di sconcertanti ingenuità. Colpisce per esempio che Fortini, dopo un viaggio in Cina nel 1955, avesse visto nella rivoluzione maoista «la possibilità realizzata — così scrive Balicco — di un comunismo sperimentale, insieme etico e politico, pianificato e plurale, capace di ibridare il pensiero occidentale e la tradizione millenaria cinese, e di restituire, in questo modo, al movimento rivoluzionario occidentale, un altro itinerario, radicalmente alternativo a quello sovietico, di lotta per l'umanizzazione del genere umano».
Anche a prescindere dai tratti disumani di quel regime, che poco dopo avrebbero toccato il culmine con la carestia provocata dal famigerato «grande balzo in avanti», non si può fare a meno di notare che lo sbocco della rivoluzione cinese è stato opposto rispetto alle speranze fortiniane. Non un socialismo libertario «pianificato e plurale», un faro per i marxisti occidentali, ma un sistema liberticida aperto al profitto e al mercato, paradiso dei capitalisti stranieri. Con tutto il rispetto per Fortini, sulla Cina aveva scambiato lucciole per lanterne.

Corriere della Sera 4.11.06
Da Ivan il Terribile a Cenerentola Ecco le passioni del cinefilo Stalin
Nell'archivio segreto i suoi giudizi sui film e gli ordini ai registi
di Armando Torno


Le proiezioni al Cremlino
Le conversazioni su arte e politica. «Servono pellicole di qualità e una Cinecittà»
Una pellicola del 1934, cara a Stalin, riceve gli elogi della fascistissima mostra di Venezia

MOSCA — Pochi giorni or sono è andata in onda — prima serata e gran battage pubblicitario — su «Rossia», il più importante canale russo, un documentario di 90 minuti dedicato a Stalin e la terza Roma. In esso, tra l'altro, è ricordato che nei giorni culminanti della «Grande guerra patriottica» (così fu chiamato dal Piccolo Padre il secondo conflitto mondiale) arrivò un ordine esplicito del dittatore al regista Sergej Eisenstein di realizzare un film su Ivan il Terribile. Gli studi cinematografici di Mosca furono spostati ad Alma-Ata (oggi Almaty, nel Kazakhstan); la troupe ebbe un trattamento speciale e fu nutrita con carne, salmone, caviale e zucchero a volontà.
Di più: Stalin volle essere informato minuziosamente sull'avanzamento delle riprese e, per la prima volta in assoluto, è riprodotta sin nei dettagli la liturgia ortodossa. Anzi, siccome della materia era esperto — non dimentichiamo gli studi teologici e il suo successo come giovane cantore di chiesa — supervisionò lui stesso le sequenze, curando i paramenti e gli abiti sacri che furono presi direttamente dalla tesoreria del Cremlino; addirittura intervenne sui gesti degli incensieri e curò i particolari dell'incoronazione di Ivan, mettendogli in bocca ben arricchita l'affermazione attribuita allo staretz Filoteo, che già Ciaikovskij aveva utilizzato in un oratorio: «Da questo momento non sono più granduca di Mosca ma zar di tutte le Russie e Mosca è la terza Roma. La quarta non sarà mai». Già, zar: è contrazione di Czesar, vale a dire Cesare.
Tale notizia va posta accanto alla recente uscita del ponderoso tomo Il cinema-teatro del Cremlino 1928-1953 (Edizioni Rosspen, Mosca, pp. 1120, tiratura di 1.000 esemplari), curato da Kirill Anderson, direttore dell'Archivio di Stato della Federazione russa. In esso vi sono documenti sconosciuti, che gettano nuova luce sulla comunicazione di Stalin, sul suo modo di intendere la cinematografia e la propaganda. Certo, non tutti. Sempre nel ricordato archivio, per esempio, in mezzo a cartelle con copertina di cartoncino rosso recanti la scritta «Sekretno. Iosiph Vissarionovich Stalin», ci sono 250 pagine dattiloscritte intitolate I verbali di Boris Shumiatskij. Chi era costui?
Semplice: il commissario di Stalin per l'industria cinematografica sovietica negli anni '30. Figlio di un povero rilegatore di libri ebreo, diventerà nel '19 commissario politico dell'Esercito Rosso, poi ministro e via via farà carriera sino all'arresto del 18 gennaio 1938 e alla fucilazione del 28 luglio dello stesso anno.
Ogni fascicolo contiene le conversazioni al Cremlino tra Shumiatskij e Stalin (chiamato sovente Koba), durante la proiezione di un film o in discorsi relativi alla cura delle immagini e delle scene. Così, per fare il primo esempio, il documento 16, registrato tra le 23,38 del 18 dicembre 1934 e le 3 del giorno successivo (siglato Rgaspi, F 558, Op 11, D 828, L 81), riguarda la proiezione per la terza volta de La giovinezza di Massimo. Stalin interviene sul contenuto di un volantino: «Bisogna evitare la falsa impressione, perché sembra che nel comitato di Pietroburgo non ci sia nessuno capace di stendere un testo come quello, salvo il nuovo arrivato Massimo». Poi elogia Natasha (la maestra finta) con queste parole: «È brava a menare per il naso quell'agente di polizia. La superiorità ideale del rivoluzionario è così dimostrata perfettamente». Quindi il Piccolo Padre dà giudizi su fotografia e colonna sonora, esalta l'assolo della fisarmonica ed elogia la musica di Shostakovich. Chiede: «Cosa avete deciso di cambiare in questo film?»; e infine: «È eccellente, perché non racconta la storia del movimento in ascesa ma la fatica quotidiana della lotta rivoluzionaria in clandestinità».
Alcune pellicole diventavano quasi ossessionanti per Stalin. Prediligeva quelle tratte dai gialli di Simenon ma, per esempio, Ciapaev (del 1934) lo vede una quarantina di volte e ordina (documento 17 del 20 dicembre 1934, Rgaspi F 558, Op 11 D 828, L 82-83) di «velocizzare due ultimi passaggi della scena notturna con Ciapaev e Pet'ka che discutono l'arte del comando militare». Inoltre si entusiasma per Volga Volga, tanto da cantarne delle parti; né si dimentica dell'organizzazione, come prova quel che dice il 25 dicembre 1935 (Rgaspi F 558, Op 11, D 829, L 64-66): «Di una cinecittà ne abbiamo bisogno. Chi è contrario, non vede al di là del proprio naso. La nostra cinematografia non può permettersi di segnare il passo. Non solo abbiamo bisogno di buoni film, ma anche di film di qualità e di grande diffusione. Fa schifo vedere come in tutte le sale da mesi ci sia in programma sempre la medesima pellicola».
Procedendo tra i dattiloscritti, ci si accorge quale formidabile osservatore fosse Stalin, quanto si curasse anche delle opere più lontane da lui, dedicate a Cenerentola o come Vasilissa la bella (del '39), dove il regista scozzese Alexander Row, rifugiatosi in Urss perché perseguitato dal governo inglese, realizza uno dei primi film moderni con trucchi, draghi volanti, teste isolate che parlano, il tutto con sistemi naturali. Ci sono anche aspetti politici tra queste carte, a cominciare da Giuda Golovlev (del '33) che viene trasformato in una battaglia contro Trotzkij, chiamato non affettuosamente da Stalin «Iuduska», cioè «piccolo Giuda». Allegri ragazzi del '34, a lui molto caro, riceve anche gli elogi della fascistissima mostra di Venezia; mentre in Anton Ivanovich del '41, una commedia musicale, Stalin non censura una palese esagerazione: Johann Sebastian Bach scende da un quadro e cita «La Pravda».
Comunque sia, queste carte sono un documento di prim'ordine e ad esse sta lavorando un ricercatore di Mosca, che abbiamo incontrato. Le ha trascritte quasi tutte e ha già un accordo con un editore russo e uno italiano. Il suo nome? Pazienza. Come direbbe Kipling, ve lo riveleremo la prossima volta.

l'Unità 4.11.06
L’ANNIVERSARIO Libri, convegni e inserti sull’indimenticabile ’56. Una valanga di contributi che non mette bene a fuoco il punto chiave: le alternative allora possibili
I carri a Budapest? Una tragedia evitabile, ma il «realismo» è duro a morire
di Bruno Gravagnuolo


Quattro novembre 1956. Esattamente cinquant’anni fa l’ultimo atto della tragedia ungherese. I carri armati sovietici entrano per la seconda volta a Budapest in un silenzio irreale, di lì a poco spezzato da un crepitìo di mitragliatrice dai tetti. Dopo che una settimana prima l’assedio pareva finito, con il finto ritiro delle divisioni di Mosca oltre confine. S’avvia proprio il quattro la fase operativa dell’operazione «Turbine», con la quale il generale Konev dà il colpo di grazia alle speranze dei patrioti magiari. Tragedia in due tempi dunque, tra il primo intervento sovietico (l’operazione «Onda» del 23 ottobre) e il secondo assalto, alla fine del quale in meno di due settimane la libertà ungherese è liquidata.
Perché questa tempistica in due fasi e importante? Perchè in essa c’è l’enigma e il senso «oscillante» dell’accaduto. Senso ed enigma che le innumerevoli rievocazioni e pubblicazioni uscite in questo cinquantenario non sempre hanno colto. Ricordiamo di passata le più importanti, che formano già una densa bibliografia del cinquantenario. Tre libri, innanzitutto. Enzo Bettiza, 1956, Budapest. I giorni della Rivoluzione (Scie Mondadori); Antonello Biagini, Storia dell’Ungheria contemporanea (Bompiani); e Gyorgy Dalos, Ungheria 1956. Poi tre Dossier. Quello in Diario di Enrico Deaglio; il numero speciale di Micromega 9/2006; l’inserto del Manifesto del 22 ottobre e quello de l’Unità del 23. Inoltre ai primi di dicembre s’annuncia un Convegno romano dell’Istituto Fondazione-Gramsci, mentre a Milano s’è tenuto un importante Convegno con studiosi come Federigo Argentieri, Guerra, Spagnolo e altri. Infine ieri sera l’altro su Raitre è andata in onda La Rivoluzione Ungherese («L’Altra Storia», a cura di Paolo Mieli). Documentario incisivo e conclusione fatalista in questo caso, e però non condivisibile. Tesi: l’impossibile libertà ungherese avrebbe fatto saltare gli equilibri di pace tra Usa e Urss e generato rischio di guerra nucleare.
Ebbene cos’è che non viene fuori bene dal tono complessivo delle celebrazioni? Proprio quel che si diceva prima: il carattere oscillante degli eventi. E cioè la non ineluttabilità dell’epilogo ungherese. In una situazione in cui il Pcus stesso, almeno fino a Suez, fu diviso sul da farsi.
Sfugge però al «determinismo» la discussione tra Rossanda e Parlato sul Manifesto, con la prima a sostenere la possibilità del non intervento, e il secondo a smentire questa tesi, con l’argomento della guerra fredda e del mondo diviso in due, e il corollario di un Pci esposto alla scissione se avesse contrastato l’invasione. Ma fatalista a modo suo è anche Bettiza: Ungheria «vittima sacrificale» della maledizione comunista. «Controfattuale» all’opposto Asor Rosa, in un’ intervista al bel fascicolo di Micromega: un’altra posizione di Krusciov poteva fare evolvere in modo diverso il socialismo, e viceversa quello fu l’inizio della sua fine. Già, ma come stavano veramente le cose?
Chi ci aiuta veramente a capire la trama dei fatti sono Antonello Biagini, storico dell’Europa orientale a Roma, e Gyorgy Dalos, scrittore che vive a Berlino e che nel 1956 aveva tredici anni a Budapest. Due libri i loro che si integrano a meraviglia. Biagini fa la storia della nazione magiara dall’Impero di Mattia Corvino ad oggi. E narra il destino di progressiva oppressione in cui piombò l’Ungheria con le truppe sovietiche nel dopoguerra, all’indomani della liberazione dai nazisti accanto ai quali s’era schierato il reazionario Horty. Caso emblematico di satellizzazione staliniana dentro Yalta, l’Ungheria subisce la «divisione del lavoro sovietica», e un modello collettivista insopportabile. Nondimeno, spiega Dalos, quella ungherese fu una rivoluzione nazionale, e socialista democratica. Persino «consiliare» - dove i comunisti ebbero carte da giocare fino all’ultimo - al contrario di quanto dice Bettiza. Il riformista Nagy infatti dichiarò l’uscita dal patto di Varsavia solo il 1 Novembre, dinanzi alla seconda invasione in atto. Fino a quel momento trattava condizioni di autonomia, ma fu beffato dal Kgb e da Andropov. In realtà Usa e Urss rinsaldano il patto tra loro, tra medioriente ed Europa, dopo un accenno di allentamento dei blocchi. E il Pci? Si allinea all’Urss e caldeggia l’invasione con Togliatti contro Di Vittorio e i 101. E L’Ungheria, invece di diventare una sorta di Finlandia europea, con l’Austria e i non allineati, rinsalda il campo sovietico. E indirettamente quello Usa. Un’altra storia era davvero possibile. E invece...

l'Unità 4.11.06
La ricerca di un linguaggio universale: dai gesti alla danza, all’uso dei suoni
La prima lingua? Fu la musica
di Carlo Sini


Il tempo, lo spazio, la distanza: chi può dire come sia andata? Ma supponiamo, come alcuni pensano, che la specie umana sia davvero nata in un luogo comune, in un’unica regione o patria su questa terra (nel centro dell’Africa? o invece altrove?), come accadde poi che si sia radicalmente divisa, rendendosi, per così dire, straniera a se stessa? Forse il racconto biblico della confusione delle lingue risponde in qualche modo anche a questa domanda. È un fatto che straniero per noi è anzitutto colui che è portatore di un’altra lingua dalla nostra, come la nostra dalla sua. Ecco allora che ci viene meno il luogo comune simbolico per eccellenza: quella parola che ci fa umani perché ci consente di comunicare e di condividere una medesima identità e comunità spirituale, che ci permette di dire «tu», «io» e «noi», e poi «casa», «padre», «madre», «figlio» o «figlia». Dispersi nelle lingue, siamo anche dispersi rispetto a una patria comune, sebbene comune sia stata di sicuro la prima origine di tutti. Oggi che il mondo sembra farsi molto più piccolo, e i contatti tra i popoli e gli individui si moltiplicano, non sempre in modo pacifico, la ferita della dispersione linguistica (che per altro verso è anche una incommensurabile ricchezza, certo, ma come preservarla senza problemi?) assume un peso forse maggiore che in passato.
C’è però anche un grande antidoto al problema, se solo riflettiamo. Per esempio domandiamoci: forse che nel luogo dell’origine, quando gli umani presero a parlarsi, immaginiamo che si esprimessero in turco, svedese o giapponese? O magari in aramaico, in greco o in latino? No di certo. Parafrasando un detto di Platone (poi ripreso dal nostro Vico), probabilmente fecero come di necessità fanno da sempre i sordomuti: usarono i gesti e tutto il corpo; e per gli udenti aggiungiamoci anche i suoni della voce. La prima lingua, dunque, fu molto più simile a una danza e ad un canto che non a una prosa da telegiornale. E se ancora oggi osservate come comunicano un bambino infante e la sua mamma, se provate a descrivere, come ha fatto molto ingegnosamente il noto studioso e psichiatra Daniel Stern, i loro gesti, i loro ritmi e i suoni delle loro voci, vi trovate spontaneamente a usare un gergo da musicisti: potremmo sicuramente trascrivere quei gesti in una partitura di balletto o in un foglio pentagrammato.
E così siamo giunti al punto: che c’è un luogo che da sempre custodisce l’origine spirituale comune di tutti gli umani e questo luogo è ciò che noi occidentali, e non noi soli, chiamiamo arte. E fra le arti poi, e in relazione stretta con esse, proprio la musica incarna di fatto quel linguaggio immediatamente universale nel quale tutti possiamo agevolmente riconoscerci. Essa varca ogni frontiera del tempo e dello spazio, ci raggiunge da ogni dove e in ogni dove nel cuore pulsante stesso della nostra vita e alla radice prima delle nostre emozioni e delle nostre parole. Nella musica, il mondo canta per tutti e tutti cantano il mondo, il loro mondo, usando però un gergo nel quale nessuno più può sentirsi straniero, misconosciuto, fuori luogo, lontano dalla patria.

Repubblica 4.11.06
Dove sbaglia il papa
Scienza e fede secondo Ratzinger
di Luca e Francesco Cavalli Sforza


Un recente discorso del Pontefice potrebbe far tornare indietro la Chiesa di qualche secolo
Non è accettabile la confusione fra ricerca scientifica e tecnologia
Denigrare la tecnica sperimentale suona un po´ come una seconda condanna di Galileo
Nei secoli passati più religioni, compresa quella cattolica, hanno scatenato guerre
La ricerca è neutrale dal punto di vista etico Introdurre barriere alla conoscenza è pericoloso

In un recente discorso, tenuto in occasione dell´inizio dell´anno accademico alla Pontificia Università Lateranense, Papa Benedetto XVI ha posto alcune critiche alla scienza, su cui merita riflettere, perché se accolte nel loro significato letterale potrebbero far tornare indietro la Chiesa di qualche secolo. L´ambiguità del linguaggio umano è una trappola pericolosa, soprattutto quando le proprie parole raggiungono tutto il mondo.
Parlando della crisi di cultura e identità della società contemporanea, il papa diceva: «Il contesto contemporaneo sembra dare il primato a un´intelligenza artificiale che diventa sempre più succube della tecnica sperimentale e dimentica in questo modo che ogni scienza deve pur sempre salvaguardare l´uomo e promuovere la sua tensione verso il bene autentico». E più avanti: «Lasciarsi prendere dal gusto della scoperta senza salvaguardare i criteri che vengono da una visione più profonda farebbe cadere facilmente nel dramma di cui parlava il mito antico: il giovane Icaro, preso dal gusto del volo verso la libertà assoluta e incurante dei richiami del vecchio padre Dedalo, si avvicina sempre di più al sole, dimenticando che le ali con cui si è alzato verso il cielo sono di cera. La caduta rovinosa e la morte sono lo scotto che egli paga a questa sua illusione». «Nella vita - ha poi sottolineato Benedetto XVI - vi sono altre illusioni a cui non ci si può affidare, senza rischiare conseguenze disastrose per la propria ed altrui esistenza».
L´espressione «tecnica sperimentale» suona un po´ come una seconda condanna di Galileo, dopo che l´ultimo pontefice aveva espresso le sue tardive, ma coraggiose scuse al grande scienziato. La scienza usa la sperimentazione come mezzo per giungere alla verità, la tecnica sperimentale è il suo strumento. Per il capo della Chiesa cattolica, è la fede che giunge alla verità: «Dio è la verità ultima a cui ogni ragione naturalmente tende». Ma quale verità, visto che esistono molte religioni e che ognuna propone verità diverse? Anche fra quelle che vogliono Dio sia unico, e fra le tre religioni nate dalla Bibbia, che parlano quindi di uno stesso Dio, vi è grande difformità di vedute riguardo alla natura di questo Dio, e quindi a cosa sia «verità».
L´unica verità che conta è naturalmente quella della propria religione. La pretesa di essere gli unici detentori della verità ultima è come un invito al dialogo tra sordi. Vi sono, inoltre, verità di diverso tipo: verità dimostrabili, e se è il caso controvertibili come quelle scientifiche, e verità la cui base è soltanto la propria fede. Vi sono verità personali, che valgono soltanto per chi ha fatto una certa esperienza, e verità comunicabili e condivisibili.
Alcune si rivelano effimere, altre più durature. La religione cattolica accetta oggi altre religioni, quindi si può pensare che accetti anche altre verità, ma non si è pronunziata molto chiaramente al riguardo. Nei secoli passati più religioni, compresa quella cattolica, hanno suscitato guerre sanguinose e massacri in nome del proprio Dio. Ancora in questi anni abbiamo davanti agli occhi quanta violenza sia perpetrata sventolando la bandiera di Dio, che sia il Dio dell´universo o il Dio laico delle ideologie totalitarie, come comunismo e nazismo nel secolo scorso, o ancora il Dio che parlerebbe tanto al presidente Bush quanto ai suoi arcinemici. Ben vengano religioni che riescono a frenare le guerre, ma tanti esempi mostrano quanto ciò sia difficile, nonostante i tentativi di dialogo interreligioso di questi anni.
La verità scientifica viene raggiunta per approssimazioni successive, mantenendo costante il dubbio e la discussione, perché la scienza conosce bene i suoi limiti e le possibilità di errore. La verità scientifica è una sola, progredisce, ed è universalmente sperimentata da chi pratica le varie discipline. La scienza non ha mai promosso guerre, anche se ha involontariamente fornito alla tecnologia conoscenze che hanno permesso di costruire armi sempre più micidiali, come le atomiche. Sono le scelte umane a fare la differenza, e gli uomini tendono ad agire spinti dal bisogno e dall´avidità. Il lavoro dei ricercatori e degli scienziati ci porta sempre nuove conoscenze, senza avere la pretesa di arrivare a una verità ultima, che forse non è nemmeno raggiungibile. Via via che scopriamo di più del mondo intorno a noi aumenta anche la nostra capacità di comprenderlo, o quantomeno di interpretarlo. Così la scienza ci aiuta a vivere meglio.
Può darsi che Benedetto XVI non volesse condannare di nuovo Galileo, ma che nell´esprimersi abbia fuso insieme scienza e tecnologia. Questa fusione però non è accettabile, perché vi è una differenza essenziale di scopo fra queste due attività, che distinguono l´uomo - l´animale culturale per eccellenza - dagli altri Primati. La differenza: la scienza è ricerca della verità attraverso l´osservazione dei fatti e la sperimentazione, mentre la tecnologia è l´applicazione della scienza per la soluzione di problemi pratici e concreti della vita.
La scienza mira alla verità, la tecnologia all´utilità.
Scienza e tecnologia sono madre e figlia l´una dell´altra, ma sono fenomeni profondamente distinti e oggi è più importante che mai non confonderli. L´accumulo di conoscenze non risulta avere avuto conseguenze dannose. L´accumulo di tecnologie ha permesso progressi immani e creato danni gravissimi, spesso promossi dalle migliori intenzioni (basti pensare alla scoperta dei metalli, all´introduzione dell´automobile, dell´aeroplano, dell´energia atomica). Lo scienziato e il tecnologo vivono l´uno accanto all´altro in una stessa società, sono talvolta la stessa persona, ma è ben diverso l´obiettivo del loro lavoro.
Le motivazioni che spingono scienza e tecnologia sono altra cosa ancora: la curiosità ispira la scienza, la ricerca del benessere guida la tecnologia (benessere materiale, per lo più, ma non sempre). Il paragone con Dedalo e Icaro non è convincente: erano entrambi tecnologi, con diversa maturità e un diverso atteggiamento verso il proprio rischio personale.
Parlare di «un´intelligenza artificiale che diventa sempre più succube della tecnica sperimentale» si presta a generare equivoci. L´intelligenza artificiale è l´uso di mezzi meccanici (elettronici, in pratica) per riprodurre l´attività del nostro cervello. E un campo di ricerca che dà qualche speranza di aiutarci a capire il funzionamento di questa parte molto speciale del nostro organismo. Ha già permesso di imitare e talvolta di superare il cervello, per alcune applicazioni, dal gioco degli scacchi ai robot, fino a quel vasto deposito delle conoscenze umane che è Internet, e sta suscitando applicazioni nuove, che hanno tutte ancora grandi limiti. Oggi sono però soprattutto i progressi di una disciplina, la neurofisiologia, che studia l´attività del sistema nervoso, a darci le migliori speranze di capire le motivazioni umane, che rimangono misteriose, ma sono fonte delle nostre azioni, che siano nobili e generose, o assurde, o malvagie. Questi sviluppi potranno aiutarci anche ad intendere l´intelligenza umana.
La scienza è neutrale dal punto di vista etico, e introdurre barriere alla conoscenza scientifica è pericoloso. Non ce la si può prendere con la scienza perché le nuove conoscenze pongono nuovi dilemmi etici. Si tratta piuttosto di avvalersi delle nuove conoscenze disponibili per affrontare dilemmi etici vecchi e nuovi. Questo non è in disaccordo con la richiesta di «salvaguardare i criteri che vengono da una visione più profonda», purché questa visione sia condivisibile su un piano etico non limitato agli articoli di fede delle varie religioni, ma che riconosca valori realmente universali, come la diminuzione delle sofferenze che si possono evitare, il diritto alla conoscenza, la libera scelta degli individui. Si tratta anche di elaborare una visione in grado di far fronte ai profondi cambiamenti sociali e di costume che si vanno manifestando.
Molto diversa è la posizione etica della tecnologia, dato che tutte le applicazioni delle nostre conoscenze hanno un costo oltre che un beneficio. Prevedere i costi di applicazioni prima che esse si siano diffuse su larga scala è obiettivamente difficile: è un limite della nostra capacità di previsione. Spesso in realtà i costi sono calcolabilissimi, solo che non se ne vuole tener conto, né si sa rinunciare ad applicazioni che promettono vantaggi importanti. Qui, evidentemente, vi è grande necessità di azioni coraggiose suggerite da considerazioni etiche.

Repubblica 4.11.06
Il presidente della Camera a Carbonia in una miniera dismessa: "La storia di questa gente dovrebbe servire da monito al legislatore"
Bertinotti, omaggio ai minatori sardi "Utile portare in piazza la precarietà"
"Le manifestazioni non spaventino, chi governa è bene che si metta in ascolto"
"Andrebbe avviata una grande inchiesta sul lavoro che cambia in Italia"
di Alessandra Longo


CARBONIA - In una fredda giornata di sole, Fausto Bertinotti sceglie il panorama della miniera di Serbariu, a cinque minuti dalle architetture fasciste di Carbonia, per parlare di lavoro. Là dove morirono, dal 1939 al 1964, 128 minatori, là dove, come a Marcinelle, «il carbone valeva più della vita umana». Una cornice forte per ragionare della sofferenza di ieri, ma anche del precariato crudele dei nostri tempi. Mentre i minatori fuori produzione della Carbosulcis, tuta e casco giallo in testa, gli stringono le mani, il presidente della Camera evoca senza imbarazzo la manifestazione di lotta e di governo che vede oggi i suoi in prima fila: «Trovo che la partecipazione, in tutte le sue forme, sia utile per la democrazia del Paese. Combattere la precarietà vuol dire anche portare in piazza questo problema». Lotta alla precarietà, dunque, perché, «quando ero segretario di Rifondazione, ho espresso con chiarezza la mia posizione sulla legge Biagi, perché è la precarietà la più diffusa minaccia nei confronti dei lavoratori, perché precarietà, a volte, significa morti bianche. Quattro persone al giorno in Italia perdono la vita sul lavoro ed è, come denuncia il presidente Napolitano, un fatto intollerabile. L´intera nazione dovrebbe mobilitarsi per impedire questa strage. Le istituzioni dovrebbero promuovere una grande inchiesta su come sta cambiando il lavoro in Italia, rinunciando ad ogni tentazione propagandistica».
Parlare da qui, da Carbonia, dal Sulcis, culla della classe operaia sarda, da una miniera dismessa da oltre 40 anni, che diventa, con l´inaugurazione di ieri, un moderno «Centro italiano della cultura del carbone», omaggio alla memoria ma anche scommessa sulla riconversione dell´area, ha un sapore diverso perché se c´è un lavoro che ha una sua intrinseca tragicità è quello del minatore, costretto dalla miseria a scendere sottoterra, "usato" per produrre, immolato, come dimostrano le povere cose di vita quotidiana raccolte nelle teche di Serbariu, sull´altare più cinico del profitto. «La storia di questa gente - dice Bertinotti, uscendo dal buio dei cunicoli ricostruiti per le visite guidate - dovrebbe servire da monito al legislatore». Anche quando si discute di possibili ritocchi alla legge sulle pensioni: «Deciderà il Parlamento - chiarisce il presidente della Camera - però io invito il legislatore e il governo a evitare la trappola della media anagrafica. 35 anni di miniera non sono la stessa cosa di 35 anni spesi in cattedra».
Lo fermano, si fanno scattare le foto sullo sfondo delle torri minerarie, così come lo avevano applaudito, di prima mattina, nel teatro gremito di Carbonia, con a fianco il presidente della Regione Renato Soru e il sindaco di Carbonia, il diessino Salvatore Cherchi. E´ un Bertinotti meno istituzionale. L´animale politico, l´ex segretario di partito fiuta un clima, un´esigenza. Si rivolge ai lavoratori come ai vecchi tempi, copia l´informalità degli altri e, in teatro, parla in piedi, le mani appoggiate sulla sedia, «così non mi sentite straniero». In questa Sardegna, così lontana dalle feste della Costa Smeralda, il problema è il lavoro, dice Soru. Il futuro? Trasformare il carbone in energia elettrica... Sì, ancora carbone, come agli inizi del secolo, come vent´anni fa, ma con un approccio diverso, a condizione, dice Bertinotti, che «le attività di estrazione si facciano salvaguardando l´ambiente e la salute dei lavoratori». A condizione, anche, che ci sia altro su cui puntare.
In ogni frase c´è cautela, «faccio l´arbitro, non il giocatore», sottolinea a chi gli chiede della Finanziaria: «Spero che il dibattito in Parlamento aiuti il Paese a capire qual è la posta in gioco». Sempre da «osservatore», Bertinotti manda un messaggio all´esecutivo per il corteo di oggi: «Le manifestazioni non devono spaventare ma far riflettere politicamente. Chi governa è bene che si metta in ascolto».
Si metta dunque in ascolto il governo, esorta l´arbitro. Ma guai a chiedergli di Confindustria: «Da cittadino, da uomo libero, mi pare di scorgere un disegno politico, vedo una linea che punta a spostare il baricentro dell´asse del governo... Li ho attaccati? Ma no, io la chiamerei piuttosto legittima difesa dopo le loro stoccate». Mentre parla un vecchio minatore fa suonare la sirena della miniera. C´è qualcosa di solenne e di lugubre, che ridimensiona le polemiche attuali e rimanda alla fatica antica, ai tanti che ci hanno rimesso la vita, qui, nella miniera. Bertinotti cita Ungaretti: «Gli uomini non sono fatti per lavorare nell´inferno».

Repubblica 4.11.06
Giordano, segretario del Prc: Ds e Margherita tentano di forzare il programma
"Ma noi avvertiamo Prodi niente più strappi dall´Ulivo"
Polemiche inutili Come mai nessuno si scandalizza quando gli esponenti dell´Ulivo si confrontano con Confindustria?
ddi Umberto Rosso


ROMA - «A questo punto, lo chiediamo a Prodi: sia lui il garante del programma dell´Unione, non deve assecondare le spinte che arrivano dal nascente Partito democratico, e che provocano strappi ormai quotidiani. L´Unione vive solo se rispetta il programma».
Onorevole Giordano, scendete in piazza fra le polemiche e lanciate pure un «segnale» al premier?
«Un momento, andiamo con ordine. In piazza ci andiamo per ascoltare e difendere le ragioni di un pezzo oramai grande della nostra società. Le polemiche non le capisco e sono pretestuose. Chiedo: nessuno si scandalizza invece quando esponenti dell´Ulivo si confrontano con la Confindustria sulla competitività? Chiedo, allora: i precari sono figli di un dio minore?».
Si direbbe una domanda retorica, questa che rivolge a Ds e Margherita...
«La lotta alla precarietà sta nel programma sul quale, tutti insieme, abbiamo vinto le elezioni. Nei ragionamenti di Fassino e Rutelli trovo sempre molti distinguo. La costruzione del Partito democratico è inapplicabile al tema della precarietà? Questa grande questione il Pd la assume, oppure per la vicinanza a settori della Confindustria la taglia fuori, come materia non discutibile?».
Onorevole Giordano, ci sono due linee ormai nel centrosinistra, massimalisti e riformisti?
«Quella che riconosco, quella dell´alleanza, è la strada indicata dal nostro elettorato, che ci ha votato in nome di un progetto comune. L´altra fa parte di un´ambizione di alcune forze politiche ma non può certo essere assunta dal governo. Insisto. L´Unione vive solo se rispetta il programma e risponde alle domande della società civile».
E la linea «diversa» nell´Unione, secondo lei, porta anche a scenari politici diversi?
«Non mi pare, perché al momento sarebbe troppo avventurista. Con le larghe intese implodono ed esplodono Ds e Margherita, si scatena una conflittualità sindacale durissima, si blocca il Partito democratico. No, non credo che si arrivi a tanto. Il rischio semmai è un altro. Temo un condizionamento della Confindustria sul fronte dell´Ulivo, e per questa via il tentativo di influenzare tutta l´opera del governo».
Sospetti pesanti.
«Il programma del Partito democratico è ancora una nebulosa, e su certi aspetti mi pare risenta assai di certe posizioni della Confindustria. E un programma esplicitamente moderato, come questo del Pd, può finire fatalmente per impattare con quello che si è dato l´Unione».
Ecco perché chiedete a Prodi un passo indietro sul Pd, più premier di tutti e meno leader dell´Ulivo?
«E´ ovvio che Prodi sta nel Partito democratico, è la sua scelta politica e nessuno la contesta. Noi gli chiediamo di farsi garante del programma dell´Unione, di non accettare la sfida lanciata dall´Ulivo sulla fase 2, sulle pensioni, sulle liberalizzazioni, sul pubblico impiego, che nulla hanno a che fare con le posizioni di tutta l´alleanza. Sottoscritte del resto anche da Ds e Margherita».
E per smarcarvi avete deciso di scendere in piazza, un po´ lotta e un po´ governo.
«La manifestazione non è a favore o contro il governo. Ma il governo dovrà ascoltare le storie, i volti, le ragioni di migliaia di giovani. La precarietà ormai investe la sfera stessa della vita: la frantuma, la riduce ad attimi, fredda, competitiva».
Al governo però ci siete voi. Protestate contro voi stessi?
«Il paradosso non c´è. Il governo ha fatto alcune cose, per esempio sui precari della scuola, tante altre vanno fatte. Ma l´idea che o si sta al governo o nei movimenti, scusate, ma è un po´ vecchiotta. Dall´Ottocento questo schema è saltato».

venerdì 3 novembre 2006

Corriere della Sera 3.11.06
Bertinotti: «Larghe intese? Cavallo ruffiano di Confindustria»
Rifondazione contro il tentativo di «spostare il baricentro della maggioranza»


ROMA — Il subcomandante Fausto è tornato, ha dismesso (per il tempo di un'intervista) i panni del presidente della Camera, ha indossato quelli del leader e ha ribadito quanto, da giorni, vanno gridando i vertici di Rifondazione. E cioè che dietro l'opposizione di Montezemolo alla Finanziaria ci sarebbe il tentativo di condizionare Prodi, di spingerlo al centro perché faccia la stessa politica di un governo di larghe intese. Tesi sostenuta da Franco Giordano sul Corriere e che Fausto Bertinotti rilancia dalle pagine di Left Avvenimenti in edicola oggi, scatenando le proteste dell'Ulivo e in particolare dei Ds: «Parole improvvide».
Con la lunga intervista al settimanale, concessa tre giorni fa nel suo studio della Camera ornato da splendide tele di Sironi e Mafai, il presidente lancia severi ammonimenti al leader dell'Unione. Chiede la testa del direttore del Sismi, Nicolò Pollari: «Nella condizione in cui ci troviamo, il cambio dei vertici si impone». E chiede l'attuazione dell'accordo sui Pacs, con la premessa che se Udeur e Margherita votassero no si aprirebbe un problema nell'Unione: «Il compromesso raggiunto va rispettato. Il presidente del Consiglio non può dire che non lo riguarda, visto che l'ha scritto nel suo programma».
Il tema portante del colloquio è però la «totale avversione» alla grande coalizione e il conseguente attacco agli imprenditori. «Confindustria — è il messaggio di Bertinotti a Prodi, Fassino e Rutelli — sceglie la linea di opposizione al governo per un intento strategico». Quale? «Pretendere lo spostamento del baricentro della coalizione in direzione moderata, in modo da stabilire, con questa maggioranza, una politica come quella che farebbe una grande coalizione». Scenario che a Bertinotti non pare nel novero delle cose possibili, perché darebbe luogo al taglio delle ali estreme e alla crisi delle principali forze politiche. Tutti i partiti dell'Unione dicono che se cade Prodi si va al voto, perché allora si continua a parlare di grande alleanza? «Perché è un cavallo ruffiano — conclude il presidente —. Si fa correre non perché deve arrivare al traguardo, ma per deviare la corsa».
Chissà se Piero Fassino aveva letto le anticipazioni dell'intervista quando, da Berlino, ha definito «strumentali e infondate» le accuse di un eccessivo sbilanciamento dell'Unione verso gli interessi del mondo imprenditoriale... Marina Sereni, vicecapogruppo dell'Ulivo alla Camera, le ha lette eccome, le parole di Bertinotti. «Dichiarazioni improprie e improvvide, un'offensiva che mi lascia stupita — ribalta le accuse l'esponente della segreteria Ds —. Si sospetta una offensiva di alcune forze per tagliare le ali? Noi non ne facciamo parte ed è strano che il Prc accrediti una tesi del genere. Non fanno che parlare di grande coalizione e non vorrei che siano proprio loro a reputare interessanti simili scenari... Non staranno pensando di mettere in crisi la maggioranza?». No, l'Ulivo non si muove sotto dettatura di Confindustria, respinge le insinuazioni il coordinatore della Margherita, Antonello Soro: «Più Rifondazione e Pdci gridano al lupo più mettono in fibrillazione la coalizione. La questione non è che il governo è troppo moderato, è che le riforme bisogna farle perché senza crescita non c'è equità». A spaccare l'alleanza di Prodi è anche la manifestazione dei precari domani a Roma, dove tra gli slogan e gli striscioni contro la legge 30, la Bossi-Fini e la riforma Moratti rischia di scapparcene qualcuno contro la «Finanziaria ammazzaprecari» e il ministro Damiano «amico dei padroni», come recitava l'appello dei Cobas pubblicato sul Manifesto.
Ci sarà la Cgil, ma non tutta. Ci saranno i ds, ma solo quelli di sinistra come Cesare Salvi. Ci sarà Rifondazione, ma non il ministro Paolo Ferrero. Che su Liberazione spiega: «Non partecipo per sottrarmi a polemiche e strumentalizzazioni, ma porterò in Consiglio dei ministri le istanze dei lavoratori». Il corteo dei precari, centomila i manifestanti previsti, divide e imbarazza. Il rischio fischi per gli esponenti del governo è altissimo, ma il sottosegretario all'Economia Paolo Cento ha deciso di correrlo. E così Rosa Rinaldi, sottosegretaria al Lavoro di Rifondazione, che sfilerà anche dopo l'attacco dei Cobas al «suo» ministro.

l'Unità 3.11.06
Zingari sterminati dai nazisti, una storia da film
di Gabriella Gallozzi


DOCUMENTARI I nomadi uccisi furono 500mila, forse un milione, il numero preciso non si saprà mai: lo sterminio dimenticato ora in un doppio dvd in libreria

Cinquecentomila, un milione. I numeri ufficiali, probabilmente, non si sapranno mai. Perché se la Shoah ha finalmente avuto una sua «legittimazione», l’olocausto degli zingari, no. Ed è per rompere questa cortina di silenzio che A editrice, rivista anarchica, ha dato alle stampe un prezioso cofanetto di dvd: A forza di essere vento, lo sterminio nazista degli zingari (in libreria e sul sito www.arivista.org, 30 euro), dai versi di Khorakhané, brano di André dedicato ai rom. Sono due dvd ricchi di testimonianze e musiche, insieme a quelle yiddish di Moni Ovadia, che raccontano dello sterminio di rom e sinti da parte del nazifascismo. «Porrajmos», si dice in lingua romanes la distruzione, il divoramento. Contro gli zingari, la Germania di Hitler e l’Italia di Mussolini si sono subito accanite. «Ladri, truffatori, pericolosi per cause genetiche», gli zingari vengono bollati come asociali da allontanare e poi da eliminare. Le prime deportazioni in Germania sono del ‘36, a Dachau, quando Himmler, capo delle Ss, diventa responsabile della «questione zingara». L’Italia fascista già nel ‘26 ordina l’espulsione di tutti gli «zingari stranieri». E poi il loro internamento nei campi di prigionia di Agnone (Molise), Tossicia (Abruzzo), Perdasdefogu (Sardegna). Ma è Auschwitz il luogo più legato al loro sterminio. Lo racconta lo storico Marcello Pezzetti, mostrando una mappa del lager polacco. Per gli zingari un’unica baracca: la Zigeunerlager, dove tra il ‘43 e il ‘44 morirono in oltre ventimila. Se lo ricorda bene Hugo Hollenreimer, sinto tedesco che ad Auschwitz è sopravvissuto persino agli esperimenti di Mengele: «Avevo 9 anni e insieme a mio fratello Mengele ci prese tra le tante cavie. Ho visto ragazzi trasformati in ragazze e viceversa, pieni di cuciture tra le gambe». Rotti dal pianto, sono i ricordi di Mirko Levak, rom italiano, pure lui internato ad Auschwitz. Dalla Croazia a Trieste le sue memorie testimoniano anche della barbarie degli ustascia, di donne incinta squartate, di sepolti vivi nelle fosse. Eppure, racconta con entusiasmo Pezzetti, il 16 maggio ‘44 alla notizia della soluzione finale l’intero Zingeunerlager si è rivoltato: «Le donne in prima fila a proteggere i bambini, gli uomini con coltellini preparati di nascosto sono riusciti a mettere in fuga gli assassini. Questa pagina di resistenza tra le più belle della storia non deve più restare sconosciuta».

l'Unità 3.11.06
Dagli studi sul materialismo di Epicuro a quelli sul calcolo differenziale applicato all’economia
Marx, la matematica della liberazione
di Pietro Greco


SCIENZA Frugando tra le carte del filosofo di Treviri salta fuori una zona poco conosciuta dei suoi interessi: i quaderni matematici. Ora vengono pubblicati e testimoniano la scientificità di un metodo e di uno stile di lavoro modernissimi
IL BOOM EDITORALE La riscoperta di un classico che pareva sepolto e oggi rilanciato dai conflitti della globalizzazione

Karl Marx? Un matematico. Autore di pregevoli saggi Sul concetto di funzione derivata e Sul differenziale e studioso di matematica pura. È una dimensione poco conosciuta al grande pubblico quella del grande pensatore tedesco che emerge dalla lettura dei Manoscritti matematici, appena usciti in edizione italiana (pp. 196, euro 25,00) per Spirali a cura di Augusto Ponzio. È inutile ricordare che il pensatore di Treviri è molto più noto come il grande economista che ha scritto Il Capitale; come il filosofo che ha fondato il «materialismo storico», come il pensatore che ha inaugurato il «socialismo scientifico» e come l’attivista politico che, insieme a Friedrich Engels, ha scritto il Manifesto del partito comunista.
Tuttavia Marx non è stato solo questo. È stato anche altro ancora. Un matematico, appunto. Capace di penetrare i fondamenti della scienza dei numeri. E critico della scienza e della filosofia naturale del suo tempo, perché convinto che senza un’analisi attenta della scienza e delle nuove conoscenze che essa produce non si può essere né buoni economisti, né buoni filosofi, né buoni politici. Tuttavia se leggiamo i suoi Manoscritti matematici ci accorgiamo che sarebbe riduttivo, come peraltro rileva Augusto Ponzio, pensare che l’interesse che mostra Marx per la «serva e padrona di tutte le scienze» sia funzionale ai suoi interessi di teorico dell’economia, di filosofo e di pensatore politico. Marx riconosce il valore culturale in sé della matematica. E la studia anche e soprattutto per questo. Con obiettivi assolutamente ambiziosi, comuni a molti tra i più grandi matematici del suo tempo. Ma, forse, è meglio andare con ordine. I «manoscritti matematici» sono un insieme di lavori sulla matematica scritti da Marx nel corso dell’intera sua vita, pubblicati per la prima volta nel 1933 in Unione Sovietica e apparsi successivamente solo per frammenti in lingua italiana. Per formazione culturale Karl Marx è molto attento alle scienze. Non si è forse laureato discutendo una tesi sulla filosofia naturale di Democrito e di Epicuro? Ma nel corso della sua vita è la matematica che lo affascina. Sia perché la conoscenza matematica è necessaria a chiunque si avvicini all’economia. Sia perché Marx si convince che nessuna scienza, neppure l’economia politica, può dirsi davvero sviluppata se non si fonda sulla matematica.
E i suoi manoscritti matematici hanno un doppio e ambiziosissimo obiettivo: fondare l’economia politica sulla matematica, ma anche fondare su solide basi la matematica stessa e, in particolare, quel nuovo modo di fare matematica che è il calcolo differenziale inventato da Isaac Newton e Gottfried Wilhelm Leibniz. Il primo obiettivo - fondare l’economia su solide basi matematiche - è degno di un economista teorico del suo calibro e comune ai grandi economisti del suo tempo, da Léon Walras a William Jevons.
Il secondo obiettivo - fondare il calcolo differenziale su solide basi concettuali - è ancora più ambizioso e comune solo ad alcuni grandi matematici del suo tempo, come Augustin Cauchy ed Eric Weierstrass. I motivi di fondo che inducono Marx a cercare una teoria profonda del calcolo differenziale risiede nelle «fondazioni mistica» che ne hanno dato Newton e Leibniz: ovvero, lo hanno introdotto ma non ben definito. Questo limite del calcolo moderno - decisivo per la matematizzazione e quindi per lo sviluppo della fisica - è stato colto e affrontato a partire dal XVIII secolo da grandi matematici, come Jean Le Rond d’Alembert e poi da Joseph Louis Lagrange, ma mai davvero risolto. L’intenzione di Marx è, dunque, proprio questa. Andare oltre d’Alembert e Lagrange e fondare su basi concettuali finalmente solide il calcolo differenziale.
Karl Marx non è un matematico di primaria grandezza. Non è aggiornato sugli ultimi sviluppi della letteratura matematica. Mentre esperisce il suo tentativo non sa che Cauchy e Weierstrass stanno risolvendo proprio i problemi che lui pone. Tuttavia i suoi tentativi, che subiscono un’accelerazione proprio negli ultimi anni di vita, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 del XIX secolo, non sono affatto banali e si muovono nella medesima direzione di Cauchy e Weierstrass. In definitiva, Marx non risolve il problema. Ma ha capito qual è e quale strada occorre seguire per trovare la soluzione. Non è davvero poco.
Ma Marx ha capito qualcosa di più. Ha capito che occorre fondare su basi matematiche l’economia. Che il calcolo differenziale costituisce un elemento indispensabile di questa fondazione. E che per fondare su solide basi l’economia, occorre avere una matematica a sua volta ben fondata. Quello della doppia fondazione è stato un problema intuito solo da Marx. D’altra parte poche persone hanno una conoscenza profonda di due discipline così distanti nello spazio delle scienze.
Nelle stesse settimane in cui l’editore Spirali pubblicava i Manoscritti matematici di Marx, l’editore Meltemi pubblicava un libro, Darwin e la filosofia, in cui Patrick Tort ricostruisce il rapporto tra il pensiero del naturalista inglese e quello dell’economista tedesco. Un rapporto per certi versi mancato. Perché Marx si lascia fuorviare dall’interpretazione sociale che del darwinismo propone Herbert Spencer. E che tuttavia, al netto di questo errore (Darwin non intende nel modo più assoluto estendere al sociale l’idea di selezione naturale mediante sopravvivenza del più adatto) contiene un’intuizione profonda da parte di Marx. L’evoluzione biologica per selezione naturale costituisce il substrato di quel materialismo storico con cui egli legge la storia umana. La teoria biologica di Darwin costituisce, dunque, il fondamento naturale della sua teoria politica e sociale. Il tema fondazionale è, dunque, ricorrente in Karl Marx. E costante è l’idea che la ricerca di solide basi concettuali per ogni teoria economica, filosofica e politica possa essere fruttuosa solo se avviene facendo riferimento all’ambito, rigoroso, delle scienze naturali e della matematica. Un’idea che sarà ripresa, in termini diversi, da un altro grande tedesco, Albert Einstein, secondo cui «la scienza senza filosofia è arida, ma la filosofia senza la scienza è vuota». E che ancora oggi è più che mai attuale.

l'Unità 3.11.06
Attali e gli altri, tutti a rileggere il Barbone


Ritorno a Marx? Ben più che una bizzaria, ormai. Dopo la fortunata messe di riedizioni del Manifesto dei Comunisti nel 1998, in occasione del centocinquantesimo anniversario. Dopo che l’anno scorso il filosofo di Treviri è finito in testa ai filosofi più letti nel mondo, in una lista della Bbc on line, staccando Hume, Russell, Platone e Aristotele. Dopo gli allori conquistati da Impero di Negri e Hardt. Ma soprattutto dopo che i fasti della globalizzazione sono stati sottoposti a critica da gente come Stieglitz, Nobel per l’economia e già vicepresidente della Banca Mondiale. Per non dire degli accenti marxiani in tal senso presenti in Soros, e persino in un «neocon» come Luttwak (il «turbocapitalismo»).
Insomma, è tutto un rifiorire di marxismo, rivisitato criticamente. Ma anche recuperato in alcune istanze vitali: finanza globale ed economia-mondo. Al centro la prima delle critiche «lavoristiche» alla neoborghesia finanziaria di studiosi come Luciano Gallino. E la seconda dell’approccio globalistico di storici marxisti come Immanuel Wallerstein. Che riabilita temi leniniani come lo sviluppo ineguale e lo sfruttamento delle aree regionali subalterne, sorretti da categorie marxiste. Non c’è che l’imbarazzo della scelta quanto a bibliografia e spunti, per riprendere un filo che sembrava spezzato e che invece si rivela indispensabile per ricucire la trama del terzo millennio.
Intanto, a differenza degli anni 60 non è un ritorno a Marx ripulito dalle scorie per ritrovarne la «purezza originaria» scientifica. Benchè come dimostra l’interesse matematico di cui ci parla Pietro Greco, Marx stesso si muovesse proprio da scienziato, teso a fabbricarsi gli strumenti rigorosi a contatto con un oggetto inafferrabile: economia e relazioni di potere. Piani complementari e rischiarabili a vicenda, con differenti linguaggi, ma sempre speculari e traducibili (calcolo differenziale/tendenziale delle quantità di lavoro e smascheramento del rapporto di lavoro). No, oggi la rivisitazione è da un lato generale: il debito della modernità anche tarda verso Marx. Dall’altra investe il laboratorio e i problemi insoluti di Marx, incluse le aporie che hanno consentito il «traviamento» del marxismo a beneficio delle sue applicazioni dispotiche. Ci prova adesso Jacques Attali, economista di formazione e già consigliere di Mitterand, a rilanciare le azioni di Marx in una prospettiva comparata col presente e senza sconti di sorta, nel suo Karl Marx, ovvero lo spirito del mondo, in questi giorni tradotto per Fazi (pp. 418, Euro 22), non a caso in cima alle classifiche francesi.
Primo merito di Marx per Attali: la conquista teorica della forma egemone del moderno. Cioè la messa a fuoco del modo di produzione capitalistico. Due: l’integrazione prospettica in quel modo diffusivo, di tecnica, comunicazioni e scienza. Tre: il carattere non naturale di quel modo di produzione, e però termine inarrivato del progresso e dello sviluppo delle forze produttive. Quattro: l’intuizione modernissima della forza smaterializzante e anarchica della finanza. Che realizza su un piano più alto la smaterializzazione del lavoro del processo lavorativo capitalistico. Talché il «valore» di merci, beni e servizi diviene stregamento spettrale (per dirla con Derrida) dell’astratto valore monetario. Il cui incremento detta la divisione del lavoro, gli impeghi e ciò che è socialmente necessario. Incluse compatibilità di bilancio e parametri macroeconomici.
Altro merito di Marx per Attali: l’aver teorizzato per primo la radicalità di una democrazia sovranitaria. Svincolata dalle mistiche burocratiche, eticistiche e censitarie. Infine: la prognosi tendenziale di crisi capitalistiche ricorrenti, che solo nei punti alti di sviluppo potevano trovare soluzioni socialistiche.
E qui incominciano i problemi. Intanto non è vero che Marx non ipotizzasse anche la possibilità di una transizione in Russia. Scriveva nel 1882 a Vera Zasulic: non sono così schematico da pensare a un percorso obbligato dentro il Capitale sviluppato. E infatti immaginò comuni industrializzate in Russia. Inoltre, e ciò non sfugge ad Attali, la democrazia di Marx si ferma agli anni giovanili. Per divenire via via dittatura democratica (del proletariato): dittatura assembleare di mandato revocabile, senza «garanzie borghesi» e di tipo russoiano (la Comune di Parigi). Infine c’è il problema della «legge del valore/lavoro». Conti che non tornano: tra valori e prezzi. Infatti nel valore delle merci entrano lavori non operai esclusi dal calcolo marxiano: inventiva, organizzazione, qualità e uso delle macchine, intuizioni manageriali, marketing, servizi. Resta l’asservimento al profitto e lo stregamento del lavoro nascosto dalla merce e dal denaro. Gran merito averlo svelato! E resta il legame inverso tra profitti e salari, ribadito da Sraffa. Ma occorre riaggiornare il catalogo del lavoro e dei lavori produttivi. Proprio per rilanciarne la liberazione.

Corriere della Sera 3.11.06
UNGHERIA '56 Raccolte in un volume le corrispondenze per il «Corriere della Sera»
Elogio della pazzia, la Budapest di Montanelli
Così raccontò la resistenza degli insorti agli invasori sovietici
di Piero Ostellino


Nel 1956 — l'anno della denuncia dei crimini di Stalin da parte di Kruscev, della crisi di Suez, della rivolta e della repressione sovietica in Ungheria — Indro Montanelli aveva 47 anni ed era l'inviato di punta del Corriere della Sera. Ma gli articoli di fondo, di riflessione sulla situazione internazionale, li faceva Augusto Guerriero, uno che bazzicava sulla stampa specialistica mondiale (nei suoi articoli si sentiva spesso l'eco delle analisi di The World Today, un mensile inglese di altissima qualità); quelli di politica interna li faceva Panfilo Gentile, un liberale che aveva frequentato i classici del pensiero da Aristotele ad Adam Smith a Marx. Solo col passare degli anni e la maturità professionale, Montanelli, smessi i panni dell'inviato speciale, sarebbe diventato un abituale estensore di articoli di fondo.
Il mestiere dell'inviato speciale è, innanzitutto, frutto di una curiosità quasi maniacale; poi, di una inclinazione all'osservazione non comune anche per i particolari apparentemente più insignificanti; e, ancora, di una capacità di descrizione quasi fotografica che, nelle circostanze difficili e pericolose di una guerra o di una sommossa, richiede anche una buona dose di coraggio.
Tutte qualità, queste, che, infine, si concretano e si esprimono in una scrittura essenziale, diretta, emozionante, che sconfina — se sorretta dal talento — nella letteratura. Questo è stato l'inviato speciale Indro Montanelli nelle sue corrispondenze sulle giornate della rivolta ungherese e della dura repressione sovietica, raccolte ora nell'agile libretto La sublime pazzia della rivolta (Rizzoli).
Arrivando a Budapest, egli vede una cosa «che non avrei mai creduto di poter vedere: i carri armati sovietici che abbandonavano la città... Se i carri avessero un capo, quelli russi lo avrebbero mostrato chino; se avessero una coda, quelli russi l'avrebbero tenuta fra le gambe. Invece avevano un cannone... Ma lo avevano coperto con un tappo». Si trattava della messinscena con la quale Mosca avrebbe ingannato, illuso e tradito non solo le aspettative del popolo per una maggiore libertà, ma la parola data agli stessi capi comunisti magiari con i quali aveva trattato quello che avrebbe dovuto essere un passaggio di consegne fra la vecchia dirigenza stalinista e la nuova. La messinscena che era servita a preparare la durissima repressione di qualche giorno dopo. Meglio, l'analista politico non avrebbe potuto spiegare. «Ora, dieci divisioni corazzate precipitavano sulla capitale. I carri armati vi entrarono alle sei e un quarto e fu una terrificante colata di acciaio. Venivano da tutte le direzioni, sempre accompagnati da quel cupo rombo di artiglieria, e dilagarono sui grandi viali che menano al centro, affiancati a tre per tre... Ed ecco, d'improvviso, verso le dieci e mezzo, giungere l'eco lontana d'una mitraglietta leggera, subito coperta da quella delle armi pesanti sovietiche. "Il solito pazzo" pensammo... Ma quando quel primo diluvio di fuoco si fu placato, ci accorgemmo che i pazzi a Budapest erano molti: un intero manicomio».
Perché, allora, tanta lucida «pazzia»? «Chi ha visto quella città sorpresa nel sonno da cinquemila carri armati, avventarglisi contro compatta, ogni casa trasformata in fortino, ogni finestra in feritoia, e pavimentare di morti le sue strade... eppoi, rimasta senza munizioni, incrociare le braccia e lasciarsi arrestare, fucilare, deportare, morire di fame e di freddo, piuttosto che collaborare; eh no, chi ha visto questo, all'ipotesi della sbornia non può più credere... è costretto ad ammettere che sotto c'era, c'è qualcosa di più grosso». Come si direbbe oggi, c'era un valore non negoziabile chiamato libertà.

Corriere della Sera 3.11.06
LA LETTERA INEDITA
Togliatti scrisse a Pertini per colpire Lombardi «È ostile al Pci e cerca la spaccatura a sinistra»
di Antonio Carioti


Un saggio di Andrea Ricciardi inserisce la vicenda nel dibattito interno al Psi
L'attacco del «Migliore»

Assai critico verso il capitalismo e convinto fautore dell'alternativa di sinistra, Riccardo Lombardi viene spesso considerato un socialista indulgente verso i comunisti: non a caso si dimise da presidente del Psi, nel marzo del 1980, quando Bettino Craxi, con il ritorno al governo, accentuò il distacco dal Pci. Molti anni prima però Lombardi aveva dato un gran fastidio a Palmiro Togliatti, che non esitò a lanciargli un duro attacco sotterraneo.
Lo testimonia un documento ritrovato nell'archivio del Pci, presso l'Istituto Gramsci, dal giovane studioso Andrea Ricciardi, che ne ha parlato in un saggio incluso nel volume Per una società diversamente ricca (Edizioni di storia e letteratura, pp. 261,
e 34), curato da lui e da Giovanni Scirocco con prefazione di Nerio Nesi, che raccoglie vari scritti in onore di Lombardi.
Nessuno finora ha dato rilievo alla scoperta, eppure si tratta di una vicenda assai significativa. Poco dopo il soffocamento della rivoluzione ungherese, il 14 gennaio 1957, Togliatti scrisse a Sandro Pertini. All'epoca il futuro presidente della Repubblica svolgeva una funzione di freno, all'interno del Psi, rispetto al superamento dell'alleanza frontista deciso da Pietro Nenni. Lombardi, invece, si era convinto che l'«ispirazione dogmatica» del gruppo dirigente comunista fosse una palla al piede per il movimento operaio e voleva perseguire l'unità della sinistra dal basso. Verso il Pci, a suo parere, bisognava adottare «una politica di critica aperta ai vertici e di profonda e costante unità alla base». In sostanza proponeva di delegittimare la leadership che si era schierata con l'Urss sulla crisi ungherese.
Ovviamente il leader comunista andò su tutte le furie: Lombardi, scrisse Togliatti a Pertini, si era ridotto a fare «colui che cerca la spaccatura in casa altrui», il che rischiava di provocare «un antipatico inasprimento dei rapporti» tra Pci e Psi, ragion per cui la direzione socialista avrebbe dovuto prendere «l'iniziativa di dargli un ammonimento». Insomma, nel momento in cui accusava Lombardi di mettere il naso nelle faccende interne comuniste, Togliatti entrava a piedi uniti in quelle del Psi, invocando la messa alla berlina del reprobo.
Non si sa quali conseguenze abbia avuto la lettera scoperta da Ricciardi, ma certo il segretario del Pci aveva scelto l'interlocutore giusto. Oltre che comprensivo verso l'Urss (ma molti anni dopo, al Quirinale, avrebbe avanzato l'ipotesi di complicità sovietiche con le Brigate rosse), Pertini era ostile a Lombardi e ai suoi seguaci. Più tardi, nel 1963, li avrebbe bollati come un gruppo di «falliti di altri partiti venuti a covare le uova nel Psi».
D'altra parte lo scontro del 1957 aveva un precedente. Nel 1948, dopo la disfatta frontista del 18 aprile, Nenni aveva perso il controllo del partito a vantaggio della corrente autonomista di «Riscossa socialista», di cui Lombardi era l'esponente di maggior spicco. Ma poi i sostenitori dell'asse di ferro con il Pci ripresero il sopravvento: una rivincita cui non fu estraneo l'appoggio sovietico. Quindi i filocomunisti, riconquistato il Psi, lo gestirono (parole di Vittorio Foa, intervistato da Ricciardi) «in modo chiaramente stalinista, non soltanto per la dipendenza dall'estero ma anche per il modo di governare le dinamiche interne al partito». La svolta politica auspicata da Lombardi sarebbe arrivata solo nel 1956, dopo l'Ungheria.

Repubblica Firenze 3.11.06
Cinema, poesia e politica ricordi di un cercatore di isole
Pietro Ingrao parla del suo "Volevo la luna"
Oggi l'incontro con l'autore a "Leggere per non dimenticare"
Mezzo secolo di vita e ideali per un protagonista della nostra storia
di Anna Benedetti*


«Ricordi». Pietro Ingrao risponde così alla mia domanda se il suo libro, Volevo la luna, sia un´autobiografia, un racconto corale di un secolo di storia, una ricerca di se stesso, un ripensamento autocritico. Forse è la risposta più intima: chi poteva immaginare che il protagonista più amato nella storia degli ultimi cinquant´anni del Pci, rileggendo la storia contemporanea e il ruolo che lui stesso ha avuto nelle alterne vicende italiane, rivelasse una dimensione così personale, quasi dicesse «io sono anche questo, non appartengo solo alla politica»?
Ma non sorprendiamoci troppo. Accanto all´Ingrao autore di Masse e potere, Tradizione e progetto, Interventi sul campo, La guerra sospesa. I nuovi connubi tra politica e armi (titoli che sprofondano nella riflessione ideologica della sinistra marxiana), esiste da anni un Ingrao che ha affidato alla poesia un diverso racconto di sé. Dove niente della passione politica è dimenticato, della sua appartenenza al corpo e al cuore del partito, ma dove la scrittura più intimista offre spazio alla riflessione e si interroga da tempo sui limiti della politica, sulla soggettività che non si esaurisce nel ruolo sociale che occupa. È la dimensione dell´uomo accanto all´unicità del singolo che prende il sopravvento, alla ricerca di nuove verità tra gli errori e le incertezze del proprio operato e della memoria che ognuno si racconta. «Pensammo una torre - ha scritto - scavammo nella polvere» e ancora: «L´indicibile dei vinti. Il dubbio dei vincitori».
Oggi alle 17.30, alla Biblioteca comunale centrale in via Sant´Egidio 21, Pietro Ingrao presenta il sui libro Volevo la luna. Ne parleranno Pietro Barcellona, Giuseppe Cantarano, Sergio Givone e Bruno Schacherl. Per me, che curo «Leggere per non dimenticare» per il Comune di Firenze da più di dieci anni, l´appuntamento con Pietro Ingrao è una consuetudine che mi ha insegnato come l´arte del pensiero sia essenziale a qualsiasi buona pratica. Come la vocazione poetica possa diventare vocazione politica accogliendo la rinuncia all´arte come una necessità. E quindi come si possa arrivare alla politica dalla cultura e dalla poesia. E poi ancora mi ha dato un´altra idea della politica, quella della capacità di fermarsi sul limite, di interrogarsi, ricominciare da capo.
Organizzando questi incontri, dove anch´io in qualche modo ho sempre "voluto la luna", sono riuscita a suscitare in lei una maggiore vicinanza a Firenze?
«La vicinanza c´era anche in altre occasioni. Qui il dialogo, non so perché, era più denso. Lasciava tracce. Continuavi a pensarci anche quando uscivi dalla sala. E poi l´ascolto umano lo toccavi con mano. E anche la volontà di intervenire».
Le bellissime pagine dell´ultimo capitolo di Volevo la luna sono dedicate al libro di Nuto Revelli Il disperso di Marburg: all´isola di verde che il soldato cercava ogni mattina all´alba. La speranza di un´isola in cui ritirarsi è dunque vana, irrealizzabile? La luna è troppo lontana, davvero irraggiungibile?
«Cancellerei la parola vana. La domanda di un´isola, almeno dentro di me, si è congiunta sempre con il mescolarsi nella folla e nelle grandi passioni comuni. Stiamo nella mischia, ed esploriamo in cerca dell´isola. Siamo contraddittori, complessi, multipli: è quello che cerco di spiegare nelle mie memorie. A volte in noi stessi siamo clamorosamente discordanti».
Qual è stato il suo rapporto con Firenze, dai libri omaggio che le giungevano dal gruppo Bonsanti-Solaria all´incontro con Montale alle Giubbe Rosse?
«C'era il rapporto antico, costruito dal lontano ginnasio, studiando Dante. Poi, per me, si creò un nuovo legame quando cominciai ad appassionarmi alla letteratura del Novecento ed incontrai le figure che lei ha ricordato: Montale, Bonsanti e anche i cattolici di Giuliotti. E Montale (anche Saba, in verità) significava avvicinarsi a Svevo e anche alla letteratura europea: Joyce, Kafka, scoperte cruciali del pensiero e dell´immaginario nuovo che scavalcavano frontiere e dilagavano nei continenti».
Firenze città chiave della sinistra italiana da La Pira a Agnoletti. Che idea si è fatta della Firenze del dopoguerra?
«Per la mia formazione la Firenze del dopoguerra contò molto. Dirigevo allora l´Unità, che aveva anche una sua pagina fiorentina. E quindi da Roma correvo spesso a Firenze. Là divenni amico stretto di quel singolare scrittore che era Romano Bilenchi, presto sorse la calda amicizia con La Pira, con cui c´era al tempo stesso competizione politica e grande comunicazione umana. Questo legame di pensiero e di passioni civili si stabilì con sacerdoti fiorentini arditi nella ricerca e nel vincolo umano, e legati alla lezione di don Facibeni, come Balducci, don Nesi...»
Come visse i giorni dell´alluvione del ‘66? Quali emozioni le suscitò l´immagine della città devastata?
«L´idea che pesava nella mente era il contrasto amarissimo, materiale, tra la rovina fisica e la ricchezza della storia umana della città».
Lei ama il cinema. Firenze è stata la culla di un pezzo di cinema italiano, ad esempio quello ispirato dai libri di Pratolini.
«Firenze è città dove le figure espressive dell´umano sono state altissime e poliedriche. Non mi pare però che essa sia stata città del cinema. È vero, ci sono volti della sua storia consegnati alla forma cinematografica. È indimenticabile quel tratto di Paisà in cui nel silenzio della piazza, invasa dalla guerra, si levano solo gli spari e il nudo, amaro lamento del partigiano morente. Su Metello di Pratolini io ho dubbi, ma non sono sicuro: su quel testo, quando uscì, ci fu nella cultura di sinistra un lungo contrasto».
Le sue grandi passioni, il cinema, la letteratura, furono spezzate dalla guerra di Spagna. Che accadde allora in lei, che cosa determinò questa cesura nella sua vita da cui nasce il suo impegno politico?
«Cambiò quasi tutto nella mia giornata. Mutarono i libri sul mio tavolo. Iniziò la mia partecipazione alla cospirazione antifascista. Ma l´amore per la poesia e per il cinema non morirono mai».
E infatti Pietro Ingrao ha scritto: " Mordi musica./Grida il desiderio deriso: le fragili comunioni./Leva in alto la sconfitta"
*L'autrice cura la rassegna "Leggere per non dimenticare"

l'Unità 3.11.06
Geertz, lo specchio dell’antropologia
di Marino Niola


«L’uomo è un animale sospeso nelle reti di significato che egli stesso ha tessuto e queste reti costituiscono la cultura». Lo scriveva negli anni Settanta Clifford Geertz, il grande antropologo americano scomparso lo scorso 30 ottobre. Era nato nel 1926 a San Francisco e aveva avuto come maestri alcuni dei mostri sacri delle scienze sociali degli States. Primo fra tutti Talcott Parsons, il faro della sociologia americana, massimo esponente dello struttural-funzionalismo, poi Clyde Kluckohn, l’antropologo autore di importanti studi sugli indiani del Nord America. E soprattutto di A mirror for man, un libro tradotto in tutti i paesi, compreso il nostro, dove comparve col titolo Specchiati uomo. Proprio al suo maestro Geertz deve l’idea di un’antropologia come specchio non solo e non tanto della società oggetto dello sguardo antropologico, ma soprattutto dell’antropologo medesimo che guarda sé e la sua cultura in una società lontana che lo riflette come uno specchio, rendendolo visibile a se stesso. Non a caso proprio con Geertz inizia quella corrente conosciuta come antropologia riflessiva. Un modo di fare ricerca che non considera le altre culture come insiemi chiusi e omogenei ma piuttosto come reti di significato in perpetua trasformazione, mai date una volta per tutte e soprattutto impossibili da spiegare in maniera oggettiva, da ridurre a leggi generali e tanto meno universali. In questa metafora «aracnidea» della cultura come rete di significati fluttuanti - che ricorda l’immagine baudelairiana della foresta di simboli - affonda le radici l’idea geertziana della nuova antropologia. Che non è una scienza sperimentale in cerca di leggi, ma una conoscenza interpretativa in cerca di significati. E questi significati non stanno nella mente dell’antropologo che li attribuisce dall’esterno, alla società messa sotto osservazione quasi fosse un oggetto, bensì nel conflitto delle interpretazioni, in un incessante negoziato ermeneutico che pone l’osservatore e gli osservati gli uni accanto agli altri come parti di un medesimo processo, come attori di uno stesso dramma umano e conoscitivo.
Lo studioso diventa così una parte della sua stessa indagine, soggetto ma anche oggetto. Questo principio d’indeterminazione che fa della cultura una rete e non un sistema chiuso, consente di vedere nell’opera di Geertz l’eredità delle correnti più feconde del pensiero del Novecento, da Werner Heisenberg a Ludwig Wittgenstein fino ai maestri dell’ermeneutica filosofica, Paul Ricoeur e Hans George Gadamer. Se in libri come Interpretazioni di culture e altri (in Italia il suo editore è stato Il Mulino) Geertz aveva elaborato la sua concezione dell’antropologia come ermeneutica, in Opere e vite egli estende la sua indagine riflessiva al linguaggio stesso usato dai grandi dell’antropologia per descrivere il loro oggetto. Da Ruth Benedict a Bronislaw Malinowski, da Edward Evans Pritchard a Claude Lévi-Strauss.
E proprio quest’ultimo sceglie come interlocutore per prendere le distanze dallo strutturalismo, finendo però di fatto per riconoscere la modernità insuperata dell’autore di Tristi Tropici che, pur senza enunciarlo programmaticamente, aveva fatto dell’indagine etnografica il dispositivo – quasi letterario - dove l’io dell’antropologo si riflette nella società studiata per scoprirvi una umanità comune. Negli ultimi anni Geertz aveva volto il suo sguardo al fenomeno della globalizzazione offrendo un contributo decisivo all’analisi della complessità contemporanea, spesso abbandonata al riduzionismo predicatorio delle sociologie à la Baumann o al vaniloquio minimalista dei Cultural studies. La sua attenzione alle ragioni del «local» gli consentiva, inoltre, di sottrarsi a quelle generalizzazioni affrettate e apocalittiche che prefigurano l’ineluttabile scomparsa di ogni differenza, e di ogni identità. Nel suo Mondi locali mondo globale Geertz ha mostrato come il contrappeso alla globalizzazione non sia solo nel recupero grottesco e «integralista» della tradizione, bensì nella capacità di innovazione e di reinvenzione che ogni cultura ha nel suo genoma. L’idea di una cultura capace di reinterpretarsi per tirar fuori risorse imprevedibili è in fondo l’antitesi teorica più convincente al grossolano teorema dello scontro di civiltà.

Agi 3.11.06
UNGHERIA: SECHI, PATTO SEGRETO KRUSCIOV-NENNI GIA' NEL 1955 (1)
di Carlo Patrignani

(AGI) - Roma, 3 nov. - Nel 1955, un anno prima dei tragici fatti d'Ungheria, il leader del Pcus, Nikita Krusciov, e il segretario del Psi, Pietro Nenni si incontrarono, segretamente, a Mosca per concordare quale linea i socialisti italiani avrebbero dovuto tenere nei confronti del Pci di Palmiro Togliatti nell'evenienza di situazioni di crisi.
E' quanto sostiene lo storico Salvatore Sechi, ordinario di Storia Contemporanea, Facoltà di Lettere e Filosofia di Bologna, sulla base di documenti rintracciati nei National Archives di Washington e Londra. Da questi atti emerge che, in quegli anni di confronti, a volte roventi, tra socialisti e comunisti, Nenni era, al pari di Togliatti, tenuto al corrente dai vertici del Pcus su quanto accadeva all'interno dell'orbita sovietica. "Che vincesse i Premi Stalin era arcinoto - afferma Sechi - Quel che non e' mai stato rivelato e' che Nenni aveva concordato con Krusciov di respingere la proposta di rompere il patto di unita' d'azione col Pci avanzata da Saragat, di criticare, ovviamenteper dar credibilita' alla sua azione, il Cremlino, esser paladino del neutralismo in politica estera italiana per sottrarre alleati agli Usa e arrivara' a scrivere una lettera al Pcus che Krusciov interpreto' come voglia di marciare al fianco dell'Urss". Fino a "quel gran capolavoro di ambiguita' che fu l'incontro di luglio '56 con Togliatti - prosegue Sechi - dal quale riceve il nulla osta alla rottura del patto di unita' d'azione e all'unificazione con i socialdemocratici a condizione che la politica di rafforzamento del Psi non avesse come prezzo l'isolamento del Pci". (AGI)

Agi 3.11.06
UNGHERIA: SECHI, PATTO SEGRETO KRUSCIOV-NENNI GIA' NEL 1955 (2)
di Carlo Patrignani

(AGI) - Roma, 3 nov. - E' esistito, dunque, un patto ed un asse Krusciov - Nenni - Togliatti? "Si', ed aveva tra i suoi obiettivi quello di isolare Riccardo Lombardi ed in generale la cultura azionista - risponde Sechi - Non a caso chi comprese per tempo che il comunismo non era 'riformabile' e con coerenza e coraggio persegui' una via diversa fu proprio Lombardi che condanno' alla Camera dei Deputati, per il Psi, l'invasione sovietica comunque inammissibile". Pertanto, "non e' vero che Nenni ebbe ragione su Togliatti", taglia corto lo storico al quale negli anni '70 il Pci sospese la tessera per le critiche al centralismo democratico.
"Prima di rievocare quei drammatici avvenimenti d'Ungheria i dirigenti del vecchio Pci dovrebbero confessare di aver coltivato una illusione micidiale ed alimentato una speranza miseramente fallita con la quale si sono ingannati milioni di iscritti e di elettori", avverte Sechi, autore di 'Compagno, cittadino. Il Pci tra via parlamentare e lotta armata' dove tratta la 'doppiezza' congenita del Pci, di cui il Migliore fu abile stratega.
"Restiamo ancora su Nenni - osserva Sechi - anche dopo il XX° Congresso del Pcus, a Washington non si fidano di lui, tanto che Eisenhower lo ritiene 'un maestro insuperabile nell'arte di ingannare e far confusione', opportunista e cinico". Cosi' dagli "archivi Usa emerge un quadro di grande ambiguita' di Nenni che, e' detto, si esibisce in una serie di finzioni, di classiche mosse dettate da fini elettoralistici, come le amministrative della primavera del '56. Punzecchia il Pci sul culto di Stalin, ma poi si candida a fare il leader del fronte popolare al posto di Togliatti se i comunisti avessero subito una sconfitta popolare". Insomma, agli Usa Nenni non piace... "Il guidizio ricavato dalla carte esaminate e' spietato - rivela Sechi - Si dice chiaro e tondo che Nenni cerca di vendere al meglio 'il prodotto di Mosca', cioe' lo si accusa di fare il gioco del Cremlino facendo finta di esserne autonomo. In generale gli americani lo ritengono una persona poco affidabile, un uomo debole, che agiva sentendosi minacciato, come disse il segretario del partito radicale, l'ex ambasciatore Nicolò Carandini".
Minacciato, addirittura, e da cosa? "La mia impressione e' che venisse minacciato dai comunisti - risponde Sechi - per qualche circostanza che, come confermo' lo stesso Ministro dell'Interno Tambroni in agosto, aveva avuto luogo in Spagna durante la guerra civile. Ad essa prese parte insieme al leader il repubblicano Randolfo Pacciardi che lo defini' 'un codardo che temeva per la propria vita'. I comunisti lo ricattavano". (AGI)

Agi 3.11.06
UNGHERIA: SECHI, PATTO SEGRETO KRUSCIOV-NENNI GIA' NEL 1955 (3)
di Carlo Patrignani

(AGI) - Roma, 3 nov. - Nel suo libro, Sechi si sofferma sulla 'doppiezza' congenita del Pci e di Togliatti: lotta antifascista e riappacificazione nazionale, 'via italiana al socialismo' e fedelta' all'Urss, richiami alla Costituzione e messa in opera di un apparato militare di riserva, una sorta di 'esercito rosso' clandestino, rivendicazione della diversita' morale e incasso di tangenti sull'import-export verso i paesi dell'Est attraverso imprese affiliate.
"Questa doppiezza duro' per tutti gli anni dei governi centristi e anche successivamente: Togliatti - sottolinea lo storico - la esprime prestissimo dalla svolta di Salerno del '44, al voto favorevole sull'art. 7 della Costituzione poi con l'amnistia promulgata in nome di una sorta di riconciliazione nazionale con i fascisti". Nel giugno del '46, infatti, come Ministro di Grazia e Giustizia, presenta i suoi provvedimenti come qualcosa di giusto nelle intenzioni ma sbagliato nella sua applicazione e non per colpe sue. "Quella legge non solo recava in calce la sua firma autografa, ma fu da lui stesso scritta con l'obiettivo - chiarisce Sechi - di pescare nuovi comunisti nell'apparato pubblico, militare, giudiziario, intellettuale del ventennio. E l'operazione gli riusci': tra il 1942 e il 1948 gli iscritti al Pci passarono da 3 mila appena a quasi 2 milioni".
Una legge, l'amnistia, su cui c'e' l'accordo sottinteso con Alcide Gasperi, come sul voto favorevole all'art. 7. "In queste due circostanze chi si fece sentire non fu Nenni ma Lombardi che critico' l'ambiguo comportamento di Togliatti sull'art. 7 e sull'amnistia contesto' il testo togliattiano nella terminologia laddove si dice 'sevizie particolarmente efferate' come se 'sevizia efferata' non fosse sufficiente ad indicare qualcosa di orrendo: con quel 'particolarmente' si impedi' l'epurazione di quanti avevano collaborato con il ventennio fascista e si misero in liberta' i piu' feroci gerarchi".
Quale lezione trarre da tutto cio'. "E' ovvio che al Pci e a Togliatti era piu' funzionale un confusionario come Nenni che un coerente come Lombardi che non fu mai comunista ne' tanto meno catto-comunista ma un 'acomunista', socialista libertario, altamente riformatore e il Pci, come la Dc, lo teme e anzi lo osteggia come tutta la cultura azionista", conclude lo storico che considera ancora 'vitale e viva' l'opera politica di Lombardi. (AGI).