l’Unità 12.3.11
Intervista a Gustavo Zagrebelsky
Per la Costituzione
«In piazza per la democrazia, hanno rovesciato le regole»
In piazza anche la scuola: «Giù le mani dall’istruzione»
Il presidente emerito della Consulta: «La Carta esclude il potere per acclamazione. Conflitto di attribuzioni? La Camera non ha titolo per sollevarlo»
di Federica Fantozzi
Professor Zagrebelsky lei oggi sarà in piazza?
«Sì, a Torino. Ci sono momenti di aggregazione sociale in difesa delle buone regole della vita democratica. Credo che oggi sia uno di questi». Perché manifestare?
«Siamo di fronte a un rovesciamento della base democratica. La democrazia deve tornare a camminare sulle sue gambe: sostenuta dal basso. Non un potere populista che procede dall’alto». Perché la Costituzione vigente va difesa?
«Basta leggerla. È il testo che dà ai cittadini il diritto di contare in politica ed esclude il potere per acclamazione».
Abbiamo un premier sotto processo per sfruttamento della prostituzione minorile. Avrebbe fondamento un eventuale conflitto di attribuzione sollevato dal Parlamento? Berlusconi andrebbe giudicato dal tribunale di Milano o da quello dei ministri?
«Mi sono imposto di non dire nulla su questioni che possono essere portate al giudizio della Corte Costituzionale. Mi limito a poche osservazioni. Primo: l’oggetto dell’eventuale conflitto riguarderebbe primariamente il rapporto tra tribunale di Milano e tribunale dei Ministri e, solo secondariamente, il potere della Camera di autorizzare il processo davanti a quest’ultimo, una volta che questo fosse ritenuto competente dalla Corte di Cassazione».
Significa che al momento sarebbe un atto infondato? «Allo stato, prima di una decisione sulla competenza di uno dei due tribunali, non mi pare che ci sia materia per il conflitto che la Camera volesse sollevare. Ma c’è un altro punto».
Quale?
«A salvaguardia della dignità delle istituzioni, c’è un fatto che non mi pare sottolineato a dovere: Berlusconi avrebbe agito sulla questura per evitare un incidente diplomatico con l’Egitto? Più importante di questa giustificazione, che di per sé lascia esterrefatti, è la premessa implicita, data per pacifica: il premier e i suoi giuristi ritengono che se la (presunta) parente di un uomo di governo è sospettata di reato, questo sia affare di Stato e si possa invocare la parentela per sottrarla all’applicazione della legge comune».
È ciò che non solo sostiene il premier, ma Montecitorio ha già avallato una volta rinviando gli atti alla Procura di Milano.
«La confusione tra pubblico è privato è ufficialmente attestata e la Camera, se seguisse, metterebbe il suo incredibile suggello. Vorrei non poter credere che una maggioranza in Parlamento sia capace di tanto. L’unico obiettivo è guadagnare tempo. Per questo si è disposti a sostenere l’insostenibile. La verità delle cose, e del diritto, diventa trascurabile».
Berlusconi ha una maggioranza numerica, intermittente, solo quando è chiamata per i voti cruciali. Esiste ancora una maggioranza politica? «Cosa ci sia di “politico” nella situazione che si è creata, è difficile dirlo. Cosa tiene insieme la maggioranza? Un programma, una visione del Paese e del suo avvenire? O il potere, che ciascuno “declina” a modo suo: chi per crearsi le condizioni della propria impunità, chi per avere un pezzetto di potere ministeriale, chi per gestire interessi spesso non limpidi da posizioni d’impunità, chi per realizzare un punto che sta a cuore solo a lui (il cosiddetto federalismo)? Questo è politica? O un’accozzaglia di interessi eterogenei? È una situazione costituzionalmente e politicamente assai critica». Secondo lei la legislatura può arrivare a scadenza naturale?
«Troppi interessi convergono nel tirare avanti il più possibile. Berlusconi sa che, finché è in carica, i poteri propri e impropri di cui dispone rendono molto improbabile la celebrazione dei processi. La Lega, l’unica con un obiettivo politico chiaro, ha interesse ad andare avanti. Poi, c’è sempre la speranza che il tempo, la propaganda, l’imbonimento possano frenare l’emorragia di consensi che li penalizza. L’opposizione può chiedere ciò che vuole ma, se non si sfalda quella convergenza d’interessi che cementa la maggioranza, è del tutto irrilevante». La finestra per votare sta per chiudersi. Auspicherebbe, nel caso, un esecutivo di emergenza?
«Una formula politica diversa, con altra maggioranza e guidata da qualcuno al di sopra delle parti, in vista di poche riforme essenziali a rimettere le istituzioni nella carreggiata della democrazia (legge elettorale, conflitto d’interessi, tv), per riprendere poi la normale dialettica tra i poli, era difficile ma non impossibile prima del 14 dicembre».
Poi?
«Da allora, la maggioranza non ha fatto che rafforzarsi, nei modi che sappiamo. Dunque, di esecutivi di emergenza non mi sembra il caso di parlare. Oggi, chi crede che viviamo in condizioni critiche dal punto di vista democratico, deve pensare non all’esecutivo, ma alle responsabilità che gravano su tutti noi, come cittadini». Lei era sul palco del Palasharp, ha firmato l'appello sul biotestamento, le sue ultime esternazioni hanno contenuto politico. E' passione civile o non esclude di fare politica attiva se le venisse richiesto?
«A ognuno il suo mestiere. Quello che credo di dover fare è ciò che spetta a ciascun cittadino nell’ambito delle sue relazioni e professione. Non sono un politico. Politici non ci si improvvisa».
l’Unità 12.3.11
La battaglia per la Costituzione
Difendere la Carta per difendere noi stessi
di Nicola Tranfaglia
Oggi gli italiani diranno, con il linguaggio pacifico di una grande manifestazione, a Roma e in altre 80 città della penisola e milioni di tricolori alle finestre, che la difesa della Costituzione e quella della scuola pubblica sono battaglie congiunte e indivisibili. Speriamo che le tv e i giornali di proprietà del capo del governo o da lui controllati se ne accorgano. L’articolo 64 della legge 133 del 2008 intende tagliare 87.400 posti di insegnante e non è lontano dal raggiungere l’obbiettivo previsto dal provvedimento triennale. Una distruzione sistematica della nostra scuola, fattore fondamentale di integrazione degli italiani. Un musicista come Nicola Piovani ha ricordato che la scuola della costituzione ha il compito di difendere «la laicità dello Stato, l’antifascismo, la legalità, la Resistenza, tutte le religioni» e basta pensare alla famosa canzone di Francesco De Gregori per ricordare che «la storia siamo noi» e che una Nazione senza memoria e consapevolezza storica costruirà la sua casa sulla sabbia. «L’educazione ha detto a sua volta il sociologo francese Edgar Morin deve contribuire all’autoformazione della persona e insegnare a diventare cittadino.Un cittadino in una democrazia si definisce attraverso la solidarietà e la responsabilità in rapporto alla sua patria. Il che suppone il radicamento in lui della sua identità nazionale». La carta costituzionale dice con estrema chiarezza quale è il rapporto che deve esserci tra scuole pubbliche e scuole private, all’articolo 34 recita che «enti privati hanno il diritto di istituire scuole e corsi di educazione senza oneri per lo Stato». Di qui la netta incostituzionalità di disegni di legge, come quello del leghista senatore Pittoni, che vuole istituire graduatorie regionali per l’insegnamento in modo da escludere nelle varie regioni insegnanti che provengano da altre parti del Paese. E l’assurdità delle pretese, sempre della Lega Nord, che vuole sostituire il dialetto alla lingua italiana in alcune regioni. Uno scrittore come Pier Paolo Pasolini in tempi non sospetti scriveva che «il dialetto vive dentro una lingua nazionale forte».
La verità è che la legge del 2008, come altri provvedimenti proposti dall’attuale maggioranza, hanno un duplice obbiettivo che diventa sempre più chiaro e preoccupante. Si tratta di favorire, attraverso l’attività legislativa di questi anni, il depotenziamento della scuola pubblica a vantaggio di quelle private e, nello stesso tempo, rendere gli italiani sempre più ignoranti, sempre più dipendenti e passivi davanti dalle trasmissioni televisive che oggi vanno in voga da Amici della De Filippi al Grande Fratello e all’Isola dei famosi che campeggiano sugli schermi Mediaset-Rai e favorire così un dominio più facile per la deriva nazionale degli ultimi vent’anni. Un progetto diabolico non c’è che dire.
l’Unità 12.3.11
Difendere la Costituzione oggi l´Italia in piazza
di Stefano Rodotà
Da anni, lo sappiamo, la Costituzione è sotto attacco. Un attacco che, negli ultimi tempi, è divenuto sempre più diretto, violento, sfacciato. Le proposte di modifiche costituzionali riguardanti la giustizia ne sono l´ultima conferma. Per questo siamo qui, per contrastare una volta di più una voglia eversiva dei fondamenti della Repubblica.
Sedici milioni di cittadini, ricordiamolo, hanno saputo difendere la Costituzione e i suoi principi il 25 e il 26 giugno 2008, votando contro la riforma costituzionale voluta dal centrodestra.
Ma quella straordinaria giornata è stata troppo rapidamente archiviata. Da chi ha tratto un frettoloso sospiro di sollievo per lo scampato pericolo. E da chi si era preoccupato di dire che la bocciatura di quella riforma non doveva pregiudicare la necessaria riforma costituzionale. E così quel voto non ha costituito il punto di partenza per una nuova consapevolezza costituzionale, neppure per le timorose forze politiche d´opposizione che pure avevano sostenuto il referendum contro quella riforma.
Così è tornato con prepotenza il progetto di mutare alla radice la tavola dei valori di riferimento, la Costituzione, fuori da ogni regola condivisa, ora facendo prevalere interessi particolari se non personali, ora lasciando spazio a pressioni di matrice ideologico-religiosa che vogliono agire in presa diretta sul funzionamento del sistema politico. Gli equilibri istituzionali ne risultano sconvolti, le tutele giudiziarie sono contestate, la garanzia di libertà e diritti, perduta nel Parlamento, si rifugia nella Presidenza della Repubblica e, soprattutto, nella Corte costituzionale.
Ma, in tempi così perigliosi, la Costituzione sta conoscendo una rinnovata e inattesa attenzione. Parlar di Costituzione ha un suono benefico e sta producendo una identificazione con essa di un numero crescente di persone, consapevoli della necessità di essere esse stesse protagoniste di una azione di promozione e difesa dei diritti. In questo momento, in decine di città, vi sono flash mobs di studenti che distribuiscono copie della Costituzione, come già quel prezioso libretto era stato impugnato in tante altre manifestazioni. La Costituzione sta incontrando il suo popolo. E questo popolo è consapevole che la politica deve essere in primo luogo, e sempre, politica costituzionale, se vuole riguadagnare la sua forza e la sua nobiltà.
Questo è un estratto dell´appello che sarà letto oggi in Piazza del Popolo a Roma nella manifestazione "A difesa della Costituzione"
l’Unità 12.3.11
Catalogo degli orrori da Brunetta a Bossi
Gli autori del libro sugli attacchi alla Costituzione presentano alcune
delle più significative perle. Dai discorsi di Berlusconi e dei suoi
fedelissimi
di Giuseppe Civati e Ernesto Maria Ruffini
Si fa un gran parlare della necessità e dell'urgenza di riformare la
Costituzione, per aggiornarla ai tempi nuovi. La verità è che dalla
destra di governo provengono da anni, più che proposte di riforma
compiute e ragionevoli, attacchi violentissimi alle ragioni profonde
contenute nella Carta.
Partiamo da Tremonti, secondo cui «se non cambi la Costituzione si
blocca tutto» (13 giugno 2010), mentre per Sandro Bondi: «rifugiarsi
ancora un volta dietro l’idolatria della Costituzione e la propaganda
non serve all’Italia» (9 giugno 2010).
Sull’art. 1, Renato Brunetta, con il suo proverbiale equilibrio, ha
affermato che «stabilire che l’Italia è una Repubblica democratica
fondata sul lavoro non significa assolutamente nulla» ( 2 gennaio 2010).
Sull’art. 3, quello che ci ricorda come tutti i cittadini siano uguali
davanti alla legge, l’affermazione di orwelliana memoria con cui
Berlusconi ha orgogliosamente rivendicato che «la legge è uguale per
tutti, ma per me è più uguale che per gli
altri perché mi ha votato la maggioranza degli italiani» (17 giugno
2003). Affermazione forse superata da quella di Niccolò Ghedini,
secondo cui «la legge è uguale per tutti, ma non necessariamente la sua
applicazione» (6 ottobre 2009).
Sull’art. 5, quello che ci ricorda come la Repubblica sia una e
indivisibile, non poteva mancare Bossi, che afferma: «io conosco un solo
Paese, che è la Padania. Dell’Italia non me ne frega niente» (9
dicembre 2007) e ci rassicura affermando che «le celebrazioni per i 150
anni dell’unità d’Italia sembrano le solite cose inutili, un po’
retoriche» (4 maggio 2010). Per quelli che se lo fossero dimenticato,
inoltre, ci rammenta che «il vero scopo della Lega è la secessione» (17
agosto 2009). Anche sull’art. 12 della Costituzione, la norma che ha
fissato nel tricolore la nostra bandiera, un pensiero dobbiamo
riservarlo al solito Bossi, che, rivolgendosi ad una signora che lo
aveva esposto alla propria finestra, affermava: «Il tricolore mi
incazzo. Il tricolore lo uso per pulirmi il culo» (23 gennaio 2002).
Non poteva mancare qualcosa sulla scuola pubblica e sugli articoli 33 e
34 della Costituzione. In questo caso, l’instancabile Mariastella
Gelmini è riuscita a superare ogni aspettativa, affermando che
«l’istruzione è pubblica sempre, anche quando è svolta dalle scuole
paritarie» (10 giugno 2008).
Sull’art. 53 ̧quello sulle tasse e sulla capacità contributiva,
Berlusconi ha ipotizzato che se lo Stato chiede ai contribuenti più di
«un terzo di quello che con tanta fatica hai guadagnato (...) c’è una
sopraffazione dello Stato nei tuoi confronti e allora ti ingegni per
trovare dei sistemi elusivi o addirittura evasivi che senti in sintonia
con il tuo intimo sentimento di moralità che non ti fanno sentire
colpevole» (11 novembre 2004), mentre, nell’ipotesi in cui il prelievo
fiscale superi il 50 per cento, sarebbe proprio «giustificato mettere in
atto l’elusione o l’evasione» (1 ̊ aprile 2008). Poi c’è uno strano
articolo della nostra Costituzione, l’art. 93 che prevede il giuramento
di fedeltà dei ministri e del premier. Un articolo forse dimenticato da
quei ministri leghisti che da venti anni si riuniscono a Pontida per
recitare un altro giuramento. Anche sui giudici e sull’art. 104 della
Costituzione non si sono risparmiati. Secondo Berlusconi: «questi
giudici sono doppiamente matti! Per prima cosa, perché lo sono
politicamente, e secondo sono matti comunque. Per fare quel lavoro devi
essere mentalmente disturbato, devi avere delle turbe psichiche. Se
fanno quel lavoro è perché sono antropologicamente diversi dal resto
della razza umana» (4 settembre 2003). Poi ci è andato giù pesante,
definendoli «metastasi della democrazia» (25 giugno 2008).
l’Unità 12.3.11
Intervista a Andrea Orlando
«Nessun dialogo. Democrazia a rischio»
Il responsabile Giustizia Pd «È una riforma della sola magistratura Confronto solo se cambiano le priorità e si procede con legge ordinaria»
di Simone Collini
È una riforma della magistratura, non della giustizia. Ed è un’operazione che pone un problema di funzionamento della democrazia, perché si rischia di assoggettare il potere giudiziario a quel coacervo che a causa delle legge elettorale di fatto si è già venuto determinando tra potere legislativo e potere esecutivo». Andrea Orlando spiega che ovviamente in Parlamento una discussione sulla riforma della giustizia ci sarà, ma che se la maggioranza vuole essere credibile deve lasciar stare sia le leggi ad personam che l’ipotesi di modifica costituzionale. «In tal caso, noi siamo pronti a un confronto, partendo dalle nostre proposte di legge e chiarendo che per noi l’agenda delle priorità va profondamente cambiata», dice il responsabile Giustizia del Pd.
Il centrodestra vi accusa di dire un no pregiudiziale e anche nel suo partito c’è chi, come Follini, giudica un errore l’arroccamento.
«Non è questione di arroccamento anche perché da tempo abbiamo avanzato le nostre proposte, e la maggioranza deve chiarire che utilizzo intende fare di questa riforma perché il sospetto è che si tratti semplicemente di un ballon d’essay per andare avanti con provvedimenti più contingenti».
Più contingenti?
«La legge sulle intercettazioni, quella sul processo breve. La maggioranza intende proseguire su questa strada?».
Ammettiamo che non lo faccia: non vi si crea un problema a dire no se accantona le leggi ad personam? «No perché non verrebbero meno le nostre critiche al testo presentato, che non è una riforma della giustizia ma soltanto della magistratura. L’effettivo perimetro della riforma, se il governo vuole dimostrare di volere il confronto, va definito insieme a tutti gli operatori del settore. Alfano convochi giudici, magistrati, avvocati, lavoratori del comparto e discuta con loro l’effettiva agenda delle priorità».
Che per voi sarebbero?
«Semplificare i processi, riformare la giustizia civile, riorganizzare le sedi, informatizzare. Tutti temi su cui abbiamo presentato precise proposte di legge in Parlamento e su cui possiamo aprire un serio confronto. Questa è un’agenda che si occupa della giustizia dal punto di vista dei cittadini». E se in fondo a questa agenda il governo mettesse anche la riforma della magistratura?
«Siamo pronti al confronto a patto che si affronti la questione con legge ordinaria, non costituzionale». C’è però chi vi ricorda la Bicamerale... «Che prevedeva una revisione degli equilibri complessivi dell’assetto costituzionale, non di una sola parte, e che non prevedeva la separazione delle carriere tra giudici e pm». Legge ordinaria sì, costituzionale no: potrebbe sembrare un altro pretesto per evitare il confronto.
«Non lo è, si tratta anzi di un problema di funzionamento della democrazia. Oggi c’è già una sostanziale commistione, per via della legge elettorale e di una deformazione della Costituzione sostanziale, tra Parlamento e governo. Assoggettare anche il terzo potere, quello giudiziario, al controllo di questo coacervo che si è venuto determinando è oggettivamente pericoloso».
Lei dice assoggettare, il governo parla di bilanciamento dei poteri. «La finalità di questa riforma è limitare il potere di chi ha disturbato il manovratore. Basti pensare all’introduzione di due Csm, all’aumento al loro interno dei membri laici, all’abbandono dell’obbligatorietà dell’azione penale e all’individuazione da parte del Parlamento delle priorità in questo esercizio. Con l’assenza di contrappesi il cittadino sarebbe meno garantito. Anche la separazione delle carriere, con un corpo dei pm distinto dai giudici, rischia di accentuare gli elementi polizieschi piuttosto che rafforzare le garanzie per l’imputato». Non sempre: dopo un’assoluzione in primo grado il pm non potrebbe più chiedere di ricorrere in appello. «Ipotesi abominevole. Si pensi soltanto a certi processi per strage o a grandi vicende più recenti: le vittime non avrebbero risposte».
E della responsabilità personale dei magistrati nei casi di colpa, che dice? «Che si possono anche pensare meccanismi di responsabilità più efficaci, ma prevedere forme di sanzione economica, di risarcimenti pecuniari, rischia di creare delle impunità di fatto. Chi si sarebbe preso la briga di aprire un’inchiesta sul caso Parmalat, con la paura di commettere un errore nel corso dell’indagine?».
l’Unità 12.3.11
Demolitori di democrazia
di Moni Ovadia
L'ultimo provvedimento del governo Berlusconi, la proposta di legge per la riforma costituzionale della giustizia, è l'atto conclusivo di smantellamento del cuore della democrazia italiana, il pilastro costituzionale della separazione dei poteri. Il senso di questa azione demolitrice è stato dichiarato con chiarezza dallo stesso premier: se la riforma elaborata dal suo visir Alfano fosse stata operante nel 1994 non ci sarebbe stata tangentopoli, ovvero un potere corrotto e corruttore sarebbe stato al riparo dalle indagini della magistratura. Dunque lo scopo della riforma è semplicemente quello di rendere impunite le malefatte dei potenti e dei loro cortigiani e, in particolare, per rendere ingiudicabile il Sultano. Non bisogna essere giuristi per capirlo basta fare funzionare per qualche istante la meravigliose cellule grigie di cui siamo forniti gratuitamente anche se non tutti (troppi nel nostro paese) approfittano del meraviglioso dono. Basta chiedersi: ma dove sono i provvedimenti e gli investimenti per rendere la giustizia uguale per tutti? ma dove erano tutti questi garantisti della domenica, e dove sono quando i poveracci subivano e subiscono i malfunzionamenti della macchina burocratica della giustizia? Li trovavi e li ritrovi in televisione a sproloquiare e a starnazzare contro i coraggiosi servitori dello Stato di diritto. Oggi, nelle città d'Italia saremo ancora una volta nelle piazze per difendere la Costituzione dagli attacchi di chi vuole demolirla con la scusa di riformarla. Non è in questione in questo momento l'orientamento politico dei cittadini, né il sistema dei partiti e della loro collocazione. Oggi è in gioco il futuro della nostra democrazia, il suo destino e il suo carattere. Oggi lottiamo per affermare la democrazia come sistema di diritti e di valori che portano all'uguaglianza e alla dignità di ogni essere umano.
l’Unità 12.3.11
La sinistra? Ha perso lo spirito di solidarietà
«I termini socialismo, anarchismo, comunismo vanno unificati»
Edgar Morin A colloquio con il grande filosofo e sociologo francese «ll trionfo del berlusconismo è dovuto quasi esclusivamente al dissesto del Pd incapace di trovare un pensiero che unisca tutte le correnti»
di Anna Tito
Se fossi candidato alla presidenza della Repubblica non sbarrerei la strada ai miei rivali, bensì indicherei loro la rotta. Non farei promesse, ma proporrei una Via. Non formulerei un programma poiché questi non sono realizzabili in condizioni incerte e mutevoli, ma definirei una strategia che tenga conto degli eventi e degli imprevisti», scriveva nel 2007 in un testo finora inedito. Ma si candiderà alle elezioni del 2012? Edgar Morin scoppia a ridere: «No, non mi presenterò, ma scriverò una dichiarazione per un candidato ideale che non esiste più». Inizia così il nostro incontro con Morin, nel suo luminosissimo appartamento al quinto piano di uno stabile parigino. Fedele alla sua origine ebraico sefardita, si anima e gesticola nel corso nella conversazione, con espressione vivace e divertita.
Compirà novant’anni nel prossimo giugno, eppure conserva intatte la curiosità e il gusto di intraprendere nuove vie di riflessione. Il pensiero di questo filosofo e sociologo, eclettico, transdisciplinare e indisciplinato, ex resistente ed ex comunista, appare ancora ricco e rivolto al futuro. Se fossi candidato è uno dei ventitrè saggi riuniti nell’antologia La mia sinistra. Rigenerare la speranza appena apparsa da Erickson (pp. 256, 18,50 euro), curata e tradotta da Riccardo Mazzeo, con contributi di Nichi Vendola, Mauro Ceruti e Sergio Manghi. Si tratta di analisi e di riflessioni politiche, redatte negli ultimi due decenni e in parte inedite, che intendono stimolarci a uscire dalla «grande recessione».
«In La mia sinistra sottolineo che esiste una triplice eredità, che noi dobbiamo mettere a frutto, data dai termini socialismo, anarchismo e comunismo, che vanno unificati. Cosa significa il termine socialismo? Riformare la società. Comunismo? Creare una comunità umana. Anarchismo? Dare libertà all’individuo». Eppure lei sembra non amare il temine socialismo: «È vero, ma perché si è molto degradato, in entrambi i sensi, sia in quello sovietico, trionfo del socialismo totalitario, sia in quello della socialdemocrazia che è rimasta senza fiato ovunque abbia governato».
Non usa mezzi termini questo studioso rigoroso in I paladini della speranza, saggio del 1993 di stupefacente attualità: aldilà della parola socialismo che forse è divenuta poco «raccomandabile» invita subito a ricordare ciò che «resta e resterà», ovvero le aspirazioni al tempo stesso libertarie e di fraternità, alla fioritura umana e a una società migliore. Ha sempre respinto il LA unificatore della sinistra. Per quale motivo? «Perché occulta le differenze, le contrapposizioni e i conflitti all’interno della sinistra, nozione complessa, che comporta in sé unità, certo, ma anche concorrenze e antagonismi».
Morin continua a rivendicare di essere rimasto uomo di sinistra, coerente non solo nel ritenere mai venute meno le parole d’ordine della rivoluzione francese liberté, égalité, fraternité ma anche considerandole strettamente legate l’una all’altra. Su di sé così ironizza: «Sono un gauchista di destra». Cosa intende dire? «Che mi definisco di destra perché ho un senso molto acuto del rispetto delle libertà, ma al tempo stesso di sinistra per via della mia convinzione che la nostra società richieda riforme acute e radicali».
Il filosofo della complessità prosegue tracciando un bilancio dei successi e degli insuccessi della sinistra che, a suo avviso, ha lasciato molto spesso da parte il sentimento della solidarietà. La «sua» sinistra mostra di avere bisogno non tanto di calcoli su maggioranze elettorali, ma prima di tutto di una iniezione di sentimento: lo spirito di solidarietà. Difende una democrazia partecipativa: «Deve pur esistere, quale complemento alla democrazia parlamentare e istituzionale, una democrazia di base che possa controllare, o decidere di certi problemi come la costruzione di un’autostrada o l’installazione di una fabbrica». Quali modalità proporrebbe? «Purtroppo non ho una soluzione magica. Si corre il rischio che i diretti interessati donne, anziani, giovani, immigrati non vi prendano parte. La popolazione tutta andrebbe educata alla democrazia partecipativa, sarebbe utile anche potenziare le università popolari, che fornirebbero ai cittadini nozioni di scienze economiche, politiche e sociali». Cosa intende per concezione neoconfuciana che a suo avviso andrebbe adottata nelle carriere dell’amministrazione pubblica e nelle professioni che comportano una missione civica, quali quelle degli insegnanti e dei medici? «In primo luogo promuovere una modalità di reclutamento che tenga conto dei valori morali del candidato, della sua propensione a dedicarsi agli altri, al bene pubblico, a preoccuparsi della giustizia e dell’equità».
Ancora, per Morin «lo svilimento della missione del medico e dell’insegnante in semplice professione, che fa sì che essi non rivendichino altro che aumenti salariali, la sclerosi dei partiti di sinistra, la decadenza dei sindacati hanno svuotato di ogni ideologia emancipatrice il popolo di sinistra». Ne sono conseguenza il razzismo e la xenofobia, «che fra i lavoratori di sinistra non si esprimevano se non in privato, ma erano inibiti nella vita politica visto che votavano per i socialisti o per i comunisti; una massa di ex elettori comunisti vota ormai per Le Pen. Una Francia reazionaria balza in prima linea, inaridita e sciovinista. Accetta, o auspica, il rifiuto dei lavoratori stranieri irregolari».
Il Partito socialista si è rivelato incapace di effettuare uno sforzo di pensiero e si è limitato a stilare programmi zeppi di promesse illusorie. La sua unica speranza è quella di beneficiare del discredito della destra al potere per succederle, una destra che aveva già approfittato dei suoi fallimenti per soppiantarlo. La vittoria di Sarkozy del 2007 va pertanto attribuita essenzialmente alle carenze socialiste, e solo secondariamente alla sua astuzia politica. Ritiene che, seppure sotto forme diverse, la situazione sia la stessa in altri Paesi europei, e in Italia in particolare? «Direi di sì. Il trionfo del berlusconismo è dovuto quasi esclusivamente al dissesto di un Partito democratico incapace di trovare un pensiero che unisca tutte le correnti, e che vede il suo popolo scomparire in Toscana, in Piemonte e in Emilia-Romagna. Lo stesso avviene in Germania, dove parte degli esponenti socialdemocratici trova rifugio in un linguaggio obsoleto, mentre la destra si lancia nella modernità. E vediamo l’Olanda, Paese della tolleranza per antonomasia, diventare xenofoba e reazionaria».
Se la diagnosi è severa per le sinistre europee, le proposte di Morin appaiono eccitanti quanto un cardiotonico: «siamo in una fase di grande regressione, da cui non usciremo se non prendendo coscienza di essa e dei rischi mortali che fa correre ai popoli, alle democrazie, all’umanità. E dunque, all’erta, svegliamoci!»
il Fatto 12.3.11
La corona littoria
di Nicola Tranfaglia
Gli italiani, tra i popoli europei, appaiono quelli che mostrano maggiore difficoltà a trovare i fili della propria storia e lo si avverte in queste settimane nelle quali sono incominciate le celebrazioni, avversate dalla maggioranza e dalla Lega in particolare, per i centocinquant’anni della nostra unità.
Ma, come era prevedibile, il problema maggiore si tocca quando si parla della dittatura fascista. Il tentativo, durato più di vent’anni di parlarne come di un incidente, o addirittura una parentesi senza conseguenze, ha avuto illustri sostenitori (a cominciare da Benedetto Croce) ma poi ha dovuto cedere il passo all’identificazione di una dittatura nuova e con tratti moderni che non è arrivata per caso, ma sulla base di antichi difetti della nostra unificazione e soprattutto dei governi liberali. Questa dittatura, se è caduta, è stato soprattutto per le vicende militari e l’azione di gruppi minoritari anche se estesi in tutto il paese che hanno lottato eroicamente contro i nazisti e i fascisti insieme con le truppe angloamericane sbarcate sulla Penisola.
SE LA GUERRA non avesse costretto le istituzioni fondamentali della società italiana, il Vaticano e la monarchia sabauda a dissociarsi dal dittatore, questi sarebbe durato altri trent’anni come avvenne puntualmente a Francisco Franco in Spagna e a Salazar in Portogallo. Del resto la Repubblica sociale italiana di Mussolini tra il 1943 e il 1945 era vissuta soltanto come stato satellite e subalterno della Germania di Hitler essendone complice nella deportazione degli ebrei e degli oppositori politici come nella crudele politica razziale. Questa considerazione pone agli storici che continuano a ragionare fuori degli stereotipi problemi di interpretazione e analisi sia del sistema di potere del regime sia del comportamento politico e culturale delle istituzioni che hanno sostenuto e condiviso il potere con il dittatore romagnolo.
Le polemiche sull’atteggiamento dei pontefici e di Pio XII in particolare sono state assai forti e nuovi documenti americani, inglesi e italiani che pubblicherò nel prossimo autunno accresceranno ancora lo sconcerto nel mondo cattolico più vicino a quel papato.
Ma c’è un’altra istituzione politica che ha avuto un ruolo decisivo nell’instaurazione e nella sopravvivenza della dittatura e ha fatto bene Paolo Colombo a dedicare un saggio analitico e puntuale a La monarchia fascista 1922-1940 (Il Mulino editore, pagine 264, 25 euro) che ricostruisce con precisione il processo attraverso il quale venne instaurata la diarchia di fatto tra il dittatore romagnolo e Vittorio Emanuele III, il funzionamento che si stabilì successivamente con le leggi fascistissime e la progressiva cancellazione di norme fondamentali dello Statuto Albertino, il contrasto sempre maggiore tra il cerimoniale monarchico e la liturgia di regime fino allo scontro aperto e al crollo della dittatura nel periodo culminante della Seconda guerra mondiale.
L’autore si ferma al 1940 quando l’Italia entra in guerra al fianco di Hitler e dimostra con pagine di grande chiarezza come Vittorio Emanuele III avesse abbracciato armi e bagagli la veste della monarchia fascista di cui restano testimonianze dirette e incontestabili come quella del fascista Giuseppe Bottai che nel 1938 scrive una considerazione difficilmente contestabile chiusa da un interrogativo in parte retorico: “Il problema dei rapporti tra il Re e il Duce sembra risolto da una cordiale intesa tra i due uomini, nonostante la difficoltà di far convivere nel rapporto le funzioni di Re e di Duce. La duttilità giuridica degli italiani può andare oltre la normalizzazione empirica del binomio, traendone nuovi valori e significati? “
LO STORICO delle istituzioni sottolinea “la natura profonda di un dilemma che pare difficile sciogliere in maniera definitiva: vediamo il fascismo cercare di impadronirsi dell’impianto di feste e celebrazioni costruito nel tempo dal sistema liberale con infissa bene nel centro la dinastia del padre della patria e il suo apparato simbolico: ma vediamo il re prestarsi in innumerevoli occasioni al gioco propagandistico del regime.
È il fascismo che sta fagocitando la monarchia o è quest’ultima che si rivela capace di garantirsi una visibilità pubblica e l’indispensabile flusso di vitali risorse simboliche avvalendosi dei canali comunicativi approntati dal governo di Mussolini?”
L’esposizione dei fatti dimostra in maniera difficilmente contestabile che la monarchia diventa a tutti gli effetti una dinastia del fascismo trionfante dal momento in cui il sovrano sabaudo nega al presidente del Consiglio liberale Facta la firma al decreto di stato d’assedio per la progettata marcia su Roma fascista del 28 ottobre 1922 e prosegue negli anni successivi con alcuni scontri simbolici come quello che si verifica subito dopo l’impresa di Etiopia e la creazione dei primi marescialli dell’impero che vedono Mussolini e il re appaiati nella nuova carica di regime.
Ma le scaramucce tra i due giungono allo scontro mortale soltanto quando la guerra è persa, gli angloamericani sbarcano in Sicilia e nel Lazio e i gerarchi fascisti, appoggiati dal re e dal Vaticano, tolgono la fiducia nel Gran Consiglio del 25 luglio 1943 a Mussolini come comandante supremo delle forze armate fasciste. Ed è così che dopo ventuno anni che la complessa diarchia alla fine crolla e il regime cade clamorosamente.
il Fatto 12.3.11
Colpa di Eva
di Massimo Fini
Non si sa per quale ragione, disturbo della psiche, perversione mentale sia venuto in testa al dispettoso Iddio la bizzarra idea di affiancare nel Paradiso Terrestre, infima enclave nell'immenso, asettico, sterile e perfetto Universo, ad Adamo, che ne era stato fino ad allora l'unico abitante, Eva. Eva la civetta, Eva la maliarda, Eva la lasciva, Eva la fedifraga, Eva la curiosa. Adamo, tontolone come tutti i maschi, si sarebbe accontentato di qualche partita fra Cherubini e Serafini e in Coppa dei Campioni (si chiamava ancora così) fra gli Angeli Superiori. Anche se, doveva ammetterlo, non erano molto divertenti perché quelli non facevano un fallo neanche a morire e comunque le partite dovevano finire sempre in parità perché il Supremo non voleva che qualcuno insuperbisse. La cosa era diventata più interessante quando il bellissimo e orgoglioso Lucifero, con un manipolo di Angeli ribelli, si era rivoltato contro il Dittatore ed era stato precipitato negli Inferi (“Meglio esser primi in Inferno che in Ciel servire”, Paradise Lost). Capitava allora che un paio di volte l'anno venissero su a giocare gli Angeli decaduti ed erano botte da orbi, fallacci, entrate col piede a martello e orribili bestemmie. E, anche con la squadra decimata per le espulsioni, riuscivano a vincere. Ma il Supremo, che faceva l'Arbitro, ribaltava a suo piacimento il risultato. Era o non era l'Onnipotente? Ma ad Adamo le cose andavano bene anche così. In fondo Dio lo lasciava libero di fare ciò che voleva. Gli aveva posto un unico divieto: non mangiare la mela di un certo albero. Ad Adamo le mele facevano schifo e in ogni caso non si sarebbe mai sognato di disubbidire a un ordine di Dio. Eva invece era inquieta, si annoiava, a lei le partite e in genere i giochi con la palla, oggetto dalla forma rotonda di cui non capiva l'utilità e l'impiego, non erano mai interessati, Adamo non le prestava molta attenzione (preferiva masturbarsi di nascosto, peccato veniale, tollerato, non essendo ancora prevista la procreazione), in quanto alla contemplazione, sia pur delle meraviglie del Paradiso Terrestre, non era affar suo. Venne il serpente e la tentò. In verità, per l'occasione, Lucifero aveva ripreso le forme del fascinoso ragazzo che era, decisamente maudit. “Resisto a tutto, tranne che a una tentazione” disse lei ridendo e con i bianchi dentini cominciò a sbocconcellare la mela. Ma è mai possibile, perdio, che con tutte le mele che c'erano in quel Giardino dovesse addentare proprio quella, la mela dell'Albero della Conoscenza? Adamo si precipitò da Dio e inginocchiandosi davanti a Lui chiese perdono. Ma il Supremo, che era un po' stronzo, non volle sentir ragioni. “Cosa fatta capo ha” disse e buttò i due fuori dal Paradiso Terrestre. Da lì, dalla conoscenza, sono iniziati tutti i nostri guai. L'uomo è l'unica bestia del Creato a essere lucidamente consapevole della propria morte. E il virus della conoscenza lo spinge verso una ricerca inesausta che non ha mai fine né senso. Scopre il neutrino e crede che sia la particella ultima della materia, senza rendersi conto che, come nel forziere di Paperone, dopo il neutrino si aprirà un'altra botola e poi un'altra ancora e così all'infinito. Ravana nel Dna illudendosi di arrivare alle origini della Vita e non ha introiettato nemmeno l'insegnamento di Eraclito, che la legge autenticamente ultima ci sfugge, è perennemente al di là e che man mano che cerchiamo di avvicinarla appare a una profondità che si fa sempre più lontana (“Tu non troverai i confini dell'anima, per quanto vada innanzi, tanto profonda è la sua ragione”). E così, per quel morso sciagurato di Eva, ci siamo condannati all'eterna infelicità.
La Stampa Tuttolibri 12.3.11
Claudio Pavone: “È stato Ettore il mio primo eroe garibaldino”
Le interpretazioni del Risorgimento, «conteso» tra fascismo e Resistenza, nella testimonianza dello studioso «azionista», oggi novantenne
di Alberto Papuzzi
Risorgimento e Resistenza. O Resistenza come secondo Risorgimento. E' una complessa questione storica, e politica, che torna d'attualità con le celebrazioni per i centocinquant’anni dell'Unità d'Italia. Perché Radio Monaco e Radio Londra trasmettevano entrambe l'«inno di Garibaldi», Va’ fuori d’Italia, va’ fuori stranier? E come mai il Movimento comunista d'Italia, piccolo gruppo antifascista romano, invocava «l'epopea del Risorgimento»? Lo storico ed ex resistente Claudio Pavone, che in novembre ha festeggiato i novant’anni, ha scritto intense pagine su questi temi sia in Una guerra civile (Bollati Boringhieri, 1991), sia nel saggio Le idee della Resistenza ripubblicato nel volume Alle origini della Repubblica (Bollati Boringhieri, 1995) e di recente dalle Edizioni dell’Asino, dopo essere apparso mezzo secolo fa sulla rivista Passato e presente . Ora esce, sempre da Bollati Boringhieri, con il titolo Gli inizi di Roma capitale , una raccolta di saggi, anch’essi degli Anni Cinquanta, sull’inserimento di Roma e del Lazio nello Stato unitario.
Il suo è lo sguardo di un «azionista postumo», come si definisce, nel senso che non è mai stato azionista, ma alla fine di un lungo percorso l’azionismo gli sembra interpretare l'atteggiamento di quella minoranza illuminata e influente che però non è mai riuscita a esercitare il potere politico. L'8 settembre, a Roma, aveva preso contatto coi socialisti, venendo arrestato già alla fine di ottobre. Uscito alla fine di agosto 1944 dal carcere di Castelfranco Emilia, militò in un piccolo gruppo milanese, composto soprattutto da intellettuali e appartenente al Partito italiano del lavoro che aveva la sua base in Romagna. Quindi il confronto col Pci: «Sono stato per molto tempo rispetto ai comunisti o un compagno di strada o un utile idiota, dipende dai punti di vista». Vide nel Sessantotto «una riapertura del campo del possibile», si unì al gruppo di Democrazia Proletaria e strinse rapporti molto forti con Vittorio Foa, che divenne il suo principale punto di riferimento. Conclusasi l'esperienza, rientrò nella posizione di indipendente di sinistra.
Professor Pavone, qual era il significato attribuito al Risorgimento dagli antifascisti?
«Il Risorgimento era al centro di vivaci discussioni. Giustizia e Libertà , giornale dell’omonimo movimento che si stampava a Parigi, ospitò nel 1935 un importante dibattito sul tema. Il punto era questo: perché l'Italia, nata dal civile Risorgimento, ha poi dato vita al fascismo, divenuto il prototipo della moderna barbarie, che per di più pretendeva di rappresentare la provvidenziale conclusione del Risorgimento stesso. Era dunque necessario riesaminare ombre e luci di quel grande momento della nostra storia. Si trattava di contrapporre alla interpretazione fascista una interpretazione democratica e critica a un tempo. Parteciparono alla discussione Carlo Rosselli, Franco Venturi, Andrea Caffi, Nicola Chiaromonte, Umberto Colosso. Per Benedetto Croce, invece, il Risorgimento più che essere passato al setaccio della critica doveva essere soprattutto difeso: in questo manifestava una contrapposizione generazionale. Il dibattito agitava anche i comunisti: Togliatti scrisse nel 1931 su Stato operaio un violentissimo articolo contro GL, che egli temeva potesse conquistare l'egemonia dell’antifascismo. Il “cosiddetto Risorgimento”, scriveva Togliatti, era un “mito” che alle orecchie piccolo-borghesi di GL suonava “come la fanfara per gli sfaccendati”. Ma dopo il VII Congresso dell'Internazionale nel 1935, che varò la politica dei fronti popolari, da cui scaturì quella dell’unità nazionale antifascista, il Risorgimento non poteva non essere recuperato politicamente e culturalmente. Il pensiero di Gramsci, ovviamente sconosciuto durante la Resistenza, consentirà poi alla cultura comunista di elaborare una ben più complessa interpretazione del Risorgimento. Ma già durante la lotta antifascista era stato dato il nome di Garibaldi alle brigate combattenti, prima in Spagna e poi in Italia».
Ma era fondata l’idea della Resistenza come secondo Risorgimento?
«Da un punto di vista storiografico è indubbiamente una forzatura, ma occorre interrogarsi sui vari significati che allora la fortunata espressione assunse e sulla influenza che ebbe. Dei quattro santi padri - Cavour, Garibaldi, Mazzini, Vittorio Emanuele II - Garibaldi era di gran lunga il più popolare. Il primo numero dell’ Unità , uscito dopo l'8 settembre, aveva in prima pagina a grandi caratteri “Torna Garibaldi”. A Milano sotto il monumento si trovava scritto: “Peppin, vien giò, che i son a mo’ chi”».
Anche il fascismo cercò di usare la retorica risorgimentale? Garibaldi e Mazzini sono stati, per così dire, anche due eroi fascisti?
«Esisteva, come ho già ricordato, una interpretazione fascista del Risorgimento, di cui Mazzini, soprattutto dopo l'8 settembre, fece le spese. Su un francobollo della Rsi figurava l'immagine di Mazzini, mentre avrebbero stonato quelle di Garibaldi e di Cavour. Di Vittorio Emanuele II, nonno del re fellone, neanche a parlarne».
Ora che ha compiuto i novant’anni, che cosa ricorda per esempio delle sue letture giovanili?
«Premetto che io sono molto lento e purtroppo lo sono stato anche nel leggere. Delle prime letture ricordo quelle canoniche di Salgari e Verne, ai quali aggiungevo una grande passione per la storia delle scoperte polari. Un libro ebbe per me una importanza particolare: Le storie della storia del mondo di Laura Orvieto, dove imparai a conoscere la guerra di Troia. Naturalmente parteggiavo per i troiani e rimasi male quando al liceo un professore molto fascista ci spiegava che Ettore era un eroe piccolo-borghese (l'addio ad Andromaca? Piagnistei) e che Achille era invece un vero eroe, una sorta di superuomo. Questo professore aderì poi alla Rsi, ricoprendovi un importante incarico. Mio padre, antifascista rassegnato, era innamorato di Dickens e mi trasmise questa passione. Ma la forma d'arte da me prediletta era la musica».
«Una guerra civile», il suo opus magnum, poggia su una ricca bibliografia anche letteraria: se lei dovesse consigliare a un giovane delle opere narrative per capire la Resistenza, che cosa gli consiglierebbe?
«Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino e Il partigiano Johnny di Fenoglio».
«Vittorini, Uomini e no …»
«Lo considero meno schietto. E poi mi dà fastidio quell'altezzoso “e no”, ai confini col razzismo: forse che i fascisti non erano anch’essi uomini?».
Lei ha insegnato storia contemporanea a Pisa: come considerava e continua a considerare l’uso di fonti letterarie per la storia?
«Lo considero fondamentale. Dicevo ai miei studenti: se volete studiare la campagna di Russia di Napoleone, leggete prima Guerra e pace . Oggi direi: se volete studiare la guerra in Russia durante il secondo conflitto mondiale, leggete prima Vita e destino di Vasilij Grossman, centrato sulla battaglia di Stalingrado».
Potrebbe dirci qualche libro che ha esercitato un’influenza decisiva nella sua formazione?
«In chiave storiografica, Pensiero e azione di Luigi Salvatorelli che fece capire a me e molti della mia generazione che il Risorgimento non era quello che ci insegnavano a scuola. Nel campo dei massimi problemi, e lo dico con la timidezza che suscita il nome di Kant, la Critica della ragion pura e la Critica della ragion pratica . Nella mia prima giovinezza ero stato un cattolico sempre in cerca di prove inconfutabili dell’esistenza di Dio come garante della realtà del mondo e della legge morale. Kant, dimostrandomi che non c'era né in un caso né nell’altro bisogno di Dio, mi fece uscire da quello che era diventato per me un vero tormento».
Lei si è laureato in giurisprudenza ma ha studiato anche filosofia?
«Subito dopo la guerra mi iscrissi a filosofia, anche per obbligarmi a riprendere un organico percorso di studi. Ebbi due ottimi docenti in Guido De Ruggiero e, all'estremo opposto, Ugo Spirito. Entrambi avevano una grande capacità di dialogare con gli studenti. Naturalmente l'affinità intellettuale e politica mi legò molto di più a De Ruggiero. Ma ricordo che in un seminario di Spirito ebbi una discussione molto accesa sul concetto di lavoro: lui sosteneva che pensare e lavorare erano la stessa cosa, io lo negavo recisamente. Pochi giorni dopo sostenni l'esame, presi trenta e lode e una collega commentò: “Io pensavo che dopo quella litigata ti avrebbe bocciato”». Un’ultima cosa: qual è il libro che non si può fare a meno di leggere? La Divina Commedia ».
Corriere della Sera 12.3.11
Crocifisso, davanti al nostro caos sarà Strasburgo a mettere Ordine
di Marco Ventura
Il 18 marzo prossimo, alle tre del pomeriggio, la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo renderà pubblico il giudizio sul ricorso del governo contro la sentenza del 2009 che ha condannato l’Italia per l’esposizione obbligatoria del crocifisso nelle aule delle scuole statali. È possibile che la Corte di Strasburgo rovesci la decisione di primo grado e affermi che l’Italia ha tutto il diritto di obbligare studenti non cattolici a studiare sotto il crocifisso. Sarebbe la grande vittoria del governo, della Santa Sede, dell’episcopato cattolico e di chi ci ha più sostenuto nella battaglia contro l’Europa laica e senz’anima: la Russia di Putin e i fondamentalisti americani. È anche possibile che i giudici europei si schierino con i colleghi che, all’unanimità, hanno condannato Roma. Sarebbero allora i laici alla francese e i militanti atei a brindare. Insieme ai tanti per cui il crocifisso non deve essere imposto dallo Stato ma scelto da chi crede. Due sbocchi meno radicali sono anche possibili. Il primo consisterebbe in una condanna dell’Italia, ma non del crocifisso. L’Italia sarebbe condannata perché impone il crocifisso a tutti gli alunni, ma il crocifisso potrà restare se si istituiranno procedure per ascoltare studenti e famiglie a disagio. È la soluzione adottata in Baviera, quando la Corte costituzionale bocciò l’obbligo di crocifisso in Germania. Il secondo sbocco meno traumatico consisterebbe in un’assoluzione con riserva. La Corte non ci condannerebbe, ma censurerebbe il pasticcio giuridico frutto delle nostre ambiguità: uno Stato laico ma anche cristiano-cattolico, giudici contro il crocifisso ma anche a favore, Parlamento e Corte costituzionale imbarazzati, norme confuse. Nell’udienza dello scorso giugno, incalzato dal giudice inglese, il povero rappresentante del governo balbettò che il nostro diritto «non è chiaro» , e assicurò che si sarebbero trovate soluzioni per gli studenti non cattolici. Davanti al nostro caos, i giudici europei potrebbero assolverci con riserva: tenetevi il crocifisso, però garantite tutti con norme e procedure rigorose.
La Stampa 12.3.11
Israele e il risveglio arabo
di Arrigo Levi
Amos Oz e Sari Nusseibeh, due delle più alte coscienze d'Israele e Palestina, si sono trovati d'accordo nell'affermare, in un recente incontro, che «un accordo di pace è possibile». Ma hanno anche detto che per arrivarci occorre da parte israeliana (Oz) «una svolta emotiva», e che bisogna che emerga in entrambe le società (Nusseibeh) «qualcosa di nuovo, un leader, o qualcosa che abbatta la barriera, un po' come un mago politico». Certo, si sono fatti dei passi avanti: oggi Netanyahu, quando accetta pubblicamente la soluzione dei due Stati (Oz) «è più a sinistra di quanto fosse Golda Meir negli Anni 70». Anche da parte palestinese la soluzione dei due Stati è oggi accettabile (Nusseibeh) mentre «se uno lo avesse detto nel '67 gli sparavano addosso». Però nessuno dei due crede la pace vicina. E la rivoluzione araba, o il «risveglio arabo» come di nuovo si dice, non sembra aver avvicinato un tale miracoloso evento.
Finora, e questo è giudicato un fatto positivo, non si è verificato un contagio, fra i palestinesi, né a Gaza né nella West Bank, della rivolta popolare che ha già investito Tunisia, Egitto, Libia, Bahrein, Yemen, Arabia Saudita e in futuro chissà chi altri. Quanto a Israele, vi è chi (Shimòn Peres e l'opposizione), ha dichiarato che questo è il momento giusto per una seria iniziativa israeliana che rimetta in moto il negoziato di pace. Ma da parte del governo non si è andati al di là della diffusione ufficiosa dell'«intenzione di proporre un accordo interinale che conduca verso la soluzione dei due Stati»; accompagnata peraltro dalla solenne dichiarazione di Netanyahu che comunque Israele dovrà mantenere, anche dopo una pace, la sua presenza militare sul Giordano (i palestinesi accetterebbero, forse, soltanto una forza internazionale). Questa presenza, ha detto il Premier israeliano, è oggi tanto più necessaria, visto «il terremoto politico che si è verificato e di cui non abbiamo visto la fine».
Insomma, almeno finora non sembra proprio che la rivoluzione araba (che, fra la sorpresa generale, ha finora ignorato, in tutti i Paesi coinvolti, una evocazione della questione palestinese), abbia modificato l'atteggiamento piuttosto passivo della destra israeliana, oggi saldamente al governo, sul rapporto con i palestinesi. Israele è sì preoccupato di ciò che potrebbe accadere in Egitto e in Giordania. Ma non sembra proprio temere per il suo futuro. Fra l'altro, si prepara a diventare, entro il 2015, un robusto esportatore di petrolio, tratto dai vasti giacimenti sottomarini scoperti al largo delle coste israeliane. E' probabile che il governo di Netanyahu si senta in prospettiva meno dipendente dagli aiuti americani, e giudichi quindi meno e non più urgente un accordo di pace con i palestinesi.
Certo, il «terremoto politico» e i suoi imprevedibili sviluppi tengono Israele in allarme: vedi l'ingresso nel Mediterraneo di due navi da guerra iraniane, con attraversamento, peraltro legittimo, del Canale di Suez (ma con Mubarak al potere non era mai accaduto). Nessuno sa se nel futuro degli Arabi ci saranno delle democrazie, o dei regimi militari, o delle guerre civili, o delle buone occasioni per un'avanzata del fondamentalismo terrorista. Ma nei confronti dei palestinesi, apparentemente ancor più dimenticati da un mondo arabo in subbuglio, Israele si sente forse ancora più forte. La proposta di qualche giorno fa del Ministro degli Esteri britannico William Hague, che l'Occidente eserciti le più dure pressioni su Israele perché accetti subito condizioni ragionevoli (sui confini, sugli insediamenti, sui profughi palestinesi, su Gerusalemme), per far pace con i palestinesi, non sembra convincere l'America: il solo Paese che possa portare Israele al tavolo di un nuovo negoziato.
Il fatto è (ed è forse il fatto più importante: un'osservazione che debbo a Vittorio Segre), che d'un tratto la questione palestinese non è più vista come il motivo dominante della «crisi del Medio Oriente». E forse non lo sarà per molto tempo: la fase storica di grandi sconvolgimenti che si è aperta nel mondo arabo non giungerà certo rapidamente a conclusione. Che importa dei palestinesi?
E tuttavia, gli Ebrei (che sono tornati a Gerusalemme dopo aver continuato per due millenni a dire: «l'anno prossimo a Gerusalemme»), non possono illudersi che i palestinesi dimentichino d'un tratto (cito parole di Amos Oz, che è difficile non condividere), che «la Palestina è la patria dei palestinesi come la Norvegia è la terra dei norvegesi, e che viene loro chiesto il sacrificio enorme di cedere parte della loro patria». Tale è, certo non meno di quanto sia la patria degli ebrei, in virtù della loro fatale storia millenaria. Non vi è nulla di così tragico come lo scontro fra due diritti, fra due ragioni. Tuttavia, dice Nusseibeh, che è il discendente di una stirpe aristocratica dominante da secoli a Gerusalemme: «Ciò cui bisogna rinunciare sono certi articoli di fede, e ciò è molto doloroso. Eppure non credo che sia un problema insormontabile. E' completamente insensato per i palestinesi e per gli israeliani continuare a infliggere dolore all'altro».
Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
venerdì 11 marzo 2011
il Fatto 11.3.11
Una riforma al giorno toglie il giudice di torno
di Gian Carlo Caselli
Le leggi “ad personam” hanno imbarbarito il sistema violando i principi fondamentali dell'ordinamento ma non sono servite a granché. L’ossessione del premier per i suoi processi non si è calmata, e poco sollievo gli è venuto dall’incessante azione di illustri avvocati che intrecciano la difesa privata con responsabilità istituzionali.
Meglio lasciare da parte l’accetta che trancia di netto i delitti più “rischiosi”. Persino un’opinione pubblica assuefatta e ipnotizzata potrebbe a un certo punto svegliarsi. Invece delle brutali leggi “ad personam” si possono imboccare strade più elusive ma non meno efficaci.
Per esempio qualche modifica della Costituzione che consenta al governo di condizionare la magistratura o addirittura di impartirle direttive.
ESATTAMENTE questa è la situazione che si avrà con la sedicente riforma della Giustizia (sobriamente denominata epocale...) che il Consiglio dei ministri ha messo in cantiere.
Direttore dei lavori è un cavaliere/presidente che nello stesso tempo è imputato in vari processi. Un ossimoro? Forse, ma soprattutto un modo per regolare i conti con questa magistratura golpista ed eversiva che continua a coltivare un’assurda pretesa: chiedere conto anche al premier di azioni od omissioni che si presentino in contrasto con la legge penale.
Ma anche a prescindere (e non si può) dalle vicende giudiziarie del premier e dalle sue ansie, è evidente innanzitutto che non si tratta di una riforma della Giustizia (l’inefficienza del sistema resterà tal quale), ma del tentativo di liberare il potere politico dal fastidio di aver a che fare con magistrati indipendenti. È poi impossibile ignorare un dato di fatto: il nostro – purtroppo – è tuttora un paese caratterizzato da un fortissimo tasso di illegalità che comprende una spaventosa corruzione, collusioni e complicità con la mafia assai diffuse, gravi fatti di mala amministrazione e fenomeni assortiti di malaffare. Quasi sempre ci sono pezzi consistenti di politica coinvolti in tali vicende, per cui consentire loro (come avverrà con la pseudo-riforma della Giustizia) di pilotare la magistratura nel modo che ad essi più conviene sarebbe micidiale: per l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e per la stessa credibilità della nostra democrazia.
In altre parole, grazie alla pseudo-riforma potrà dare ordini alla magistratura, stabilendo come e chi indagare, proprio quel potere politico che di solito – è storia – respinge i controlli di legalità relativi ai suoi esponenti, preferendo autoassoluzioni perpetue. Ad esempio minimizzando il gravissimo cancro della corruzione sistemica riducendolo (la tradizione al riguardo si è consolidata negli anni) ad isolate performance di “mariuoli” o “sfigati” di poco conto. E non è un caso che il presidente del Consiglio, presentando baldanzosamente la “sua” riforma, abbia dichiarato con candore che così Mani Pulite non ci sarebbe stata. Che se invece avessimo a che fare anche noi con politici capaci di dimettersi sol perché scoperti a copiare una tesi di laurea, allora potremmo pure discutere sull’opportunità o meno dell’opzione legata alla separazione delle carriere. Per contro, la concreta realtà del nostro paese (ancora fuori degli standard delle democrazie occidentali per ciò che qui interessa) non ci consente assolutamente un simile lusso. Posto infatti che sempre – ovunque vi siano forme di separazione – il governo in un modo o nell’altro ha poteri direttivi sui pm, in Italia (nella situazione ancora attualmente data) il sistema sarebbe suicida, perlomeno finché certe decisive componenti della classe politica resteranno esclusivamente preoccupate della propria impunità. Sarebbe come affidare alle volpi la custodia del pollaio! Se poi la separazione delle carriere si combina (come previsto nella pseudo-riforma del governo) con altre misure mirate all’impunità dei potenti, ecco che il cerchio si chiude ed i giochi sono fatti. Così, l’indebolimento dell’obbligatorietà dell’azione penale mediante liste, stabilite dalla politica, che distinguono quali reati perseguire e quali no; - il controllo delle attività investigative della polizia giudiziaria esercitato dal governo e non più dal pm; - la mortificazione del Csm a ruoli meramente burocratici; - la previsione di un Csm separato per i pm, così sottratti all’utile “koinè” con la magistratura giudicante; - il conferimento al Guardasigilli di un potere di ispezione e relazione sulle indagini destinato a funzionare come ponte verso la costruzione di un rapporto gerarchico con l’ufficio del pm; - una nuova disciplina della responsabilità dei magistrati che rischi di esporli a bufere scatenate strumentalmente, incompatibili con la serenità e l’autonomia della giurisdizione.
SON TUTTI interventi che univocamente convergono verso l’obiettivo di riservare al potere politico l’apertura o chiusura del “rubinetto” delle indagini, prevedendo per giunta forme indirette ma efficaci di dissuasione verso i pm che tardino a capire che conviene “baciare le mani” a chi può e conta, piuttosto che servire gli interessi generali. La posta in gioco è la qualità della democrazia. E forse è bene cominciare a rileggere quel passo di Calamadrei in cui sta scritto che “la libertà è come l’aria. Ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent’anni e che io auguro a voi di non sentire mai”.
Repubblica 11.3.11
Il disegnino del Cavaliere
E mostrando la prova della bilancia Silvio ritorna ai trucchi del piazzista
di Filippo Ceccarelli
LA CHIAMANO ancora conferenza stampa, ma è qualcosa di più e un po´ anche di peggio. Così anche ieri, fra il cerottone e le bilancette, nella sala stampa di Palazzo Chigi l´agenda riformatrice del quarto governo Berlusconi si è concessa uno spettacolino d´inedita creatività, e dimostrativa.
È andato in scena, il muto siparietto, quando il presidente del Consiglio, ha estratto a sorpresa da una delle sue cartelline il disegno di due bilance e con studiata lentezza, a beneficio delle telecamere, con la faccia seria e quasi per metà occupata dall´immensa benda adesiva, ha mostrato questo assai semplice bozzetto agli italiani. Ad assoluta e definitiva riprova della bontà del suo provvedimento sulla giustizia, oggi senz´altro - come da illustrazione - sbilanciata.
Il Guardasigilli Alfano, che al suo fianco svolgeva la parte del giovane promettente, perché disponibile e assennato, ha accolto con un segno del capo il numero dell´arzillo presidente. La condizione permanente dell´allievo prevede infatti un caloroso, ma discreto assenso rispetto a una delle più celebrate massime berlusconiane, sul cui cinismo non si starà qui a disputare essendo abbastanza compatibile con i «normali» codici del potere. E comunque: «Ricordatevi - il Cavaliere dixit ai suoi seguaci - che il pubblico medio che vi ascolta in tv ha fatto la seconda media, e magari neanche al primo banco».
L´ammaestramento ha tutta l´aria di risalire all´eroico periodo della vendita: prima d´immobili e poi di pubblicità; ma in quella forma letterale Berlusconi lo recò in dote ad alcuni candidati di Forza Italia nella primavera del 2002. Ogni stagione e ogni governo hanno in effetti i loro sussidi visivi e persuasivi, comunque destinati a convincere quel non proprio stimatissimo pubblico.
Giusto allora il presidente del Consiglio andava girando per l´Italia e appena possibile tirava fuori un enorme foglio, un lenzuolone su cui erano appuntati tutti i provvedimenti del governo e il loro stato di realizzazione. Erano così tanti, diceva il messaggio, da meritarsi un´estensione, una prolunga. In questo mondo di segni rudimentali da trasmettere a un popolo divenuto piuttosto credulone Porta a porta non si tira mai indietro. Così, nel maggio di quello stesso 2002, Berlusconi non solo si presentò con il suo bel lenzuolone, ma in un accesso di gigioneria applicata lo appese anche alla penna che Vespa, un altro maestro di effetti speciali del potere, gli aveva fatto trovare sulla scrivania di ciliegio su cui un anno prima il candidato premier del centrodestra aveva firmato il suo Contratto con gli italiani.
Vennero poi altri accessori e ingegni di scena: lavagnette, schermi, tabelloni, cartine geografiche, lucidi, diapositive, tutto quanto serviva a celebrare opere mai compiute, ma simulate; come dire, nel linguaggio del potere, date per fatte: ecco la nuova Salerno-Reggio Calabria, ecco il ponte di Messina e così sia.
Sotto gli occhi degli Alfani di turno, nel corso degli anni il presidente Berlusconi ha platealmente stracciato programmi degli avversari, impugnato simboliche ramazze per sgominare l´immondizia napoletana (disposta a piazza San Giacomo da addetti della Protezione civile per il pianificato show!), mentre agli intimi ha anche promesso visioni di lividi e graffi che attestavano, sotto gli indumenti, la voglia che le folle hanno di abbracciarlo, di toccarlo, fino a fargli male.
L´ostensione delle bilancette, da questo punto di vista, appare un escamotage assai meno rischioso, ma certo ha il merito di ripristinare uno scenario narrativo che si era perso. Sì, gente, forza, credetemi, la mia riforma è perfetta, come vedete con i vostri occhi. E di nuovo lo spettacolo s´incrocia con il mestiere dell´imbonitore e quest´ultimo evoca una panacea. E così, dopo essersi frantumato nelle farmacie, tra i banchi del mercato e sui palcoscenici ritorna alla luce l´antico mestiere del ciarlatano. Il carrozzone prevede cerotti, unguenti, elisir, improbabili successori, simboli in liquidazione e tanta felicità per tutti.
Repubblica 11.3.11
Il documento del Welfare: l´Italia si reggerà sui lavoratori stranieri
L´Italia sarà salvata da due milioni d´immigrati
di Vladimiro Polchi
L´ITALIA ha bisogno di nuovi immigrati? Certo: «Nel periodo 2011-2015 il fabbisogno medio annuo dovrebbe essere pari a circa 100mila, mentre nel periodo 2016-2020 dovrebbe portarsi a 260mila». Tradotto: nei prossimi dieci anni avremo bisogno di "importare" un milione e 800mila lavoratori. A metterlo nero su bianco non è un sindacato, né un´associazione di categoria bensì il ministero del Lavoro, diretto da Maurizio Sacconi.
E così mentre dal Viminale si lancia l´allarme contro «l´esodo biblico» pronto a scatenarsi dalle coste del Nord Africa, i tecnici incaricati dal ministero del Welfare lavorano concretamente alle «previsioni del fabbisogno di manodopera». In un dettagliato rapporto del 23 febbraio scorso, la Direzione generale dell´immigrazione ragiona, infatti, sul numero di lavoratori stranieri necessari a reggere il "sistema Italia". La stima è cauta e si basa su diverse variabili.
«Il fabbisogno di manodopera è legato contemporaneamente alla domanda e all´offerta di lavoro - si legge nel Rapporto "L´immigrazione per lavoro in Italia" - dal lato dell´offerta si prevede tra il 2010 e il 2020 una diminuzione della popolazione in età attiva (occupati più disoccupati) tra il 5,5% e il 7,9%: dai 24 milioni e 970mila del 2010 si scenderebbe a un valore compreso tra i 23 milioni e 593mila e i 23 milioni circa nel 2020. Dal lato della domanda, gli occupati crescerebbero in 10 anni a un tasso compreso tra lo 0,2% e lo 0,9%, arrivando nel 2020 a quota 23 milioni e 257mila nel primo caso e a 24 milioni e 902mila nel secondo». Ciò detto, qual è il numero di immigrati di cui l´Italia avrà bisogno? «Nel periodo 2011-2015 il fabbisogno medio annuo dovrebbe essere pari a circa 100mila, mentre nel periodo 2016-2020 dovrebbe portarsi a circa 260mila». Insomma da qui a dieci anni il nostro Paese dovrà aprirsi a poco meno di due milioni di lavoratori stranieri.
«Questi dati smascherano la demagogia di chi continua a ripetere che gli immigrati sono una minaccia - commenta Andrea Olivero, presidente nazionale Acli - senza di loro il Paese imploderebbe e accoglierli civilmente non è solo atto umanitario, ma intelligente strategia per il futuro. Per questo è giusto chiedere che cambi la politica dei flussi, andando al più presto a prendere atto di chi già oggi lavora utilmente nel Paese e ancorando le cifre dei nuovi permessi alle reali necessità. Ci fa piacere che il ministero del Lavoro guardi ai dati con realismo, perché soltanto in questo modo sarà possibile avviare finalmente quel governo del fenomeno immigrazione che è mancato in questi anni, dominati da un´ottusa logica di mero contenimento, che peraltro è fallita. Nessuno, la Lega si metta il cuore in pace, può fermare un flusso che ha ragioni così forti sia nei Paesi di provenienza, sia nel nostro, come ci dicono i dati. Perciò l´integrazione è la scelta insieme più civile e più realistica».
il Fatto Saturno 11.3.11
Due pontefici e il fine vita
Testamento biologico? Te lo dico papale papale
di Giorgio Cosmacini
Proponibili a una doverosa riflessione sono due citazioni autorevoli, attinenti entrambe ai problemi di fine vita connessi al testamento biologico. Espressione quest’ultima alla quale sarebbe preferibile testamento biografico, poiché la vita di cui si parla non è la vita “biologica” dell’organismo, ma la vita “biografica” della persona: una vita intrecciata non alla biomolecole, alle cellule, ai tessuti, agli organi che compongono il suo corpo, come quello di altri, ma alla “storia di una vita”, la sua e non un’altra. Quella appunto espressa dalla parola “biografia”, della cui unicità fanno parte passioni e ideali particolari, intuizioni e motivazioni proprie, nonché affetti ed esempi da trasmettere, scopi e progetti concepiti sia prima che durante il tempo del morire, tutti quanti meritevoli di quella pietas che Immanuel Kant ha tradotto nella categoria del “rispetto”.
La prima citazione autorevole è ricavata da uno dei Discorsi ai medici (editi postumi nel 1959) di papa Pio XII: «Se il tentativo della rianimazione costituisce per la famiglia un onore che, in coscienza, non si può ad essa imporre, questa può lecitamente insistere perché il medico interrompa i suoi tentativi. […] In questi casi, perciò, una richiesta da parte della famiglia di sospendere il tentativo è più che legittima, e il medico vi può lecitamente acconsentire. In tal caso non c’è alcuna diretta disposizione della vita del paziente e neppure eutanasia».
La seconda citazione, altrettanto autorevole, è legata alla voce che papa Paolo VI volle far giungere ai medici cattolici riuniti a congresso nel 1970: «Il carattere sacro della vita è ciò che impedisce al medico di uccidere e che lo obbliga nello stesso tempo a dedicarsi con tutte le risorse della sua arte a lottare contro la morte. Questo non significa tuttavia obbligarlo a utilizzare tutte le tecniche di sopravvivenza che gli offre una scienza instancabilmente creatrice. In molti casi non sarebbe forse un’inutile tortura imporre la rianimazione vegetativa nella fase terminale di una malattia incurabile? In quel caso, il dovere del medico è piuttosto impegnarsi ad alleviare le sofferenze, invece di voler prolungare il più a lungo possibile, con qualsiasi mezzo e in qualsiasi condizione, una vita che non è più pienamente umana e che va naturalmente verso il suo epilogo».
Alle due citazioni tratte dai discorsi pontifici si potrebbe aggiungere la frase che un altro papa, Giovanni Paolo II, di fronte alla minaccia di un prolungamento artificioso della propria agonia, sussurrò ai medici prima della terza tracheotomia: «Lasciatemi tornare alla Casa del Padre».
La Stampa 11.3.11
Benedetto XVI: Israele un “popolo santo”
Presentato ieri il nuovo libro del Papa su In cerca del Messia reale, che ha separato religione e politica
di Giacomo Galeazzi
Così Cristo è morto e risorto: parola di Papa. Nel 2007 aveva dato alle stampe la prima parte di una rilettura della vita di Gesù, adesso il «biografo» Joseph Ratzinger continua a cercare il Messia reale, non un cadavere rianimato. Nel suo nuovo libro (edito dalla Lev, da ieri in libreria), Benedetto XVI riconosce a Israele la qualifica di «popolo santo», attribuisce a Cristo la separazione tra religione e politica e a una Chiesa «spesso nella tempesta» ricorda che «se le anime sono insensibili al male, esso prende il potere». Nel secondo, più ancora che nel primo volume, Benedetto XVI «ha un atteggiamento da fratello maggiore, molto simpatico», sottolinea Claudio Magris, scrittore incaricato dal Vaticano di presentare ieri l’opera ai giornalisti e rimasto colpito dalla ratzingeriana «cristologia dal basso». Un libro di 350 pagine stampato in oltre un milione di copie e pronto per la traduzione in 22 Paesi e per la versione e-book.
Nella prefazione il Pontefice già preannuncia l’ultima parte della trilogia: un affresco dell’infanzia di Cristo, «se mi sarà ancora data la forza». La «struttura giuridica» della Chiesa è «necessariamente maschile», però sono le donne «ad aprire la porta al Signore, ad accompagnarlo fin sotto la croce e a poterlo così incontrare anche quale risorto». Il diavolo fa crescere l’erba cattiva, anche la Chiesa ne è minacciata, ma «Dio è più forte di tutte le forze controverse». Senza la resurrezione, Gesù sarebbe stato soltanto «una personalità religiosa fallita». Non è una favola né il «miracolo di un cadavere rianimato», perché se così fosse «non ci interesserebbe e non sarebbe più importante della rianimazione, grazie all’abilità dei medici, di persone clinicamente morte», evidenzia il Papa.
Con il suo annuncio, inoltre, «Gesù ha realizzato un distacco della dimensione religiosa da quella politica». Una svolta «che ha cambiato il mondo» e che «appartiene all’essenza della sua nuova via». Cristo non va dipinto come un rivoluzionario, come fece negli Anni Sessanta «un’onda di teologie politiche e della rivoluzione». La violenza «non instaura il regno di Dio», al contrario è «lo strumento preferito dell’Anticristo».
Per l’ex professore divenuto Vicario di Cristo, quella della produzione letteraria si sta dimostrando una forma di apostolato e uno stile di governo. Oltre alle encicliche, Benedetto XVI si rivolge direttamente ai fedeli e al grande pubblico per spiegare la fede cattolica con l’obiettivo di superare tanto le riduzioni pseudo-scientifiche quanto le esaltazioni esoteriche. Il Pontefice liquida certi studi divulgativi, definendo «presuntuoso e insieme sciocco» voler «scrutare la coscienza di Gesù», voltando pagina anche rispetto al metodo storicocritico. «Se la esegesi biblica scientifica
Repubblica 11.3.11
"Così diventiamo noi stessi"
Gli inediti di Giovanni Jervis
Dalle favole al lavoro così si costruisce l´identità
Esce una raccolta di inediti di Jervis, scomparso nel 2009. Nel testo che pubblichiamo il celebre psichiatra affronta il tema dell´evoluzione del sé
Il processo di formazione della personalità ha procedure diverse a seconda dell´età
Anticipiamo un brano da Il mito dell´interiorità di Jervis (a cura di Gilberto Corbellini e Massimo Marraffa) in uscita da Bollati Boringhieri
L´identità non è tanto una scelta, quanto in primo luogo una necessità. Contrariamente a quello che ci piacerebbe, non possiamo cambiare identità come vorremmo: o per meglio dire, il cambiare identità, nella misura in cui pure è possibile – ed è una misura molto limitata – è processo precario, problematico e difficile. Si può osservare che i pochi eventuali mutamenti rapidi di identità – soggettiva e oggettiva – avvengono oggi, perlopiù, in occasione di talune varietà di conversioni religiose: ma ci si può anche chiedere, scetticamente, quanto poi ogni convertito, al di là delle proprie autosuggestioni e di una varietà di gratificazioni settarie, porti pur sempre dentro di sé il vecchio Adamo. (...)
Nell´infanzia, e in particolare a partire dal terzo anno di vita, la coscienza di sé oltrepassa il semplice riconoscimento del proprio corpo (che avviene intorno ai 18 mesi), per fare leva, invece, sul linguaggio e arrivare a essere descrizione, e anzi descrizione narrativa: è uno scoprirsi, caso per caso, maschi oppure femmine, l´essere un bambino possibile fra gli altri bambini, avere quel papà e quella mamma, avere una storia, e altre storie da ascoltare e raccontare. La sensazione-certezza di essere amati e protetti, che è fondamento dello sviluppo di una vita affettivoemozionale sana e felice, è inscindibile dalla possibilità di riconoscersi in una «descrizione accettante».
In pratica, dunque, la crescita affettiva è inseparabile dalla costruzione dell´identità. Con insistenza e, si potrebbe dire, con voracità, il piccolo dai tre ai sei anni vuole di sé una descrivibilità coerente, che sia descrivibilità pienamente legittimata dai genitori, e socialmente valida e riconoscibile, e capace di suscitare attenzione, e base e trama per transazioni affettive di continuo rinnovate. Una volta di più, le componenti emotivo-affettive e quelle cognitive della mente – tradizionalmente tenute distanti – si rivelano, invece, inestricabilmente interconnesse e anzi, a ben guardare, neppure ben distinguibili fra loro.
Sempre nel corso dell´infanzia, lo sviluppo dell´identità soggettiva è caratterizzato da un curioso paradosso: che mentre ciascuno di noi con chiarezza sempre maggiore costruisce e riconosce la singolarità del proprio essere se stesso, singolarità non confondibile con gli altri, al tempo stesso, e in contraddizione con questo processo, ciascuno «gioca» con identificazioni, introiezioni, proiezioni, mescolando le proprie caratteristiche di personalità, in modo più o meno temporaneo, con quelle di altri. In primo luogo, come è ben noto, la costruzione infantile della propria identità avviene attraverso un inglobamento progettuale, o modellante, attraverso un «far proprie», per via di introiezione, le caratteristiche dell´identità di altri; soprattutto quelle, idealizzate, del genitore dello stesso sesso.
Ma non si tratta solo di questo: infatti il gioco del «far finta», così manifesto dal terzo anno di vita in poi, rende esplicita la disposizione del bambino a sentirsi temporaneamente diverso da quello che è, a passare attraverso identità fittizie, ad arricchirsi, o esplorare il suo essere e i suoi confini, confondendosi con identità non sue: per esempio nel proiettarsi in vicende e soggetti «altri», e dunque a sentirsi Pollicino, e Pollicino nel bosco, ogni volta che ne riascolta la favola; oppure nell´introiettare, per periodi che possono essere brevissimi oppure lunghissimi, le caratteristiche di forza del padre, la grinta dell´eroe preferito, le grazie e i modi della madre, e così via.
Anche la crisi adolescenziale, e con essa l´autonomizzazione sociale postadolescenziale, chiamano in causa la questione dell´identità. In pratica investono, infatti, il problema di come sostenere, e gestire, la fine dell´eteronomia dell´identità, per cui il proprio «esser così» era fino a quel momento una funzione delle definizioni date dai genitori: toccano dunque il problema, per ogni soggetto, di come passare, in un salto aleatorio, all´acquisizione di un´identità svincolata da ogni «riconoscimento» protettivo. Da questo punto di vista i rischi di uno screzio psicotico, e anzi di una crisi o di uno scompenso psicotici, così drammatici e frequenti fra i 16 e i 18 anni, sono interpretabili, in larga misura, proprio come fallimenti nell´acquisizione dell´autonomia dell´identità.
Meno studiati, ma di quasi pari importanza, sono i problemi di identità del terzo decennio, e in particolare fra i 25 e i 30 anni. Chi si avvicina a quest´età della vita portandosi dietro il carico e la confusione di disturbi psichici, di disordini comportamentali, di derive sociali non risolte, comincia spesso a soffrire in modo acuto del fallimento della costruzione di un´identità adulta, autodeterminata, socialmente riconoscibile e accettabile, caratterizzata da un interesse sociale dominante e da un mestiere, svincolata dalle indefinite disponibilità e progettualità del periodo giovanile; e facilmente vede aggravarsi, in questa crisi che può essere dolorosissima, i problemi psicologici preesistenti. Si affaccia qui una più chiara identificazione, o almeno un accostamento più stretto, fra il tema dell´identità e il tema dell´autostima: l´insufficienza dell´una si lega indissolubilmente alle carenze dell´altra.
Nel quarto e quinto decennio di vita, l´esistenza di molte persone normali, o almeno passabilmente normali, è dominata dalla scoperta – che è tardiva, perlopiù, ma forse è inevitabile che sia così – delle proprie reali caratteristiche di personalità: e dunque delle proprie inclinazioni di base. Noi tutti diventiamo noi stessi, e somigliamo a noi stessi, assai più a quarant´anni che a venti. Il processo di individuazione, sul quale Jung ha scritto pagine molto interessanti, è la scoperta e realizzazione di sé, e avviene non già nell´età giovanile ma nella maturità; solo allora, perlopiù, ci liberiamo dai condizionamenti familiari e ambientali che ci avevano segnato nell´epoca dell´immaturità, e ci chiediamo che cosa veramente ci piace e vogliamo fare. Ne nascono revisioni talora difficili. E non a caso gli studi sulla personalità ci rivelano cose che appaiono singolari ai non psicologi, come il fatto che due gemelli separati alla nascita, e cresciuti in famiglie diverse, scoprono di somigliarsi assai di più se si incontrano a quarant´anni che a quindici o venti.
Si può dunque concludere che l´autocostruzione dell´identità, nel corso dell´infanzia e poi anche oltre, modifica le sue procedure e le sue caratteristiche a seconda delle tappe della vita: ma sempre la sua importanza è tale che possiamo considerarla il cardine dello sviluppo di tutta l´esistenza dell´individuo.
© 2011 Bollati Boringhieri editore Torino, corso Vittorio Emanuele II, 86 Gruppo editoriale Mauri Spagnol
il Venerdì di Repubblica 11.3.11
Noi Bellocchio, una famiglia da film
di Federica Lamberti Zanardi
"Per noi della famiglia Bellocchio Sorelle Mai ha un valore molto più profondo del semplice film. In quei 90 minuti sono concentrati dieci anni di vita: confronti, scontri, riappacificazioni. E poi c'è Bobbio, il nostro luogo". Pier Giorgio Bellocchio, primogenito di Marco racconta così il film girato con suo padre nel paesino emiliano. Perché ci sono case che sono appunto luoghi dell'anima, dove i muri, le finestre, le stanze, sono evocazioni di legami, ricordi, stagioni della vita. È così per la casa di famiglia di Marco Bellocchio nel centro storico di Bobbio in Val di Trebbia. Lì nel 1965 il regista ci ha girato il suo rivoluzionario esordio I pugni in tasca, lì ci torna ogni estate per i corsi di cinema che dedica ai giovani. Lì si svolge Sorelle Mai (dal 16 marzo nei cinema) che fra realtà e finzione si snoda lungo dieci anni della vita "estiva" di una famiglia sui generis: due vecchie zie (le vere zie del regista vitalissime nonostante l'età), Giorgio venticinquenne inquieto a cui spesso è affidata la nipotina Elena, figlia di sua sorella Sara, bella e assente anche quando c'è perché troppo concentrata sulla sua carriera di attrice. Gli interpreti, a parte Donatella Finocchiaro e Alba Rohrwacher, fanno tutti parte del clan Bellocchio. Così Elena è la seconda figlia di Marco (la mamma è la montatrice Francesca Calvelli). E Giorgio è Pier Giorgio Bellocchio, che - come in un cerchio generazionale che si chiude - è in questo giorni a teatro con I pugni in tasca adattamento del film del padre.
Perché ha detto che questo film è una seduta di psicoanalisi lunga dieci anni?
"Perché ho cominciato a girare che avevo 24 anni, ero single, senza figli, in cerca di una mia identità. Ho finito che ero sposato, con due figli e con un rapporto più sereno con mio padre. Siamo cambiati tutti in questi anni. Ci sono famiglie che si riuniscono per i compleanni, noi per fare cinema".
Ma lei va in analisi?
"Certo, da anni e continuerò a farlo".
Tim Burton dice che lui non va in analisi perché scrutare l'inconscio non è utile per un artista.
"Bisognerebbe portarlo a cena con mio padre, che senza la psicoanalisi non avrebbe più fatto un film".
Però i film che ha girato durante l'analisi non sono i più riusciti.
"È vero: durante il lavoro analitico con Massimo Fagioli ha girato dei film difficili, ma perché stava facendo un lavoro complesso. Dopo, però, sono arrivati L'ora di religione, Buongiorno, notte, Il regista di matrimoni. E se a 70 anni ha girato un'opera come Vincere, non si può pensare che tanti anni di analisi non abbiano avuto un ruolo nell'arrivare a quell'età con la brillantezza, la vitalità e la capacità di guardare avanti che ha dimostrato di avere".
Quanto è difficile essere il figlio di Marco Bellocchio?
"È la prima volta, in tanti anni, che questa domanda è posta nella maniera corretta perché il problema per me è essere figlio dell'uomo Bellocchio, complesso, coerente, rigoroso, che non accetta compromessi, e non del grande regista. Con un padre così devi sempre dimostrare di mirare alto".
Ma oggi il rapporto com'è?
"Bello. I miei genitori si sono separati quando io avevo sei anni. Quando, a 18 anni, sono andato a vivere da solo, la nostra relazione è diventata più intensa, ma anche molto conflittuale. Fino a quando, 16 anni fa, è nata mia sorella Elena che amo moltissimo. Allora ho riscoperto mio padre".
E lei che padre è?
"Ancora non lo so. Creare una famiglia è davvero complicato".
Cacciari...
Corriere della Sera 11.3.11
«È come Nietzsche, la democrazia lo infastidisce»
di Elsa Muschella
MILANO— «Se dice che i cittadini sono rompiballe lo riconosco, anzi si è trattenuto: Massimo parla così da sempre, è Nietzsche tradotto e condensato in pillole politiche» . Cesare De Michelis, 67 anni, studioso e docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea, scrittore ed editore, per quasi 10 anni (dal ’ 65 al ’ 74) ha lavorato con l’ex sindaco di Venezia alla direzione dell’Angelus novus, il trimestrale di estetica e critica che nel titolo omaggiava Paul Klee. Da allora conosce «in profondità» il Cacciari pensiero: «È un mio carissimo amico, so perfettamente cosa gli passa per la testa: gli uomini sono esseri orrendi e gli unici frequentabili sono i Superuomini» . Un pensiero condivisibile? «No di certo, io sopporto solo gli uomini e gli Übermenschen mi fanno paura. Ciò che Massimo si ostina a non riconoscere è la regola che gli impone di passare metà del suo tempo a trattare con i cittadini: si chiama democrazia e nella sua visione è una cosa terribile e fastidiosa proprio perché offre voce a quella che lui definisce, insultandola, la gente. Oh, la gente! Gli causa un fastidio talmente evidente da indurlo a lamentarsene in pubblico. Peccato che in democrazia la competenza di un filosofo valga come l’opinione di un tassista. Cacciari è un nichilista, vorrebbe andare oltre la democrazia. Ma tutti sanno che oltre quell’oltre c’è solo la dittatura. A meno che l’intelligenza degli uomini non trovi sbocchi migliori» .
Corriere della Sera 11.3.11
Wisconsin, passa la legge anti-sindacato
Giornata di fuoco al Parlamento invaso dai manifestanti, poi la spuntano i repubblicani
di Massimo Gaggi
Un «blitz» repubblicano dopo una guerra di trincea che paralizza da tre settimane il Parlamento del Wisconsin ha sbloccato la legge che limita drasticamente i diritti di negoziazione dei sindacati del pubblico impiego. Prima l’approvazione notturna al Senato, con un «escamotage» (contestato dai democratici) col quale è stato eluso l’ostruzionismo dell’opposizione. Poi una giornata di fuoco al Campidoglio di Madison invaso dai manifestanti, decisi a impedire il voto della Camera, pronta a ratificare il provvedimento con un’ampia maggioranza. Ma il voto finale è stato più volte rinviato tra sgomberi e nuove occupazioni dell’aula, in un clima confuso e paradossale coi funzionari che assistono i parlamentari democratici accusati dai repubblicani di aver fatto rientrare dalle finestre i manifestati che la polizia aveva fatto uscire dalla porta. In serata, l’aula trasformata in una bolgia dalle urla del pubblico «vergogna vergogna» , ha approvato definitivamente il provvedimento. Intanto, vari gruppi e organizzazioni giovanili hanno invitato gli studenti di tutte le scuole d’America a scendere in piazza oggi, venerdì, alle due del pomeriggio, poco prima della fine delle lezioni. Forse si risolverà tutto in una bolla di sapone, ma è la prima volta da decenni a questa parte che qualcuno, negli Usa, tenta di animare un movimento studentesco di protesta a livello nazionale. Ed è anche la prima volta che gruppi di attivisti provano a usare il canale digitale delle reti sociali, da Facebook a Gather. com, per coordinare una ribellione, richiamandosi esplicitamente all’esperienza dei giovani del Cairo e degli altri Paesi mediorientali in rivolta contro i loro regimi autocratici. L’America, a differenza del Nord Africa, è la culla della democrazia, ma l’asprezza della battaglia sulla contrattazione collettiva ((che molti considerano un diritto inalienabile) e l’azzeramento degli spazi di mediazione tra repubblicani e democratici ha creato una situazione senza precedenti: i 14 senatori democratici dello Stato fuggiti da tre settimane in Illinois per far venir meno il numero legale nelle votazioni, il Parlamento in uno stato di occupazione permanente, minacce di morte nei confronti di diversi parlamentari repubblicani. Adesso chi vuole trasformare la protesta in aperta ribellione ha trovato il suo leader: il regista Michael Moore che l’altra sera ha definito «una dichiarazione di guerra» il voto a sorpresa del Senato del Wisconsin e che, parlando durante un talk show della rete televisiva Msnbc, ha invitato gli studenti a scendere in piazza e ha pronunciato parole incendiarie: «I ricchi hanno commesso questi crimini e la gente chiederà che finiscano in prigione» e poi un ancor più scioccante: «Ricchi, banchieri, abbiamo diritto al vostro denaro» . Cosa ha generato una situazione così esplosiva? La miccia l’ha accesa quasi un mese fa il neogovernatore del Wisconsin, il repubblicano Scott Walker, che, nell’ambito delle misure di contenimento dello straripante deficit dello Stato, ha messo in cantiere la norma che elimina la contrattazione collettiva nel pubblico impiego salvo che per la negoziazione del salario minimo. Una legge drastica contro la quale i sindacati hanno mobilitato la loro base, mentre i 14 senatori della minoranza democratica si sono rifugiati in Illinois per impedire al Parlamento di Madison di votare. In base alla legge dell’Illinois, infatti, alle votazioni che hanno un impatto sul bilancio deve partecipare una maggioranza qualificata di senatori. E quelli che si rifiutano di votare possono essere accompagnati con la forza in Parlamento dalla polizia. È così iniziato il lungo braccio di ferro, con Walker deciso ad andare avanti anche perché questa legge era al centro del suo programma elettorale e perché convinto che la maggior parte dei cittadini— altrimenti chiamati a versare più tasse per pagare stipendi e benefit di un pubblico impiego in genere trattato meglio dei dipendenti privati— sarebbe stato dalla sua parte. Il governatore è riuscito a trascinare altri Stati sulla stessa strada (l’Ohio ha appena votato una misura simile), ma la durezza della reazione dei manifestanti ha indotto i conservatori di altre parti del Paese ad essere più cauti. Il pubblico impiego, soprattutto gli insegnanti, è visto da qualcuno come un’area di privilegio, da altri come un ultimo lembo di ceto medio da proteggere.
Una riforma al giorno toglie il giudice di torno
di Gian Carlo Caselli
Le leggi “ad personam” hanno imbarbarito il sistema violando i principi fondamentali dell'ordinamento ma non sono servite a granché. L’ossessione del premier per i suoi processi non si è calmata, e poco sollievo gli è venuto dall’incessante azione di illustri avvocati che intrecciano la difesa privata con responsabilità istituzionali.
Meglio lasciare da parte l’accetta che trancia di netto i delitti più “rischiosi”. Persino un’opinione pubblica assuefatta e ipnotizzata potrebbe a un certo punto svegliarsi. Invece delle brutali leggi “ad personam” si possono imboccare strade più elusive ma non meno efficaci.
Per esempio qualche modifica della Costituzione che consenta al governo di condizionare la magistratura o addirittura di impartirle direttive.
ESATTAMENTE questa è la situazione che si avrà con la sedicente riforma della Giustizia (sobriamente denominata epocale...) che il Consiglio dei ministri ha messo in cantiere.
Direttore dei lavori è un cavaliere/presidente che nello stesso tempo è imputato in vari processi. Un ossimoro? Forse, ma soprattutto un modo per regolare i conti con questa magistratura golpista ed eversiva che continua a coltivare un’assurda pretesa: chiedere conto anche al premier di azioni od omissioni che si presentino in contrasto con la legge penale.
Ma anche a prescindere (e non si può) dalle vicende giudiziarie del premier e dalle sue ansie, è evidente innanzitutto che non si tratta di una riforma della Giustizia (l’inefficienza del sistema resterà tal quale), ma del tentativo di liberare il potere politico dal fastidio di aver a che fare con magistrati indipendenti. È poi impossibile ignorare un dato di fatto: il nostro – purtroppo – è tuttora un paese caratterizzato da un fortissimo tasso di illegalità che comprende una spaventosa corruzione, collusioni e complicità con la mafia assai diffuse, gravi fatti di mala amministrazione e fenomeni assortiti di malaffare. Quasi sempre ci sono pezzi consistenti di politica coinvolti in tali vicende, per cui consentire loro (come avverrà con la pseudo-riforma della Giustizia) di pilotare la magistratura nel modo che ad essi più conviene sarebbe micidiale: per l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e per la stessa credibilità della nostra democrazia.
In altre parole, grazie alla pseudo-riforma potrà dare ordini alla magistratura, stabilendo come e chi indagare, proprio quel potere politico che di solito – è storia – respinge i controlli di legalità relativi ai suoi esponenti, preferendo autoassoluzioni perpetue. Ad esempio minimizzando il gravissimo cancro della corruzione sistemica riducendolo (la tradizione al riguardo si è consolidata negli anni) ad isolate performance di “mariuoli” o “sfigati” di poco conto. E non è un caso che il presidente del Consiglio, presentando baldanzosamente la “sua” riforma, abbia dichiarato con candore che così Mani Pulite non ci sarebbe stata. Che se invece avessimo a che fare anche noi con politici capaci di dimettersi sol perché scoperti a copiare una tesi di laurea, allora potremmo pure discutere sull’opportunità o meno dell’opzione legata alla separazione delle carriere. Per contro, la concreta realtà del nostro paese (ancora fuori degli standard delle democrazie occidentali per ciò che qui interessa) non ci consente assolutamente un simile lusso. Posto infatti che sempre – ovunque vi siano forme di separazione – il governo in un modo o nell’altro ha poteri direttivi sui pm, in Italia (nella situazione ancora attualmente data) il sistema sarebbe suicida, perlomeno finché certe decisive componenti della classe politica resteranno esclusivamente preoccupate della propria impunità. Sarebbe come affidare alle volpi la custodia del pollaio! Se poi la separazione delle carriere si combina (come previsto nella pseudo-riforma del governo) con altre misure mirate all’impunità dei potenti, ecco che il cerchio si chiude ed i giochi sono fatti. Così, l’indebolimento dell’obbligatorietà dell’azione penale mediante liste, stabilite dalla politica, che distinguono quali reati perseguire e quali no; - il controllo delle attività investigative della polizia giudiziaria esercitato dal governo e non più dal pm; - la mortificazione del Csm a ruoli meramente burocratici; - la previsione di un Csm separato per i pm, così sottratti all’utile “koinè” con la magistratura giudicante; - il conferimento al Guardasigilli di un potere di ispezione e relazione sulle indagini destinato a funzionare come ponte verso la costruzione di un rapporto gerarchico con l’ufficio del pm; - una nuova disciplina della responsabilità dei magistrati che rischi di esporli a bufere scatenate strumentalmente, incompatibili con la serenità e l’autonomia della giurisdizione.
SON TUTTI interventi che univocamente convergono verso l’obiettivo di riservare al potere politico l’apertura o chiusura del “rubinetto” delle indagini, prevedendo per giunta forme indirette ma efficaci di dissuasione verso i pm che tardino a capire che conviene “baciare le mani” a chi può e conta, piuttosto che servire gli interessi generali. La posta in gioco è la qualità della democrazia. E forse è bene cominciare a rileggere quel passo di Calamadrei in cui sta scritto che “la libertà è come l’aria. Ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent’anni e che io auguro a voi di non sentire mai”.
Repubblica 11.3.11
Il disegnino del Cavaliere
E mostrando la prova della bilancia Silvio ritorna ai trucchi del piazzista
di Filippo Ceccarelli
LA CHIAMANO ancora conferenza stampa, ma è qualcosa di più e un po´ anche di peggio. Così anche ieri, fra il cerottone e le bilancette, nella sala stampa di Palazzo Chigi l´agenda riformatrice del quarto governo Berlusconi si è concessa uno spettacolino d´inedita creatività, e dimostrativa.
È andato in scena, il muto siparietto, quando il presidente del Consiglio, ha estratto a sorpresa da una delle sue cartelline il disegno di due bilance e con studiata lentezza, a beneficio delle telecamere, con la faccia seria e quasi per metà occupata dall´immensa benda adesiva, ha mostrato questo assai semplice bozzetto agli italiani. Ad assoluta e definitiva riprova della bontà del suo provvedimento sulla giustizia, oggi senz´altro - come da illustrazione - sbilanciata.
Il Guardasigilli Alfano, che al suo fianco svolgeva la parte del giovane promettente, perché disponibile e assennato, ha accolto con un segno del capo il numero dell´arzillo presidente. La condizione permanente dell´allievo prevede infatti un caloroso, ma discreto assenso rispetto a una delle più celebrate massime berlusconiane, sul cui cinismo non si starà qui a disputare essendo abbastanza compatibile con i «normali» codici del potere. E comunque: «Ricordatevi - il Cavaliere dixit ai suoi seguaci - che il pubblico medio che vi ascolta in tv ha fatto la seconda media, e magari neanche al primo banco».
L´ammaestramento ha tutta l´aria di risalire all´eroico periodo della vendita: prima d´immobili e poi di pubblicità; ma in quella forma letterale Berlusconi lo recò in dote ad alcuni candidati di Forza Italia nella primavera del 2002. Ogni stagione e ogni governo hanno in effetti i loro sussidi visivi e persuasivi, comunque destinati a convincere quel non proprio stimatissimo pubblico.
Giusto allora il presidente del Consiglio andava girando per l´Italia e appena possibile tirava fuori un enorme foglio, un lenzuolone su cui erano appuntati tutti i provvedimenti del governo e il loro stato di realizzazione. Erano così tanti, diceva il messaggio, da meritarsi un´estensione, una prolunga. In questo mondo di segni rudimentali da trasmettere a un popolo divenuto piuttosto credulone Porta a porta non si tira mai indietro. Così, nel maggio di quello stesso 2002, Berlusconi non solo si presentò con il suo bel lenzuolone, ma in un accesso di gigioneria applicata lo appese anche alla penna che Vespa, un altro maestro di effetti speciali del potere, gli aveva fatto trovare sulla scrivania di ciliegio su cui un anno prima il candidato premier del centrodestra aveva firmato il suo Contratto con gli italiani.
Vennero poi altri accessori e ingegni di scena: lavagnette, schermi, tabelloni, cartine geografiche, lucidi, diapositive, tutto quanto serviva a celebrare opere mai compiute, ma simulate; come dire, nel linguaggio del potere, date per fatte: ecco la nuova Salerno-Reggio Calabria, ecco il ponte di Messina e così sia.
Sotto gli occhi degli Alfani di turno, nel corso degli anni il presidente Berlusconi ha platealmente stracciato programmi degli avversari, impugnato simboliche ramazze per sgominare l´immondizia napoletana (disposta a piazza San Giacomo da addetti della Protezione civile per il pianificato show!), mentre agli intimi ha anche promesso visioni di lividi e graffi che attestavano, sotto gli indumenti, la voglia che le folle hanno di abbracciarlo, di toccarlo, fino a fargli male.
L´ostensione delle bilancette, da questo punto di vista, appare un escamotage assai meno rischioso, ma certo ha il merito di ripristinare uno scenario narrativo che si era perso. Sì, gente, forza, credetemi, la mia riforma è perfetta, come vedete con i vostri occhi. E di nuovo lo spettacolo s´incrocia con il mestiere dell´imbonitore e quest´ultimo evoca una panacea. E così, dopo essersi frantumato nelle farmacie, tra i banchi del mercato e sui palcoscenici ritorna alla luce l´antico mestiere del ciarlatano. Il carrozzone prevede cerotti, unguenti, elisir, improbabili successori, simboli in liquidazione e tanta felicità per tutti.
Repubblica 11.3.11
Il documento del Welfare: l´Italia si reggerà sui lavoratori stranieri
L´Italia sarà salvata da due milioni d´immigrati
di Vladimiro Polchi
L´ITALIA ha bisogno di nuovi immigrati? Certo: «Nel periodo 2011-2015 il fabbisogno medio annuo dovrebbe essere pari a circa 100mila, mentre nel periodo 2016-2020 dovrebbe portarsi a 260mila». Tradotto: nei prossimi dieci anni avremo bisogno di "importare" un milione e 800mila lavoratori. A metterlo nero su bianco non è un sindacato, né un´associazione di categoria bensì il ministero del Lavoro, diretto da Maurizio Sacconi.
E così mentre dal Viminale si lancia l´allarme contro «l´esodo biblico» pronto a scatenarsi dalle coste del Nord Africa, i tecnici incaricati dal ministero del Welfare lavorano concretamente alle «previsioni del fabbisogno di manodopera». In un dettagliato rapporto del 23 febbraio scorso, la Direzione generale dell´immigrazione ragiona, infatti, sul numero di lavoratori stranieri necessari a reggere il "sistema Italia". La stima è cauta e si basa su diverse variabili.
«Il fabbisogno di manodopera è legato contemporaneamente alla domanda e all´offerta di lavoro - si legge nel Rapporto "L´immigrazione per lavoro in Italia" - dal lato dell´offerta si prevede tra il 2010 e il 2020 una diminuzione della popolazione in età attiva (occupati più disoccupati) tra il 5,5% e il 7,9%: dai 24 milioni e 970mila del 2010 si scenderebbe a un valore compreso tra i 23 milioni e 593mila e i 23 milioni circa nel 2020. Dal lato della domanda, gli occupati crescerebbero in 10 anni a un tasso compreso tra lo 0,2% e lo 0,9%, arrivando nel 2020 a quota 23 milioni e 257mila nel primo caso e a 24 milioni e 902mila nel secondo». Ciò detto, qual è il numero di immigrati di cui l´Italia avrà bisogno? «Nel periodo 2011-2015 il fabbisogno medio annuo dovrebbe essere pari a circa 100mila, mentre nel periodo 2016-2020 dovrebbe portarsi a circa 260mila». Insomma da qui a dieci anni il nostro Paese dovrà aprirsi a poco meno di due milioni di lavoratori stranieri.
«Questi dati smascherano la demagogia di chi continua a ripetere che gli immigrati sono una minaccia - commenta Andrea Olivero, presidente nazionale Acli - senza di loro il Paese imploderebbe e accoglierli civilmente non è solo atto umanitario, ma intelligente strategia per il futuro. Per questo è giusto chiedere che cambi la politica dei flussi, andando al più presto a prendere atto di chi già oggi lavora utilmente nel Paese e ancorando le cifre dei nuovi permessi alle reali necessità. Ci fa piacere che il ministero del Lavoro guardi ai dati con realismo, perché soltanto in questo modo sarà possibile avviare finalmente quel governo del fenomeno immigrazione che è mancato in questi anni, dominati da un´ottusa logica di mero contenimento, che peraltro è fallita. Nessuno, la Lega si metta il cuore in pace, può fermare un flusso che ha ragioni così forti sia nei Paesi di provenienza, sia nel nostro, come ci dicono i dati. Perciò l´integrazione è la scelta insieme più civile e più realistica».
il Fatto Saturno 11.3.11
Due pontefici e il fine vita
Testamento biologico? Te lo dico papale papale
di Giorgio Cosmacini
Proponibili a una doverosa riflessione sono due citazioni autorevoli, attinenti entrambe ai problemi di fine vita connessi al testamento biologico. Espressione quest’ultima alla quale sarebbe preferibile testamento biografico, poiché la vita di cui si parla non è la vita “biologica” dell’organismo, ma la vita “biografica” della persona: una vita intrecciata non alla biomolecole, alle cellule, ai tessuti, agli organi che compongono il suo corpo, come quello di altri, ma alla “storia di una vita”, la sua e non un’altra. Quella appunto espressa dalla parola “biografia”, della cui unicità fanno parte passioni e ideali particolari, intuizioni e motivazioni proprie, nonché affetti ed esempi da trasmettere, scopi e progetti concepiti sia prima che durante il tempo del morire, tutti quanti meritevoli di quella pietas che Immanuel Kant ha tradotto nella categoria del “rispetto”.
La prima citazione autorevole è ricavata da uno dei Discorsi ai medici (editi postumi nel 1959) di papa Pio XII: «Se il tentativo della rianimazione costituisce per la famiglia un onore che, in coscienza, non si può ad essa imporre, questa può lecitamente insistere perché il medico interrompa i suoi tentativi. […] In questi casi, perciò, una richiesta da parte della famiglia di sospendere il tentativo è più che legittima, e il medico vi può lecitamente acconsentire. In tal caso non c’è alcuna diretta disposizione della vita del paziente e neppure eutanasia».
La seconda citazione, altrettanto autorevole, è legata alla voce che papa Paolo VI volle far giungere ai medici cattolici riuniti a congresso nel 1970: «Il carattere sacro della vita è ciò che impedisce al medico di uccidere e che lo obbliga nello stesso tempo a dedicarsi con tutte le risorse della sua arte a lottare contro la morte. Questo non significa tuttavia obbligarlo a utilizzare tutte le tecniche di sopravvivenza che gli offre una scienza instancabilmente creatrice. In molti casi non sarebbe forse un’inutile tortura imporre la rianimazione vegetativa nella fase terminale di una malattia incurabile? In quel caso, il dovere del medico è piuttosto impegnarsi ad alleviare le sofferenze, invece di voler prolungare il più a lungo possibile, con qualsiasi mezzo e in qualsiasi condizione, una vita che non è più pienamente umana e che va naturalmente verso il suo epilogo».
Alle due citazioni tratte dai discorsi pontifici si potrebbe aggiungere la frase che un altro papa, Giovanni Paolo II, di fronte alla minaccia di un prolungamento artificioso della propria agonia, sussurrò ai medici prima della terza tracheotomia: «Lasciatemi tornare alla Casa del Padre».
La Stampa 11.3.11
Benedetto XVI: Israele un “popolo santo”
Presentato ieri il nuovo libro del Papa su In cerca del Messia reale, che ha separato religione e politica
di Giacomo Galeazzi
Così Cristo è morto e risorto: parola di Papa. Nel 2007 aveva dato alle stampe la prima parte di una rilettura della vita di Gesù, adesso il «biografo» Joseph Ratzinger continua a cercare il Messia reale, non un cadavere rianimato. Nel suo nuovo libro (edito dalla Lev, da ieri in libreria), Benedetto XVI riconosce a Israele la qualifica di «popolo santo», attribuisce a Cristo la separazione tra religione e politica e a una Chiesa «spesso nella tempesta» ricorda che «se le anime sono insensibili al male, esso prende il potere». Nel secondo, più ancora che nel primo volume, Benedetto XVI «ha un atteggiamento da fratello maggiore, molto simpatico», sottolinea Claudio Magris, scrittore incaricato dal Vaticano di presentare ieri l’opera ai giornalisti e rimasto colpito dalla ratzingeriana «cristologia dal basso». Un libro di 350 pagine stampato in oltre un milione di copie e pronto per la traduzione in 22 Paesi e per la versione e-book.
Nella prefazione il Pontefice già preannuncia l’ultima parte della trilogia: un affresco dell’infanzia di Cristo, «se mi sarà ancora data la forza». La «struttura giuridica» della Chiesa è «necessariamente maschile», però sono le donne «ad aprire la porta al Signore, ad accompagnarlo fin sotto la croce e a poterlo così incontrare anche quale risorto». Il diavolo fa crescere l’erba cattiva, anche la Chiesa ne è minacciata, ma «Dio è più forte di tutte le forze controverse». Senza la resurrezione, Gesù sarebbe stato soltanto «una personalità religiosa fallita». Non è una favola né il «miracolo di un cadavere rianimato», perché se così fosse «non ci interesserebbe e non sarebbe più importante della rianimazione, grazie all’abilità dei medici, di persone clinicamente morte», evidenzia il Papa.
Con il suo annuncio, inoltre, «Gesù ha realizzato un distacco della dimensione religiosa da quella politica». Una svolta «che ha cambiato il mondo» e che «appartiene all’essenza della sua nuova via». Cristo non va dipinto come un rivoluzionario, come fece negli Anni Sessanta «un’onda di teologie politiche e della rivoluzione». La violenza «non instaura il regno di Dio», al contrario è «lo strumento preferito dell’Anticristo».
Per l’ex professore divenuto Vicario di Cristo, quella della produzione letteraria si sta dimostrando una forma di apostolato e uno stile di governo. Oltre alle encicliche, Benedetto XVI si rivolge direttamente ai fedeli e al grande pubblico per spiegare la fede cattolica con l’obiettivo di superare tanto le riduzioni pseudo-scientifiche quanto le esaltazioni esoteriche. Il Pontefice liquida certi studi divulgativi, definendo «presuntuoso e insieme sciocco» voler «scrutare la coscienza di Gesù», voltando pagina anche rispetto al metodo storicocritico. «Se la esegesi biblica scientifica
Repubblica 11.3.11
"Così diventiamo noi stessi"
Gli inediti di Giovanni Jervis
Dalle favole al lavoro così si costruisce l´identità
Esce una raccolta di inediti di Jervis, scomparso nel 2009. Nel testo che pubblichiamo il celebre psichiatra affronta il tema dell´evoluzione del sé
Il processo di formazione della personalità ha procedure diverse a seconda dell´età
Anticipiamo un brano da Il mito dell´interiorità di Jervis (a cura di Gilberto Corbellini e Massimo Marraffa) in uscita da Bollati Boringhieri
L´identità non è tanto una scelta, quanto in primo luogo una necessità. Contrariamente a quello che ci piacerebbe, non possiamo cambiare identità come vorremmo: o per meglio dire, il cambiare identità, nella misura in cui pure è possibile – ed è una misura molto limitata – è processo precario, problematico e difficile. Si può osservare che i pochi eventuali mutamenti rapidi di identità – soggettiva e oggettiva – avvengono oggi, perlopiù, in occasione di talune varietà di conversioni religiose: ma ci si può anche chiedere, scetticamente, quanto poi ogni convertito, al di là delle proprie autosuggestioni e di una varietà di gratificazioni settarie, porti pur sempre dentro di sé il vecchio Adamo. (...)
Nell´infanzia, e in particolare a partire dal terzo anno di vita, la coscienza di sé oltrepassa il semplice riconoscimento del proprio corpo (che avviene intorno ai 18 mesi), per fare leva, invece, sul linguaggio e arrivare a essere descrizione, e anzi descrizione narrativa: è uno scoprirsi, caso per caso, maschi oppure femmine, l´essere un bambino possibile fra gli altri bambini, avere quel papà e quella mamma, avere una storia, e altre storie da ascoltare e raccontare. La sensazione-certezza di essere amati e protetti, che è fondamento dello sviluppo di una vita affettivoemozionale sana e felice, è inscindibile dalla possibilità di riconoscersi in una «descrizione accettante».
In pratica, dunque, la crescita affettiva è inseparabile dalla costruzione dell´identità. Con insistenza e, si potrebbe dire, con voracità, il piccolo dai tre ai sei anni vuole di sé una descrivibilità coerente, che sia descrivibilità pienamente legittimata dai genitori, e socialmente valida e riconoscibile, e capace di suscitare attenzione, e base e trama per transazioni affettive di continuo rinnovate. Una volta di più, le componenti emotivo-affettive e quelle cognitive della mente – tradizionalmente tenute distanti – si rivelano, invece, inestricabilmente interconnesse e anzi, a ben guardare, neppure ben distinguibili fra loro.
Sempre nel corso dell´infanzia, lo sviluppo dell´identità soggettiva è caratterizzato da un curioso paradosso: che mentre ciascuno di noi con chiarezza sempre maggiore costruisce e riconosce la singolarità del proprio essere se stesso, singolarità non confondibile con gli altri, al tempo stesso, e in contraddizione con questo processo, ciascuno «gioca» con identificazioni, introiezioni, proiezioni, mescolando le proprie caratteristiche di personalità, in modo più o meno temporaneo, con quelle di altri. In primo luogo, come è ben noto, la costruzione infantile della propria identità avviene attraverso un inglobamento progettuale, o modellante, attraverso un «far proprie», per via di introiezione, le caratteristiche dell´identità di altri; soprattutto quelle, idealizzate, del genitore dello stesso sesso.
Ma non si tratta solo di questo: infatti il gioco del «far finta», così manifesto dal terzo anno di vita in poi, rende esplicita la disposizione del bambino a sentirsi temporaneamente diverso da quello che è, a passare attraverso identità fittizie, ad arricchirsi, o esplorare il suo essere e i suoi confini, confondendosi con identità non sue: per esempio nel proiettarsi in vicende e soggetti «altri», e dunque a sentirsi Pollicino, e Pollicino nel bosco, ogni volta che ne riascolta la favola; oppure nell´introiettare, per periodi che possono essere brevissimi oppure lunghissimi, le caratteristiche di forza del padre, la grinta dell´eroe preferito, le grazie e i modi della madre, e così via.
Anche la crisi adolescenziale, e con essa l´autonomizzazione sociale postadolescenziale, chiamano in causa la questione dell´identità. In pratica investono, infatti, il problema di come sostenere, e gestire, la fine dell´eteronomia dell´identità, per cui il proprio «esser così» era fino a quel momento una funzione delle definizioni date dai genitori: toccano dunque il problema, per ogni soggetto, di come passare, in un salto aleatorio, all´acquisizione di un´identità svincolata da ogni «riconoscimento» protettivo. Da questo punto di vista i rischi di uno screzio psicotico, e anzi di una crisi o di uno scompenso psicotici, così drammatici e frequenti fra i 16 e i 18 anni, sono interpretabili, in larga misura, proprio come fallimenti nell´acquisizione dell´autonomia dell´identità.
Meno studiati, ma di quasi pari importanza, sono i problemi di identità del terzo decennio, e in particolare fra i 25 e i 30 anni. Chi si avvicina a quest´età della vita portandosi dietro il carico e la confusione di disturbi psichici, di disordini comportamentali, di derive sociali non risolte, comincia spesso a soffrire in modo acuto del fallimento della costruzione di un´identità adulta, autodeterminata, socialmente riconoscibile e accettabile, caratterizzata da un interesse sociale dominante e da un mestiere, svincolata dalle indefinite disponibilità e progettualità del periodo giovanile; e facilmente vede aggravarsi, in questa crisi che può essere dolorosissima, i problemi psicologici preesistenti. Si affaccia qui una più chiara identificazione, o almeno un accostamento più stretto, fra il tema dell´identità e il tema dell´autostima: l´insufficienza dell´una si lega indissolubilmente alle carenze dell´altra.
Nel quarto e quinto decennio di vita, l´esistenza di molte persone normali, o almeno passabilmente normali, è dominata dalla scoperta – che è tardiva, perlopiù, ma forse è inevitabile che sia così – delle proprie reali caratteristiche di personalità: e dunque delle proprie inclinazioni di base. Noi tutti diventiamo noi stessi, e somigliamo a noi stessi, assai più a quarant´anni che a venti. Il processo di individuazione, sul quale Jung ha scritto pagine molto interessanti, è la scoperta e realizzazione di sé, e avviene non già nell´età giovanile ma nella maturità; solo allora, perlopiù, ci liberiamo dai condizionamenti familiari e ambientali che ci avevano segnato nell´epoca dell´immaturità, e ci chiediamo che cosa veramente ci piace e vogliamo fare. Ne nascono revisioni talora difficili. E non a caso gli studi sulla personalità ci rivelano cose che appaiono singolari ai non psicologi, come il fatto che due gemelli separati alla nascita, e cresciuti in famiglie diverse, scoprono di somigliarsi assai di più se si incontrano a quarant´anni che a quindici o venti.
Si può dunque concludere che l´autocostruzione dell´identità, nel corso dell´infanzia e poi anche oltre, modifica le sue procedure e le sue caratteristiche a seconda delle tappe della vita: ma sempre la sua importanza è tale che possiamo considerarla il cardine dello sviluppo di tutta l´esistenza dell´individuo.
© 2011 Bollati Boringhieri editore Torino, corso Vittorio Emanuele II, 86 Gruppo editoriale Mauri Spagnol
il Venerdì di Repubblica 11.3.11
Noi Bellocchio, una famiglia da film
di Federica Lamberti Zanardi
"Per noi della famiglia Bellocchio Sorelle Mai ha un valore molto più profondo del semplice film. In quei 90 minuti sono concentrati dieci anni di vita: confronti, scontri, riappacificazioni. E poi c'è Bobbio, il nostro luogo". Pier Giorgio Bellocchio, primogenito di Marco racconta così il film girato con suo padre nel paesino emiliano. Perché ci sono case che sono appunto luoghi dell'anima, dove i muri, le finestre, le stanze, sono evocazioni di legami, ricordi, stagioni della vita. È così per la casa di famiglia di Marco Bellocchio nel centro storico di Bobbio in Val di Trebbia. Lì nel 1965 il regista ci ha girato il suo rivoluzionario esordio I pugni in tasca, lì ci torna ogni estate per i corsi di cinema che dedica ai giovani. Lì si svolge Sorelle Mai (dal 16 marzo nei cinema) che fra realtà e finzione si snoda lungo dieci anni della vita "estiva" di una famiglia sui generis: due vecchie zie (le vere zie del regista vitalissime nonostante l'età), Giorgio venticinquenne inquieto a cui spesso è affidata la nipotina Elena, figlia di sua sorella Sara, bella e assente anche quando c'è perché troppo concentrata sulla sua carriera di attrice. Gli interpreti, a parte Donatella Finocchiaro e Alba Rohrwacher, fanno tutti parte del clan Bellocchio. Così Elena è la seconda figlia di Marco (la mamma è la montatrice Francesca Calvelli). E Giorgio è Pier Giorgio Bellocchio, che - come in un cerchio generazionale che si chiude - è in questo giorni a teatro con I pugni in tasca adattamento del film del padre.
Perché ha detto che questo film è una seduta di psicoanalisi lunga dieci anni?
"Perché ho cominciato a girare che avevo 24 anni, ero single, senza figli, in cerca di una mia identità. Ho finito che ero sposato, con due figli e con un rapporto più sereno con mio padre. Siamo cambiati tutti in questi anni. Ci sono famiglie che si riuniscono per i compleanni, noi per fare cinema".
Ma lei va in analisi?
"Certo, da anni e continuerò a farlo".
Tim Burton dice che lui non va in analisi perché scrutare l'inconscio non è utile per un artista.
"Bisognerebbe portarlo a cena con mio padre, che senza la psicoanalisi non avrebbe più fatto un film".
Però i film che ha girato durante l'analisi non sono i più riusciti.
"È vero: durante il lavoro analitico con Massimo Fagioli ha girato dei film difficili, ma perché stava facendo un lavoro complesso. Dopo, però, sono arrivati L'ora di religione, Buongiorno, notte, Il regista di matrimoni. E se a 70 anni ha girato un'opera come Vincere, non si può pensare che tanti anni di analisi non abbiano avuto un ruolo nell'arrivare a quell'età con la brillantezza, la vitalità e la capacità di guardare avanti che ha dimostrato di avere".
Quanto è difficile essere il figlio di Marco Bellocchio?
"È la prima volta, in tanti anni, che questa domanda è posta nella maniera corretta perché il problema per me è essere figlio dell'uomo Bellocchio, complesso, coerente, rigoroso, che non accetta compromessi, e non del grande regista. Con un padre così devi sempre dimostrare di mirare alto".
Ma oggi il rapporto com'è?
"Bello. I miei genitori si sono separati quando io avevo sei anni. Quando, a 18 anni, sono andato a vivere da solo, la nostra relazione è diventata più intensa, ma anche molto conflittuale. Fino a quando, 16 anni fa, è nata mia sorella Elena che amo moltissimo. Allora ho riscoperto mio padre".
E lei che padre è?
"Ancora non lo so. Creare una famiglia è davvero complicato".
Cacciari...
Corriere della Sera 11.3.11
«È come Nietzsche, la democrazia lo infastidisce»
di Elsa Muschella
MILANO— «Se dice che i cittadini sono rompiballe lo riconosco, anzi si è trattenuto: Massimo parla così da sempre, è Nietzsche tradotto e condensato in pillole politiche» . Cesare De Michelis, 67 anni, studioso e docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea, scrittore ed editore, per quasi 10 anni (dal ’ 65 al ’ 74) ha lavorato con l’ex sindaco di Venezia alla direzione dell’Angelus novus, il trimestrale di estetica e critica che nel titolo omaggiava Paul Klee. Da allora conosce «in profondità» il Cacciari pensiero: «È un mio carissimo amico, so perfettamente cosa gli passa per la testa: gli uomini sono esseri orrendi e gli unici frequentabili sono i Superuomini» . Un pensiero condivisibile? «No di certo, io sopporto solo gli uomini e gli Übermenschen mi fanno paura. Ciò che Massimo si ostina a non riconoscere è la regola che gli impone di passare metà del suo tempo a trattare con i cittadini: si chiama democrazia e nella sua visione è una cosa terribile e fastidiosa proprio perché offre voce a quella che lui definisce, insultandola, la gente. Oh, la gente! Gli causa un fastidio talmente evidente da indurlo a lamentarsene in pubblico. Peccato che in democrazia la competenza di un filosofo valga come l’opinione di un tassista. Cacciari è un nichilista, vorrebbe andare oltre la democrazia. Ma tutti sanno che oltre quell’oltre c’è solo la dittatura. A meno che l’intelligenza degli uomini non trovi sbocchi migliori» .
Corriere della Sera 11.3.11
Wisconsin, passa la legge anti-sindacato
Giornata di fuoco al Parlamento invaso dai manifestanti, poi la spuntano i repubblicani
di Massimo Gaggi
Un «blitz» repubblicano dopo una guerra di trincea che paralizza da tre settimane il Parlamento del Wisconsin ha sbloccato la legge che limita drasticamente i diritti di negoziazione dei sindacati del pubblico impiego. Prima l’approvazione notturna al Senato, con un «escamotage» (contestato dai democratici) col quale è stato eluso l’ostruzionismo dell’opposizione. Poi una giornata di fuoco al Campidoglio di Madison invaso dai manifestanti, decisi a impedire il voto della Camera, pronta a ratificare il provvedimento con un’ampia maggioranza. Ma il voto finale è stato più volte rinviato tra sgomberi e nuove occupazioni dell’aula, in un clima confuso e paradossale coi funzionari che assistono i parlamentari democratici accusati dai repubblicani di aver fatto rientrare dalle finestre i manifestati che la polizia aveva fatto uscire dalla porta. In serata, l’aula trasformata in una bolgia dalle urla del pubblico «vergogna vergogna» , ha approvato definitivamente il provvedimento. Intanto, vari gruppi e organizzazioni giovanili hanno invitato gli studenti di tutte le scuole d’America a scendere in piazza oggi, venerdì, alle due del pomeriggio, poco prima della fine delle lezioni. Forse si risolverà tutto in una bolla di sapone, ma è la prima volta da decenni a questa parte che qualcuno, negli Usa, tenta di animare un movimento studentesco di protesta a livello nazionale. Ed è anche la prima volta che gruppi di attivisti provano a usare il canale digitale delle reti sociali, da Facebook a Gather. com, per coordinare una ribellione, richiamandosi esplicitamente all’esperienza dei giovani del Cairo e degli altri Paesi mediorientali in rivolta contro i loro regimi autocratici. L’America, a differenza del Nord Africa, è la culla della democrazia, ma l’asprezza della battaglia sulla contrattazione collettiva ((che molti considerano un diritto inalienabile) e l’azzeramento degli spazi di mediazione tra repubblicani e democratici ha creato una situazione senza precedenti: i 14 senatori democratici dello Stato fuggiti da tre settimane in Illinois per far venir meno il numero legale nelle votazioni, il Parlamento in uno stato di occupazione permanente, minacce di morte nei confronti di diversi parlamentari repubblicani. Adesso chi vuole trasformare la protesta in aperta ribellione ha trovato il suo leader: il regista Michael Moore che l’altra sera ha definito «una dichiarazione di guerra» il voto a sorpresa del Senato del Wisconsin e che, parlando durante un talk show della rete televisiva Msnbc, ha invitato gli studenti a scendere in piazza e ha pronunciato parole incendiarie: «I ricchi hanno commesso questi crimini e la gente chiederà che finiscano in prigione» e poi un ancor più scioccante: «Ricchi, banchieri, abbiamo diritto al vostro denaro» . Cosa ha generato una situazione così esplosiva? La miccia l’ha accesa quasi un mese fa il neogovernatore del Wisconsin, il repubblicano Scott Walker, che, nell’ambito delle misure di contenimento dello straripante deficit dello Stato, ha messo in cantiere la norma che elimina la contrattazione collettiva nel pubblico impiego salvo che per la negoziazione del salario minimo. Una legge drastica contro la quale i sindacati hanno mobilitato la loro base, mentre i 14 senatori della minoranza democratica si sono rifugiati in Illinois per impedire al Parlamento di Madison di votare. In base alla legge dell’Illinois, infatti, alle votazioni che hanno un impatto sul bilancio deve partecipare una maggioranza qualificata di senatori. E quelli che si rifiutano di votare possono essere accompagnati con la forza in Parlamento dalla polizia. È così iniziato il lungo braccio di ferro, con Walker deciso ad andare avanti anche perché questa legge era al centro del suo programma elettorale e perché convinto che la maggior parte dei cittadini— altrimenti chiamati a versare più tasse per pagare stipendi e benefit di un pubblico impiego in genere trattato meglio dei dipendenti privati— sarebbe stato dalla sua parte. Il governatore è riuscito a trascinare altri Stati sulla stessa strada (l’Ohio ha appena votato una misura simile), ma la durezza della reazione dei manifestanti ha indotto i conservatori di altre parti del Paese ad essere più cauti. Il pubblico impiego, soprattutto gli insegnanti, è visto da qualcuno come un’area di privilegio, da altri come un ultimo lembo di ceto medio da proteggere.
giovedì 10 marzo 2011
Repubblica Roma 6.3.11
Andrea Camilleri
"Dialogo con i lettori su Montalbano e i colori della Sicilia"
di Maria Pia Fusco
«È UNA fortuna poter assistere ancora vivente, seduto in prima fila, ad un evento celebrativo che ti riguarda», dice Andrea Camilleri dell' iniziativa "Camilleri e i suoi lettori", organizzata da Musica per Roma con Sellerio per l' 8 e il 9 marzo all' Auditorium Parco della Musica. Critici ed esperti commenteranno la sua letteratura e i lettori potranno rivolgergli domande. La sera dell' 8 è prevista l' anteprima del film tv "Il commissario Montalbano" e il 9 Camilleri, con Ficarra Scrivendo di Montalbano il lavoro è più facile. «Come diceva Simenon quando scrivi di un personaggio seriale ormai lo conosci, ci sono cose già approntate. È più difficile un romanzo non seriale». Montalbano non sarà eterno: «Lui non è come Sherlock Holmes, quando mi arriverà la stanchezza, Montalbano sparirà, nell' ultimo romanzo sarà senza ritorno». A parlare del poliziesco all' Auditorium ci sarà (l' 8) tra gli altri Carlo Lucarelli, che con Camilleri ha scritto Acqua in bocca. Sembra più sorprendente la presenza (il 9) di Marco Bellocchio. In realtà «Marco è stato mio allievo al Centro Sperimentale. Era entrato come attore, ma dopo un po' lo vedevo distaccato, sentivo che non aveva voglia di recitare. Allora lo presi sottobraccio, gli dissi la mia impressione e mi diede ragione. L' anno dopo passò al corso di sceneggiatura». Dunque se il cinema italiano ha acquistato un maestro si deve a Camilleri, ma nella sua fortunata carriera in teatro, televisione e letteratura, manca proprio il cinema. «Ho perso la mia occasione. Tanti anni fa Monica Vitti, dopo due film con Antonioni, mi disse che avrebbe voluto fare un film comico. Scrivemmo una sceneggiatura, il titolo era "A donna che t' ama proibisci il pigiama", era una farsa un po' alla Feydeau. Antonioni rifiutò di farla ma, gentilissimo, mi propose di fare la regia, ma non avevo esperienza di riprese, mi spaventai e lasciai perdere». A Roma dal ' 49, «ricordo la meraviglia di trovarmi subito come a casa. Amo Roma di quegli anni, ma continuo a starci bene. Mi piace l' Auditorium, ne hanno fatto un punto di ritrovo. Lo so, durante gli incontri non si fuma, ma per tre, quattro ore riesco a trattenermi. Smettere? Ci sono riuscito per venti giorni. Poi il mio medico a cena mi ha visto troppo infelice e mi ha offerto una sigaretta. E mi consenta - scusi la citazione - a 85 annie mezzo perché dovrei smettere?».
D di Repubblica n° 731
Massimo Cacciari
Una cosa che voleva e non ha avuto? «La bontà di Gesù e l’intelligenza di Spinoza»
A 13 anni che cosa voleva fare?
Giocare (a pallone, tennis, ecc.) e leggere Kafka (avevo appena iniziato e mi travolgeva).
Ha il potere assoluto per un giorno: la prima cosa che fa?
Lo regalo.
La sua casa brucia: cosa salva?
L’ospite.
Se la sua vita fosse un film, chi sarebbe il regista?
Nessun film. Fellini è morto.
All’inferno la obbligano a leggere sempre un libro: quale?
Spero che il diavolo mi faccia comunque scegliere tra i capolavori... Allora dico: Morte a Venezia.
La volta che ha riso di più?
Quando i sondaggi dicevano che avrei vinto, col centro-sinistra, le regionali del Veneto.
Nel migliore dei mondi possibili dovrebbe essere abolita la parola?
Praticamente.
Entra in una stanza dove ci sono tre donne: chi e perchè attrae la sua attenzione?
Quella che mostra di non conoscermi.
Oggi cos’è tabù?
Provare vergogna. é proibito.
Una cosa che non ha mai capito della gente?
Conosco solo persone, non gente.
Come si immagina il paradiso?
Un istante eterno di gioia.
Un bambino le chiede: «Perchè si muore?» Cosa gli risponde?
Perché dobbiamo far posto ad altri. E non significa affatto morire, solo tramontare.
Il vero lusso è?
Esser contenti nel desiderare. E basta.
Le rimangono 12 ore di vita: cosa fa?
Vado a rivedermi la Resurrezione di Piero della Francesca a Sansepolcro.
Cosa ha imparato dall’amore?
Che il bello è difficile.
Un posto dove non è mai stato e vorrebbe andare?
Al Teatro di Dioniso ad Atene, nel V secolo, per una “prima” di Sofocle.
Il suo più grande fallimento?
Tutte le volte che credevo di esser “riuscito”.
Se dico Italia qual è la prima cosa che le viene in mente?
Il Saggio di Leopardi sui costumi degli italiani.
Di cosa ha paura?
Del male fisico, che il corpo mi diventi nemico.
Tre cose che ama, tre cose che odia
Amo: silenzio, pazienza, dubbio. Odio: chiacchiera, arrogante sicurezza di sè, maleducazione.
MASSIMO CACCIARI, filosofo, ex sindaco di Venezia, insegna Estetica all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Il suo ultimo libro è Hamletica (Adelphi).
Repubblica 9.3.11
"Non siamo tema di serie B è ora di chiedere alla politica il 50% della rappresentanza"
Camusso: il berlusconismo mercifica tutto
Le ragazze ci raccontano che oggi la vera forma di contraccezione è la precarietà
di Cinzia Sasso
MILANO - Per l´occasione, ha messo un tailleur, le scarpe tacco cinque, come al solito. Anche se al solito sono nascoste dai pantaloni. Susanna Camusso, 55 anni, madre di una figlia di 22, archeologa mancata e primo segretario generale del più grande sindacato italiano, esce radiosa dall´incontro con il capo dello Stato. «Ho sentito parole che mi hanno aperto il cuore: dignità, ma anche lavoro, autonomia, libertà, protagonismo».
Da quattro mesi la Cgil ha un segretario donna. Che oggi è salita al Quirinale. È un bel simbolo.
«Io non mi sento un simbolo, però capisco che in questa stagione di degrado sia una cosa importante. È simbolico che il sindacato abbia un segretario donna; non è simbolica Susanna Camusso».
Le donne del centrodestra dicono che questo è un governo amico delle donne.
«Penso a quello che hanno fatto, giudichino gli altri. Il primo atto è stato la cancellazione della legge sulle dimissioni in bianco; hanno portato la pensione a 65 anni senza dare alle donne altri strumenti; hanno tagliato la scuola e sappiamo sulle spalle di chi va a finire; hanno cancellato il fondo delle politiche sociali; hanno fatto una legge inaccettabile sulla fecondazione assistita; per la social card obbligano a dire "io sono povera"... Non mi viene in mente altro che abbiano fatto. E poi c´è il discorso sulla cultura che hanno alimentato: il berlusconismo è l´emblema della mercificazione, tutto è comprabile, anche il rapporto con le persone».
Dicono anche che la manifestazione del 13 febbraio era una gara di insulti delle donne di sinistra.
«Vicino a me in piazza c´erano Giulia Buongiorno e una suora, c´erano tante voci diverse. Se un milione di donne dice che non possiamo essere la berlina del mondo, non sono tutte di sinistra».
Che cosa si potrebbe fare per aiutare davvero le donne?
«Intanto bisogna chiarire che far andare avanti le donne vuol dire far andare avanti il Paese e questo è il momento giusto per cambiare il modello del passato che è fallito. Le donne generano lavoro, l´occupazione femminile è un fattore di crescita, una ricchezza per il Paese. Un soggetto nuovo è più ricco, ha più voglia di vivere e progettare. I nostri obiettivi sono chiari: ci batteremo per ripristinare la legge contro le dimissioni in bianco; per garantire un lavoro non precario; per difendere la maternità, e le ragazze oggi raccontano che la vera forma di contraccezione è la precarietà. E ci vuole una norma sulla paternità obbligatoria».
C´era una proposta di legge sulle quote rosa nei cda che però è bloccata e scarnificata.
«Le quote sono uno strumento utile perché obbligano a "liberare dei posti", di suo nessuno si fa da parte. Emma Marcegaglia dice che non va bene: ma è il solito schema, alle donne si chiede quello che negli uomini viene dato per scontato: intelligenza, competenza... Penso che anche la rappresentanza politica dovrebbe essere paritaria, 50 e 50».
Può il sindacato, fatto di uomini e donne, portare avanti obiettivi come questi?
«Bisogna smettere di considerare il tema delle donne di serie B. Di fronte a qualsiasi questione bisogna pensare che ci sono due punti di vista, anche nella politica sindacale. Stiamo ancora lavorando con lo schema che il maschile è neutro, invece il maschile è maschile e questo è fondamentale. Mi chiedo: perché le strade sono considerate infrastrutture e gli asili no? Perché abbiamo fatto tanta strada ma tanta ancora ne manca, la famiglia in Italia è ancora vissuta come delega, non come responsabilità reciproca».
Lei sembra una donna di ferro. Ha qualche paura?
«Ho una grande preoccupazione per il nostro Paese, per le profonde divisioni che vedo. Non c´è mai stata una fragilità così forte della nostra classe dirigente».
C´è la politica nel suo futuro?
«Mi rende isterica la ricerca del papa straniero. Il mio oggi è un lavoro e una passione. Ho imparato a fare questo e penso che ognuno debba fare quello che sa fare bene. E poi non c´è una politica forte se non c´è una rappresentanza sociale forte».
Il 6 maggio sarà il suo primo sciopero generale.
«È una straordinaria scelta di responsabilità. Siamo molto preoccupati e ci pare che nessuno si stia prendendo la responsabilità di fare qualcosa. Fisco e lavoro sono le due leve da cui partire. E penso che l´Italia sia un paese straordinario con una grande capacità di rimettersi in moto. Io ci credo: si può. E la Cgil farà la sua parte».
l’Unità 10.3.11
Il segretario: «Gran polverone. Il premier lo usa come arma di pressione contro i pm»
Bindi: «Trovo pericolosissima l’autonomia della polizia giudiziaria rispetto alla magistratura»
«Le Ruby diventano due»
Con la riforma l’inchiesta di Milano non sarebbe mai partita La polizia giudiziaria, infatti, non sarà più a disposizione dei pm
«No, serve solo a Silvio» Bersani boccia la riforma
Mentre Alfano presenta la bozza di riforma della giustizia a Napolitano, il Pd annuncia battaglia. «Aspettiamo le carte, ma le premesse non fanno sperare nulla di buono». Bersani: «Serve a coprire le leggi ad personam»
di Maria Zegarelli
La riforma «epocale» che oggi verrà discussa in Consiglio dei ministri si annuncia soprattutto come una battaglia parlamentare «epocale». Il Pd resta sulle barricate e il giudizio non cambia dopo l’ultima stesura illustrata ieri sera al presidente della Repubblica dal ministro Angelino Alfano. «Aspettiamo di vedere le carte dice il segretario Pier Luigi Bersani ma le premesse non sono certo buone». Non sarebbe altro che «una manovra» che punta a dare «copertura politica» alle leggi ad personam che, secondo il leader Pd, «certamente non sono finite».
LA TENAGLIA
«Penso che Berlusconi voglia metterci in mezzo a una tenaglia dice Bersani -: da un lato cerca di uscire dai suoi processi, e non credo che siano finiti i tentativi di uscirne con forzature delle norme e delle regole, e dall’altro alza una bandiera». Forti dubbi che la riforma costituzionale che ha in mente la maggioranza arrivi al traguardo del doppio esame delle Camere, «e questo può essere positivo, viste le intenzioni». Il sospetto, in realtà, è che il gran polverone che si alzerà nei prossimi mesi serva al premier come arma di pressione contro gli stessi magistrati che dovranno giudicarlo nei quattro processi «del lunedì». «Un modo per rafforzare ex post la tesi della persecuzione», dice Mario Cavallaro, in Commissione Giustizia alla Camera. «Perché non partire dalle tre proposte depositate in Parlamento? Iniziamo da lì», rilancia il segretario. «O leggi ad personam o riforme costituzionali che non arrivano da nessuna parte aggiunge -. Non c’è mai nel “mirino” il funzionamento della giustizia. È un tema preso ostaggio da Berlusconi».
«Parlo per me e non so se sono maggioranza nel partito esordisce la presidente Rosy Bindi -, ma sono contraria alle misure annunciate dalla maggioranza. Trovo pericolosissima l’autonomia della polizia giudiziaria rispetto alla magistratura, come sono contraria alla separazione delle carriere. In realtà siamo di fronte ad un manifesto pensato per creare conflitto con la magistratura e giustificare le performance del lunedì a processo di Berlusconi».
«Non è certo limitando l`obbligatorietà dell`azione penale o introducendo la possibilità di citare direttamente in giudizio un magistrato commenta la capogruppo in Commissione Giustizia Donatella Ferranti che ha erroneamente applicato una legge che si garantiscono i cittadini da provvedimenti ingiusti o che si accelerano i tempi dei processi». Lapidario anche Lanfranco Tenaglia: «Continuano a mischiare la carte in tavola perché quello che interessa solo le leggi ad personam, come il processo breve, che sono in dirittura d’arrivo alla Camera. Non c’è assolutamente la volontà di riformare la giustizia nel senso che interessa al Paese ma di continuare a sfasciarla».
Claudia Fusani:
Una cosa è certa: se la riforma fosse già in vigore, l’inchiesta su Ruby e sul presunto giro di prostituzione in quel di
Arcore non sarebbe stata mai fatta. Per un motivo soprattutto: la polizia giudiziaria dipenderà dal politico e non dal pm. Intanto dalle nuove carte depositate nella Giunta per le autorizzazioni della Camera, emergono altre deliziose novità. Una su tutte: le Ruby sono due e una, nota cantante egiziana, è in qualche modo riconducibile «all’entourage dell’ex presidente egiziano Hosni Mubarak». Gli onorevoli avvocati Longo e Ghedini il 3 febbraio hanno interrogato, nel ruolo di testi a difesa del premier imputato, i ministri Frattini, Bonaiuti e Galan. E i loro racconti sembrano un buon alibi per la bugia delle bugie: Berlusconi era veramente convinto che Ruby fosse parente del presidente egiziano. Tanto che gliene ha persino parlato in una cena ufficiale a villa Madama il 19 maggio 2010. Prima, quindi, delle nota serata del 27 maggio quando Ruby minorenne fu portata in questura senza documenti, denunciata per furto e poi liberata, contro la legge, affidandola al consigliere regionale Nicole Minetti. Frattini, quella sera del 19 maggio, sedeva racconta «alla destra del Presidente del Consiglio». Allo stesso tavolo «Galan, il consigliere ministro Archi, Valentini, Bonaiuti e la delegazione egiziana, al centro Mubarak e accanto gli interpreti». Continua Frattini: «Berlusconi sicuramente parlò di Ruby a Mubarak che, dall’espressione, non mi parve avesse realizzato a chi si riferisse il premier. Da altri interventi da parte egiziana emerse che una certa Ruby fosse una cantante egiziana. La conversazione fu un po’ confusa. Berlusconi disse che questa ragazza sarebbe appartenuta ad una cerchia familiare riferibile al presidente Mubarak il quale non comprese troppo bene.
Allora Berlusconi disse: “Ci informeremo meglio”». Più “utile” alla difesa il ministro Galan. «Verso la fine del pranzo Berlusconi parlò a Mubarak di una giovane bella egiziana di nome Ruby che aveva avuto modo di conoscere. Mubarak non focalizzò subito, lui si riferiva ad una nota cantante di nome Ruby. Berlusconi accennò che doveva trattarsi di una parente o comunque di una persona della cerchia presidenziale». Se Bonaiuti resta generico («si parlò di una cantante egiziana e io mi sono ricordato della famosisisma Um Kalsoum»), più preciso è il fedele Valentino Valentini: «A fine cena Berlusconi disse di aver conosciuto una giovane ragazza egiziana di nome Ruby proveniente da una nota famiglia egiziana. Più interlocutori egiziani sono a quel punto intervenuti per dire che Ruby è una famosa cantante egiziana. Ed emerse una familiarità tra questa Ruby e l’entourage di Mubarak». E insomma, in un modo o nell’altro, le Ruby diventano due. Miracoli egiziani. E il Marocco? Pazienza.
l’Unità 10.3.11
Inadatto al compito
di Concita De Gregorio
In dissenso con un buon numero di opinioni lette ieri su giornali di destra di sinistra e di centro opinioni argomentate, ironiche, pensosissime o sagaci vorrei spiegare qui in modo chiaro perché ritengo che nessuna riforma della giustizia si possa e si debba discutere con questo governo. Lo dirò in pochissime parole, credo che bastino: non si riforma la giustizia con chi è imputato. Sarebbe certamente urgente e necessario mettersi al lavoro per rendere la giustizia più efficace, per dare più strumenti a chi la amministra. Purtroppo, però, non siamo in condizioni di farlo per via del fatto che il Presidente del Consiglio si trova in questo momento sotto processo come lo è stato innumerevoli volte in passato, quasi senza soluzione di continuità, quasi che la sua passione per la politica fosse in qualche modo collegabile alla sua esigenza di mettersi in salvo dalle conseguenze dei suoi gesti. Quasi che.
Non ci si siede ad un tavolo a discutere di giustizia se dall’altra parte del tavolo c’è qualcuno che con ogni mezzo si sottrae alla giustizia stessa: non è, come posso dire, un interlocutore all’altezza del compito. C’è un conflitto di interesse endemico: il suo interesse ad avere una giustizia che gli convenga confligge a priori, per il solo fatto di esistere, con l’interesse collettivo. Non c’è bisogno di entrare nel merito, anzi non lo si può fare. Allo stesso modo non si discute di riassetto del sistema radiotelevisivo con chi ne detiene il monopolio, errore già occorso in passato e dal quale evidentemente non si è tratto alcun insegnamento. Semplicemente: si impedisce a chi detiene il monopolio del sistema radiotelevisivo di governare. Poi eventualmente, se costui preferisce fare politica al fare miliardi per la sua famiglia con le sue aziende, allora cede realmente le sue tv, si candida e corre con gli stessi mezzi economici e mediatici degli altri, se eletto diventa un valido interlocutore per discutere persino di tv. O di giustizia, o di scuola, o di impresa.
Se così non fosse se questo non fosse un principio fondativo delle democrazie rappresentative a capo dei governi dei paesi occidentali ci sarebbero gli uomini più ricchi dei medesimi paesi, i Murdoch e i Bill Gates, i signori dei colossi informativi sarebbero tutti presidenti e i miliardari corruttori (ce ne sono a tutte le latitudini) anzichè rispondere delle loro malefatte sarebbero tutti lì a riformare i sistemi-giustizia a loro misura. Possiamo dunque annoverare l’esigenza di una vera e rapida riforma del processo fra le ragioni che dovrebbero determinare le dimissioni di Berlusconi e il rapido ricorso alle urne. Non succederà, perché dopo aver permesso che l’uomo col più straordinario potere mediatico ed economico del paese si candidasse alla guida del medesimo non possiamo ora aspettarci che divenga ragionevole, acceda alla causa comune, si interessi al bene di tutti e non pretenda, come deve sembrargli ovvio, di continuare ad occuparsi del suo.
l’Unità 10.3.11
Sedici articoli ridisegnano il Titolo IV della Carta, quello dedicato al terzo potere dello Stato
La magistratura diventa un «ufficio» e i pm degli impiegati. Nasce l’Alta Corte di disciplina
La giustiza come piace a lui: punire i pubblici ministeri
Oggi il Consiglio dei Ministri approva 16 articoli che fanno piazza pulita dell’equilibrio fra i tre poteri dello Stato. Una riforma «epocale», come dice il Cavaliere. Con i pm che rischiano di tasca propria.
di Claudia Fusani
Sedici articoli che rivoluzionano l’assetto dello Stato. Che buttano all’aria quel perfetto bilanciamento tra i tre poteri studiato parola dopo parola nei 137 articoli della Costituzione. «Sarà una riforma epocale»: per una volta ha ragione il presidente del Consiglio. Quella che viene approvata stamani dal Consiglio dei ministri è qualcosa di «epocale» sul fronte della giustizia ma che, ancora una volta, nulla fa per risolvere il vero problema: la lentezza della giustizia. Il succo dei sedici articoli che intervengono sul titolo IV della Carta e, dal 101 al 113 è che i pubblici ministeri, quella parte della magistratura che fa le indagini ed è la pubblica accusa nei processi, viene declassata a «ufficio» con scarsi poteri di indagine e se sbaglia, deve anche pagare di tasca propria. E’ la «punizione» invocata dal premier all’indomani del rinvio a giudizio per il caso Ruby. La bozza finale del ddl di riforma costituzionale è stata vista ieri intorno all’ora di pranzo dal premier Berlusconi, nel pomeriggio è stata illustrata al Presidente della Repubblica e in serata allo stato maggiore del pdl a palazzo Grazioli. Nonostante questo il Guardasigilli ieri sera ha voluto ancora ripetere: «Il testo? lo scriviamo domani».
I CSM DIVENTANO DUE
Uno per i giudici e uno per i pm ed entrambi saranno presieduti dal Capo dello Stato. Cade quindi l'ipotesi che a capo del Csm dei pm vada il Procuratore generale della Cassazione eletto dal Parlamento in seduta comune su indicazione del Csm.
E CAMBIA LA COMPOSIZIONE
Nel Csm dei giudici ci sarà di diritto il primo presidente della Corte di Cassazione. Gli altri componenti saranno per il 50% scelti dai giudici tramite sorteggio degli eleggibili (un modo per ridurre il potere delle correnti della magistratura); per l'altra metà dal Parlamento in seduta comune tra professori ordinari di università di materie giuridiche ed avvocati dopo 15 anni di esercizio. Il vicepresidente del Csm dei giudici sarà scelto tra i componenti laici. Durano in carica 4 anni e non sono rieleggibili. Nel Csm dei pm avrà posto di diritto il procuratore generale della Cassazione. Ancora in forse la composizione: metà esatta tra laici e togati o 1/3 laici e 2/3 togati. I Csm poi (art.105) «non possono adottare atti di indirizzo politico». E’ il bavagli o ai pareri.
L’ALTA CORTE DI GIUSTIZIA
La sezione disciplinare, che dovrà giudicare le toghe, non sarà più una sezione del Csm. Ma un organo a parte. E diviso in due, uno per i giudici e uno per i pm. I componenti di ciascuna sezione saranno al 50%laici e 50% togati. Presidente e vicepresidente saranno eletti dai laici. E’ assicurata «l'autonomia e l'indipendenza della Corte di disciplina» (art.105 bis). Ma il potere sarà in mano alla parte politica delle Corti.
AZIONE PENALE OBBLIGATORIA MA...
Oggi l’articolo 112 della Carta dice: «Il pm ha l’obbligo di esercitare l’azione penale». Quello nuovo invece aggiunge: «... secondo i criteri stabiliti dalla legge». Un legge ordinaria che detterà le priorità. E’ un grosso limite.
IL PM PAGA
«I magistrati sono direttamente responsabili degli atti compiuti in violazione dei diritti, al pari degli altri funzionari e dipendenti dello Stato». L’articolo 113 bis introduce un vecchio cavallo di battaglia di Berlusconi: la responsabilità civile dei magistrati. «Nei casi di ingiusta detenzione la legge regola la responsabilità civile dei magistrati» la quale «si estende allo Stato». Risultato: se il pm sbaglia qualcosa nel suo lavoro, dovrà pagare di tasca sua.
...E NON HA PIÙ LA POLIZIA
Se finora il pm dispone direttamente della pg (art.109), d’ora in poi sarà una legge ordinaria a stabilirne «le forma di utilizzo».
La Stampa 10.3.11
Conflitto tra i poteri dello Stato
di Carlo Federico Grosso
Oggi il Consiglio dei ministri dovrebbe varare la riforma costituzionale della giustizia. Una riforma «epocale», l’ha definita qualche giorno fa il presidente del Consiglio.
Se il Parlamento, a chiusura del lungo iter parlamentare previsto, dovesse davvero approvarla, la giustizia italiana non sarebbe, in effetti, più la stessa. Cambierebbe pelle, caratura, peso, incisività, colore. Sarebbe una giustizia del tutto diversa rispetto a quella che conosciamo.
I punti salienti della riforma dovrebbero essere, stando alle indiscrezioni, la separazione delle carriere, la spaccatura in due del Csm, l’istituzione di una «Alta corte di giustizia» destinata a gestire la disciplina dei magistrati, un diverso livello d’indipendenza a seconda che si tratti di giudici o di pubblici ministeri.
L’ elenco prosegue con la limitazione dell’obbligatorietà dell’azione penale (che diventerebbe esercitabile «secondo le priorità stabilite da una legge» votata ogni anno dal Parlamento), la polizia giudiziaria autonoma dal pubblico ministero, l’introduzione della responsabilità civile dei magistrati che sbagliano.
Ebbene, nel suo insieme questo complesso di innovazioni determinerebbe una profonda alterazione del rapporto oggi esistente fra i poteri dello Stato. L’idea liberale di una magistratura destinata ad esercitare in modo indipendente il controllo di legalità sull’attività dei cittadini, soggetta soltanto al rispetto della legge, cederebbe il passo all’idea di una magistratura condizionata dal potere politico, ed in particolare dal potere esecutivo. Si realizzerebbe in modo traumatico, e fortemente limitativo delle prerogative della giurisdizione, quel «riequilibrio» fra i poteri che viene da tempo vagheggiato da una parte consistente della nostra classe politica.
Soprattutto, una riforma così configurata rischierebbe d’incidere profondamente sull’autonomia delle Procure della Repubblica e, pertanto, sull’esercizio dell’azione penale da parte dell’ordine giudiziario. Pensate: il pubblico ministero, secondo quanto si prefigurerebbe, non farebbe più parte di un «ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere dello Stato», ma costituirebbe, più semplicemente, un «ufficio» al quale la legge «assicura l’indipendenza»; esso non sarebbe più il protagonista delle indagini, ma dovrebbe sottostare alle iniziative ed alle valutazioni di una polizia giudiziaria resa autonoma dal suo ufficio e gerarchicamente dipendente dal governo; esso non sarebbe più libero di scegliere le priorità nelle indagini penali, ma dovrebbe comunque sottostare alle priorità dettate dal Parlamento.
Si consideri, d’altronde, la profonda modificazione che subirebbe il principio di indipendenza dell’ordine giudiziario, considerato a ragione cardine dello Stato di diritto. Oggi il principio d’indipendenza della magistratura è formulato in maniera piena dalla Costituzione, che stabilisce che «la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere», e prevede, a presidio concreto di questo enunciato, un Csm forte ed autorevole, presieduto dal Capo dello Stato. Domani, se la riforma avviata dal governo dovesse essere approvata, s’indebolirebbe il principio generale d’indipendenza (riconoscendo la funzione di potere dello Stato autonomo dagli altri poteri soltanto alla magistratura giudicante), e, soprattutto, si vanificherebbe il presidio concreto dell’indipendenza dell’ordine giudiziario costituito dal sistema di autogoverno della magistratura.
Dividere, spaccare, significa già di per sé indebolire. S’ipotizza, peraltro, non soltanto di dividere in due il Csm, ma, altresì, di privarlo dei suoi poteri più nobili e incisivi, attraverso i quali esso ha potuto, negli anni, costituire uno strumento di tutela efficace dei singoli magistrati e della magistratura nel suo insieme ed essere voce autorevole dell’ordine giudiziario, riducendolo, nei fatti, a mera istituzione burocratica per la gestione dei trasferimenti e delle promozioni dei magistrati. Davvero una iniziativa utile per il Paese?
C’è un ulteriore profilo che, su tutt’altro piano, preoccupa. Si prevede che i due Csm siano modificati nella loro composizione, con incremento dei componenti laici di designazione politica, si prevede di istituire una «Alta corte di giustizia» anch’essa a maggioranza «laica», si prevede di introdurre la responsabilità civile dei magistrati che sbagliano. Talune di queste innovazioni di per sé potrebbero anche essere apprezzate. Non c’è tuttavia il rischio che esse, ancora una volta considerate nel loro insieme, e sommate alle altre novità proposte, realizzino, nei fatti, una intimidazione destinata a rendere i magistrati timorosi, e pertanto più timidi nel perseguire i reati e i loro autori?
Tutti riteniamo che la giustizia italiana oggi non funzioni come dovrebbe e che sia pressante l’esigenza di una riforma in grado di restituirle efficienza, rapidità e credibilità. Per soddisfare questa esigenza prioritaria servono peraltro incisive modificazioni dei codici e della legislazione ordinaria. Non serve sicuramente l’azzardo di una modifica dei principi costituzionali.
Corriere della Sera 10.3.11
Scioperare o no, magistrati divisi. Una settimana per decidere
di M. Antonietta Calabrò
ROMA— Scioperare o non scioperare? La risposta dal parlamentino dell’Anm arriverà presto, prima del previsto, alla fine della settimana prossima, sabato 19 marzo. Ma intanto il dibattito ferve tra le poco meno di diecimila toghe italiane. I magistrati (questa è la domanda) possono scendere in sciopero, per manifestare la loro contrarietà a una riforma costituzionale della giustizia? Oppure questa forma di protesta avrà un effetto boomerang e li farà apparire come una casta, rafforzando l’immagine della magistratura che il premier non si stanca di ribadire? È questo il dilemma che tormenta il gran corpaccione della magistratura, quello, diciamo così, della maggioranza silenziosa che in queste ore si anima sul web. E che è fatto non solo di «toghe rosse» o «toghe rotte» (dal titolo del blog di Chiarelettere del magistrato Bruno Tinti). Un dilemma ben sintetizzato da questo post anonimo che sembra proprio scritto dalla mano di un magistrato, perché certamente non è tenero neppure con Berlusconi: «Casta coesa=Dittatore unico» . È comparso ieri su Wikio (che monitora su web gli argomenti di attualità così come affrontati sui social network). E continua così: «Correnti Anm indicano dispoticamente via obbligatoria anche per magistrati che mirano ideali di giustizia etica e morale» . Poi c’è un’altra domanda: quella sui tempi. Scioperare subito? O attendere? Il processo di revisione costituzionale infatti è lungo, il percorso accidentato, quindi — è questo il ragionamento — sarebbe inutile se non dannoso alzare nel giro di poche settimane una barriera d’acciaio come lo sciopero. Meglio, forse, la sabbia negli ingranaggi. Tanto che Armando Spataro (il pm di Milano che a botta calda aveva commentato contro il premier: «A riforme epocali risposte epocali» ) ha dichiarato ieri che la «riforma è incompatibile con la Costituzione» , che essa delinea un «quadro preoccupante e che da ciò che leggo mi sembra incostituzionale» . Come a indicare che le nuove norme avranno davanti un percorso a ostacoli ben più insidioso che le braccia incrociate per un giorno.
l’Unità 10.3.11
Insultano la Carta e tagliano 81mila prof: fermiamoli il 12
Intervista a Giovanni De Luna
«Delegittimare la scuola vuol dire spaccare l’Italia»
«Il governo sta attaccando ciò che rappresenta il primo grado di inclusione del Paese, il luogo dove si forma la comunità e l’identità di un popolo»
di Oreste Pivetta
La scuola maltrattata, la scuola offesa, la scuola tagliata. Eppure c’è anche la scuola nell’unità di Italia, l’Unità che non tutti vorrebbero celebrare in questi giorni. C’è la scuola assieme, ovviamente, ad altre “voci”: guerre, chiesa, fabbriche, politica, trasporti, comunicazioni di massa, mafie... Voci, che sono altri passaggi, nel bene o nel male, di un cammino contrastato e contradditorio verso l’unità e soprattutto nella costruzione di una identità comune, voci che diventano “isole tematiche” nella mostra “Fare gli Italiani. 150 anni di storia nazionale”, dal 17 marzo a Torino, alle Officine grandi riparazioni di via Castelfidardo 22, quattordicimila metri quadri di installazioni. «Ciascuna voce – spiega Giovanni De Luna, storico e curatore insieme con Walter Barberis – abbiamo cercato di interpretarla e di rappresentarla alla luce della coppia inclusione-esclusione. Alcuni esempi. La fabbrica è stata una straordinaria occasione di inclusione, perché nella fabbrica si sono incontrati migliaia di italiani, di diverse regioni, di diversi dialetti, di diversi costumi, che davanti alla loro condizione di lavoratori hanno maturato un comune sentire e un comune modo per esprimerlo. Le mafie hanno generato l’effetto opposto, separando e quindi escludendo una parte della popolazione».
Professor De Luna, in questo percorso si immagina un ruolo straordinario della scuola: a scuola si impara la lingua di tutti e si dovrebbe costruire un sistema di valori condivisi. È ancora così?
«Quello è stato e continua ad essere il ruolo della scuola pubblica in Italia. Un ruolo, appunto, straordinario. Con varianti, ovviamente. Il percorso non è mai stato lineare. Se guardiamo al presente, la crisi è evidente, ma il compito resta fondamentale. Se gli immigrati e i loro figli diventano cittadini italiani sarà per il lavoro, ma sarà allo stesso modo per la scuola: sui banchi delle elementari crescono nuove schiere di italiani e crescono grazie all’impegno a volte strenuo di migliaia di maestri. Quando ci si riferisce alla scuola pubblica questo si dovrebbe in primo luogo riconoscere: la scuola in prima linea sul fronte dell’inclusione. Che cosa sarebbe altrimenti? Dove altrimenti si costruirebbe una comunità, capace di riconoscersi in una identità. Certo tutto è difficile, le strutture scolastiche sono malandate, gli insegnanti sono sfiduciati, c’è un deficit intellettuale, i contenuti stessi possono apparire obsoleti, ma l’attacco anche da parte della politica è stato continuo. La scuola non trova schierato al fianco un governo. Ne incontra uno che tenta di delegittimarla».
Non è solo la politica. C’è anche una società con i suoi modelli culturali che “sfiducia” la scuola... «Nel senso che la scuola deve sopportare il contrasto, la concorrenza di forme comunicative più efficaci, altri circuiti di trasmissione dei saperi, altri saperi. Del resto viviamo in una condizione di emergenza culturale, non solo politica».
Forse più culturale che politica, se si interpretano i “saperi” che può affidarci la televisione, da Amici al Grande Fratello?
«Questo fa parte di una deriva, cui partecipa anche la scuola. Ma per la scuola non c’è niente di nuovo. La scuola ha subito periodici attacchi. La scuola ha vissuto e vive di alti e bassi. All’Unità d’Italia, ad esempio, venne promossa, ma in un paese afflitto dall’analfabetismo non venne favorita l’istruzione elementare, bensì quella intermedia, perché in primo luogo si voleva addestrare un ceto amministrativo e tecnico, utile al nuovo stato. Poi venne il momento della scuola elementare. Il fascismo condizionò la funzione inclusiva, che tornò alta ai tempi del centrosinistra, ai tempi di Tristano Codignola....
Che fu alla guida della politica scolastica nel Psi di Nenni e che fu traipiù battaglieri sul fronte della istituzione della scuola media unica e della stessa scuola materna statale.
«Oggi siamo al tentativo ripetuto di delegittimare la scuola...» Berlusconi dice infatti che la scuola pubblica non educa. Ma gli attacchi sono pure altri, la Lega in prima fila, in modo talvolta ambiguo. Quanto vale il dialetto rispetto a un progetto inclusivo della scuola?
«Continuo a ritenere che avesse ragione Pasolini: il dialetto vive dentro una lingua nazionale forte, in un circuito virtuoso. Il problema non è aprire la scuola a una dimensione del locale. Anzi, questa apertura può costituire un momento didattico molto serio, un avvicinamento molto concreto alla realtà, un’esperienza di lettura della realtà e di confronto. Il problema è costruire attorno una cornice molto robusta dal punto di vista concettuale, che comunichi appartenenza».
Come fecero i piemontesi un secolo e mezzo fa? «Allora lo stato procedette estendendo in modo burocratico amministrativo il modello piemontese. Ma non si può demonizzare questa scelta, che ci diede un sillabario unico, ma anche una lingua per parlarsi da nord a sud e un sistema di valori. In quel modo si formò un’idea di cittadinanza. I nostri sussidiari saranno stati retorici, ma accompagnarono questo paese verso il benessere, facendoci capire di partecipare tutti alla stessa impresa».
Una scuola federale ha una ragione?
«La scuola federale mi sembra una stupidaggine, che pretende chi, come la Lega di Bossi, ha la sua idea di cittadinanza, inaccettabile peraltro: una cittadinanza che accantona i valori e si fonda sugli interessi».
l’Unità 10.3.11
Lettera da una professoressa
Il premier attacca il pensiero critico
di Caterina Pes
Per una volta voglio dismettere i panni da parlamentare e rindossare quelli dell’ insegnante, il lavoro che ho svolto con passione per tanti anni e che tornerò a svolgere quando sarà conclusa la mia esperienza a Montecitorio. Ho sempre avuto la consapevolezza, lucida e netta, del valore sociale, oltre che culturale, di una scuola pubblica, libera, laica, indipendente. Ma mai come in questo momento, dopo le parole sovversive che Silvio Berlusconi è stato capace di pronunciare, ho sentito il merito di questa funzione per la nostra democrazia, mai come in questo momento ho desiderato tornare nei panni della professoressa di filosofia che ha cercato non di “inculcare” ai suoi ragazzi il proprio pensiero, ma di insegnare loro ad essere liberi, vigili e critici. Ad avere rispetto della democrazia e di se stessi in quanto cittadini. Quello che il presidente del Consiglio, ormai indegno del suo ruolo, ha sferrato non è stato un attacco alla scuola, perché ci hanno pensato già le sue finanziarie ad ucciderla, con tagli di proporzioni mai subite prime da un sistema dell'istruzione che pure è, suo malgrado, abituato ai conti in rosso. Berlusconi questa volta ha fatto di più: ha attaccato il pensiero critico. Che è altra cosa dalla libertà fasulla e vuota che il nostro premier ha avuto la sfrontatezza di infilare persino nel logo del suo partito. Ma di quale libertà parla? La libertà di poter fare lui ciò che vuole e negare a noi la libertà di dissentire?
Dobbiamo stare molto attenti, perché Berlusconi ha una strategia collaudata: sdoganare i suoi vizi, e abituare il nostro palato a concetti inaccettabili in un paese come il nostro, un tempo politicamente maturo . Così facendo egli ottiene due risultati: conquista, o meglio crede di conquistare, il favore dei cattolici e delle loro ricche scuole, e nega a noi, docenti della scuola pubblica, il dovere, prima che il diritto, di insegnare ai giovani ad essere liberi, grazie alla cultura, che in quanto tale non ha padroni.
È chiaro, dunque, che attaccando la scuola pubblica, di tutti, dei ricchi come dei poveri, repubblicana e unitaria, Berlusconi indirettamente attacca il sapere e la conoscenza che, per loro natura, sono liberi.
Mi appello allora ai colleghi, agli studenti, agli insegnanti, perché ognuno di noi giochi il proprio ruolo in questa battaglia paradossale che ci vede schierati a difenderci da chi ci dovrebbe proteggere.
Spesso ci è capitato di assistere sbigottiti ad affermazioni inaccettabili e irripetibili da parte del premier e ogni volta ci convinciamo che abbia toccato il fondo della dissacrazione delle istituzioni, ma l'attacco sferrato alla scuola pubblica e peggio ancora alla libertà del pensiero, credo che, realmente, sia la più grave delle sortite di un uomo che passerebbe su qualunque cosa pur di mantenere il potere.
l’Unità 10.3.11
Verso la manifestazione del 12 marzo
di Domenico Petrolo
Da diversi anni assistiamo a un attacco continuo ai valori ed i principi sanciti dalla nostra Costituzione. Con annunci di fantomatiche riforme Costituzionali, di cui il Paese invece avrebbe realmente bisogno, si cerca quotidianamente di smontare tassello dopo tassello le nostre principali istituzioni.
L’Italia si ritrova governata da un Premier che ha una visione distorta e pericolosa della Democrazia. Una visione per cui nessuno può disturbare il “grande manovratore” e gli organi di garanzia, che per fortuna ancora oggi sono i cardini della nostra vita democratica, sono raffigurati come stantii orpelli burocratici, che impediscono di realizzare il fantomatico “nuovo miracolo italiano”. Come se la disoccupazione,che colpisce un giovane su 3 e una donna su 2, sia responsabilità della Corte Costituzionale o del Quirinale.
Qualsiasi luogo dove si “annida” o si “forma” un’opinione pubblica diversa da quella prevista da questa ultradestra governante viene subito indicato come un bersaglio da colpire, attraverso controversi atti legislativi, provvedimenti punitivi o dichiarazioni dal tono aggressivo e cariche di disprezzo.
Così è successo alla scuola pubblica, descritta dal premier come un luogo in mano a pericolosi inculcatori, quando invece è spesso uno splendido esempio d’impegno civico, con professori bisfrattati che, nonostante la peggior paga d’Europa, cercano ogni giorno di dare un’istruzione decente ai nostri ragazzi. Cosi è stato per l’informazione libera e per la magistratura, su cui si annuncia proprio in queste ore una “riforma epocale”.
In questo clima di contrapposizione permanente, ancora una volta si corre il rischio che la nostra Carta Costituzionale venga stravolta, non nell’interesse collettivo, ma all’insegna di un’idea di democrazia per pochi e non per tutti. Si corre il pericolo che il diritto all’istruzione e molti altri diritti siano calpestatati in nome di un finto liberalismo, dietro cui si nascondono interessi individuali e di parte.
Per questo lo sforzo che ci viene chiesto è maggiore del solito. Oggi è necessaria una resistenza civile, la difesa civica della nostra democrazia. E’ necessario ricostruire il tessuto socio-culturale del nostro Paese.
Dobbiamo ritrovare l’orgoglio di essere italiani, di essere una comunità .
Per questo la manifestazione di sabato 12 per la Costituzione e per la Scuola Pubblica, sarà un grande momento che dovrà vederci uniti, al di là di ogni colore politico, all’insegna del nostro tricolore. Uniti per la nostra carta costituzionale, nella certezza che non possiamo permettere a nessuno d’intaccare le nostre libertà e i nostri diritti fondamentali.
Repubblica 10.3.11
Scalfaro: la Costituzione è sotto attacco
Messaggio per il C-day. Cgil: impegno etico essere in piazza. Sì di Venditti
di Giovanna Casadio
ROMA L´augurio di Oscar Luigi Scalfaro è di «coinvolgere il maggior numero di cittadini» nel C-day, nella mobilitazione per la Costituzione e la scuola che si terrà sabato in un centinaio di piazze italiane e straniere. Ma soprattutto, l´ex presidente della Repubblica e "padre costituente" invia al comitato "A difesa della Costituzione, se non ora quando?" un messaggio che è insieme di allarme e di pungolo: «È doveroso denunciare i tentativi di aggressione alla Costituzione che passano soprattutto attraverso i propositi di riduzione dell´autonomia e dell´indipendenza della magistratura e le proposte di modificare le norme che regolano il giudizio di costituzionalità delle leggi». Parole che arrivano puntuali ora che il governo si appresta a cambiare 14 articoli della Carta per rivoluzionare l´ordinamento giudiziario. La preoccupazione quindi, «è molto forte», ma come accadde con il referendum costituzionale del 2006 in cui i cittadini bocciarono la riforma del centrodestra, così afferma Scalfaro a nome dell´Associazione "Salviamo la Costituzione, aggiornarla non demolirla" gli italiani «sapranno ancora una volta rinnovare il proprio amore per la Costituzione repubblicana nata dalla lotta di Resistenza e di Liberazione».
È il miglior viatico (e Scalfaro potrebbe essere in piazza) a una giornata di iniziative, flash mob, cortei, adesioni che continuano a crescere. Oltretutto difesa della Carta e della scuola pubblica vanno a braccetto nella mobilitazione di sabato. Lo ripete a Montecitorio Dario Franceschini nell´interrogazione alla ministra Gelmini, che «sa solo schierarsi con Berlusconi, invece le piazze torneranno a riempirsi per difendere Costituzione e scuola». In piazza ci sarà la Cgil. «Difendere la Costituzione dai continui e strumentali attacchi è un impegno etico, oltre che politico e sociale, specie per un sindacato come la Cgil che considera fondamentali gli articoli che parlano del lavoro e dei problemi sociali ed economici». Tra le adesioni oltre ai politici, da quelli di Fli a Vendola, Bersani, Di Pietro, Tabacci intellettuali, personaggi dello spettacolo. Claudio Bisio apre la carrellata di testimonianze nello spot per il C-day, in cui gli articoli della prima parte della Carta sono recitati come passi di un breviario laico. Tra i messaggi di adesione, Dario Vergassola: «Alla Costituzione sta accadendo quello che succede al paesaggio, viene distrutto poco alla volta». Ottavia Piccolo: «Sarò in piazza perché sono nata in tempo di democrazia e diritti e se volevo qualcosa di diverso nascevo nel Far West o nella Chicago anni ‘20». E Antonello Venditti: «La Costituzione deve essere il nostro zenit». Ad aprire il corteo romano un Tricolore di 200 metriquadri. Beppe Giulietti invita a portare la Costituzione. Domenico Petrolo del comitato promotore: «Tutte le iniziative sono all´insegna della Carta e di tutti quei diritti e libertà fondamentali come l´istruzione pubblica, l´informazione, la giustizia che ogni giorno vengono minacciati da questo governo».
l’Unità 10.3.11
Intervista ad Angelo Del Boca
«Il conflitto potrebbe andare avanti per mesi»
di Umberto De Giovannangeli
Secondo lo studioso l’esercito regolare dispone di armi più moderne e potenti rispetto ai rivoltosi ma è difficile che riesca a riconquistare la Cirenaica dove non è mai stato popolare
Agita lo spauracchio-Al Qaeda; accusa l’Occidente di «complotto colonialista»”, avverte Stati Uniti e Nato: se attua-te la «no fly zone» la Libia impugnerà le armi...Gheddafi torna all’attacco mediatico. L’Unità ne parla con il più autorevole studioso del colonialismo italiano nel Nord Africa: Angelo Del Boca. «Siamo di fronte rimarca lo storico ad una guerra civile che potrebbe continuare anche per mesi...Gli insorti hanno la voglia di vincere ma il Colonnello ha dalla sua gli armamenti pesanti e, soprattutto, l’aviazione».
Nella sua ultima uscita televisiva, Gheddafi ritorna su Al Qaeda e sul «complotto colonialista» dell’Occidente...
«Gheddafi non è nuovo a queste uscite. Perché in fondo l’attacco ai Paesi colonialisti lo ha sempre fatto. Questa volta magari è più minuzioso, più diretto. Ora dipende da cosa faranno gli Stati Uniti e la Nato. Se, come si teme, ci sarà l’attacco sul territorio libico, allora una parte di ragione Gheddafi l’avrebbe anche, perché fino a prova contraria, la Libia è un Paese sovrano. E devo dire che in Italia sono molti quelli che si dichiarano contrari ad un attacco militare, a cominciare dal ministro dell’Interno Roberto Maroni...». E Al Qaeda? «Non escludo che ci siano uomini di Al Qaeda, soprattutto in Cirenaica, dove peraltro ci sono sempre stati. Non dimentichiamo che nel 1996, Gheddafi fu costretto ad inviare marina, aviazione ed esercito per reprime una rivolta esplosa tra Bengasi e la Montagna Verde. Allora si parò di 1200 morti e di carceri riempite di persone legate ad Al Qaeda. Questo per dire che la presenza qaedista non può essere esclusa, anche se Gheddafi probabilmente ne amplifica la portata».
Il Consiglio di transizione formatosi a Bengasi ha lanciato un ultimatum al raìs... «Si tratta di una iniziativa di nessuna efficacia e importanza, in quanto questo Consiglio è una espressione estremamente provvisoria e di scarsissima rilevanza. Resto però dell’avviso che comunque un tentativo per incoraggiare Gheddafi ad andarsene è del tutto legittimo e augurabile, perché probabilmente arresterebbe il bagno di sangue. Anche in Italia c’è un gruppo che si sta organizzando proprio per proporre una mediazione. Naturalmente è necessario prospettare una ritirata che salvi in parte la faccia di Gheddafi. Credo che questo gruppo si manifesterà nei prossimi giorni».
Nello stesso discorso a cui facevamo in precedenza riferimento, Gheddafi ha anche affermato che se verrà imposta la «no fly zone», la Libia prenderà le armi...
«Trovo che Gheddafi abbia dimenticato che è già in stato di guerra. Perché se è vero che gli Awacs controllano 24 ore su 24 l’intero territorio libico, si è già in stato di guerra».
Qual è la definizione che a suo avviso meglio si attaglia a ciò che da settimane sta avvenendo in Libia? «La definizione più calzante è guerra civile. Perché da una parte ci sono i fedelissimi di Gheddafi e dall’altra gli insorti che non accettano più la sua dittatura. Questa divisione attraversa anche le tribù, sulle quali Gheddafi aveva sempre fatto molto affidamento. Si era sempre detto che il Libro Verde avrebbe annullato le tribù e invece, nonostante la “terza teoria universale”, la Libia è ancora oggi uno Stato tribale».
Sul piano militare interno, quello in atto è uno scontro che può concludersi, e se sì in che tempi, con un vincitore e un vinto?
«Non credo, perché gli insorti non hanno armi pesanti, non hanno aviazione e dispongono di pochissimi carri armati. Hanno soltanto una gran voglia di vincere. Invece Gheddafi ha armamenti pesanti e, soprattutto, l’aviazione. Ma la sua forza non è sufficiente per riconquistare la Cirenaica. Quindi è una guerra che potrebbe continuare anche per mesi, se non intervengono altre forze».
il Fatto 10.3.11
In piazza per la Libia?
risponde Furio Colombo
Caro Colombo, dicono che i pacifisti sono distratti. E neghittosi. Perché non riempiono le piazze con manifestazioni anti Gheddafi invece di starsene zitti a guardare la televisione? É una domanda che riguarda poco i pacifisti e molto i politici che hanno dichiarato Gheddafi il miglior amico dell'Italia, e lo hanno fatto appena due anni fa in parlamento, destra e sinistra, Pdl e Pd, quasi all’unanimità. Non tocca a loro, politici e partiti che hanno votato Gheddafi , dire che cosa pensano adesso?
Giovanna
PENSO che la lettrice faccia riferimento a ciò che l'on. Veltroni ha dichiarato al "Sole 24 Ore" dell'8 marzo, rispondendo alla domanda della giornalista Palmerini che chiede: "Qual'è la ragione del silenzio nelle piazze deserte?". Risposta: "Penso che ci siano due ragioni. La prima è che siamo entrati in una spirale di egoismo sociale e di riduzione del nostro orizzonte che include solo ciò che accade vicino". Risposta difficile da condividere, perché la Libia è vicinissima e quello che sta accadendo fa paura a tutti. Ma Veltroni completa così l'argomento: "La seconda ragione è che era molto più facile stare dentro lo schema tradizionale del 900, quello in cui i conflitti erano definiti da una storia che non esiste più." Incalza la giornalista: "La sua è una critica al partito democratico?" e ribatte Veltroni: "In questo caso no. Il Pd è stata l'unica forza politica a reagire anche con una manifestazione. No, mi sorprende l'assenza dei sindacati, associazioni, movimenti." Qui c'è un vuoto che ha bisogno di essere colmato. Prima c'è un trattato votato quasi alla unanimità dal Parlamento proprio quando tanti gruppi e movimenti chiedevano di non farlo. Ricordate, ad esempio, i Radicali? Non ripeterò la storia di chi ha voluto e votato e lodato come un cambiamento del mondo il trattato di relazioni strette, fraterne, militari ed economiche, strategiche e scientifiche con la Libia (e aggiungendo il mandato di bloccare con tutti i mezzi ogni tentativo di immigrazione dall'Africa all'Italia). Ma c'era gente in piazza, e non i Radicali da soli. C'erano anche molti italiani cacciati dalla Libia abbandonando tutti i loro beni e il loro lavoro e che nessuno ha voluto ascoltare prima di firmare o ratificare quel trattato. C'erano anche (pochi) deputati del Pd e altri parlamentari a cui nessuno ha prestato attenzione. Ma il problema si ripropone adesso. Il partito democratico sara' anche stato vivace nel reagire fuori dal Parlamento. Ma in Parlamento non vi è traccia di una richiesta di abrogazione del trattato con la Libia. Stiamo parlando di un legame celebrato anche dalle nostre Frecce Tricolori nel cielo di Tripoli e da un baciamano del primo ministro italiano al dittatore più sanguinario e feroce rimasto (purtroppo finora ) al potere. Possibile che solo il frammento di Partito Radicale eletto nel Pd lo abbia capito e lo abbia denunciato in tempo,in sparuta compagnia di pochi deputati disobbedienti? E non sarebbe una bella manifestazione se, nonostante l'errore, adesso il Pd si prendesse la responsabilità di volere la cancellazione del trattato? Come può il Parlamento chiedere ai cittadini di fare spontaneamente (e rischiando le botte di Maroni) qualcosa che il Parlamento non sta facendo e non ha detto di voler fare?
Corriere della Sera 10.3.11
Veltroni «chiama» Renzi. E lui stronca il partito
«Le firme? Non servono a nulla. Mi auguro che Berlusconi possa dimostrare la sua innocenza» . Asse per le primarie
di Maria Teresa Meli
ROMA— Sono tutti là. Walter Veltroni, il leader del Pd originale, quello prima versione, che fa gli onori di casa ai due ospiti. Sergio Chiamparino, che poteva essere leader ma che poi ha preferito finire il suo mandato di sindaco di Torino. E Matteo Renzi, il leader che verrà. Sono tutti insieme al teatro dei Servi a Roma, per un convegno di Democratica, la fondazione di Veltroni. Parlano linguaggi differenti tra di loro, ma un filo li unisce, e anni luce li allontanano da Bersani e dal «suo» Pd. Renzi più di ogni altro in quella sala rappresenta la rottura con certe liturgie della politica del centrosinistra. Arriva senza essersi nemmeno tolto dal viso il cerone che ha messo per partecipare a Matrix. Nessun altro lì lo avrebbe fatto, per timore di un possibile accostamento a Berlusconi. Lui sì. Anche perché di questa «ossessione del Pd» per il premier è bello che stufo. Per questo non esita a dire quello che gli altri due si limitano a pensare: «La raccolta di firme non serve a nulla» . Il suo linguaggio è diverso e diretto: «Spesso raccontiamo un’Italia triste e i nostri in tv sono tristi e polemici. Però è a Roma e in Parlamento che è così, sul territorio è tutta un’altra storia» . Non si preoccupa di abbattere un totem del centrosinistra, la concertazione: «Io sono contrario, andava bene all’epoca di Ciampi, per il governo nazionale, ma non può essere replicata in sedicesimo in tutte le città italiane» . Non rinnega la rottamazione, anche se ha abbandonato i rottamatori: «Il senso era di dire: gente non potete svernare in Parlamento... c’è chi ci ha fatto le ragnatele lì» . Il sindaco di Firenze non risparmia critiche a nessuno, nemmeno al Bersani che non vuole mettere il suo nome sul simbolo del partito: «È una decisione che ci riporta indietro di 30 anni» . E fa anche di più, rompe un tabù che non romperebbe anima viva nel centrosinistra: «Io mi auguro — e so che verrò criticato per questo— che Berlusconi possa dimostrare la sua innocenza al processo perché in un Paese civile non si augura una condanna a nessuno» . Tutte parole che farebbero rabbrividire Rosy Bindi, che, però, lì non c’è: il suo Pd non è sicuramente quello che Veltroni ha deciso di mandare in scena al teatro dei Servi. Dunque, il sindaco di Firenze non nasconde la sua diversità, non si trincera dietro giri di parole o astuzie diplomatiche, non abbraccia la cautela. E questo lo rende differente anche da Veltroni e da Chiamparino. Ma poi Renzi parla lo stesso linguaggio del sindaco di Torino — e viceversa — quando si tratta di delineare il Pd come dovrebbe essere e come non è. Per il sindaco di Torino «la sinistra fa un’analisi inadeguata di come evolve la società italiana» . Per Renzi il Pd perso nel suo antiberlusconismo non ha altra identità se non questa e non rappresenta quindi un’alternativa di governo. Entrambi sono ostili alla Santa Alleanza. «Va rivista questa strategia» , dice il sindaco di Torino. E quello di Firenze: «Basta con gli inciuci, le ammucchiate e i tatticismi, smettiamola di inseguire Fini, Bocchino o altri statisti di questo tipo» . Anche sulle primarie la pensano nello stesso modo. Per Chiamparino «sono il metodo più trasparente e democratico» , tanto più che i partiti «non hanno più autorevolezza» . Per Renzi «non si può chiedere agli elettori di andare nelle sezioni, anche perché la maggior parte sono chiuse» , perciò bisogna coinvolgerli con le primarie: «È assurdo che decidano i gruppi dirigenti dei partiti che non rappresentano più niente» . Veltroni, soddisfatto, guarda Renzi e Chiamparino, seduto in prima fila. Sale sul palco solo alla fine per un discorsetto di due minuti. Annuncia che la settimana prossima presenterà un ddl per istituire le primarie per legge. Poi chiude così: «Non basta sostenere che questo è l’autunno del Paese, bisogna preparare la primavera» . Come a dire: caro Bersani, non puoi solo parlar male di Berlusconi devi anche dire che cosa vuoi fare tu per costruire un’alternativa credibile. Ma in quella sala tutti sembrano guardare a Renzi per quell’alternativa. Lui sorride, nega di essere sceso in campo, ma da un mese è in campagna elettorale per preparare la sua futura candidatura.
l’Unità 10.3.11
AlbertoTedesco sentito dalla commissione per le autorizzazioni a procedere del Senato
«Contro di me c’è un chiaro “fumus persecutionis”»
«Vendola sapeva tutto ciò che so io»
«Non c’è strumentalizzazione ma le indagini sono sbagliate»
L’ex assessore alla Sanità pugliese, del quale è stato chiesto l’arresto, sentito ieri dalla commissione per le autorizzazioni a procedere del Senato. I reati sarebbero stati commessi in concorso con altre 24 persone.
di Ivan Cimarrusti
«Escludo strumentalizzazione politica dei pm, altrimenti li avrei denunciati. Ma le indagini sulla sanità in Puglia hanno avuto un’impostazione e una gestione sbagliate, arrivando a conclusioni inattendibili, non supportate da prove». Queste le parole pronunciate dall’ex assessore alla Sanità pugliese e senatore del gruppo Misto (autosospesosi dal Pd), Alberto Tedesco, al termine dell’audizione di ieri davanti alla commissione per le autorizzazioni a procedere di Palazzo Madama. L’arresto, chiesto dalla Procura, è stato disposto dal gip per i reati, di concorso con altre 24 persone, in concussione, turbata libertà degli incanti e falso ideologico. Nei confronti del senatore e di alcuni degli indagati è ipotizzato anche il reato di associazione per delinquere, venuto meno sulla base della decisione del gip. Per questo i pm hanno impugnato l’ordinanza nella parte in cui escludere l’esistenza del reato associativo.
IL FUMUS PERSECUTIONIS
«C’è stato “fumus persecutionis” da parte dei pm continua Tedesco -. Sulla gestione della sanità, Nichi Vendola sapeva esattamente quanto ne sapevo io. Non poteva non conoscere quanto accadeva nel governo del settore più rilevante della Regione, che assorbe il 75% del bilancio», e aggiunge, che «c’è un fatto che non è stato messo in luce: gli stessi pm al gip Sergio Di Paola hanno chiesto, e ottenuto, di archiviare l’accusa di concussione per me e Vendola. Ma per lo stesso identico fatto, ma in un altro procedimento e ipotizzando un altro reato (abuso d’ufficio, ndr), hanno chiesto al gip Giuseppe De Benedictis il mio arresto. Lo stesso gip De Benedictis aggiunge ha individuato questa incongruenza nell’accusa, chiedendosi perché per Tedesco sono reati e per altri no?». Infine, conclude il senatore, «dopo tre anni di indagini mi sarei aspettato una conclusione delle indagini, un rinvio a giudizio, ma una richiesta di arresto, non ha alcun senso non soltanto a detta mia, ma anche a detta di chi ha guardato le carte dell’accusa».
l’Unità 10.3.11
Biotestamento, «ossessione eutanasia»
Conclusa la discussione a Montecitorio, il voto ad aprile L’Idv presenta una pregiudiziale di costituzionalita
di Federica Fantozzi
Conclusa a Montecitorio la discussione sul biotestamento. E l’aula si prende un mese di tempo per metabolizzarla: il voto finale è previsto ad aprile. Ma un’intesa tra gli schieramenti resta lontana.
Il Pd, per bocca di Rosa Calipari, ha parlato di legge «irragionevole e anticostituzionale». IdV ha presentato una questione pregiudiziale di costituzionalità: il testo Calabrò violerebbe l’articolo 32 della Carta che pone limiti rigorosi all’obbligo di trattamenti sanitari. Prosegue il sit in dei Radicali sul piazzale di Montecitorio: slogan contro gli «aguzzini coi sondini», un cappio fatto con un sondino. Beppino Englaro, ieri alla conferenza stampa dipietrista, ha ribadito la sua contrarietà al testo: «C’è una maledetta ossessione sull’eutanasia, che non ha niente a che fare con tutto questo». Il padre di Eluana, la giovane donna morta due anni fa per l’interruzione della nutrizione artificiale dopo 17 anni di coma, ha spiegato: «Non voglio essere vittima sacrificale del non potere dei medici né vittima del conflitto di poteri del Parlamento».
Ma al di là dell’impatto negativo nella società (cittadini, associazioni, medici chirurghi, anestesisti, amministrazioni che hanno istituito il registro del biotestamento) il nodo principale è tutto interno al PdL. Passato l’entusiasmo, quando diversi parlamentari del centrodestra raccontavano di aver ricevuto pressioni per votare il ddl a pena di mancata ricandidatura, Berlusconi sembra di nuovo distaccato.
Il segnale del rompete le righe è arrivato da giorni sul Foglio, guidato dallo stesso Giuliano Ferrara e da Sandro Bondi. Ieri il quotidiano ospitava un appello bipartisan contro il testo «illiberale» firmato da Bondi, Manconi, Calderisi, Versace, Pecorella, Sandra Zampa, Mazzuca, Ferruccio Saro.
Sintomi del malessere nella maggioranza, dove il sostegno alla linea intransigente Sacconi-Roccella si fa più sfumato. Esponendo la maggioranza al rischio di fuoco amico in caso di voti segreti, tutt’altro che improbabili su questioni di coscienza.
Per ora, poi, non è riuscito il tentativo di spaccare il (fragile) Pd sul tema: i cattolici, compreso Fioroni, hanno detto che non voteranno il testo così com’è. Il sentiero però è stretto, e Di Pietro ha avuto buon gioco a stanare «l’ipocrisia dei partiti che lasciano libertà di coscienza». Al momento l’impressione è che per il testamento biologico la parola fine sia ancora lontana.
Corriere della Sera 10.3.11
Fondo dello spettacolo, decurtati altri 27 milioni
di Mario Sensini
Al ministero dei Beni culturali la definiscono «un’amara sorpresa, che lascia sgomenti ed interdetti» . Certo, l’ennesimo taglio al Fondo unico per lo Spettacolo, sistematicamente decimato dalle ultime Leggi finanziarie, fin quasi a essere dimezzato rispetto agli anni d’oro, non è una bella notizia. Peccato che la cosa era nell’aria da tempo, per l’esattezza da quattro mesi, cioè da quando il Parlamento ha approvato la nuova legge di bilancio, che ora si chiama Legge di Stabilità, per il 2011. Quella legge assegnava al Fondo unico per lo Spettacolo uno stanziamento, già ridotto rispetto al 2010, di 258 milioni di euro. I soldi sarebbero arrivati dall’asta per l’assegnazione delle frequenze liberate dal passaggio dalla tv analogica a quella digitale. Ma in quella stessa legge c’era una clausola di salvaguardia esplicita, pretesa dal ministro dell’Economia, Giulio Tremonti: se fosse venuta meno la prospettiva di incassare il previsto dall’asta delle frequenze (2,4 miliardi di euro in tutto), sarebbe stata congelata una parte delle dotazioni dei ministri per l’anno in corso. E così è stato. Le procedure per l’asta non decollano, mentre i soldi sarebbero dovuti entrare non oltre la fine di settembre, e il Tesoro è corso ai ripari, tirando fuori di nuovo le forbici dal cassetto. L’unica «consolazione» per il ministero dei Beni culturali è che il taglio delle risorse disponibili per quest’anno riguarda i fondi gestiti da tutti i ministeri, con due sole eccezioni: il Fondo ordinario delle Università e le risorse destinate al finanziamento del 5 per mille dell’Irpef al volontariato. Per Sandro Bondi, che ha già espresso al presidente del Consiglio la volontà di lasciare i Beni culturali perché si sente abbandonato, è comunque un boccone amarissimo da digerire. Il Fondo unico per lo Spettacolo, con il nuovo intervento del ministero dell’Economia, viene decurtato di 27 milioni, che saranno congelati fino alla fine dell’anno. «E che di fatto non potranno essere utilmente ripartiti tra le varie voci del Fondo» sostengono al ministero guidato da Bondi. Fatto sta che nel piatto dei Beni culturali, si fa sapere, ci saranno solo 231 milioni di euro da dividere. E la Consulta dello Spettacolo sarà chiamata a dare il parere sulla ripartizione dei fondi nelle diverse realtà (cinema, musica, danza, teatro, e così via) proprio tra pochi giorni. Difficile che da qui ad allora il quadro possa cambiare. Tutto dipende dall’asta delle frequenze, ma su quel fronte la situazione è ferma. L’Autorità per le Comunicazioni ha avviato le procedure, e ha chiesto che si costituisca un comitato di ministri per gestire l’asta. Una richiesta rivolta al ministero dello Sviluppo e a Palazzo Chigi già da qualche settimana. E che ancora non ha avuto risposta.
La Stampa 10.3.11
La nostra identità una e centomila
L’incontro con l’altro non deve fare paura: tutti i gruppi umani sono in sé pluriculturali
di Tzvetan Todorov
Insiemi complessi. C’è la cultura delle età, dei mestieri, dei sessi, delle posizioni sociali
Una cultura vive se cambia Il latino è morto quando non ha più potuto cambiare
Siamo tutti meticci. Ogni Paese è segnato nel tempo dal contatto con più popolazioni”
Quanto segue è uno stralcio del saggio di Tzvetan Todorovcontenuto nel nuovo numero di Vita e Pensiero , il bimestrale dell’Università Cattolica di Milano, che esce in questi giorni.Filosofo e saggista di origine bulgara, Todorov ha studiato a Parigi con Roland Barthes. Tra le sue opere più recenti Il nuovo disordine mondiale , La letteratura in pericolo , La paura dei barbari , La bellezza salverà il mondo .
Per affrontare il tema della pluralità delle culture nell’ambito di una società, mi vedo obbligato a precisare anzitutto il senso della parola «cultura». Lo impiegherò nell’accezione che, da oltre un secolo, le hanno dato gli etnologi. In tale senso ampio, descrittivo e non valutativo, ogni gruppo umano ha una cultura: è il nome dato all’insieme delle caratteristiche della sua vita sociale, ai modi di vivere e di pensare collettivi, alle forme e agli stili di organizzazione del tempo e dello spazio, e questo include la lingua, la religione, le strutture familiari, i modi di costruzione delle case, gli utensili, i modi di mangiare e di vestirsi. I membri del gruppo, inoltre, qualunque siano le sue dimensioni, interiorizzano tali caratteristiche sotto forma di rappresentazioni mentali. La cultura esiste dunque a due livelli strettamente correlati: quello delle pratiche comuni al gruppo e quello dell’immagine che esse lasciano nello spirito dei membri della comunità.
L’essere umano – ed è una delle caratteristiche che lo contraddistinguono – nasce nell’ambito non solo della natura, ma anche, sempre e necessariamente, di una cultura. La prima caratteristica dell’identità culturale è che essa è imposta al bambino e non da lui scelta. Venendo al mondo, il piccolo dell’uomo è immerso nella cultura del suo gruppo, che gli è anteriore. Il fatto più saliente, ma probabilmente anche il più determinante, è che noi nasciamo necessariamente nell’ambito di una lingua, quella parlata dai nostri genitori o dalle persone che si prendono cura di noi. Il bambino non può evitare di adottarla. Ebbene, la lingua non è uno strumento neutro, è intrisa di pensieri, azioni, giudizi ereditati dal passato; essa ritaglia il reale in una data maniera e ci trasmette impercettibilmente una visione del mondo.
Una seconda caratteristica dell’appartenenza culturale salta parimenti agli occhi: possediamo non una, bensì parecchie identità culturali, che possono incastrarsi o presentarsi come insiemi intersecati. Un francese (per fare un esempio legato alla mia esperienza; ma lo stesso vale per italiani, spagnoli, inglesi…) proviene sempre da una regione, poniamo che sia bretone, e però condivide parecchie delle caratteristiche di tutti gli europei: dunque partecipa al tempo stesso delle culture bretone, francese ed europea. D’altra parte, all’interno di un’unica entità geografica, le stratificazioni culturali sono molteplici: ci sono la cultura degli adolescenti e quella dei pensionati, la cultura dei medici e quella degli spazzini, la cultura delle donne e quella degli uomini, dei ricchi e dei poveri. Un individuo può riconoscersi al tempo stesso nella cultura mediterranea, cristiana ed europea: criteri geografico, religioso e politico. Ebbene – e questo è essenziale – tali diverse identità culturali non coincidono tra loro, non formano territori chiaramente delimitati dove i diversi ingredienti si sovrappongono. Ogni individuo è pluriculturale; la sua cultura non assomiglia a un’isola monolitica, ma si presenta come il risultato di alluvioni che si sono incrociate.
Sotto questo aspetto la cultura collettiva, quella di un gruppo umano, non è diversa. La cultura di un Paese come la Francia è un insieme complesso, fatto di culture particolari, le stesse nelle quali si riconosce l’individuo: quelle delle regioni e dei mestieri, delle età e dei sessi, delle posizioni sociali e degli orientamenti spirituali. Ogni cultura, inoltre, è segnata dal contatto con quelle vicine. L’origine di una cultura si trova sempre nelle culture anteriori: nell’incontro tra più culture di dimensioni minori o nella scomposizione di una cultura più vasta, o nell’interazione con una cultura vicina. Non accediamo mai a una vita umana anteriore all’avvento della cultura. E non a caso: le caratteristiche «culturali» sono già presenti in altri animali, segnatamente nei primati. Non esistono culture pure e culture mischiate; tutte le culture sono miste («ibride» o «meticcie»). I contatti tra gruppi umani risalgono alle origini della specie e lasciano sempre tracce sul modo in cui i membri di ogni gruppo comunicano tra loro. Per quanto lontano si possa risalire nella storia di un Paese come la Francia, si trova sempre un incontro tra più popolazioni, dunque più culture: galli, franchi, romani e molti altri.
Siamo giunti così a una terza caratteristica della cultura: quella di essere necessariamente mutevole. Tutte le culture cambiano, anche se è certo che quelle dette «tradizionali» lo fanno meno volentieri e meno rapidamente di quelle cosiddette «moderne». Tali cambiamenti hanno molteplici ragioni. Poiché ogni cultura ne ingloba altre, o si interseca con altre, i suoi diversi ingredienti formano un equilibrio instabile. Ad esempio, la concessione del diritto di voto alle donne in Francia, nel 1944, ha permesso loro di partecipare attivamente alla vita pubblica del Paese: l’identità culturale francese ne è stata trasformata. Allo stesso modo quando, ventitré anni dopo, le donne hanno ottenuto il diritto alla contraccezione, questo ha portato con sé una nuova mutazione della cultura francese. Se l’identità culturale non dovesse cambiare, la Francia non sarebbe diventata cristiana, in un primo tempo; laica, in un secondo. Accanto a queste tensioni interne ci sono anche i contatti esterni con culture vicine o lontane, che provocano a loro volta modificazioni. Prima d’influenzare le altre culture del mondo, la cultura europea aveva già assorbito le influenze egiziana, mesopotamica, persiana, indiana, islamica, cinese… A ciò si aggiungono le pressioni esercitate dall’evoluzione di altri elementi costitutivi dell’ordine sociale: economico, politico, persino fisico.
Se si tengono presenti queste ultime caratteristiche della cultura, la sua pluralità e la sua variabilità, si vede quanto siano fuorvianti le metafore utilizzate più comunemente. Di un essere umano si dice, ad esempio, che è «radicato» e lo si deplora; ma tale assimilazione degli uomini alle piante è illegittima, poiché il mondo animale si distingue dal mondo vegetale proprio per la sua mobilità, e l’uomo non è mai il prodotto di un’unica cultura. Le culture non hanno essenza né «anima», malgrado le belle pagine scritte su quest’argomento. O ancora, si parla della «sopravvivenza» di una cultura, intendendo con ciò la sua conservazione identica. Ebbene, una cultura che non cambia più è, esattamente, una cultura morta. L’espressione «lingua morta» è molto più fondata: il latino è morto il giorno in cui non poteva più cambiare. Nulla è più normale, più comune, della scomparsa di uno stato precedente della cultura e della sua sostituzione con uno stato nuovo.
Repubblica 10.3.11
Lo spirito di Port-Royal
Tra Sant’Agostino e Pascal, storia del pensiero forte
di Pietro Citati
Ripubblicato il capolavoro di Sainte-Beuve che racconta idee e protagonisti di un´epoca d´oro Da Montaigne a Voltaire, radici e influenze della filosofia nata nell´abbazia francese
Un´opera vastissima dove ogni lettore può trovare il suo alimento
Il cuore sta nella famiglia Arnauld e nella Grazia come illuminazione radiosa e dono
È uscito da Einaudi il PortRoyal di Sainte-Beuve (a cura di Mario Richter, vol. I-II, pagg. XCI-2100, euro 150), da molto tempo esaurito nelle librerie italiane, e nella Pléiade di Gallimard. Parlare di evento è poco. Il Port-Royal è uno dei rarissimi capolavori della storiografia di ogni tempo e di ogni paese; e va posto accanto ai libri supremi; Erodoto, Tucidide, Senofonte, Curzio Rufo, Ammiano Marcellino, Beda, Liutprando, Guicciardini, Gibbon.
Il Port-Royal è un libro straordinariamente vasto. Comincia con Montaigne e finisce con Voltaire: discorre volubilmente di tutto: storia politica, guerre, storia morale, letteratura, eloquenza, religione, psicologia, paesaggio; e non si arresta mai senza aver esaurito le sue innumerevoli forme. Appaiono i grandi della letteratura e della religione; e centinaia di piccoli ritratti: figure in movimento, devote, profonde, solenni, frivole, drammatiche, avventurose. Alla fine, Port-Royal basta a tutti. Ogni lettore possibile vi trova il suo alimento definitivo.
Il libro comincia, o finge di cominciare, nel cuore del sedicesimo secolo, con Montaigne e San Francesco di Sales. Da principio, Sainte-Beuve sembra vicinissimo a Montaigne: mobile, frivolo, cangiante, multiforme, fluttuante, morbido, frantumato, molle, analogico, onnipresente: parla come Montaigne, conserva fedelmente nella memoria i libri che egli amava – e poi, all´improvviso, abbandona il suo meraviglioso modello. Solo alla fine comprendiamo che il romantico profondamente cristiano che abita in Sainte-Beuve non sopporta il profondo acristianesimo degli Essais. Verso San Francesco di Sales e la sua "dolce devozione interiore", Sainte-Beuve ha una simpatia intensissima: ama quella piacevole abbondanza di parole, quella fioritura graziosamente famigliare di immagini, quelle "siepi profumate di similitudini": ma presto si rende conto che la strada verso Port-Royal lo porterà in luoghi diversi. Sono le diverse "famiglie naturali" degli spiriti, tra le quali Sainte-Beuve muove, oscilla, guizza con una versatilità colorata.
***
Per Sainte-Beuve, Port-Royal des Champs e Port-Royal de Paris sono due paesaggi della natura e dello spirito: due Gerusalemmi celesti, che occupano un posto unico in terra. Port-Royal des Champs era un monastero medioevale cistercense, fondato nel 1204 nella valle della Chevreuse: mentre il secondo Port-Royal era stato costruito nel faubourg Saint-Jacques, a Parigi. Sainte-Beuve ama questi due luoghi: inquieto, sofferente, curioso dei fiori nascosti dell´anima, vi era penetrato da giovane, visitando i boschi, gli edifici, gli stagni, i chiostri, e camminando lungo le navate: aveva ascoltato le preghiere, i pianti, gli inni dei monaci mentre guardava commosso la loro folla raccolta attorno a lui, per trovare finalmente una voce. Era la sua voce: la sua morbida e inquieta voce; la sola che poteva prestare a tutti i fantasmi di Port-Royal.
Il cuore di Port-Royal era, per Sainte-Beuve, la famiglia Arnauld, con tutti i parenti vicini e lontani, e gli amici e gli affini. Come amava dire, si trattava di una vasta famiglia d´anime, segnata da un timbro inconfondibile. Era, in primo luogo, una tribù di patriarchi borghesi, profumati di Bibbia, con la devozione di una dinastia cinquecentesca. Possedevano un´autorità naturale: una eloquenza che preferiva la parola orale a quella scritta: una moderazione rigorosa: la grandezza romana o spagnola del gesto. Avevano un coraggio guerriero: nessun timore dei potenti: pervicacia: urbanità: ardore; e un´ironia sottilissima, lo spirito di Port-Royal, che comunicarono al più spiritoso di tutti i solitari: Pascal.
Qualcuno dei loro amici, e dei loro nemici, scrisse che gli Arnauld, in qualsiasi momento della loro esistenza, erano posseduti da un pensiero unico, da una parola misteriosa, la Grazia. Ma cos´era la Grazia? Ne aveva parlato Sant´Agostino; e Giansenio. La Grazia era un´illuminazione radiosissima: un dono inesplicabile, che scendeva da chissà dove; ma anche un lavoro, una fatica dura e persistente, che impregnava le giornate degli Arnauld. Se si guardavano attorno, nei campi e nelle chiese di Port-Royal, tutto era grazia: innumerevoli scintille di grazia. Armati con questo strumento dolcissimo e terribile, essi distinguevano e classificavano le vocazioni, i talenti, le ispirazioni di Dio: educavano le famiglie degli spiriti. Così nascevano le grandi menti, ardenti e insaziabili, nutrite di religione: la grandezza e la follia cristiana, il vero argomento di Sainte-Beuve.
Più ancora dei monaci, Sainte-Beuve amava le Madri di Port-Royal; e la più grande di tutte, Madre Angélique. Ne parlava incessantemente e ne trascriveva le lettere, con una passione che non finiva di esaurirsi, come se soltanto in una monaca potesse calarsi l´occulto e manifesto spirito di Cristo. Quale grandezza, quale dolcezza, quale devozione, quale rispetto, quale timore di Dio; e anche quale grazia ironica, perché, come disse una volta Cristina Campo, solo le sante sono (o erano) spiritose. Così queste donne austerissime, perennemente in preghiera, avevano un immenso successo mondano. Intorno a Madre Angélique svolazzavano le spiritose e graziose dame gianseniste: madame de Sablé, madame de Sévigné, madame de La Fayette, madame de Longueville, coi loro sterminati epistolari.
Port Royal ha un culmine: Pascal, rappresentato con una complessità e una tensione grandiose. Non c´è niente di più terribile delle nevrosi e dei traumi di Pascal: durante un incidente, Pascal perde i sensi e pochi giorni dopo viene illuminato da una visione: le lunghissime insonnie, appena alleviate dai notturni esercizi di geometria; l´angoscia dell´abisso, aperto come una ferita vertiginosa al suo lato sinistro. Sainte-Beuve adorava la leggera, irrispettosa, insolente ironia delle Provinciales: la tremenda forza di volontà che nelle Pensées assoggettava la facoltà di ricerca: la percezione netta e sottile del reale; e la perfezione sovrana dell´intelletto, che conosceva soltanto ciò che è puro e distinto.
***
Sainte-Beuve non amava, in Port-Royal, tutto ciò che di solito veniva definito giansenista. Non poteva dimenticare di essere un figlio di Rousseau, un fratello di Lamartine e di Lamennais, un futuro parente di Nerval e di Baudelaire. Leggendo le pagine di Arnauld, di Giansenio e di Nicole, le trovava troppo rigide, troppo contratte, e soprattutto senza colore, linfa e sangue. Mancavano di quella vita, che affluiva così liberamente negli Essais di Montaigne e negli scritti di Pascal.
Port-Royal fu ucciso da questa sterilità, oltre che dalle paurose persecuzioni politiche. La furia della menzogna e del male, l´orgoglio di Luigi XIV e dei vescovi si scatenarono sopra la piccola chiesa e i cori, che con voci celestiali ed austere avevano invocato Dio. L´autunno scese rapidamente. Port-Royal diventò una fortezza assediata, che il potere voleva conquistare per inedia. Le monache diminuirono. Le converse scomparvero. Durante i primi anni del diciottesimo secolo, sul Journal di Port-Royal si leggevano soltanto uffici di defunti, brevi commemorazioni funebri. L´antico monastero cistercense si trasformò in una necropoli sacra. Le salme dei monaci e delle monache venivano esumate e trasportate in altre chiese. La valle di Port-Royal diventò un immenso ossario, dove le zappe dei becchini rimuovevano incessantemente un terreno arido, dal quale un tempo tanta vita spirituale era sgorgata.
Repubblica 10.3.11
Due nuove traduzioni con scelte "più al passo con i tempi"
Così l’America aggiorna la Bibbia
Le versioni rivedute hanno l´imprimatur della chiesa cattolica e degli evangelici
NEW YORK. Come best-seller rimane il dominatore incontrastato di tutti i tempi: 415 milioni di copie vendute solo in America, per le due versioni più popolari. Eppure ogni riedizione di questo testo ha ancora la capacità di fare notizia, accendere la curiosità, innescare le controversie. Ovviamente è la Bibbia, di cui arrivano in simultanea, opportunamente lanciate nel mercoledì delle ceneri, due nuove traduzioni "aggiornate". Si tratta di due versioni dell´Antico Testamento che hanno l´imprimatur della Chiesa cattolica e degli evangelici: le due edizioni di gran lunga più diffuse tra i fedeli negli Stati Uniti.
L´evento fa scalpore perché da diversi decenni né l´una né l´altra traduzione ufficiale erano state cambiate (nel caso della cattolica dal 1970, per quella evangelica dal 1984). Ma ancora di più, l´attenzione è legata alle operazioni "linguistiche". Gli adattamenti sono fatti in nome della modernità: per avvicinarsi al linguaggio parlato di oggi, per non perdere contatto coi giovani, e così via. Ma dietro questi interventi "tecnici" spuntano scelte di valori, possibili innovazioni interpretative, ed è qui che gli appigli per le controversie si moltiplicano. La New American Bible (cattolica) sceglie "sacrificio bruciato" al posto di "olocausto" perché questa seconda parola ha assunto storicamente un significato troppo pregnante, che oblitera la sua origine più antica.
Fin qui nessun problema, come per altre scelte linguistiche che, nel giudizio del Washington Post, "suonano al tempo stesso più poetiche e più contemporanee". Si entra su un terreno minato invece nella traduzione del brano di Isaia 7: 14, dove si dice che "una giovane donna", non più "una vergine", concepirà e avrà un figlio. In nome del politically correct, sparisce un riferimento alla profezia su Maria? In quanto alla New International Version (la Bibbia dei protestanti evangelici), al posto della "natura peccaminosa" mette "la carne". Secondo Doug Moo, presidente del comitato di 15 esperti che hanno realizzato la nuova traduzione, questo "lascia aperta per i lettori la questione se il peccato sia un aspetto fondamentale della nostra natura, o solo una delle tante forze esterne a cui siamo esposti". Laddove certi passaggi della Bibbia tradotta nel 1984 escludevano le donne dall´"esercitare autorità" sugli uomini nella Chiesa, ora sono escluse solo dall´"assumere" il potere. Nelle note si spiega che "sta all´interpretazione individuale decidere se questo si riferisca a tutte le forme di autorità sugli uomini nella Chiesa, o solo a certi contesti". Più ardita e controcorrente è la correzione che gli esperti evangelici introducono nella Genesi. Nel 1984 sotto la pressione del femminismo Dio non faceva "gli uomini a sua immagine e somiglianza", bensì "gli esseri umani" che include ambo i sessi. Oggi si torna a una versione più fedele all´originale: "mankind", che significa l´umanità ma contiene la parola "uomo", al maschile. Sottigliezze che tuttavia non hanno più il peso politico di una volta: oggi l´americano medio ha a disposizione sul suo telefonino 50 applicazioni con altrettante interpretazioni diverse della Bibbia.
Il Sole 24 Ore 10.3.11
Benedetto XVI dedica il suo nuovo libro alla difesa della storicità di Cristo
di Massimo Donaddio
http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2011-03-09/benedetto-dedica-nuovo-libro-124251.shtml?uuid=Aa11hhED&cmpid=nl_7%2Boggi_sole24ore_com
Joseph Ratzinger ce l'ha fatta. Giovedì 10 marzo uscirà il secondo volume dell'opera dedicata a Gesù di Nazaret, culmine della sua attività di teologo nella Chiesa cattolica. Un'opera che si presenta come una trilogia (manca ancora il volume dedicato ai vangeli dell'infanzia), ma di cui la sezione appena pubblicata è decisamente centrale dal punto di vista del valore e del significato.
Ratzinger aveva già dato alle stampe nel 2007 il primo libro, dedicato al ministero pubblico di Gesù, mentre quello in uscita ora tratta degli eventi decisivi della passione, morte e risurrezione del rabbi di Nazaret, cuore dell'annuncio della fede cristiana. Come precisato dallo stesso pontefice, il libro non è un atto del magistero cattolico, ma vuole essere espressione della «ricerca personale del volto del Signore» da parte del teologo Ratzinger. È chiaro però che un libro pubblicato dal pontefice non può essere archiviato come uno dei tanti testi di teologia biblica che affollano gli scaffali delle università e delle librerie specializzate, ma è inevitabilmente – come fu nella prima occasione – destinato a far dibattere e a suggerire una linea interpretativa con la quale gli studiosi dovranno entrare in contatto, magari anche dialetticamente. Anche perché, come ben fanno cogliere già solo gli estratti diffusi prima dell'uscita del testo, Joseph Ratzinger non esita a prendere posizione a favore di una tesi piuttosto che di un'altra, a dar ragione a uno studioso piuttosto che a un altro, facendo nomi e cognomi nella massima trasparenza. Emblematico il caso dell'ultima cena di Cristo, che il pontefice, in accordo con il Vangelo di Giovanni e con il grande esegeta cattolico John Meier (autore della monumentale opera Un ebreo marginale), definisce come non-pasquale.
Che la questione-Gesù sia al centro dell'interesse di Joseph Ratzinger è testimoniato anche da un'operazione inedita, che serve proprio a diffondere il più possibile la conoscenza di questo libro anche presso il pubblico televisivo: l'accordo stabilito con la Rai e la trasmissione religiosa "A sua immagine", alla quale il papa rilascerà un'intervista su Gesù (registrata) che verrà diffusa in tv proprio il Venerdì Santo intorno alle ore 15 (l'ora in cui, secondo i vangeli, sarebbe morto Cristo).
Il papa ha sempre dichiarato (anche nel suo recente libro-intervista "Luce del mondo") che la figura di Gesù Cristo sta al cuore della sua spiritualità di religioso e di teologo. Questa affermazione è stata da lui dimostrata svariate volte nella sua produzione saggistica e anche nella sua attività di prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Emblematica fu la dichiarazione Dominus Jesus "circa l'unicità e l'universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa", che provocò alcuni maldipancia ai fautori di un ecumenismo senza barriere e fece sospirare di sollievo il cardinale Giacomo Biffi (che comunque non rinunciò a una delle sue folgoranti battute: si era mai reso necessario in duemila anni di cristianesimo ribadire che Gesù Cristo è fondamentale per la salvezza dell'uomo?).
La genesi della fatica letteraria di Ratzinger (che ha dichiarato di sfruttare ogni momento libero dai suoi impegni pontifici per studiare e scrivere) va rintracciata nel suo desiderio di portare un contributo significativo in un contesto culturale in cui le fondamenta storiche delle origini cristiane e la stessa questione della storicità di Cristo vengono aggredite da molti lati. Una percezione viva nei settori più dinamici della Chiesa cattolica ma forse non ancora adeguatamente passata nella maggior parte del clero e dell'episcopato. Una percezione ben presente, invece, nella mente di papa Joseph Ratzinger.
Da quali lati arrivano gli attacchi alla figura storica di Gesù Cristo che preoccupano il papa? Da un lato studi e ricerche (anche qualificate) soprattutto di matrice anglossassone (ma non solo), che mirano a decostruire l'immagine tradizionale delle origini cristiane con metodologie scientifiche; dall'altro un'esplosione di contenuti mediatici che riportano (a volte in maniera acritica o grossolana) estratti di questi studi rilanciandoli al di fuori dei protetti ambienti universitari e dandoli in pasto al grande pubblico.
Un esempio lampante è quello del Jesus Seminar, che ha riunito negli Stati Uniti dagli anni Ottanta circa 150 specialisti in scienze bibliche e ha adottato un metodo di votazione con palline colorate per stabilire una visione collettiva sulla storicità di Gesù, in particolare riguardo a ciò che può o non può aver detto e fatto in quanto figura storica. Un procedimento "democratico" (molto simile a quello dei filosofi del circolo di Vienna) che non ha però potuto riconsegnare una visione chiara e condivisa del Gesù storico. L'esperimento è stato ora ripreso da The Jesus Project.
In campo italiano è molto attivo il prof. Mauro Pesce dell'università di Bologna, autore, insieme al giornalista Corrado Augias, del fortunato libro Inchiesta su Gesù, nel quale esprimeva in maniera divulgativa le sue tesi frutto di anni di ricerca storica indipendente. Pesce, autore anche de Le parole dimenticate di Gesù e di L'uomo Gesù. Luoghi, giorni, incontri di una vita (scritto con l'antropologa Adriana Destro), lavora tenendo in considerazione in egual modo tutti gli scritti più antichi del cristianesimo nascente (canonici e apocrifi), rifiutando l'idea di studiarli all'interno del canone del Nuovo Testamento (che sarebbe una riclassificazione molto posteriore alle origini cristiane), ma confrontando minuziosamente i testi con i reperti archeologici, sulla base di una metodo che si allarga fino a comprendere la sociologia e l'antropologia culturale del mondo antico palestinese.
Accanto a questi contributi, sfidanti per il cristianesimo "ufficiale" e la Chiesa, si aggiungono poi moltissimi contenuti più o meno scandalistici o polemici veicolati dai mass media. Dall'eclatante successo del Codice da Vinci di Dan Brown, un romanzo che, con un artificio retorico, si proponeva come "storico", al Vangelo gnostico di Giuda, scoperto nel 1978, restaurato completamente nel 2001 e pubblicato in italiano nel 2006 da National Geographic, fino ai libri e all'attività divulgativa del matematico Piergiorgio Odifreddi e dell'ateologo francese Michel Onfray. Sono, inoltre, molti i siti internet che negano l'esistenza storica di Gesù (vai alla scheda) oppure cercano di demolire le certezze fondamentali del cristianesimo. Due esempi: il sito sulla "tomba di Gesù", ossia il portale che descrive i sondaggi archeologici sulla tomba e gli ossari ritrovati presso Talpiot, a sud di Gerusalemme, e Zeitgeist, il cliccatissimo filmato del Venus Project (sottotitolato anche in italiano), che tratta della religione cristiana come fosse un mito, comparando la storia del Cristo con quella di diverse religioni precedenti, in particolare con il mito egiziano di Horus, e propone una lettura della Bibbia su base "astronomica".
In questo contesto problematico si colloca il libro del papa, che, nella prefazione del primo volume, pur apprezzando e servendosi dei contributi della metodologia storico-critica, afferma che questi hanno portato a «distinzioni sempre più sottili tra i diversi strati della tradizione. Dietro di essi la figura di Gesù, su cui poggia la fede, divenne sempre più incerta, prese contorni sempre meno definiti». Tutti questi tentativi, prosegue ancora il papa, hanno avuto l'esito di lasciare l'impressione «che noi sappiamo ben poco di certo su Gesù e che solo più tardi la sua fede nella divinità ha plasmato la sua immagine». Da qui lo sforzo di Ratzinger di tornare al Gesù dei vangeli, presentandolo come il "Gesù storico" nel senso autentico del termine. «Io sono convinto – scrive il papa – e spero se ne possa rendere conto anche il lettore – che questa figura è molto più comprensibile delle ricostruzioni con le quali ci siamo dovuti confrontar negli ultimi decenni». Per Ratzinger solo in presenza di un personaggio straordinario, che superava radicalmente le aspettative e le speranze dell'epoca, si possono spiegare la crocifissione e il movimento che dopo ne è seguito. La domanda che il papa pone a tutti gli studiosi e ai suoi lettori è in ultima analisi questa: «Non è più logico pensare che la figura di Gesù fece saltare tutte le categorie disponibili e poté essere così compresa solo a partire dal mistero di Dio?».
Avvenire 10.3.11
La Genesi mette in evidenza un legame tra uomo e donna che ha il proprio modello nella reciprocità dialogica delle tre persone divine. Per evitare l’individualismo dell’identità
Maschio e femmina: così il «genere», di cui tanto oggi si parla, è un principio umano che interroga filosofia, neuroscienze e teologia
Identici e diversi, ma uniti nella Trinità
di Cettina Militello
Parlare di identità maschile e femminile pone in campo quanto meno tre termini: identità, sesso, genere. Quello di 'identità' è il concetto chiave. Ci consente, infatti, di affermare la permanenza del nostro io, pur nel mutare delle contestualità spaziotemporali. Si tratta di dire ciò che siamo, nel segno della permanenza. L’io che noi siamo, come garanzia di identità di noi a noi stessi, è supportato da una complessa mutazione fisico-chimica, regolata dai tempi della crescita e dello sviluppo del nostro corpo, sino alla cesura della morte. Se è dunque il corpo il supporto necessario all’affermazione della mia identità, la seconda questione che si pone è quella della 'sessuazione', dato permanente nell’orizzonte dell’homo sapiens , il cui autocomprendersi passa dall’esperienza di un corpo femminile o maschile.
La difficoltà d’oggi è quella della complessità d’approccio al fenomeno. Lungamente abbiamo interpretato la 'sessuazione' nel suo aspetto funzionale riproduttivo, quasi sciogliendola dall’orizzonte del 'genere', che, invece, torna a esserci riproposto come categoria forte. «Il genere è un modo di classificare l’esistenza di tipi… Propone un nome per il modo sessuato con il quale gli esseri umani si presentano e sono percepiti nel mondo: nella società convivono due sessi e il termine 'genere' segnala questa duplice presenza. Si tratta dunque di un termine binario, non univoco: gli uomini, come le donne, costituiscono il genere».
Ma proprio questa insistenza sulla obbligata relazionalità sottesa alla nozione, mette in evidenza un termine ulteriore, quello della 'differenza'.
Il fatto è che la categoria di identità nella sua accezione filosofica e nel suo accadimento antropologico si fa compiuta solo nella 'differenza sessuale'. Le teoriche del femminismo hanno declinato questo dato lungo direttrici radicalmente diverse: essenzialismo o culturalismo, decostruzionismo, pensiero della differenza sessuale, teoria delle differenze locali, situate. Si approda da ultimo a un 'nomadismo di genere', con evidenti derive culturaliste che suonano estranee all’argomentare teologico.
In esso, a prevalere è stata sin qui una visione androcentrica della differenza iscritta soprattutto nella 'natura'. In gioco è l’adeguata correlazione tra natura e cultura, tra dato empirico e dato trascendente. Proprio il dibattito aperto sul rapporto fra 'natura' e 'cultura', l’oscillazione dall’uno all’altro polo, esige d’immettersi in un cantiere 'altro' e 'aperto'. In questa direzione la necessità dell’ascolto critico di un linguaggio e di un orizzonte altri da quelli della teologia. In particolare alle neuroscienze viene posta la domanda circa la plausibilità del ricorso alla nozione di genere e sulla correlazione che quest’ultima può ingenerare in vista di una comprensione integrale dell’essere umano. E poiché le stesse neuroscienze articolano il loro sapere in un quadro di riferimento antropologico, in questo suo primo momento, il confronto si sviluppa sulla doppia interlocuzione tra le neuroscienze e la riflessione antropologica. Teologicamente, infatti, il doppio racconto della Genesi ci offre il dato di una alterità che riflette nell’essere creato maschio/ femmina la reciprocità dialogica delle divine Persone. Il visà- vis genesiaco, in questa prospettiva, diventa manifesto dell’immagine impressa, sicché l’imago Trinitatis è costitutiva dell’accadimento umano e ne sigilla la vocazione all’alterità e alla comunione. C’è un piano, se vogliamo metafisico, rispetto al quale maschio e femmina sono reciprocamente 'persona', in ciò assolutamente identici. C’è un piano funzionale, un 'essere per' nel quale la differenza prevale, orientata com’è alla riproduzione. E, tuttavia, afferendo all’essere umano, ineludibilmente persona, la stessa differenza sessuale deve pur avere una significazione altra, non meramente strumentale.
Donde la necessità di una integrazione tra sapere neuro-scientifico, antropologia filosofica e la stessa teologia Occorre, insomma, con metodologia transdisciplinare, riflettere insieme su 'cultura', 'natura', 'identità', 'costruzione dell’identità', aprendo laboratori nuovi che oltrepassino queste stesse schematizzazioni e consentano alla teologia, ma anche alle altre scienze, di proiettarsi oltre.
Si tratta di ri-significare, in fecondo dialogo, questi concetti chiave, ricollocandoli tuttavia nell’orizzonte loro nativo, cristianamente parlando. Infine, resta la sfida dell’incontro uomo-donna oltre le modalità mutilanti o omologanti, lo stupore dell’esserci e dello scoprirsi prossimi e diversi, in ciò perfettamente a immagine di un Dio fattosi carne, la cui umanità è segnata anch’essa da identità, genere, sesso. La teologia, l’antropologia cristiana, non può procedere, per asserzioni astratte, spersonalizzate e anestetizzate. Deve piuttosto dar ragione della sua costituzione e della sua storia (cfr. GS 62). Storia di carne, di un Logos fatto carne, e perciò di pathos, di esperienza sensibile, all’origine e al termine illuminata dalla divina Bellezza, il cui circolo è sfida, teoretica, certo, ma anche pratica, operativa, utopica se vogliamo, comunque concreta di concretezza misterico-sacramentale.
Andrea Camilleri
"Dialogo con i lettori su Montalbano e i colori della Sicilia"
di Maria Pia Fusco
«È UNA fortuna poter assistere ancora vivente, seduto in prima fila, ad un evento celebrativo che ti riguarda», dice Andrea Camilleri dell' iniziativa "Camilleri e i suoi lettori", organizzata da Musica per Roma con Sellerio per l' 8 e il 9 marzo all' Auditorium Parco della Musica. Critici ed esperti commenteranno la sua letteratura e i lettori potranno rivolgergli domande. La sera dell' 8 è prevista l' anteprima del film tv "Il commissario Montalbano" e il 9 Camilleri, con Ficarra Scrivendo di Montalbano il lavoro è più facile. «Come diceva Simenon quando scrivi di un personaggio seriale ormai lo conosci, ci sono cose già approntate. È più difficile un romanzo non seriale». Montalbano non sarà eterno: «Lui non è come Sherlock Holmes, quando mi arriverà la stanchezza, Montalbano sparirà, nell' ultimo romanzo sarà senza ritorno». A parlare del poliziesco all' Auditorium ci sarà (l' 8) tra gli altri Carlo Lucarelli, che con Camilleri ha scritto Acqua in bocca. Sembra più sorprendente la presenza (il 9) di Marco Bellocchio. In realtà «Marco è stato mio allievo al Centro Sperimentale. Era entrato come attore, ma dopo un po' lo vedevo distaccato, sentivo che non aveva voglia di recitare. Allora lo presi sottobraccio, gli dissi la mia impressione e mi diede ragione. L' anno dopo passò al corso di sceneggiatura». Dunque se il cinema italiano ha acquistato un maestro si deve a Camilleri, ma nella sua fortunata carriera in teatro, televisione e letteratura, manca proprio il cinema. «Ho perso la mia occasione. Tanti anni fa Monica Vitti, dopo due film con Antonioni, mi disse che avrebbe voluto fare un film comico. Scrivemmo una sceneggiatura, il titolo era "A donna che t' ama proibisci il pigiama", era una farsa un po' alla Feydeau. Antonioni rifiutò di farla ma, gentilissimo, mi propose di fare la regia, ma non avevo esperienza di riprese, mi spaventai e lasciai perdere». A Roma dal ' 49, «ricordo la meraviglia di trovarmi subito come a casa. Amo Roma di quegli anni, ma continuo a starci bene. Mi piace l' Auditorium, ne hanno fatto un punto di ritrovo. Lo so, durante gli incontri non si fuma, ma per tre, quattro ore riesco a trattenermi. Smettere? Ci sono riuscito per venti giorni. Poi il mio medico a cena mi ha visto troppo infelice e mi ha offerto una sigaretta. E mi consenta - scusi la citazione - a 85 annie mezzo perché dovrei smettere?».
D di Repubblica n° 731
Massimo Cacciari
Una cosa che voleva e non ha avuto? «La bontà di Gesù e l’intelligenza di Spinoza»
A 13 anni che cosa voleva fare?
Giocare (a pallone, tennis, ecc.) e leggere Kafka (avevo appena iniziato e mi travolgeva).
Ha il potere assoluto per un giorno: la prima cosa che fa?
Lo regalo.
La sua casa brucia: cosa salva?
L’ospite.
Se la sua vita fosse un film, chi sarebbe il regista?
Nessun film. Fellini è morto.
All’inferno la obbligano a leggere sempre un libro: quale?
Spero che il diavolo mi faccia comunque scegliere tra i capolavori... Allora dico: Morte a Venezia.
La volta che ha riso di più?
Quando i sondaggi dicevano che avrei vinto, col centro-sinistra, le regionali del Veneto.
Nel migliore dei mondi possibili dovrebbe essere abolita la parola?
Praticamente.
Entra in una stanza dove ci sono tre donne: chi e perchè attrae la sua attenzione?
Quella che mostra di non conoscermi.
Oggi cos’è tabù?
Provare vergogna. é proibito.
Una cosa che non ha mai capito della gente?
Conosco solo persone, non gente.
Come si immagina il paradiso?
Un istante eterno di gioia.
Un bambino le chiede: «Perchè si muore?» Cosa gli risponde?
Perché dobbiamo far posto ad altri. E non significa affatto morire, solo tramontare.
Il vero lusso è?
Esser contenti nel desiderare. E basta.
Le rimangono 12 ore di vita: cosa fa?
Vado a rivedermi la Resurrezione di Piero della Francesca a Sansepolcro.
Cosa ha imparato dall’amore?
Che il bello è difficile.
Un posto dove non è mai stato e vorrebbe andare?
Al Teatro di Dioniso ad Atene, nel V secolo, per una “prima” di Sofocle.
Il suo più grande fallimento?
Tutte le volte che credevo di esser “riuscito”.
Se dico Italia qual è la prima cosa che le viene in mente?
Il Saggio di Leopardi sui costumi degli italiani.
Di cosa ha paura?
Del male fisico, che il corpo mi diventi nemico.
Tre cose che ama, tre cose che odia
Amo: silenzio, pazienza, dubbio. Odio: chiacchiera, arrogante sicurezza di sè, maleducazione.
MASSIMO CACCIARI, filosofo, ex sindaco di Venezia, insegna Estetica all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Il suo ultimo libro è Hamletica (Adelphi).
Repubblica 9.3.11
"Non siamo tema di serie B è ora di chiedere alla politica il 50% della rappresentanza"
Camusso: il berlusconismo mercifica tutto
Le ragazze ci raccontano che oggi la vera forma di contraccezione è la precarietà
di Cinzia Sasso
MILANO - Per l´occasione, ha messo un tailleur, le scarpe tacco cinque, come al solito. Anche se al solito sono nascoste dai pantaloni. Susanna Camusso, 55 anni, madre di una figlia di 22, archeologa mancata e primo segretario generale del più grande sindacato italiano, esce radiosa dall´incontro con il capo dello Stato. «Ho sentito parole che mi hanno aperto il cuore: dignità, ma anche lavoro, autonomia, libertà, protagonismo».
Da quattro mesi la Cgil ha un segretario donna. Che oggi è salita al Quirinale. È un bel simbolo.
«Io non mi sento un simbolo, però capisco che in questa stagione di degrado sia una cosa importante. È simbolico che il sindacato abbia un segretario donna; non è simbolica Susanna Camusso».
Le donne del centrodestra dicono che questo è un governo amico delle donne.
«Penso a quello che hanno fatto, giudichino gli altri. Il primo atto è stato la cancellazione della legge sulle dimissioni in bianco; hanno portato la pensione a 65 anni senza dare alle donne altri strumenti; hanno tagliato la scuola e sappiamo sulle spalle di chi va a finire; hanno cancellato il fondo delle politiche sociali; hanno fatto una legge inaccettabile sulla fecondazione assistita; per la social card obbligano a dire "io sono povera"... Non mi viene in mente altro che abbiano fatto. E poi c´è il discorso sulla cultura che hanno alimentato: il berlusconismo è l´emblema della mercificazione, tutto è comprabile, anche il rapporto con le persone».
Dicono anche che la manifestazione del 13 febbraio era una gara di insulti delle donne di sinistra.
«Vicino a me in piazza c´erano Giulia Buongiorno e una suora, c´erano tante voci diverse. Se un milione di donne dice che non possiamo essere la berlina del mondo, non sono tutte di sinistra».
Che cosa si potrebbe fare per aiutare davvero le donne?
«Intanto bisogna chiarire che far andare avanti le donne vuol dire far andare avanti il Paese e questo è il momento giusto per cambiare il modello del passato che è fallito. Le donne generano lavoro, l´occupazione femminile è un fattore di crescita, una ricchezza per il Paese. Un soggetto nuovo è più ricco, ha più voglia di vivere e progettare. I nostri obiettivi sono chiari: ci batteremo per ripristinare la legge contro le dimissioni in bianco; per garantire un lavoro non precario; per difendere la maternità, e le ragazze oggi raccontano che la vera forma di contraccezione è la precarietà. E ci vuole una norma sulla paternità obbligatoria».
C´era una proposta di legge sulle quote rosa nei cda che però è bloccata e scarnificata.
«Le quote sono uno strumento utile perché obbligano a "liberare dei posti", di suo nessuno si fa da parte. Emma Marcegaglia dice che non va bene: ma è il solito schema, alle donne si chiede quello che negli uomini viene dato per scontato: intelligenza, competenza... Penso che anche la rappresentanza politica dovrebbe essere paritaria, 50 e 50».
Può il sindacato, fatto di uomini e donne, portare avanti obiettivi come questi?
«Bisogna smettere di considerare il tema delle donne di serie B. Di fronte a qualsiasi questione bisogna pensare che ci sono due punti di vista, anche nella politica sindacale. Stiamo ancora lavorando con lo schema che il maschile è neutro, invece il maschile è maschile e questo è fondamentale. Mi chiedo: perché le strade sono considerate infrastrutture e gli asili no? Perché abbiamo fatto tanta strada ma tanta ancora ne manca, la famiglia in Italia è ancora vissuta come delega, non come responsabilità reciproca».
Lei sembra una donna di ferro. Ha qualche paura?
«Ho una grande preoccupazione per il nostro Paese, per le profonde divisioni che vedo. Non c´è mai stata una fragilità così forte della nostra classe dirigente».
C´è la politica nel suo futuro?
«Mi rende isterica la ricerca del papa straniero. Il mio oggi è un lavoro e una passione. Ho imparato a fare questo e penso che ognuno debba fare quello che sa fare bene. E poi non c´è una politica forte se non c´è una rappresentanza sociale forte».
Il 6 maggio sarà il suo primo sciopero generale.
«È una straordinaria scelta di responsabilità. Siamo molto preoccupati e ci pare che nessuno si stia prendendo la responsabilità di fare qualcosa. Fisco e lavoro sono le due leve da cui partire. E penso che l´Italia sia un paese straordinario con una grande capacità di rimettersi in moto. Io ci credo: si può. E la Cgil farà la sua parte».
l’Unità 10.3.11
Il segretario: «Gran polverone. Il premier lo usa come arma di pressione contro i pm»
Bindi: «Trovo pericolosissima l’autonomia della polizia giudiziaria rispetto alla magistratura»
«Le Ruby diventano due»
Con la riforma l’inchiesta di Milano non sarebbe mai partita La polizia giudiziaria, infatti, non sarà più a disposizione dei pm
«No, serve solo a Silvio» Bersani boccia la riforma
Mentre Alfano presenta la bozza di riforma della giustizia a Napolitano, il Pd annuncia battaglia. «Aspettiamo le carte, ma le premesse non fanno sperare nulla di buono». Bersani: «Serve a coprire le leggi ad personam»
di Maria Zegarelli
La riforma «epocale» che oggi verrà discussa in Consiglio dei ministri si annuncia soprattutto come una battaglia parlamentare «epocale». Il Pd resta sulle barricate e il giudizio non cambia dopo l’ultima stesura illustrata ieri sera al presidente della Repubblica dal ministro Angelino Alfano. «Aspettiamo di vedere le carte dice il segretario Pier Luigi Bersani ma le premesse non sono certo buone». Non sarebbe altro che «una manovra» che punta a dare «copertura politica» alle leggi ad personam che, secondo il leader Pd, «certamente non sono finite».
LA TENAGLIA
«Penso che Berlusconi voglia metterci in mezzo a una tenaglia dice Bersani -: da un lato cerca di uscire dai suoi processi, e non credo che siano finiti i tentativi di uscirne con forzature delle norme e delle regole, e dall’altro alza una bandiera». Forti dubbi che la riforma costituzionale che ha in mente la maggioranza arrivi al traguardo del doppio esame delle Camere, «e questo può essere positivo, viste le intenzioni». Il sospetto, in realtà, è che il gran polverone che si alzerà nei prossimi mesi serva al premier come arma di pressione contro gli stessi magistrati che dovranno giudicarlo nei quattro processi «del lunedì». «Un modo per rafforzare ex post la tesi della persecuzione», dice Mario Cavallaro, in Commissione Giustizia alla Camera. «Perché non partire dalle tre proposte depositate in Parlamento? Iniziamo da lì», rilancia il segretario. «O leggi ad personam o riforme costituzionali che non arrivano da nessuna parte aggiunge -. Non c’è mai nel “mirino” il funzionamento della giustizia. È un tema preso ostaggio da Berlusconi».
«Parlo per me e non so se sono maggioranza nel partito esordisce la presidente Rosy Bindi -, ma sono contraria alle misure annunciate dalla maggioranza. Trovo pericolosissima l’autonomia della polizia giudiziaria rispetto alla magistratura, come sono contraria alla separazione delle carriere. In realtà siamo di fronte ad un manifesto pensato per creare conflitto con la magistratura e giustificare le performance del lunedì a processo di Berlusconi».
«Non è certo limitando l`obbligatorietà dell`azione penale o introducendo la possibilità di citare direttamente in giudizio un magistrato commenta la capogruppo in Commissione Giustizia Donatella Ferranti che ha erroneamente applicato una legge che si garantiscono i cittadini da provvedimenti ingiusti o che si accelerano i tempi dei processi». Lapidario anche Lanfranco Tenaglia: «Continuano a mischiare la carte in tavola perché quello che interessa solo le leggi ad personam, come il processo breve, che sono in dirittura d’arrivo alla Camera. Non c’è assolutamente la volontà di riformare la giustizia nel senso che interessa al Paese ma di continuare a sfasciarla».
Claudia Fusani:
Una cosa è certa: se la riforma fosse già in vigore, l’inchiesta su Ruby e sul presunto giro di prostituzione in quel di
Arcore non sarebbe stata mai fatta. Per un motivo soprattutto: la polizia giudiziaria dipenderà dal politico e non dal pm. Intanto dalle nuove carte depositate nella Giunta per le autorizzazioni della Camera, emergono altre deliziose novità. Una su tutte: le Ruby sono due e una, nota cantante egiziana, è in qualche modo riconducibile «all’entourage dell’ex presidente egiziano Hosni Mubarak». Gli onorevoli avvocati Longo e Ghedini il 3 febbraio hanno interrogato, nel ruolo di testi a difesa del premier imputato, i ministri Frattini, Bonaiuti e Galan. E i loro racconti sembrano un buon alibi per la bugia delle bugie: Berlusconi era veramente convinto che Ruby fosse parente del presidente egiziano. Tanto che gliene ha persino parlato in una cena ufficiale a villa Madama il 19 maggio 2010. Prima, quindi, delle nota serata del 27 maggio quando Ruby minorenne fu portata in questura senza documenti, denunciata per furto e poi liberata, contro la legge, affidandola al consigliere regionale Nicole Minetti. Frattini, quella sera del 19 maggio, sedeva racconta «alla destra del Presidente del Consiglio». Allo stesso tavolo «Galan, il consigliere ministro Archi, Valentini, Bonaiuti e la delegazione egiziana, al centro Mubarak e accanto gli interpreti». Continua Frattini: «Berlusconi sicuramente parlò di Ruby a Mubarak che, dall’espressione, non mi parve avesse realizzato a chi si riferisse il premier. Da altri interventi da parte egiziana emerse che una certa Ruby fosse una cantante egiziana. La conversazione fu un po’ confusa. Berlusconi disse che questa ragazza sarebbe appartenuta ad una cerchia familiare riferibile al presidente Mubarak il quale non comprese troppo bene.
Allora Berlusconi disse: “Ci informeremo meglio”». Più “utile” alla difesa il ministro Galan. «Verso la fine del pranzo Berlusconi parlò a Mubarak di una giovane bella egiziana di nome Ruby che aveva avuto modo di conoscere. Mubarak non focalizzò subito, lui si riferiva ad una nota cantante di nome Ruby. Berlusconi accennò che doveva trattarsi di una parente o comunque di una persona della cerchia presidenziale». Se Bonaiuti resta generico («si parlò di una cantante egiziana e io mi sono ricordato della famosisisma Um Kalsoum»), più preciso è il fedele Valentino Valentini: «A fine cena Berlusconi disse di aver conosciuto una giovane ragazza egiziana di nome Ruby proveniente da una nota famiglia egiziana. Più interlocutori egiziani sono a quel punto intervenuti per dire che Ruby è una famosa cantante egiziana. Ed emerse una familiarità tra questa Ruby e l’entourage di Mubarak». E insomma, in un modo o nell’altro, le Ruby diventano due. Miracoli egiziani. E il Marocco? Pazienza.
l’Unità 10.3.11
Inadatto al compito
di Concita De Gregorio
In dissenso con un buon numero di opinioni lette ieri su giornali di destra di sinistra e di centro opinioni argomentate, ironiche, pensosissime o sagaci vorrei spiegare qui in modo chiaro perché ritengo che nessuna riforma della giustizia si possa e si debba discutere con questo governo. Lo dirò in pochissime parole, credo che bastino: non si riforma la giustizia con chi è imputato. Sarebbe certamente urgente e necessario mettersi al lavoro per rendere la giustizia più efficace, per dare più strumenti a chi la amministra. Purtroppo, però, non siamo in condizioni di farlo per via del fatto che il Presidente del Consiglio si trova in questo momento sotto processo come lo è stato innumerevoli volte in passato, quasi senza soluzione di continuità, quasi che la sua passione per la politica fosse in qualche modo collegabile alla sua esigenza di mettersi in salvo dalle conseguenze dei suoi gesti. Quasi che.
Non ci si siede ad un tavolo a discutere di giustizia se dall’altra parte del tavolo c’è qualcuno che con ogni mezzo si sottrae alla giustizia stessa: non è, come posso dire, un interlocutore all’altezza del compito. C’è un conflitto di interesse endemico: il suo interesse ad avere una giustizia che gli convenga confligge a priori, per il solo fatto di esistere, con l’interesse collettivo. Non c’è bisogno di entrare nel merito, anzi non lo si può fare. Allo stesso modo non si discute di riassetto del sistema radiotelevisivo con chi ne detiene il monopolio, errore già occorso in passato e dal quale evidentemente non si è tratto alcun insegnamento. Semplicemente: si impedisce a chi detiene il monopolio del sistema radiotelevisivo di governare. Poi eventualmente, se costui preferisce fare politica al fare miliardi per la sua famiglia con le sue aziende, allora cede realmente le sue tv, si candida e corre con gli stessi mezzi economici e mediatici degli altri, se eletto diventa un valido interlocutore per discutere persino di tv. O di giustizia, o di scuola, o di impresa.
Se così non fosse se questo non fosse un principio fondativo delle democrazie rappresentative a capo dei governi dei paesi occidentali ci sarebbero gli uomini più ricchi dei medesimi paesi, i Murdoch e i Bill Gates, i signori dei colossi informativi sarebbero tutti presidenti e i miliardari corruttori (ce ne sono a tutte le latitudini) anzichè rispondere delle loro malefatte sarebbero tutti lì a riformare i sistemi-giustizia a loro misura. Possiamo dunque annoverare l’esigenza di una vera e rapida riforma del processo fra le ragioni che dovrebbero determinare le dimissioni di Berlusconi e il rapido ricorso alle urne. Non succederà, perché dopo aver permesso che l’uomo col più straordinario potere mediatico ed economico del paese si candidasse alla guida del medesimo non possiamo ora aspettarci che divenga ragionevole, acceda alla causa comune, si interessi al bene di tutti e non pretenda, come deve sembrargli ovvio, di continuare ad occuparsi del suo.
l’Unità 10.3.11
Sedici articoli ridisegnano il Titolo IV della Carta, quello dedicato al terzo potere dello Stato
La magistratura diventa un «ufficio» e i pm degli impiegati. Nasce l’Alta Corte di disciplina
La giustiza come piace a lui: punire i pubblici ministeri
Oggi il Consiglio dei Ministri approva 16 articoli che fanno piazza pulita dell’equilibrio fra i tre poteri dello Stato. Una riforma «epocale», come dice il Cavaliere. Con i pm che rischiano di tasca propria.
di Claudia Fusani
Sedici articoli che rivoluzionano l’assetto dello Stato. Che buttano all’aria quel perfetto bilanciamento tra i tre poteri studiato parola dopo parola nei 137 articoli della Costituzione. «Sarà una riforma epocale»: per una volta ha ragione il presidente del Consiglio. Quella che viene approvata stamani dal Consiglio dei ministri è qualcosa di «epocale» sul fronte della giustizia ma che, ancora una volta, nulla fa per risolvere il vero problema: la lentezza della giustizia. Il succo dei sedici articoli che intervengono sul titolo IV della Carta e, dal 101 al 113 è che i pubblici ministeri, quella parte della magistratura che fa le indagini ed è la pubblica accusa nei processi, viene declassata a «ufficio» con scarsi poteri di indagine e se sbaglia, deve anche pagare di tasca propria. E’ la «punizione» invocata dal premier all’indomani del rinvio a giudizio per il caso Ruby. La bozza finale del ddl di riforma costituzionale è stata vista ieri intorno all’ora di pranzo dal premier Berlusconi, nel pomeriggio è stata illustrata al Presidente della Repubblica e in serata allo stato maggiore del pdl a palazzo Grazioli. Nonostante questo il Guardasigilli ieri sera ha voluto ancora ripetere: «Il testo? lo scriviamo domani».
I CSM DIVENTANO DUE
Uno per i giudici e uno per i pm ed entrambi saranno presieduti dal Capo dello Stato. Cade quindi l'ipotesi che a capo del Csm dei pm vada il Procuratore generale della Cassazione eletto dal Parlamento in seduta comune su indicazione del Csm.
E CAMBIA LA COMPOSIZIONE
Nel Csm dei giudici ci sarà di diritto il primo presidente della Corte di Cassazione. Gli altri componenti saranno per il 50% scelti dai giudici tramite sorteggio degli eleggibili (un modo per ridurre il potere delle correnti della magistratura); per l'altra metà dal Parlamento in seduta comune tra professori ordinari di università di materie giuridiche ed avvocati dopo 15 anni di esercizio. Il vicepresidente del Csm dei giudici sarà scelto tra i componenti laici. Durano in carica 4 anni e non sono rieleggibili. Nel Csm dei pm avrà posto di diritto il procuratore generale della Cassazione. Ancora in forse la composizione: metà esatta tra laici e togati o 1/3 laici e 2/3 togati. I Csm poi (art.105) «non possono adottare atti di indirizzo politico». E’ il bavagli o ai pareri.
L’ALTA CORTE DI GIUSTIZIA
La sezione disciplinare, che dovrà giudicare le toghe, non sarà più una sezione del Csm. Ma un organo a parte. E diviso in due, uno per i giudici e uno per i pm. I componenti di ciascuna sezione saranno al 50%laici e 50% togati. Presidente e vicepresidente saranno eletti dai laici. E’ assicurata «l'autonomia e l'indipendenza della Corte di disciplina» (art.105 bis). Ma il potere sarà in mano alla parte politica delle Corti.
AZIONE PENALE OBBLIGATORIA MA...
Oggi l’articolo 112 della Carta dice: «Il pm ha l’obbligo di esercitare l’azione penale». Quello nuovo invece aggiunge: «... secondo i criteri stabiliti dalla legge». Un legge ordinaria che detterà le priorità. E’ un grosso limite.
IL PM PAGA
«I magistrati sono direttamente responsabili degli atti compiuti in violazione dei diritti, al pari degli altri funzionari e dipendenti dello Stato». L’articolo 113 bis introduce un vecchio cavallo di battaglia di Berlusconi: la responsabilità civile dei magistrati. «Nei casi di ingiusta detenzione la legge regola la responsabilità civile dei magistrati» la quale «si estende allo Stato». Risultato: se il pm sbaglia qualcosa nel suo lavoro, dovrà pagare di tasca sua.
...E NON HA PIÙ LA POLIZIA
Se finora il pm dispone direttamente della pg (art.109), d’ora in poi sarà una legge ordinaria a stabilirne «le forma di utilizzo».
La Stampa 10.3.11
Conflitto tra i poteri dello Stato
di Carlo Federico Grosso
Oggi il Consiglio dei ministri dovrebbe varare la riforma costituzionale della giustizia. Una riforma «epocale», l’ha definita qualche giorno fa il presidente del Consiglio.
Se il Parlamento, a chiusura del lungo iter parlamentare previsto, dovesse davvero approvarla, la giustizia italiana non sarebbe, in effetti, più la stessa. Cambierebbe pelle, caratura, peso, incisività, colore. Sarebbe una giustizia del tutto diversa rispetto a quella che conosciamo.
I punti salienti della riforma dovrebbero essere, stando alle indiscrezioni, la separazione delle carriere, la spaccatura in due del Csm, l’istituzione di una «Alta corte di giustizia» destinata a gestire la disciplina dei magistrati, un diverso livello d’indipendenza a seconda che si tratti di giudici o di pubblici ministeri.
L’ elenco prosegue con la limitazione dell’obbligatorietà dell’azione penale (che diventerebbe esercitabile «secondo le priorità stabilite da una legge» votata ogni anno dal Parlamento), la polizia giudiziaria autonoma dal pubblico ministero, l’introduzione della responsabilità civile dei magistrati che sbagliano.
Ebbene, nel suo insieme questo complesso di innovazioni determinerebbe una profonda alterazione del rapporto oggi esistente fra i poteri dello Stato. L’idea liberale di una magistratura destinata ad esercitare in modo indipendente il controllo di legalità sull’attività dei cittadini, soggetta soltanto al rispetto della legge, cederebbe il passo all’idea di una magistratura condizionata dal potere politico, ed in particolare dal potere esecutivo. Si realizzerebbe in modo traumatico, e fortemente limitativo delle prerogative della giurisdizione, quel «riequilibrio» fra i poteri che viene da tempo vagheggiato da una parte consistente della nostra classe politica.
Soprattutto, una riforma così configurata rischierebbe d’incidere profondamente sull’autonomia delle Procure della Repubblica e, pertanto, sull’esercizio dell’azione penale da parte dell’ordine giudiziario. Pensate: il pubblico ministero, secondo quanto si prefigurerebbe, non farebbe più parte di un «ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere dello Stato», ma costituirebbe, più semplicemente, un «ufficio» al quale la legge «assicura l’indipendenza»; esso non sarebbe più il protagonista delle indagini, ma dovrebbe sottostare alle iniziative ed alle valutazioni di una polizia giudiziaria resa autonoma dal suo ufficio e gerarchicamente dipendente dal governo; esso non sarebbe più libero di scegliere le priorità nelle indagini penali, ma dovrebbe comunque sottostare alle priorità dettate dal Parlamento.
Si consideri, d’altronde, la profonda modificazione che subirebbe il principio di indipendenza dell’ordine giudiziario, considerato a ragione cardine dello Stato di diritto. Oggi il principio d’indipendenza della magistratura è formulato in maniera piena dalla Costituzione, che stabilisce che «la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere», e prevede, a presidio concreto di questo enunciato, un Csm forte ed autorevole, presieduto dal Capo dello Stato. Domani, se la riforma avviata dal governo dovesse essere approvata, s’indebolirebbe il principio generale d’indipendenza (riconoscendo la funzione di potere dello Stato autonomo dagli altri poteri soltanto alla magistratura giudicante), e, soprattutto, si vanificherebbe il presidio concreto dell’indipendenza dell’ordine giudiziario costituito dal sistema di autogoverno della magistratura.
Dividere, spaccare, significa già di per sé indebolire. S’ipotizza, peraltro, non soltanto di dividere in due il Csm, ma, altresì, di privarlo dei suoi poteri più nobili e incisivi, attraverso i quali esso ha potuto, negli anni, costituire uno strumento di tutela efficace dei singoli magistrati e della magistratura nel suo insieme ed essere voce autorevole dell’ordine giudiziario, riducendolo, nei fatti, a mera istituzione burocratica per la gestione dei trasferimenti e delle promozioni dei magistrati. Davvero una iniziativa utile per il Paese?
C’è un ulteriore profilo che, su tutt’altro piano, preoccupa. Si prevede che i due Csm siano modificati nella loro composizione, con incremento dei componenti laici di designazione politica, si prevede di istituire una «Alta corte di giustizia» anch’essa a maggioranza «laica», si prevede di introdurre la responsabilità civile dei magistrati che sbagliano. Talune di queste innovazioni di per sé potrebbero anche essere apprezzate. Non c’è tuttavia il rischio che esse, ancora una volta considerate nel loro insieme, e sommate alle altre novità proposte, realizzino, nei fatti, una intimidazione destinata a rendere i magistrati timorosi, e pertanto più timidi nel perseguire i reati e i loro autori?
Tutti riteniamo che la giustizia italiana oggi non funzioni come dovrebbe e che sia pressante l’esigenza di una riforma in grado di restituirle efficienza, rapidità e credibilità. Per soddisfare questa esigenza prioritaria servono peraltro incisive modificazioni dei codici e della legislazione ordinaria. Non serve sicuramente l’azzardo di una modifica dei principi costituzionali.
Corriere della Sera 10.3.11
Scioperare o no, magistrati divisi. Una settimana per decidere
di M. Antonietta Calabrò
ROMA— Scioperare o non scioperare? La risposta dal parlamentino dell’Anm arriverà presto, prima del previsto, alla fine della settimana prossima, sabato 19 marzo. Ma intanto il dibattito ferve tra le poco meno di diecimila toghe italiane. I magistrati (questa è la domanda) possono scendere in sciopero, per manifestare la loro contrarietà a una riforma costituzionale della giustizia? Oppure questa forma di protesta avrà un effetto boomerang e li farà apparire come una casta, rafforzando l’immagine della magistratura che il premier non si stanca di ribadire? È questo il dilemma che tormenta il gran corpaccione della magistratura, quello, diciamo così, della maggioranza silenziosa che in queste ore si anima sul web. E che è fatto non solo di «toghe rosse» o «toghe rotte» (dal titolo del blog di Chiarelettere del magistrato Bruno Tinti). Un dilemma ben sintetizzato da questo post anonimo che sembra proprio scritto dalla mano di un magistrato, perché certamente non è tenero neppure con Berlusconi: «Casta coesa=Dittatore unico» . È comparso ieri su Wikio (che monitora su web gli argomenti di attualità così come affrontati sui social network). E continua così: «Correnti Anm indicano dispoticamente via obbligatoria anche per magistrati che mirano ideali di giustizia etica e morale» . Poi c’è un’altra domanda: quella sui tempi. Scioperare subito? O attendere? Il processo di revisione costituzionale infatti è lungo, il percorso accidentato, quindi — è questo il ragionamento — sarebbe inutile se non dannoso alzare nel giro di poche settimane una barriera d’acciaio come lo sciopero. Meglio, forse, la sabbia negli ingranaggi. Tanto che Armando Spataro (il pm di Milano che a botta calda aveva commentato contro il premier: «A riforme epocali risposte epocali» ) ha dichiarato ieri che la «riforma è incompatibile con la Costituzione» , che essa delinea un «quadro preoccupante e che da ciò che leggo mi sembra incostituzionale» . Come a indicare che le nuove norme avranno davanti un percorso a ostacoli ben più insidioso che le braccia incrociate per un giorno.
l’Unità 10.3.11
Insultano la Carta e tagliano 81mila prof: fermiamoli il 12
Intervista a Giovanni De Luna
«Delegittimare la scuola vuol dire spaccare l’Italia»
«Il governo sta attaccando ciò che rappresenta il primo grado di inclusione del Paese, il luogo dove si forma la comunità e l’identità di un popolo»
di Oreste Pivetta
La scuola maltrattata, la scuola offesa, la scuola tagliata. Eppure c’è anche la scuola nell’unità di Italia, l’Unità che non tutti vorrebbero celebrare in questi giorni. C’è la scuola assieme, ovviamente, ad altre “voci”: guerre, chiesa, fabbriche, politica, trasporti, comunicazioni di massa, mafie... Voci, che sono altri passaggi, nel bene o nel male, di un cammino contrastato e contradditorio verso l’unità e soprattutto nella costruzione di una identità comune, voci che diventano “isole tematiche” nella mostra “Fare gli Italiani. 150 anni di storia nazionale”, dal 17 marzo a Torino, alle Officine grandi riparazioni di via Castelfidardo 22, quattordicimila metri quadri di installazioni. «Ciascuna voce – spiega Giovanni De Luna, storico e curatore insieme con Walter Barberis – abbiamo cercato di interpretarla e di rappresentarla alla luce della coppia inclusione-esclusione. Alcuni esempi. La fabbrica è stata una straordinaria occasione di inclusione, perché nella fabbrica si sono incontrati migliaia di italiani, di diverse regioni, di diversi dialetti, di diversi costumi, che davanti alla loro condizione di lavoratori hanno maturato un comune sentire e un comune modo per esprimerlo. Le mafie hanno generato l’effetto opposto, separando e quindi escludendo una parte della popolazione».
Professor De Luna, in questo percorso si immagina un ruolo straordinario della scuola: a scuola si impara la lingua di tutti e si dovrebbe costruire un sistema di valori condivisi. È ancora così?
«Quello è stato e continua ad essere il ruolo della scuola pubblica in Italia. Un ruolo, appunto, straordinario. Con varianti, ovviamente. Il percorso non è mai stato lineare. Se guardiamo al presente, la crisi è evidente, ma il compito resta fondamentale. Se gli immigrati e i loro figli diventano cittadini italiani sarà per il lavoro, ma sarà allo stesso modo per la scuola: sui banchi delle elementari crescono nuove schiere di italiani e crescono grazie all’impegno a volte strenuo di migliaia di maestri. Quando ci si riferisce alla scuola pubblica questo si dovrebbe in primo luogo riconoscere: la scuola in prima linea sul fronte dell’inclusione. Che cosa sarebbe altrimenti? Dove altrimenti si costruirebbe una comunità, capace di riconoscersi in una identità. Certo tutto è difficile, le strutture scolastiche sono malandate, gli insegnanti sono sfiduciati, c’è un deficit intellettuale, i contenuti stessi possono apparire obsoleti, ma l’attacco anche da parte della politica è stato continuo. La scuola non trova schierato al fianco un governo. Ne incontra uno che tenta di delegittimarla».
Non è solo la politica. C’è anche una società con i suoi modelli culturali che “sfiducia” la scuola... «Nel senso che la scuola deve sopportare il contrasto, la concorrenza di forme comunicative più efficaci, altri circuiti di trasmissione dei saperi, altri saperi. Del resto viviamo in una condizione di emergenza culturale, non solo politica».
Forse più culturale che politica, se si interpretano i “saperi” che può affidarci la televisione, da Amici al Grande Fratello?
«Questo fa parte di una deriva, cui partecipa anche la scuola. Ma per la scuola non c’è niente di nuovo. La scuola ha subito periodici attacchi. La scuola ha vissuto e vive di alti e bassi. All’Unità d’Italia, ad esempio, venne promossa, ma in un paese afflitto dall’analfabetismo non venne favorita l’istruzione elementare, bensì quella intermedia, perché in primo luogo si voleva addestrare un ceto amministrativo e tecnico, utile al nuovo stato. Poi venne il momento della scuola elementare. Il fascismo condizionò la funzione inclusiva, che tornò alta ai tempi del centrosinistra, ai tempi di Tristano Codignola....
Che fu alla guida della politica scolastica nel Psi di Nenni e che fu traipiù battaglieri sul fronte della istituzione della scuola media unica e della stessa scuola materna statale.
«Oggi siamo al tentativo ripetuto di delegittimare la scuola...» Berlusconi dice infatti che la scuola pubblica non educa. Ma gli attacchi sono pure altri, la Lega in prima fila, in modo talvolta ambiguo. Quanto vale il dialetto rispetto a un progetto inclusivo della scuola?
«Continuo a ritenere che avesse ragione Pasolini: il dialetto vive dentro una lingua nazionale forte, in un circuito virtuoso. Il problema non è aprire la scuola a una dimensione del locale. Anzi, questa apertura può costituire un momento didattico molto serio, un avvicinamento molto concreto alla realtà, un’esperienza di lettura della realtà e di confronto. Il problema è costruire attorno una cornice molto robusta dal punto di vista concettuale, che comunichi appartenenza».
Come fecero i piemontesi un secolo e mezzo fa? «Allora lo stato procedette estendendo in modo burocratico amministrativo il modello piemontese. Ma non si può demonizzare questa scelta, che ci diede un sillabario unico, ma anche una lingua per parlarsi da nord a sud e un sistema di valori. In quel modo si formò un’idea di cittadinanza. I nostri sussidiari saranno stati retorici, ma accompagnarono questo paese verso il benessere, facendoci capire di partecipare tutti alla stessa impresa».
Una scuola federale ha una ragione?
«La scuola federale mi sembra una stupidaggine, che pretende chi, come la Lega di Bossi, ha la sua idea di cittadinanza, inaccettabile peraltro: una cittadinanza che accantona i valori e si fonda sugli interessi».
l’Unità 10.3.11
Lettera da una professoressa
Il premier attacca il pensiero critico
di Caterina Pes
Per una volta voglio dismettere i panni da parlamentare e rindossare quelli dell’ insegnante, il lavoro che ho svolto con passione per tanti anni e che tornerò a svolgere quando sarà conclusa la mia esperienza a Montecitorio. Ho sempre avuto la consapevolezza, lucida e netta, del valore sociale, oltre che culturale, di una scuola pubblica, libera, laica, indipendente. Ma mai come in questo momento, dopo le parole sovversive che Silvio Berlusconi è stato capace di pronunciare, ho sentito il merito di questa funzione per la nostra democrazia, mai come in questo momento ho desiderato tornare nei panni della professoressa di filosofia che ha cercato non di “inculcare” ai suoi ragazzi il proprio pensiero, ma di insegnare loro ad essere liberi, vigili e critici. Ad avere rispetto della democrazia e di se stessi in quanto cittadini. Quello che il presidente del Consiglio, ormai indegno del suo ruolo, ha sferrato non è stato un attacco alla scuola, perché ci hanno pensato già le sue finanziarie ad ucciderla, con tagli di proporzioni mai subite prime da un sistema dell'istruzione che pure è, suo malgrado, abituato ai conti in rosso. Berlusconi questa volta ha fatto di più: ha attaccato il pensiero critico. Che è altra cosa dalla libertà fasulla e vuota che il nostro premier ha avuto la sfrontatezza di infilare persino nel logo del suo partito. Ma di quale libertà parla? La libertà di poter fare lui ciò che vuole e negare a noi la libertà di dissentire?
Dobbiamo stare molto attenti, perché Berlusconi ha una strategia collaudata: sdoganare i suoi vizi, e abituare il nostro palato a concetti inaccettabili in un paese come il nostro, un tempo politicamente maturo . Così facendo egli ottiene due risultati: conquista, o meglio crede di conquistare, il favore dei cattolici e delle loro ricche scuole, e nega a noi, docenti della scuola pubblica, il dovere, prima che il diritto, di insegnare ai giovani ad essere liberi, grazie alla cultura, che in quanto tale non ha padroni.
È chiaro, dunque, che attaccando la scuola pubblica, di tutti, dei ricchi come dei poveri, repubblicana e unitaria, Berlusconi indirettamente attacca il sapere e la conoscenza che, per loro natura, sono liberi.
Mi appello allora ai colleghi, agli studenti, agli insegnanti, perché ognuno di noi giochi il proprio ruolo in questa battaglia paradossale che ci vede schierati a difenderci da chi ci dovrebbe proteggere.
Spesso ci è capitato di assistere sbigottiti ad affermazioni inaccettabili e irripetibili da parte del premier e ogni volta ci convinciamo che abbia toccato il fondo della dissacrazione delle istituzioni, ma l'attacco sferrato alla scuola pubblica e peggio ancora alla libertà del pensiero, credo che, realmente, sia la più grave delle sortite di un uomo che passerebbe su qualunque cosa pur di mantenere il potere.
l’Unità 10.3.11
Verso la manifestazione del 12 marzo
di Domenico Petrolo
Da diversi anni assistiamo a un attacco continuo ai valori ed i principi sanciti dalla nostra Costituzione. Con annunci di fantomatiche riforme Costituzionali, di cui il Paese invece avrebbe realmente bisogno, si cerca quotidianamente di smontare tassello dopo tassello le nostre principali istituzioni.
L’Italia si ritrova governata da un Premier che ha una visione distorta e pericolosa della Democrazia. Una visione per cui nessuno può disturbare il “grande manovratore” e gli organi di garanzia, che per fortuna ancora oggi sono i cardini della nostra vita democratica, sono raffigurati come stantii orpelli burocratici, che impediscono di realizzare il fantomatico “nuovo miracolo italiano”. Come se la disoccupazione,che colpisce un giovane su 3 e una donna su 2, sia responsabilità della Corte Costituzionale o del Quirinale.
Qualsiasi luogo dove si “annida” o si “forma” un’opinione pubblica diversa da quella prevista da questa ultradestra governante viene subito indicato come un bersaglio da colpire, attraverso controversi atti legislativi, provvedimenti punitivi o dichiarazioni dal tono aggressivo e cariche di disprezzo.
Così è successo alla scuola pubblica, descritta dal premier come un luogo in mano a pericolosi inculcatori, quando invece è spesso uno splendido esempio d’impegno civico, con professori bisfrattati che, nonostante la peggior paga d’Europa, cercano ogni giorno di dare un’istruzione decente ai nostri ragazzi. Cosi è stato per l’informazione libera e per la magistratura, su cui si annuncia proprio in queste ore una “riforma epocale”.
In questo clima di contrapposizione permanente, ancora una volta si corre il rischio che la nostra Carta Costituzionale venga stravolta, non nell’interesse collettivo, ma all’insegna di un’idea di democrazia per pochi e non per tutti. Si corre il pericolo che il diritto all’istruzione e molti altri diritti siano calpestatati in nome di un finto liberalismo, dietro cui si nascondono interessi individuali e di parte.
Per questo lo sforzo che ci viene chiesto è maggiore del solito. Oggi è necessaria una resistenza civile, la difesa civica della nostra democrazia. E’ necessario ricostruire il tessuto socio-culturale del nostro Paese.
Dobbiamo ritrovare l’orgoglio di essere italiani, di essere una comunità .
Per questo la manifestazione di sabato 12 per la Costituzione e per la Scuola Pubblica, sarà un grande momento che dovrà vederci uniti, al di là di ogni colore politico, all’insegna del nostro tricolore. Uniti per la nostra carta costituzionale, nella certezza che non possiamo permettere a nessuno d’intaccare le nostre libertà e i nostri diritti fondamentali.
Repubblica 10.3.11
Scalfaro: la Costituzione è sotto attacco
Messaggio per il C-day. Cgil: impegno etico essere in piazza. Sì di Venditti
di Giovanna Casadio
ROMA L´augurio di Oscar Luigi Scalfaro è di «coinvolgere il maggior numero di cittadini» nel C-day, nella mobilitazione per la Costituzione e la scuola che si terrà sabato in un centinaio di piazze italiane e straniere. Ma soprattutto, l´ex presidente della Repubblica e "padre costituente" invia al comitato "A difesa della Costituzione, se non ora quando?" un messaggio che è insieme di allarme e di pungolo: «È doveroso denunciare i tentativi di aggressione alla Costituzione che passano soprattutto attraverso i propositi di riduzione dell´autonomia e dell´indipendenza della magistratura e le proposte di modificare le norme che regolano il giudizio di costituzionalità delle leggi». Parole che arrivano puntuali ora che il governo si appresta a cambiare 14 articoli della Carta per rivoluzionare l´ordinamento giudiziario. La preoccupazione quindi, «è molto forte», ma come accadde con il referendum costituzionale del 2006 in cui i cittadini bocciarono la riforma del centrodestra, così afferma Scalfaro a nome dell´Associazione "Salviamo la Costituzione, aggiornarla non demolirla" gli italiani «sapranno ancora una volta rinnovare il proprio amore per la Costituzione repubblicana nata dalla lotta di Resistenza e di Liberazione».
È il miglior viatico (e Scalfaro potrebbe essere in piazza) a una giornata di iniziative, flash mob, cortei, adesioni che continuano a crescere. Oltretutto difesa della Carta e della scuola pubblica vanno a braccetto nella mobilitazione di sabato. Lo ripete a Montecitorio Dario Franceschini nell´interrogazione alla ministra Gelmini, che «sa solo schierarsi con Berlusconi, invece le piazze torneranno a riempirsi per difendere Costituzione e scuola». In piazza ci sarà la Cgil. «Difendere la Costituzione dai continui e strumentali attacchi è un impegno etico, oltre che politico e sociale, specie per un sindacato come la Cgil che considera fondamentali gli articoli che parlano del lavoro e dei problemi sociali ed economici». Tra le adesioni oltre ai politici, da quelli di Fli a Vendola, Bersani, Di Pietro, Tabacci intellettuali, personaggi dello spettacolo. Claudio Bisio apre la carrellata di testimonianze nello spot per il C-day, in cui gli articoli della prima parte della Carta sono recitati come passi di un breviario laico. Tra i messaggi di adesione, Dario Vergassola: «Alla Costituzione sta accadendo quello che succede al paesaggio, viene distrutto poco alla volta». Ottavia Piccolo: «Sarò in piazza perché sono nata in tempo di democrazia e diritti e se volevo qualcosa di diverso nascevo nel Far West o nella Chicago anni ‘20». E Antonello Venditti: «La Costituzione deve essere il nostro zenit». Ad aprire il corteo romano un Tricolore di 200 metriquadri. Beppe Giulietti invita a portare la Costituzione. Domenico Petrolo del comitato promotore: «Tutte le iniziative sono all´insegna della Carta e di tutti quei diritti e libertà fondamentali come l´istruzione pubblica, l´informazione, la giustizia che ogni giorno vengono minacciati da questo governo».
l’Unità 10.3.11
Intervista ad Angelo Del Boca
«Il conflitto potrebbe andare avanti per mesi»
di Umberto De Giovannangeli
Secondo lo studioso l’esercito regolare dispone di armi più moderne e potenti rispetto ai rivoltosi ma è difficile che riesca a riconquistare la Cirenaica dove non è mai stato popolare
Agita lo spauracchio-Al Qaeda; accusa l’Occidente di «complotto colonialista»”, avverte Stati Uniti e Nato: se attua-te la «no fly zone» la Libia impugnerà le armi...Gheddafi torna all’attacco mediatico. L’Unità ne parla con il più autorevole studioso del colonialismo italiano nel Nord Africa: Angelo Del Boca. «Siamo di fronte rimarca lo storico ad una guerra civile che potrebbe continuare anche per mesi...Gli insorti hanno la voglia di vincere ma il Colonnello ha dalla sua gli armamenti pesanti e, soprattutto, l’aviazione».
Nella sua ultima uscita televisiva, Gheddafi ritorna su Al Qaeda e sul «complotto colonialista» dell’Occidente...
«Gheddafi non è nuovo a queste uscite. Perché in fondo l’attacco ai Paesi colonialisti lo ha sempre fatto. Questa volta magari è più minuzioso, più diretto. Ora dipende da cosa faranno gli Stati Uniti e la Nato. Se, come si teme, ci sarà l’attacco sul territorio libico, allora una parte di ragione Gheddafi l’avrebbe anche, perché fino a prova contraria, la Libia è un Paese sovrano. E devo dire che in Italia sono molti quelli che si dichiarano contrari ad un attacco militare, a cominciare dal ministro dell’Interno Roberto Maroni...». E Al Qaeda? «Non escludo che ci siano uomini di Al Qaeda, soprattutto in Cirenaica, dove peraltro ci sono sempre stati. Non dimentichiamo che nel 1996, Gheddafi fu costretto ad inviare marina, aviazione ed esercito per reprime una rivolta esplosa tra Bengasi e la Montagna Verde. Allora si parò di 1200 morti e di carceri riempite di persone legate ad Al Qaeda. Questo per dire che la presenza qaedista non può essere esclusa, anche se Gheddafi probabilmente ne amplifica la portata».
Il Consiglio di transizione formatosi a Bengasi ha lanciato un ultimatum al raìs... «Si tratta di una iniziativa di nessuna efficacia e importanza, in quanto questo Consiglio è una espressione estremamente provvisoria e di scarsissima rilevanza. Resto però dell’avviso che comunque un tentativo per incoraggiare Gheddafi ad andarsene è del tutto legittimo e augurabile, perché probabilmente arresterebbe il bagno di sangue. Anche in Italia c’è un gruppo che si sta organizzando proprio per proporre una mediazione. Naturalmente è necessario prospettare una ritirata che salvi in parte la faccia di Gheddafi. Credo che questo gruppo si manifesterà nei prossimi giorni».
Nello stesso discorso a cui facevamo in precedenza riferimento, Gheddafi ha anche affermato che se verrà imposta la «no fly zone», la Libia prenderà le armi...
«Trovo che Gheddafi abbia dimenticato che è già in stato di guerra. Perché se è vero che gli Awacs controllano 24 ore su 24 l’intero territorio libico, si è già in stato di guerra».
Qual è la definizione che a suo avviso meglio si attaglia a ciò che da settimane sta avvenendo in Libia? «La definizione più calzante è guerra civile. Perché da una parte ci sono i fedelissimi di Gheddafi e dall’altra gli insorti che non accettano più la sua dittatura. Questa divisione attraversa anche le tribù, sulle quali Gheddafi aveva sempre fatto molto affidamento. Si era sempre detto che il Libro Verde avrebbe annullato le tribù e invece, nonostante la “terza teoria universale”, la Libia è ancora oggi uno Stato tribale».
Sul piano militare interno, quello in atto è uno scontro che può concludersi, e se sì in che tempi, con un vincitore e un vinto?
«Non credo, perché gli insorti non hanno armi pesanti, non hanno aviazione e dispongono di pochissimi carri armati. Hanno soltanto una gran voglia di vincere. Invece Gheddafi ha armamenti pesanti e, soprattutto, l’aviazione. Ma la sua forza non è sufficiente per riconquistare la Cirenaica. Quindi è una guerra che potrebbe continuare anche per mesi, se non intervengono altre forze».
il Fatto 10.3.11
In piazza per la Libia?
risponde Furio Colombo
Caro Colombo, dicono che i pacifisti sono distratti. E neghittosi. Perché non riempiono le piazze con manifestazioni anti Gheddafi invece di starsene zitti a guardare la televisione? É una domanda che riguarda poco i pacifisti e molto i politici che hanno dichiarato Gheddafi il miglior amico dell'Italia, e lo hanno fatto appena due anni fa in parlamento, destra e sinistra, Pdl e Pd, quasi all’unanimità. Non tocca a loro, politici e partiti che hanno votato Gheddafi , dire che cosa pensano adesso?
Giovanna
PENSO che la lettrice faccia riferimento a ciò che l'on. Veltroni ha dichiarato al "Sole 24 Ore" dell'8 marzo, rispondendo alla domanda della giornalista Palmerini che chiede: "Qual'è la ragione del silenzio nelle piazze deserte?". Risposta: "Penso che ci siano due ragioni. La prima è che siamo entrati in una spirale di egoismo sociale e di riduzione del nostro orizzonte che include solo ciò che accade vicino". Risposta difficile da condividere, perché la Libia è vicinissima e quello che sta accadendo fa paura a tutti. Ma Veltroni completa così l'argomento: "La seconda ragione è che era molto più facile stare dentro lo schema tradizionale del 900, quello in cui i conflitti erano definiti da una storia che non esiste più." Incalza la giornalista: "La sua è una critica al partito democratico?" e ribatte Veltroni: "In questo caso no. Il Pd è stata l'unica forza politica a reagire anche con una manifestazione. No, mi sorprende l'assenza dei sindacati, associazioni, movimenti." Qui c'è un vuoto che ha bisogno di essere colmato. Prima c'è un trattato votato quasi alla unanimità dal Parlamento proprio quando tanti gruppi e movimenti chiedevano di non farlo. Ricordate, ad esempio, i Radicali? Non ripeterò la storia di chi ha voluto e votato e lodato come un cambiamento del mondo il trattato di relazioni strette, fraterne, militari ed economiche, strategiche e scientifiche con la Libia (e aggiungendo il mandato di bloccare con tutti i mezzi ogni tentativo di immigrazione dall'Africa all'Italia). Ma c'era gente in piazza, e non i Radicali da soli. C'erano anche molti italiani cacciati dalla Libia abbandonando tutti i loro beni e il loro lavoro e che nessuno ha voluto ascoltare prima di firmare o ratificare quel trattato. C'erano anche (pochi) deputati del Pd e altri parlamentari a cui nessuno ha prestato attenzione. Ma il problema si ripropone adesso. Il partito democratico sara' anche stato vivace nel reagire fuori dal Parlamento. Ma in Parlamento non vi è traccia di una richiesta di abrogazione del trattato con la Libia. Stiamo parlando di un legame celebrato anche dalle nostre Frecce Tricolori nel cielo di Tripoli e da un baciamano del primo ministro italiano al dittatore più sanguinario e feroce rimasto (purtroppo finora ) al potere. Possibile che solo il frammento di Partito Radicale eletto nel Pd lo abbia capito e lo abbia denunciato in tempo,in sparuta compagnia di pochi deputati disobbedienti? E non sarebbe una bella manifestazione se, nonostante l'errore, adesso il Pd si prendesse la responsabilità di volere la cancellazione del trattato? Come può il Parlamento chiedere ai cittadini di fare spontaneamente (e rischiando le botte di Maroni) qualcosa che il Parlamento non sta facendo e non ha detto di voler fare?
Corriere della Sera 10.3.11
Veltroni «chiama» Renzi. E lui stronca il partito
«Le firme? Non servono a nulla. Mi auguro che Berlusconi possa dimostrare la sua innocenza» . Asse per le primarie
di Maria Teresa Meli
ROMA— Sono tutti là. Walter Veltroni, il leader del Pd originale, quello prima versione, che fa gli onori di casa ai due ospiti. Sergio Chiamparino, che poteva essere leader ma che poi ha preferito finire il suo mandato di sindaco di Torino. E Matteo Renzi, il leader che verrà. Sono tutti insieme al teatro dei Servi a Roma, per un convegno di Democratica, la fondazione di Veltroni. Parlano linguaggi differenti tra di loro, ma un filo li unisce, e anni luce li allontanano da Bersani e dal «suo» Pd. Renzi più di ogni altro in quella sala rappresenta la rottura con certe liturgie della politica del centrosinistra. Arriva senza essersi nemmeno tolto dal viso il cerone che ha messo per partecipare a Matrix. Nessun altro lì lo avrebbe fatto, per timore di un possibile accostamento a Berlusconi. Lui sì. Anche perché di questa «ossessione del Pd» per il premier è bello che stufo. Per questo non esita a dire quello che gli altri due si limitano a pensare: «La raccolta di firme non serve a nulla» . Il suo linguaggio è diverso e diretto: «Spesso raccontiamo un’Italia triste e i nostri in tv sono tristi e polemici. Però è a Roma e in Parlamento che è così, sul territorio è tutta un’altra storia» . Non si preoccupa di abbattere un totem del centrosinistra, la concertazione: «Io sono contrario, andava bene all’epoca di Ciampi, per il governo nazionale, ma non può essere replicata in sedicesimo in tutte le città italiane» . Non rinnega la rottamazione, anche se ha abbandonato i rottamatori: «Il senso era di dire: gente non potete svernare in Parlamento... c’è chi ci ha fatto le ragnatele lì» . Il sindaco di Firenze non risparmia critiche a nessuno, nemmeno al Bersani che non vuole mettere il suo nome sul simbolo del partito: «È una decisione che ci riporta indietro di 30 anni» . E fa anche di più, rompe un tabù che non romperebbe anima viva nel centrosinistra: «Io mi auguro — e so che verrò criticato per questo— che Berlusconi possa dimostrare la sua innocenza al processo perché in un Paese civile non si augura una condanna a nessuno» . Tutte parole che farebbero rabbrividire Rosy Bindi, che, però, lì non c’è: il suo Pd non è sicuramente quello che Veltroni ha deciso di mandare in scena al teatro dei Servi. Dunque, il sindaco di Firenze non nasconde la sua diversità, non si trincera dietro giri di parole o astuzie diplomatiche, non abbraccia la cautela. E questo lo rende differente anche da Veltroni e da Chiamparino. Ma poi Renzi parla lo stesso linguaggio del sindaco di Torino — e viceversa — quando si tratta di delineare il Pd come dovrebbe essere e come non è. Per il sindaco di Torino «la sinistra fa un’analisi inadeguata di come evolve la società italiana» . Per Renzi il Pd perso nel suo antiberlusconismo non ha altra identità se non questa e non rappresenta quindi un’alternativa di governo. Entrambi sono ostili alla Santa Alleanza. «Va rivista questa strategia» , dice il sindaco di Torino. E quello di Firenze: «Basta con gli inciuci, le ammucchiate e i tatticismi, smettiamola di inseguire Fini, Bocchino o altri statisti di questo tipo» . Anche sulle primarie la pensano nello stesso modo. Per Chiamparino «sono il metodo più trasparente e democratico» , tanto più che i partiti «non hanno più autorevolezza» . Per Renzi «non si può chiedere agli elettori di andare nelle sezioni, anche perché la maggior parte sono chiuse» , perciò bisogna coinvolgerli con le primarie: «È assurdo che decidano i gruppi dirigenti dei partiti che non rappresentano più niente» . Veltroni, soddisfatto, guarda Renzi e Chiamparino, seduto in prima fila. Sale sul palco solo alla fine per un discorsetto di due minuti. Annuncia che la settimana prossima presenterà un ddl per istituire le primarie per legge. Poi chiude così: «Non basta sostenere che questo è l’autunno del Paese, bisogna preparare la primavera» . Come a dire: caro Bersani, non puoi solo parlar male di Berlusconi devi anche dire che cosa vuoi fare tu per costruire un’alternativa credibile. Ma in quella sala tutti sembrano guardare a Renzi per quell’alternativa. Lui sorride, nega di essere sceso in campo, ma da un mese è in campagna elettorale per preparare la sua futura candidatura.
l’Unità 10.3.11
AlbertoTedesco sentito dalla commissione per le autorizzazioni a procedere del Senato
«Contro di me c’è un chiaro “fumus persecutionis”»
«Vendola sapeva tutto ciò che so io»
«Non c’è strumentalizzazione ma le indagini sono sbagliate»
L’ex assessore alla Sanità pugliese, del quale è stato chiesto l’arresto, sentito ieri dalla commissione per le autorizzazioni a procedere del Senato. I reati sarebbero stati commessi in concorso con altre 24 persone.
di Ivan Cimarrusti
«Escludo strumentalizzazione politica dei pm, altrimenti li avrei denunciati. Ma le indagini sulla sanità in Puglia hanno avuto un’impostazione e una gestione sbagliate, arrivando a conclusioni inattendibili, non supportate da prove». Queste le parole pronunciate dall’ex assessore alla Sanità pugliese e senatore del gruppo Misto (autosospesosi dal Pd), Alberto Tedesco, al termine dell’audizione di ieri davanti alla commissione per le autorizzazioni a procedere di Palazzo Madama. L’arresto, chiesto dalla Procura, è stato disposto dal gip per i reati, di concorso con altre 24 persone, in concussione, turbata libertà degli incanti e falso ideologico. Nei confronti del senatore e di alcuni degli indagati è ipotizzato anche il reato di associazione per delinquere, venuto meno sulla base della decisione del gip. Per questo i pm hanno impugnato l’ordinanza nella parte in cui escludere l’esistenza del reato associativo.
IL FUMUS PERSECUTIONIS
«C’è stato “fumus persecutionis” da parte dei pm continua Tedesco -. Sulla gestione della sanità, Nichi Vendola sapeva esattamente quanto ne sapevo io. Non poteva non conoscere quanto accadeva nel governo del settore più rilevante della Regione, che assorbe il 75% del bilancio», e aggiunge, che «c’è un fatto che non è stato messo in luce: gli stessi pm al gip Sergio Di Paola hanno chiesto, e ottenuto, di archiviare l’accusa di concussione per me e Vendola. Ma per lo stesso identico fatto, ma in un altro procedimento e ipotizzando un altro reato (abuso d’ufficio, ndr), hanno chiesto al gip Giuseppe De Benedictis il mio arresto. Lo stesso gip De Benedictis aggiunge ha individuato questa incongruenza nell’accusa, chiedendosi perché per Tedesco sono reati e per altri no?». Infine, conclude il senatore, «dopo tre anni di indagini mi sarei aspettato una conclusione delle indagini, un rinvio a giudizio, ma una richiesta di arresto, non ha alcun senso non soltanto a detta mia, ma anche a detta di chi ha guardato le carte dell’accusa».
l’Unità 10.3.11
Biotestamento, «ossessione eutanasia»
Conclusa la discussione a Montecitorio, il voto ad aprile L’Idv presenta una pregiudiziale di costituzionalita
di Federica Fantozzi
Conclusa a Montecitorio la discussione sul biotestamento. E l’aula si prende un mese di tempo per metabolizzarla: il voto finale è previsto ad aprile. Ma un’intesa tra gli schieramenti resta lontana.
Il Pd, per bocca di Rosa Calipari, ha parlato di legge «irragionevole e anticostituzionale». IdV ha presentato una questione pregiudiziale di costituzionalità: il testo Calabrò violerebbe l’articolo 32 della Carta che pone limiti rigorosi all’obbligo di trattamenti sanitari. Prosegue il sit in dei Radicali sul piazzale di Montecitorio: slogan contro gli «aguzzini coi sondini», un cappio fatto con un sondino. Beppino Englaro, ieri alla conferenza stampa dipietrista, ha ribadito la sua contrarietà al testo: «C’è una maledetta ossessione sull’eutanasia, che non ha niente a che fare con tutto questo». Il padre di Eluana, la giovane donna morta due anni fa per l’interruzione della nutrizione artificiale dopo 17 anni di coma, ha spiegato: «Non voglio essere vittima sacrificale del non potere dei medici né vittima del conflitto di poteri del Parlamento».
Ma al di là dell’impatto negativo nella società (cittadini, associazioni, medici chirurghi, anestesisti, amministrazioni che hanno istituito il registro del biotestamento) il nodo principale è tutto interno al PdL. Passato l’entusiasmo, quando diversi parlamentari del centrodestra raccontavano di aver ricevuto pressioni per votare il ddl a pena di mancata ricandidatura, Berlusconi sembra di nuovo distaccato.
Il segnale del rompete le righe è arrivato da giorni sul Foglio, guidato dallo stesso Giuliano Ferrara e da Sandro Bondi. Ieri il quotidiano ospitava un appello bipartisan contro il testo «illiberale» firmato da Bondi, Manconi, Calderisi, Versace, Pecorella, Sandra Zampa, Mazzuca, Ferruccio Saro.
Sintomi del malessere nella maggioranza, dove il sostegno alla linea intransigente Sacconi-Roccella si fa più sfumato. Esponendo la maggioranza al rischio di fuoco amico in caso di voti segreti, tutt’altro che improbabili su questioni di coscienza.
Per ora, poi, non è riuscito il tentativo di spaccare il (fragile) Pd sul tema: i cattolici, compreso Fioroni, hanno detto che non voteranno il testo così com’è. Il sentiero però è stretto, e Di Pietro ha avuto buon gioco a stanare «l’ipocrisia dei partiti che lasciano libertà di coscienza». Al momento l’impressione è che per il testamento biologico la parola fine sia ancora lontana.
Corriere della Sera 10.3.11
Fondo dello spettacolo, decurtati altri 27 milioni
di Mario Sensini
Al ministero dei Beni culturali la definiscono «un’amara sorpresa, che lascia sgomenti ed interdetti» . Certo, l’ennesimo taglio al Fondo unico per lo Spettacolo, sistematicamente decimato dalle ultime Leggi finanziarie, fin quasi a essere dimezzato rispetto agli anni d’oro, non è una bella notizia. Peccato che la cosa era nell’aria da tempo, per l’esattezza da quattro mesi, cioè da quando il Parlamento ha approvato la nuova legge di bilancio, che ora si chiama Legge di Stabilità, per il 2011. Quella legge assegnava al Fondo unico per lo Spettacolo uno stanziamento, già ridotto rispetto al 2010, di 258 milioni di euro. I soldi sarebbero arrivati dall’asta per l’assegnazione delle frequenze liberate dal passaggio dalla tv analogica a quella digitale. Ma in quella stessa legge c’era una clausola di salvaguardia esplicita, pretesa dal ministro dell’Economia, Giulio Tremonti: se fosse venuta meno la prospettiva di incassare il previsto dall’asta delle frequenze (2,4 miliardi di euro in tutto), sarebbe stata congelata una parte delle dotazioni dei ministri per l’anno in corso. E così è stato. Le procedure per l’asta non decollano, mentre i soldi sarebbero dovuti entrare non oltre la fine di settembre, e il Tesoro è corso ai ripari, tirando fuori di nuovo le forbici dal cassetto. L’unica «consolazione» per il ministero dei Beni culturali è che il taglio delle risorse disponibili per quest’anno riguarda i fondi gestiti da tutti i ministeri, con due sole eccezioni: il Fondo ordinario delle Università e le risorse destinate al finanziamento del 5 per mille dell’Irpef al volontariato. Per Sandro Bondi, che ha già espresso al presidente del Consiglio la volontà di lasciare i Beni culturali perché si sente abbandonato, è comunque un boccone amarissimo da digerire. Il Fondo unico per lo Spettacolo, con il nuovo intervento del ministero dell’Economia, viene decurtato di 27 milioni, che saranno congelati fino alla fine dell’anno. «E che di fatto non potranno essere utilmente ripartiti tra le varie voci del Fondo» sostengono al ministero guidato da Bondi. Fatto sta che nel piatto dei Beni culturali, si fa sapere, ci saranno solo 231 milioni di euro da dividere. E la Consulta dello Spettacolo sarà chiamata a dare il parere sulla ripartizione dei fondi nelle diverse realtà (cinema, musica, danza, teatro, e così via) proprio tra pochi giorni. Difficile che da qui ad allora il quadro possa cambiare. Tutto dipende dall’asta delle frequenze, ma su quel fronte la situazione è ferma. L’Autorità per le Comunicazioni ha avviato le procedure, e ha chiesto che si costituisca un comitato di ministri per gestire l’asta. Una richiesta rivolta al ministero dello Sviluppo e a Palazzo Chigi già da qualche settimana. E che ancora non ha avuto risposta.
La Stampa 10.3.11
La nostra identità una e centomila
L’incontro con l’altro non deve fare paura: tutti i gruppi umani sono in sé pluriculturali
di Tzvetan Todorov
Insiemi complessi. C’è la cultura delle età, dei mestieri, dei sessi, delle posizioni sociali
Una cultura vive se cambia Il latino è morto quando non ha più potuto cambiare
Siamo tutti meticci. Ogni Paese è segnato nel tempo dal contatto con più popolazioni”
Quanto segue è uno stralcio del saggio di Tzvetan Todorovcontenuto nel nuovo numero di Vita e Pensiero , il bimestrale dell’Università Cattolica di Milano, che esce in questi giorni.Filosofo e saggista di origine bulgara, Todorov ha studiato a Parigi con Roland Barthes. Tra le sue opere più recenti Il nuovo disordine mondiale , La letteratura in pericolo , La paura dei barbari , La bellezza salverà il mondo .
Per affrontare il tema della pluralità delle culture nell’ambito di una società, mi vedo obbligato a precisare anzitutto il senso della parola «cultura». Lo impiegherò nell’accezione che, da oltre un secolo, le hanno dato gli etnologi. In tale senso ampio, descrittivo e non valutativo, ogni gruppo umano ha una cultura: è il nome dato all’insieme delle caratteristiche della sua vita sociale, ai modi di vivere e di pensare collettivi, alle forme e agli stili di organizzazione del tempo e dello spazio, e questo include la lingua, la religione, le strutture familiari, i modi di costruzione delle case, gli utensili, i modi di mangiare e di vestirsi. I membri del gruppo, inoltre, qualunque siano le sue dimensioni, interiorizzano tali caratteristiche sotto forma di rappresentazioni mentali. La cultura esiste dunque a due livelli strettamente correlati: quello delle pratiche comuni al gruppo e quello dell’immagine che esse lasciano nello spirito dei membri della comunità.
L’essere umano – ed è una delle caratteristiche che lo contraddistinguono – nasce nell’ambito non solo della natura, ma anche, sempre e necessariamente, di una cultura. La prima caratteristica dell’identità culturale è che essa è imposta al bambino e non da lui scelta. Venendo al mondo, il piccolo dell’uomo è immerso nella cultura del suo gruppo, che gli è anteriore. Il fatto più saliente, ma probabilmente anche il più determinante, è che noi nasciamo necessariamente nell’ambito di una lingua, quella parlata dai nostri genitori o dalle persone che si prendono cura di noi. Il bambino non può evitare di adottarla. Ebbene, la lingua non è uno strumento neutro, è intrisa di pensieri, azioni, giudizi ereditati dal passato; essa ritaglia il reale in una data maniera e ci trasmette impercettibilmente una visione del mondo.
Una seconda caratteristica dell’appartenenza culturale salta parimenti agli occhi: possediamo non una, bensì parecchie identità culturali, che possono incastrarsi o presentarsi come insiemi intersecati. Un francese (per fare un esempio legato alla mia esperienza; ma lo stesso vale per italiani, spagnoli, inglesi…) proviene sempre da una regione, poniamo che sia bretone, e però condivide parecchie delle caratteristiche di tutti gli europei: dunque partecipa al tempo stesso delle culture bretone, francese ed europea. D’altra parte, all’interno di un’unica entità geografica, le stratificazioni culturali sono molteplici: ci sono la cultura degli adolescenti e quella dei pensionati, la cultura dei medici e quella degli spazzini, la cultura delle donne e quella degli uomini, dei ricchi e dei poveri. Un individuo può riconoscersi al tempo stesso nella cultura mediterranea, cristiana ed europea: criteri geografico, religioso e politico. Ebbene – e questo è essenziale – tali diverse identità culturali non coincidono tra loro, non formano territori chiaramente delimitati dove i diversi ingredienti si sovrappongono. Ogni individuo è pluriculturale; la sua cultura non assomiglia a un’isola monolitica, ma si presenta come il risultato di alluvioni che si sono incrociate.
Sotto questo aspetto la cultura collettiva, quella di un gruppo umano, non è diversa. La cultura di un Paese come la Francia è un insieme complesso, fatto di culture particolari, le stesse nelle quali si riconosce l’individuo: quelle delle regioni e dei mestieri, delle età e dei sessi, delle posizioni sociali e degli orientamenti spirituali. Ogni cultura, inoltre, è segnata dal contatto con quelle vicine. L’origine di una cultura si trova sempre nelle culture anteriori: nell’incontro tra più culture di dimensioni minori o nella scomposizione di una cultura più vasta, o nell’interazione con una cultura vicina. Non accediamo mai a una vita umana anteriore all’avvento della cultura. E non a caso: le caratteristiche «culturali» sono già presenti in altri animali, segnatamente nei primati. Non esistono culture pure e culture mischiate; tutte le culture sono miste («ibride» o «meticcie»). I contatti tra gruppi umani risalgono alle origini della specie e lasciano sempre tracce sul modo in cui i membri di ogni gruppo comunicano tra loro. Per quanto lontano si possa risalire nella storia di un Paese come la Francia, si trova sempre un incontro tra più popolazioni, dunque più culture: galli, franchi, romani e molti altri.
Siamo giunti così a una terza caratteristica della cultura: quella di essere necessariamente mutevole. Tutte le culture cambiano, anche se è certo che quelle dette «tradizionali» lo fanno meno volentieri e meno rapidamente di quelle cosiddette «moderne». Tali cambiamenti hanno molteplici ragioni. Poiché ogni cultura ne ingloba altre, o si interseca con altre, i suoi diversi ingredienti formano un equilibrio instabile. Ad esempio, la concessione del diritto di voto alle donne in Francia, nel 1944, ha permesso loro di partecipare attivamente alla vita pubblica del Paese: l’identità culturale francese ne è stata trasformata. Allo stesso modo quando, ventitré anni dopo, le donne hanno ottenuto il diritto alla contraccezione, questo ha portato con sé una nuova mutazione della cultura francese. Se l’identità culturale non dovesse cambiare, la Francia non sarebbe diventata cristiana, in un primo tempo; laica, in un secondo. Accanto a queste tensioni interne ci sono anche i contatti esterni con culture vicine o lontane, che provocano a loro volta modificazioni. Prima d’influenzare le altre culture del mondo, la cultura europea aveva già assorbito le influenze egiziana, mesopotamica, persiana, indiana, islamica, cinese… A ciò si aggiungono le pressioni esercitate dall’evoluzione di altri elementi costitutivi dell’ordine sociale: economico, politico, persino fisico.
Se si tengono presenti queste ultime caratteristiche della cultura, la sua pluralità e la sua variabilità, si vede quanto siano fuorvianti le metafore utilizzate più comunemente. Di un essere umano si dice, ad esempio, che è «radicato» e lo si deplora; ma tale assimilazione degli uomini alle piante è illegittima, poiché il mondo animale si distingue dal mondo vegetale proprio per la sua mobilità, e l’uomo non è mai il prodotto di un’unica cultura. Le culture non hanno essenza né «anima», malgrado le belle pagine scritte su quest’argomento. O ancora, si parla della «sopravvivenza» di una cultura, intendendo con ciò la sua conservazione identica. Ebbene, una cultura che non cambia più è, esattamente, una cultura morta. L’espressione «lingua morta» è molto più fondata: il latino è morto il giorno in cui non poteva più cambiare. Nulla è più normale, più comune, della scomparsa di uno stato precedente della cultura e della sua sostituzione con uno stato nuovo.
Repubblica 10.3.11
Lo spirito di Port-Royal
Tra Sant’Agostino e Pascal, storia del pensiero forte
di Pietro Citati
Ripubblicato il capolavoro di Sainte-Beuve che racconta idee e protagonisti di un´epoca d´oro Da Montaigne a Voltaire, radici e influenze della filosofia nata nell´abbazia francese
Un´opera vastissima dove ogni lettore può trovare il suo alimento
Il cuore sta nella famiglia Arnauld e nella Grazia come illuminazione radiosa e dono
È uscito da Einaudi il PortRoyal di Sainte-Beuve (a cura di Mario Richter, vol. I-II, pagg. XCI-2100, euro 150), da molto tempo esaurito nelle librerie italiane, e nella Pléiade di Gallimard. Parlare di evento è poco. Il Port-Royal è uno dei rarissimi capolavori della storiografia di ogni tempo e di ogni paese; e va posto accanto ai libri supremi; Erodoto, Tucidide, Senofonte, Curzio Rufo, Ammiano Marcellino, Beda, Liutprando, Guicciardini, Gibbon.
Il Port-Royal è un libro straordinariamente vasto. Comincia con Montaigne e finisce con Voltaire: discorre volubilmente di tutto: storia politica, guerre, storia morale, letteratura, eloquenza, religione, psicologia, paesaggio; e non si arresta mai senza aver esaurito le sue innumerevoli forme. Appaiono i grandi della letteratura e della religione; e centinaia di piccoli ritratti: figure in movimento, devote, profonde, solenni, frivole, drammatiche, avventurose. Alla fine, Port-Royal basta a tutti. Ogni lettore possibile vi trova il suo alimento definitivo.
Il libro comincia, o finge di cominciare, nel cuore del sedicesimo secolo, con Montaigne e San Francesco di Sales. Da principio, Sainte-Beuve sembra vicinissimo a Montaigne: mobile, frivolo, cangiante, multiforme, fluttuante, morbido, frantumato, molle, analogico, onnipresente: parla come Montaigne, conserva fedelmente nella memoria i libri che egli amava – e poi, all´improvviso, abbandona il suo meraviglioso modello. Solo alla fine comprendiamo che il romantico profondamente cristiano che abita in Sainte-Beuve non sopporta il profondo acristianesimo degli Essais. Verso San Francesco di Sales e la sua "dolce devozione interiore", Sainte-Beuve ha una simpatia intensissima: ama quella piacevole abbondanza di parole, quella fioritura graziosamente famigliare di immagini, quelle "siepi profumate di similitudini": ma presto si rende conto che la strada verso Port-Royal lo porterà in luoghi diversi. Sono le diverse "famiglie naturali" degli spiriti, tra le quali Sainte-Beuve muove, oscilla, guizza con una versatilità colorata.
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Per Sainte-Beuve, Port-Royal des Champs e Port-Royal de Paris sono due paesaggi della natura e dello spirito: due Gerusalemmi celesti, che occupano un posto unico in terra. Port-Royal des Champs era un monastero medioevale cistercense, fondato nel 1204 nella valle della Chevreuse: mentre il secondo Port-Royal era stato costruito nel faubourg Saint-Jacques, a Parigi. Sainte-Beuve ama questi due luoghi: inquieto, sofferente, curioso dei fiori nascosti dell´anima, vi era penetrato da giovane, visitando i boschi, gli edifici, gli stagni, i chiostri, e camminando lungo le navate: aveva ascoltato le preghiere, i pianti, gli inni dei monaci mentre guardava commosso la loro folla raccolta attorno a lui, per trovare finalmente una voce. Era la sua voce: la sua morbida e inquieta voce; la sola che poteva prestare a tutti i fantasmi di Port-Royal.
Il cuore di Port-Royal era, per Sainte-Beuve, la famiglia Arnauld, con tutti i parenti vicini e lontani, e gli amici e gli affini. Come amava dire, si trattava di una vasta famiglia d´anime, segnata da un timbro inconfondibile. Era, in primo luogo, una tribù di patriarchi borghesi, profumati di Bibbia, con la devozione di una dinastia cinquecentesca. Possedevano un´autorità naturale: una eloquenza che preferiva la parola orale a quella scritta: una moderazione rigorosa: la grandezza romana o spagnola del gesto. Avevano un coraggio guerriero: nessun timore dei potenti: pervicacia: urbanità: ardore; e un´ironia sottilissima, lo spirito di Port-Royal, che comunicarono al più spiritoso di tutti i solitari: Pascal.
Qualcuno dei loro amici, e dei loro nemici, scrisse che gli Arnauld, in qualsiasi momento della loro esistenza, erano posseduti da un pensiero unico, da una parola misteriosa, la Grazia. Ma cos´era la Grazia? Ne aveva parlato Sant´Agostino; e Giansenio. La Grazia era un´illuminazione radiosissima: un dono inesplicabile, che scendeva da chissà dove; ma anche un lavoro, una fatica dura e persistente, che impregnava le giornate degli Arnauld. Se si guardavano attorno, nei campi e nelle chiese di Port-Royal, tutto era grazia: innumerevoli scintille di grazia. Armati con questo strumento dolcissimo e terribile, essi distinguevano e classificavano le vocazioni, i talenti, le ispirazioni di Dio: educavano le famiglie degli spiriti. Così nascevano le grandi menti, ardenti e insaziabili, nutrite di religione: la grandezza e la follia cristiana, il vero argomento di Sainte-Beuve.
Più ancora dei monaci, Sainte-Beuve amava le Madri di Port-Royal; e la più grande di tutte, Madre Angélique. Ne parlava incessantemente e ne trascriveva le lettere, con una passione che non finiva di esaurirsi, come se soltanto in una monaca potesse calarsi l´occulto e manifesto spirito di Cristo. Quale grandezza, quale dolcezza, quale devozione, quale rispetto, quale timore di Dio; e anche quale grazia ironica, perché, come disse una volta Cristina Campo, solo le sante sono (o erano) spiritose. Così queste donne austerissime, perennemente in preghiera, avevano un immenso successo mondano. Intorno a Madre Angélique svolazzavano le spiritose e graziose dame gianseniste: madame de Sablé, madame de Sévigné, madame de La Fayette, madame de Longueville, coi loro sterminati epistolari.
Port Royal ha un culmine: Pascal, rappresentato con una complessità e una tensione grandiose. Non c´è niente di più terribile delle nevrosi e dei traumi di Pascal: durante un incidente, Pascal perde i sensi e pochi giorni dopo viene illuminato da una visione: le lunghissime insonnie, appena alleviate dai notturni esercizi di geometria; l´angoscia dell´abisso, aperto come una ferita vertiginosa al suo lato sinistro. Sainte-Beuve adorava la leggera, irrispettosa, insolente ironia delle Provinciales: la tremenda forza di volontà che nelle Pensées assoggettava la facoltà di ricerca: la percezione netta e sottile del reale; e la perfezione sovrana dell´intelletto, che conosceva soltanto ciò che è puro e distinto.
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Sainte-Beuve non amava, in Port-Royal, tutto ciò che di solito veniva definito giansenista. Non poteva dimenticare di essere un figlio di Rousseau, un fratello di Lamartine e di Lamennais, un futuro parente di Nerval e di Baudelaire. Leggendo le pagine di Arnauld, di Giansenio e di Nicole, le trovava troppo rigide, troppo contratte, e soprattutto senza colore, linfa e sangue. Mancavano di quella vita, che affluiva così liberamente negli Essais di Montaigne e negli scritti di Pascal.
Port-Royal fu ucciso da questa sterilità, oltre che dalle paurose persecuzioni politiche. La furia della menzogna e del male, l´orgoglio di Luigi XIV e dei vescovi si scatenarono sopra la piccola chiesa e i cori, che con voci celestiali ed austere avevano invocato Dio. L´autunno scese rapidamente. Port-Royal diventò una fortezza assediata, che il potere voleva conquistare per inedia. Le monache diminuirono. Le converse scomparvero. Durante i primi anni del diciottesimo secolo, sul Journal di Port-Royal si leggevano soltanto uffici di defunti, brevi commemorazioni funebri. L´antico monastero cistercense si trasformò in una necropoli sacra. Le salme dei monaci e delle monache venivano esumate e trasportate in altre chiese. La valle di Port-Royal diventò un immenso ossario, dove le zappe dei becchini rimuovevano incessantemente un terreno arido, dal quale un tempo tanta vita spirituale era sgorgata.
Repubblica 10.3.11
Due nuove traduzioni con scelte "più al passo con i tempi"
Così l’America aggiorna la Bibbia
Le versioni rivedute hanno l´imprimatur della chiesa cattolica e degli evangelici
NEW YORK. Come best-seller rimane il dominatore incontrastato di tutti i tempi: 415 milioni di copie vendute solo in America, per le due versioni più popolari. Eppure ogni riedizione di questo testo ha ancora la capacità di fare notizia, accendere la curiosità, innescare le controversie. Ovviamente è la Bibbia, di cui arrivano in simultanea, opportunamente lanciate nel mercoledì delle ceneri, due nuove traduzioni "aggiornate". Si tratta di due versioni dell´Antico Testamento che hanno l´imprimatur della Chiesa cattolica e degli evangelici: le due edizioni di gran lunga più diffuse tra i fedeli negli Stati Uniti.
L´evento fa scalpore perché da diversi decenni né l´una né l´altra traduzione ufficiale erano state cambiate (nel caso della cattolica dal 1970, per quella evangelica dal 1984). Ma ancora di più, l´attenzione è legata alle operazioni "linguistiche". Gli adattamenti sono fatti in nome della modernità: per avvicinarsi al linguaggio parlato di oggi, per non perdere contatto coi giovani, e così via. Ma dietro questi interventi "tecnici" spuntano scelte di valori, possibili innovazioni interpretative, ed è qui che gli appigli per le controversie si moltiplicano. La New American Bible (cattolica) sceglie "sacrificio bruciato" al posto di "olocausto" perché questa seconda parola ha assunto storicamente un significato troppo pregnante, che oblitera la sua origine più antica.
Fin qui nessun problema, come per altre scelte linguistiche che, nel giudizio del Washington Post, "suonano al tempo stesso più poetiche e più contemporanee". Si entra su un terreno minato invece nella traduzione del brano di Isaia 7: 14, dove si dice che "una giovane donna", non più "una vergine", concepirà e avrà un figlio. In nome del politically correct, sparisce un riferimento alla profezia su Maria? In quanto alla New International Version (la Bibbia dei protestanti evangelici), al posto della "natura peccaminosa" mette "la carne". Secondo Doug Moo, presidente del comitato di 15 esperti che hanno realizzato la nuova traduzione, questo "lascia aperta per i lettori la questione se il peccato sia un aspetto fondamentale della nostra natura, o solo una delle tante forze esterne a cui siamo esposti". Laddove certi passaggi della Bibbia tradotta nel 1984 escludevano le donne dall´"esercitare autorità" sugli uomini nella Chiesa, ora sono escluse solo dall´"assumere" il potere. Nelle note si spiega che "sta all´interpretazione individuale decidere se questo si riferisca a tutte le forme di autorità sugli uomini nella Chiesa, o solo a certi contesti". Più ardita e controcorrente è la correzione che gli esperti evangelici introducono nella Genesi. Nel 1984 sotto la pressione del femminismo Dio non faceva "gli uomini a sua immagine e somiglianza", bensì "gli esseri umani" che include ambo i sessi. Oggi si torna a una versione più fedele all´originale: "mankind", che significa l´umanità ma contiene la parola "uomo", al maschile. Sottigliezze che tuttavia non hanno più il peso politico di una volta: oggi l´americano medio ha a disposizione sul suo telefonino 50 applicazioni con altrettante interpretazioni diverse della Bibbia.
Il Sole 24 Ore 10.3.11
Benedetto XVI dedica il suo nuovo libro alla difesa della storicità di Cristo
di Massimo Donaddio
http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2011-03-09/benedetto-dedica-nuovo-libro-124251.shtml?uuid=Aa11hhED&cmpid=nl_7%2Boggi_sole24ore_com
Joseph Ratzinger ce l'ha fatta. Giovedì 10 marzo uscirà il secondo volume dell'opera dedicata a Gesù di Nazaret, culmine della sua attività di teologo nella Chiesa cattolica. Un'opera che si presenta come una trilogia (manca ancora il volume dedicato ai vangeli dell'infanzia), ma di cui la sezione appena pubblicata è decisamente centrale dal punto di vista del valore e del significato.
Ratzinger aveva già dato alle stampe nel 2007 il primo libro, dedicato al ministero pubblico di Gesù, mentre quello in uscita ora tratta degli eventi decisivi della passione, morte e risurrezione del rabbi di Nazaret, cuore dell'annuncio della fede cristiana. Come precisato dallo stesso pontefice, il libro non è un atto del magistero cattolico, ma vuole essere espressione della «ricerca personale del volto del Signore» da parte del teologo Ratzinger. È chiaro però che un libro pubblicato dal pontefice non può essere archiviato come uno dei tanti testi di teologia biblica che affollano gli scaffali delle università e delle librerie specializzate, ma è inevitabilmente – come fu nella prima occasione – destinato a far dibattere e a suggerire una linea interpretativa con la quale gli studiosi dovranno entrare in contatto, magari anche dialetticamente. Anche perché, come ben fanno cogliere già solo gli estratti diffusi prima dell'uscita del testo, Joseph Ratzinger non esita a prendere posizione a favore di una tesi piuttosto che di un'altra, a dar ragione a uno studioso piuttosto che a un altro, facendo nomi e cognomi nella massima trasparenza. Emblematico il caso dell'ultima cena di Cristo, che il pontefice, in accordo con il Vangelo di Giovanni e con il grande esegeta cattolico John Meier (autore della monumentale opera Un ebreo marginale), definisce come non-pasquale.
Che la questione-Gesù sia al centro dell'interesse di Joseph Ratzinger è testimoniato anche da un'operazione inedita, che serve proprio a diffondere il più possibile la conoscenza di questo libro anche presso il pubblico televisivo: l'accordo stabilito con la Rai e la trasmissione religiosa "A sua immagine", alla quale il papa rilascerà un'intervista su Gesù (registrata) che verrà diffusa in tv proprio il Venerdì Santo intorno alle ore 15 (l'ora in cui, secondo i vangeli, sarebbe morto Cristo).
Il papa ha sempre dichiarato (anche nel suo recente libro-intervista "Luce del mondo") che la figura di Gesù Cristo sta al cuore della sua spiritualità di religioso e di teologo. Questa affermazione è stata da lui dimostrata svariate volte nella sua produzione saggistica e anche nella sua attività di prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Emblematica fu la dichiarazione Dominus Jesus "circa l'unicità e l'universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa", che provocò alcuni maldipancia ai fautori di un ecumenismo senza barriere e fece sospirare di sollievo il cardinale Giacomo Biffi (che comunque non rinunciò a una delle sue folgoranti battute: si era mai reso necessario in duemila anni di cristianesimo ribadire che Gesù Cristo è fondamentale per la salvezza dell'uomo?).
La genesi della fatica letteraria di Ratzinger (che ha dichiarato di sfruttare ogni momento libero dai suoi impegni pontifici per studiare e scrivere) va rintracciata nel suo desiderio di portare un contributo significativo in un contesto culturale in cui le fondamenta storiche delle origini cristiane e la stessa questione della storicità di Cristo vengono aggredite da molti lati. Una percezione viva nei settori più dinamici della Chiesa cattolica ma forse non ancora adeguatamente passata nella maggior parte del clero e dell'episcopato. Una percezione ben presente, invece, nella mente di papa Joseph Ratzinger.
Da quali lati arrivano gli attacchi alla figura storica di Gesù Cristo che preoccupano il papa? Da un lato studi e ricerche (anche qualificate) soprattutto di matrice anglossassone (ma non solo), che mirano a decostruire l'immagine tradizionale delle origini cristiane con metodologie scientifiche; dall'altro un'esplosione di contenuti mediatici che riportano (a volte in maniera acritica o grossolana) estratti di questi studi rilanciandoli al di fuori dei protetti ambienti universitari e dandoli in pasto al grande pubblico.
Un esempio lampante è quello del Jesus Seminar, che ha riunito negli Stati Uniti dagli anni Ottanta circa 150 specialisti in scienze bibliche e ha adottato un metodo di votazione con palline colorate per stabilire una visione collettiva sulla storicità di Gesù, in particolare riguardo a ciò che può o non può aver detto e fatto in quanto figura storica. Un procedimento "democratico" (molto simile a quello dei filosofi del circolo di Vienna) che non ha però potuto riconsegnare una visione chiara e condivisa del Gesù storico. L'esperimento è stato ora ripreso da The Jesus Project.
In campo italiano è molto attivo il prof. Mauro Pesce dell'università di Bologna, autore, insieme al giornalista Corrado Augias, del fortunato libro Inchiesta su Gesù, nel quale esprimeva in maniera divulgativa le sue tesi frutto di anni di ricerca storica indipendente. Pesce, autore anche de Le parole dimenticate di Gesù e di L'uomo Gesù. Luoghi, giorni, incontri di una vita (scritto con l'antropologa Adriana Destro), lavora tenendo in considerazione in egual modo tutti gli scritti più antichi del cristianesimo nascente (canonici e apocrifi), rifiutando l'idea di studiarli all'interno del canone del Nuovo Testamento (che sarebbe una riclassificazione molto posteriore alle origini cristiane), ma confrontando minuziosamente i testi con i reperti archeologici, sulla base di una metodo che si allarga fino a comprendere la sociologia e l'antropologia culturale del mondo antico palestinese.
Accanto a questi contributi, sfidanti per il cristianesimo "ufficiale" e la Chiesa, si aggiungono poi moltissimi contenuti più o meno scandalistici o polemici veicolati dai mass media. Dall'eclatante successo del Codice da Vinci di Dan Brown, un romanzo che, con un artificio retorico, si proponeva come "storico", al Vangelo gnostico di Giuda, scoperto nel 1978, restaurato completamente nel 2001 e pubblicato in italiano nel 2006 da National Geographic, fino ai libri e all'attività divulgativa del matematico Piergiorgio Odifreddi e dell'ateologo francese Michel Onfray. Sono, inoltre, molti i siti internet che negano l'esistenza storica di Gesù (vai alla scheda) oppure cercano di demolire le certezze fondamentali del cristianesimo. Due esempi: il sito sulla "tomba di Gesù", ossia il portale che descrive i sondaggi archeologici sulla tomba e gli ossari ritrovati presso Talpiot, a sud di Gerusalemme, e Zeitgeist, il cliccatissimo filmato del Venus Project (sottotitolato anche in italiano), che tratta della religione cristiana come fosse un mito, comparando la storia del Cristo con quella di diverse religioni precedenti, in particolare con il mito egiziano di Horus, e propone una lettura della Bibbia su base "astronomica".
In questo contesto problematico si colloca il libro del papa, che, nella prefazione del primo volume, pur apprezzando e servendosi dei contributi della metodologia storico-critica, afferma che questi hanno portato a «distinzioni sempre più sottili tra i diversi strati della tradizione. Dietro di essi la figura di Gesù, su cui poggia la fede, divenne sempre più incerta, prese contorni sempre meno definiti». Tutti questi tentativi, prosegue ancora il papa, hanno avuto l'esito di lasciare l'impressione «che noi sappiamo ben poco di certo su Gesù e che solo più tardi la sua fede nella divinità ha plasmato la sua immagine». Da qui lo sforzo di Ratzinger di tornare al Gesù dei vangeli, presentandolo come il "Gesù storico" nel senso autentico del termine. «Io sono convinto – scrive il papa – e spero se ne possa rendere conto anche il lettore – che questa figura è molto più comprensibile delle ricostruzioni con le quali ci siamo dovuti confrontar negli ultimi decenni». Per Ratzinger solo in presenza di un personaggio straordinario, che superava radicalmente le aspettative e le speranze dell'epoca, si possono spiegare la crocifissione e il movimento che dopo ne è seguito. La domanda che il papa pone a tutti gli studiosi e ai suoi lettori è in ultima analisi questa: «Non è più logico pensare che la figura di Gesù fece saltare tutte le categorie disponibili e poté essere così compresa solo a partire dal mistero di Dio?».
Avvenire 10.3.11
La Genesi mette in evidenza un legame tra uomo e donna che ha il proprio modello nella reciprocità dialogica delle tre persone divine. Per evitare l’individualismo dell’identità
Maschio e femmina: così il «genere», di cui tanto oggi si parla, è un principio umano che interroga filosofia, neuroscienze e teologia
Identici e diversi, ma uniti nella Trinità
di Cettina Militello
Parlare di identità maschile e femminile pone in campo quanto meno tre termini: identità, sesso, genere. Quello di 'identità' è il concetto chiave. Ci consente, infatti, di affermare la permanenza del nostro io, pur nel mutare delle contestualità spaziotemporali. Si tratta di dire ciò che siamo, nel segno della permanenza. L’io che noi siamo, come garanzia di identità di noi a noi stessi, è supportato da una complessa mutazione fisico-chimica, regolata dai tempi della crescita e dello sviluppo del nostro corpo, sino alla cesura della morte. Se è dunque il corpo il supporto necessario all’affermazione della mia identità, la seconda questione che si pone è quella della 'sessuazione', dato permanente nell’orizzonte dell’homo sapiens , il cui autocomprendersi passa dall’esperienza di un corpo femminile o maschile.
La difficoltà d’oggi è quella della complessità d’approccio al fenomeno. Lungamente abbiamo interpretato la 'sessuazione' nel suo aspetto funzionale riproduttivo, quasi sciogliendola dall’orizzonte del 'genere', che, invece, torna a esserci riproposto come categoria forte. «Il genere è un modo di classificare l’esistenza di tipi… Propone un nome per il modo sessuato con il quale gli esseri umani si presentano e sono percepiti nel mondo: nella società convivono due sessi e il termine 'genere' segnala questa duplice presenza. Si tratta dunque di un termine binario, non univoco: gli uomini, come le donne, costituiscono il genere».
Ma proprio questa insistenza sulla obbligata relazionalità sottesa alla nozione, mette in evidenza un termine ulteriore, quello della 'differenza'.
Il fatto è che la categoria di identità nella sua accezione filosofica e nel suo accadimento antropologico si fa compiuta solo nella 'differenza sessuale'. Le teoriche del femminismo hanno declinato questo dato lungo direttrici radicalmente diverse: essenzialismo o culturalismo, decostruzionismo, pensiero della differenza sessuale, teoria delle differenze locali, situate. Si approda da ultimo a un 'nomadismo di genere', con evidenti derive culturaliste che suonano estranee all’argomentare teologico.
In esso, a prevalere è stata sin qui una visione androcentrica della differenza iscritta soprattutto nella 'natura'. In gioco è l’adeguata correlazione tra natura e cultura, tra dato empirico e dato trascendente. Proprio il dibattito aperto sul rapporto fra 'natura' e 'cultura', l’oscillazione dall’uno all’altro polo, esige d’immettersi in un cantiere 'altro' e 'aperto'. In questa direzione la necessità dell’ascolto critico di un linguaggio e di un orizzonte altri da quelli della teologia. In particolare alle neuroscienze viene posta la domanda circa la plausibilità del ricorso alla nozione di genere e sulla correlazione che quest’ultima può ingenerare in vista di una comprensione integrale dell’essere umano. E poiché le stesse neuroscienze articolano il loro sapere in un quadro di riferimento antropologico, in questo suo primo momento, il confronto si sviluppa sulla doppia interlocuzione tra le neuroscienze e la riflessione antropologica. Teologicamente, infatti, il doppio racconto della Genesi ci offre il dato di una alterità che riflette nell’essere creato maschio/ femmina la reciprocità dialogica delle divine Persone. Il visà- vis genesiaco, in questa prospettiva, diventa manifesto dell’immagine impressa, sicché l’imago Trinitatis è costitutiva dell’accadimento umano e ne sigilla la vocazione all’alterità e alla comunione. C’è un piano, se vogliamo metafisico, rispetto al quale maschio e femmina sono reciprocamente 'persona', in ciò assolutamente identici. C’è un piano funzionale, un 'essere per' nel quale la differenza prevale, orientata com’è alla riproduzione. E, tuttavia, afferendo all’essere umano, ineludibilmente persona, la stessa differenza sessuale deve pur avere una significazione altra, non meramente strumentale.
Donde la necessità di una integrazione tra sapere neuro-scientifico, antropologia filosofica e la stessa teologia Occorre, insomma, con metodologia transdisciplinare, riflettere insieme su 'cultura', 'natura', 'identità', 'costruzione dell’identità', aprendo laboratori nuovi che oltrepassino queste stesse schematizzazioni e consentano alla teologia, ma anche alle altre scienze, di proiettarsi oltre.
Si tratta di ri-significare, in fecondo dialogo, questi concetti chiave, ricollocandoli tuttavia nell’orizzonte loro nativo, cristianamente parlando. Infine, resta la sfida dell’incontro uomo-donna oltre le modalità mutilanti o omologanti, lo stupore dell’esserci e dello scoprirsi prossimi e diversi, in ciò perfettamente a immagine di un Dio fattosi carne, la cui umanità è segnata anch’essa da identità, genere, sesso. La teologia, l’antropologia cristiana, non può procedere, per asserzioni astratte, spersonalizzate e anestetizzate. Deve piuttosto dar ragione della sua costituzione e della sua storia (cfr. GS 62). Storia di carne, di un Logos fatto carne, e perciò di pathos, di esperienza sensibile, all’origine e al termine illuminata dalla divina Bellezza, il cui circolo è sfida, teoretica, certo, ma anche pratica, operativa, utopica se vogliamo, comunque concreta di concretezza misterico-sacramentale.