sabato 26 settembre 2015

La Stampa 26.9.15
Scooterino fa incontrare sullo smartphone chi cerca un passaggio rapido a prezzi modici
Il “taxi” a due ruote per battere il traffico si prenota con un’app
di Antonio Pitoni


Beatrice arriva in un paio di minuti. Il tempo di ricevere la richiesta, visualizzarla sul suo smartphone e raggiungere la destinazione del rendez vous, fissato per le 19 in piazza Colonna. Una stretta di mano, pochi istanti di convenevoli. Prima di indossare il casco, salire insieme a bordo del suo scooter e tuffarci nel traffico dell’ora di punta di via del Tritone, destinazione piazza Regina Margherita. Su per giù tre chilometri in circa sei minuti. Rimborso per il passaggio: 3 euro. Una manna dal cielo nella bolgia del traffico della capitale, dove viaggiare in autobus, tra ritardi e sovraffollamento, sta diventando un’impresa. Ecco allora l’alternativa. Si chiama “Scooterino” ed è un’app che mette in contatto persone che si spostano in città nella stessa direzione. Una comunità di privati all’interno della quale chi ha bisogno di muoversi rapidamente chiede un passaggio a uno scooterista dietro il corrispettivo di un piccolo rimborso. Disponibile sia su Google Store per dispositivi Android che su Apple Store per Ios, utilizzare Scooterino è semplicissimo.
Cuffia usa e getta
Una volta scaricata l’app basta registrarsi. Sul display del telefonino comparirà la vostra posizione insieme agli scooter in circolazione in quel preciso momento. A questo punto, inserendo l’indirizzo di partenza e quello di destinazione, comparirà l’elenco degli scooteristi disponibili a offrirvi un passaggio. Per ognuno di loro, l’app visualizza il nome, il tipo di scooter che guidano, i giudizi espressi dai passeggeri che hanno viaggiato sul loro mezzo e il tempo necessario a raggiungere la vostra posizione. Fatta la scelta non vi resta che effettuare la richiesta e aspettare. Una volta arrivato lo scooterista vi fornirà un casco e una cuffia igienica usa e getta per indossarlo. Non dovrete fare altro che salire a bordo e fornirgli il codice generato dall’app al momento della richiesta. Una volta a destinazione, restituito il casco, rimborserete lo scooterista, tramite l’app, con carta di credito. Una somma che lo aiuterà ad ammortizzare i costi dello scooter. Niente passaggio di cash, quindi, tutto tracciabile.
Scooterino è nata da un’idea di Oliver Page, statunitense di cittadinanza, ma nato a Milano 22 anni fa e poi trasferitosi a Roma dove oggi vive e lavora. A 17 anni ha messo in piedi il suo primo business, quando frequentava ancora il liceo: la Nutkase, una società, oggi gestita da suo padre, che produce e commercializza in circa 30 Paesi del mondo accessori per iPad e notebook dal design molto particolare.
Dopo Roma, Milano
Per ora l’app copre esclusivamente la capitale, ma l’idea è quella di estenderne l’impiego anche in altre città, a cominciare da Milano. Dopo essere rientrato negli Usa, destinazione Silicon Valley, Page ha deciso di tornare a Roma rifacendo, al contrario, il percorso che in tanti percorrono in senso opposto dal nostro Paese. E con i soci italiani, Pietro Vermicelli e Francesco Rellini, ha dato vita alla sua app, oggi alla sua prima settimana di sperimentazione. Al momento sono circa 20 gli scooteristi in giro per la capitale in attesa di prenotazione. Ma le domande di adesione hanno già toccato quota mille. E da lunedì, quando l’app è stata attivata, le richieste sono aumentate in maniera esponenziale. Per i neo registrati, il primo passaggio è gratis.
Corriere 25.9.15
Dioniso si nasconde sotto i funghi
Peter Handke va oltre l’ozio e sposa l’ebbrezza nel folto dei boschi. Una lezione di vita(lità)
di Pietro Citati


La casa editrice Guanda ha pubblicato recentemente due bellissimi libri di Peter Handke: Pomeriggio di uno scrittore (traduzione di Giovanna Agabio, pagine 88, e 6,50) e Saggio sul cercatore di funghi (traduzione di Alessandra Iadicicco, pagine 172, e 15). In entrambi i libri è essenziale la crisi della parola. Una volta, quasi per un anno, Handke aveva immaginato di aver perso completamente il linguaggio: così, da allora, ogni frase che scriveva diventava, per lui, un avvenimento. Soffriva d’angoscia: fra tutti coloro che esercitavano la sua professione, era l’unico ad aver paura di scrivere. «Non oltrepassare la soglia!», diceva. Era come colpito dal divieto di scrivere.
Pensava che, nel suo intimo, fosse esistito qualcosa di simile a un testo primigenio, e che questo testo continuasse ad esistere e a svilupparsi molto lentamente. Egli allargava i suoi sensi: restava seduto al buio, senza lambiccarsi il cervello o pensare al dopo: soltanto riposare, chiudere gli occhi, non ascoltare; nient’altro che inspirare ed espirare. Si limitava a rimanere tranquillo nel silenzio, ricordando, finché impercettibilmente il ricordo precipitava in un sogno egualmente tranquillo. Nel sogno il mondo non esisteva più, e gli pareva che lui, nella sua stanza, fosse l’ultimo dei sopravvissuti.
Nei periodi d’ozio, Peter Handke andava a passeggiare nel centro della città. Quando invece era assorbito dal lavoro letterario, si avviava ai margini della città, nei boschi. Non ai margini: restava là, dando le spalle agli alberi; davanti a lui nient’altro che la campagna vuota. Erano boschi di abeti rossi, con un mantello di aghi fittissimo: questi alberi crescevano gli uni vicino agli altri, con i loro rami e rametti intrecciati e ingarbugliati; man mano che si penetrava in quell’intrico, diventava sempre più buio, e non si riusciva né a vedere il singolo albero né l’intero bosco. Le betulle frullavano, i faggi stormivano, i frassini sussurravano, le querce frusciavano. A volte, Handke si sentiva un eletto: a volte gli sembrava che lo stormire e il frusciare degli alberi fosse un bisbiglio rivolto contro di lui, un chiacchiericcio ostile, foriero di sventure.
Camminava come un cacciatore di tesori, cercando funghi, e credendo di avvertire in se stesso il potere magico di scoprirli. Vedeva un bagliore. Sotto l’intrico grigio opaco del legno decomposto, risplendeva una luce da stanza del tesoro. Erano mucchi di gallinacci, che balenavano e aggredivano gli occhi, accecavano letteralmente il primo sguardo proteso nell’oscurità. Scoprì un intero paese di funghi gialli, che si estendeva per ore e ore, inesauribile come un continente. Giallo, giallo e altro giallo ancora, che continuava a perdita di sguardi davanti al sognatore. Quel giallo incessante non si estendeva «davanti» ai suoi occhi — saltava dentro di essi, vi si tuffava, vagava come un fuoco fatuo, sia sotto le mani costrette a raccogliere senza sosta sia dentro di lui, finché in quel guizzo balenava un fiammeggiare di puro giallo.
Il culmine del paese dei funghi era il fungo porcino: aveva sempre un bell’aspetto; il cappello luccicava ancora per l’umidità; mentre la carne del gambo era bianca, come se fosse appena spuntata dalle profondità della terra. La maggior parte, anzi quasi tutti i suoi tesori, li aveva trovati di volta in volta vicino al ciglio del sentiero: mai lontano da esso. Parevano famiglie che da un anno all’altro, o dall’inverno alla primavera, spuntassero in modo sotterraneo: seguivano il corso dell’acqua, rifuggivano dai venti, affioravano a grande distanza, moltiplicandosi nell’aria e nella luce.
Erano gli ultimi esemplari di flora rimasti sulla terra che non ammettessero di essere coltivati, o civilizzati o addomesticati: gli unici che crescessero selvaggi, impassibili di fronte a qualsiasi intromissione umana. La caccia dei funghi risvegliava, nei cercatori, una specie di ebbrezza dionisiaca. Bisognava cercarli da soli: al massimo, si poteva portare con sé dei bambini. Senza accorgersene, il cacciatore di funghi cominciava a dimenticarsi della moglie e della famiglia. Tutto l’universo si riduceva, a poco a poco, all’attenzione per i funghi. Il cercatore conosceva in sé una condizione d’estasi. Si sentiva l’unico, legittimo cacciatore di tesori: l’unico sovrano.
Repubblica 26.9.15
Responsabilità e metodo Perché è indispensabile difendere la buona scienza
di Elena Cattaneo


Questo testo è parte della prefazione di Elena Cattaneo a Cattivi scienziati di Enrico Bucci (Add editore, pagg. 160, euro 14)

Cattivi Scienziati. Un titolo, nella sua sinteticità, può trarre in inganno. Questo libro di Enrico Bucci non parla di Scienziati e di Scienza, ma è una manifestazione dell’amore per la Scienza. Una “dichiarazione per assurdo”, perché fatta non esaltando la bellezza di fare Scienza, ma raccontando esempi di cattive condotte e quindi di ciò che non può essere considerato Scienza. Leggiamo questo libro come un utile e necessario richiamo alla responsabilità sociale della comunità scientifica e alla “tolleranza zero” verso chiunque manipoli i fatti sperimentali per ottenerne benefici personali.
Gli scienziati non possono esimersi dal mettersi in gioco e dal partecipare alla costruzione della società portando la loro voce in ogni dibattito pubblico affinché i fatti documentati e controllabili possano essere esaminati e costituiscano le fondamenta su cui costruire decisioni legislative giuste e nell’interesse pubblico. Per svolgere questo ruolo ogni giorno, c’è la necessità di presentarsi come un modello di comunità fatta di individui che si interrogano e si confrontano pubblicamente, anche aspramente e senza omertà, per il valore delle prove, controllandosi quotidianamente e arricchendo così di controlli e validazioni ogni teoria. Una comunità di pari che non aspetta la pressione di un’opinione pubblica e che nelle sue linee ispiratrici rifugge ogni autoritarismo e gerarchia precostituita, e dove la componente reputazionale, prima ancora di qualsiasi intervento regolatorio pure auspicabile (se ragionevole ed equilibrato), è essenziale perché vi sia la libertà di guardare negli occhi ogni collega e riconoscervi la garanzia che il metodo di lavoro sia quello condiviso, trasparente, intellegibile e verificabile. Nello sforzo scientifico quotidiano non deve mai calare la tensione verso il continuo perfezionamento di questo patto sulle regole che ne sono alla base.
Il metodo scientifico ha dato molto all’umanità, fin dal suo comparire. È stato applicato in moltissimi campi, ed ha consegnato una mole impressionante di fatti e di descrizioni, coerenti tra loro, universali nel linguaggio utilizzato e unificati in un quadro complessivo che, sebbene migliorabile e in continua evoluzione, è di gran lunga la costruzione culturale più impressionante che la nostra specie abbia prodotto. Esso rappresenta anche quel corpus di conoscenze che ci permette di affrontare con successo le piccole e grandi sfide che ci si pongono quotidianamente davanti.
La società deve potere attingere con fiducia a questa conoscenza, conquistata ogni giorno da un innumerevole stuolo di ricercatori di ogni campo nei laboratori di ogni angolo del mondo, i quali sottopongono a esame critico le proprie scoperte, le comunicano e ne rivendicano i meriti pubblicando quei risultati in riviste specializzate. A questo segue il controllo collettivo mondiale della validità di quella pubblicazione, che è quanto di meglio la comunità degli scienziati abbia escogitato per controllare la validità delle proprie scoperte. Una singola pubblicazione, anche se su riviste ad alto impatto, non costruisce di per sé una verità, ma sarà il confronto con altri dati e protocolli, lo scetticismo dei colleghi e la riproducibilità dei risultati, a decretarne il valore conoscitivo e la solidità, oltre a concorrere alla reputazione dello scienziato. Ecco perché mentire e manipolare i dati scientifici non solo è socialmente riprovevole, ma anche stupido. La comunità scientifica nel suo insieme è in grado di individuare, impietosamente, comportamenti abnormi, e può avvalersi oggi di nuovi sistemi di analisi dei dati, automatizzati e sempre più efficienti, supportati dall’indagine umana sui casi meritevoli di interesse. Ecco perché è necessario ribadire, come insisteva già quasi mezzo secolo fa Jacques Monod, che l’etica è intrinseca alla scienza e al metodo scientifico: anche se lo scienziato non giura su una costituzione scritta o su un testo sacro, la sua adesione a una comunità di cittadini liberi e dediti a ricercare come stanno davvero le cose, implica il tacito ma non negoziabile impegno a essere sempre sincero e a riportare e rispettare i fatti, cioè le prove. Se si deroga da questo impegno, ci si colloca automaticamente fuori dal mondo della Scienza.
In definitiva, non esistono i “cattivi scienziati”. Semplicemente costoro non sono scienziati.
Repubblica 26.9.15
Computer che fra un secolo supereranno gli esseri umani. I buchi neri. Dio. Intervista a Stephen Hawking
Ci salviamo se lasciamo la Terra
intervista di Nuno Dominguez e Javier Salas


GLI EXTRATERRESTRI
Se venissero a trovarci il risultato sarebbe simile a quel che accadde quando Colombo sbarcò in America Non fu una cosa buona per i nativi

«Merry Christmas». L’emblematica voce metallica del più famoso scienziato del mondo risuona in mezzo al lungomare della spiaggia di Camisón, a Tenerife, provocando le risate dei turisti che si affollano intorno a lui, sussurrando gli uni agli altri: «È Stephen Hawking», mentre li incrociamo attraversando la strada. «È uno scherzo che è solito fare per far ridere la gente», dice una delle responsabili dell’équipe che lo segue ovunque. Hawking (Oxford, 1942) si trova sull’isola delle Canarie per presentare la terza edizione del festival scientifico Starmus, che si tiene ogni due anni. Il fisico, la cui vita è stata recentemente portata sul grande schermo dal film “La teoria del
tutto”, premiato con l’Oscar al miglior attore protagonista, scrive grazie a un sensore sulla guancia, dove si trova uno dei pochi muscoli che può ancora muovere a causa della malattia neurodegenerativa che lo ha colpito. Pur contando su diversi programmi che gli consentono di ottimizzare il processo di scrittura, a volte ci può mettere due ore per rispondere a una domanda. Ha però un tasto speciale per fare scherzi con un solo clic.
Sette persone accompagnano il fisico in questo viaggio, tra assistenti, medici e personale di fiducia, sempre attenti alla sua fragile salute di ferro, che lo ha tenuto in vita fino a oggi, che ha 73 anni, «contro ogni previsione».
Lei ha una vertiginosa agenda di viaggi, conferenze, interviste, festival... quasi come una rockstar. Perché lo fa?
«Sento il dovere di informare la gente sulla scienza».
C’è qualcosa che vorrebbe fare nella vita e non ha fatto?
«Viaggiare nello spazio con Virgin Galactic».
Uno dei suoi ultimi libri affronta la teoria del tutto, che unirebbe la relatività e la fisica quantistica. Di che cosa parlerà il prossimo?
«Può darsi che il mio nuovo libro parli della mia sopravvivenza contro ogni previsione».
Molti paesi europei hanno assistito a forti tagli di bilancio per la scienza, e molti giovani scienziati sono dovuti emigrare per trovare lavoro.
Che cosa direbbe a un giovane che stia pensando di fare lo scienziato?
«Se ne vada in America. Lì apprezzano la scienza perché è ammortizzata dalla tecnologia ».
Recentemente ha lanciato un’iniziativa per cercare forme di vita intelligente nella nostra galassia. Qualche anno fa, tuttavia, disse che sarebbe stato meglio non entrare in contatto con civiltà extraterrestri, perché potrebbero anche sterminarci.
Ha cambiato opinione?
«Se gli extraterrestri venissero a trovarci, il risultato sarebbe molto simile a quello che accadde quando Colombo sbarcò in America: non fu una cosa buona per i nativi americani. Questi extraterrestri avanzati potrebbero diventare nomadi, e cercare di conquistare e colonizzare tutti i pianeti dove riuscissero ad arrivare. Per il mio cervello matematico pensare alla vita extraterrestre è qualcosa di razionale. La vera sfida è scoprire come potrebbero essere questi extraterrestri».
Recentemente ha detto che le informazioni possono sopravvivere a un buco nero.
Che cosa significa?
«Cadere in un buco nero è come lanciarsi nelle cascate del Niagara con una canoa: se si rema con una velocità sufficiente, si può uscirne fuori. I buchi neri sono la macchina di riciclaggio definitiva: quello che ne emerge è ciò che vi è entrato, ma elaborato».
Nel 2015, la teoria della relatività generale compirà cent’anni. Se potesse parlare con Albert Einstein, che cosa gli direbbe, e che cosa si aspetta dalla scienza nei prossimi cent’anni?
«Nel 1939, Einstein scrisse un articolo in cui affermava che la materia non poteva comprimersi oltre un certo limite, escludendo la possibilità che esistessero i buchi neri».
Perché crede che dovremmo temere l’intelligenza artificiale? È inevitabile che gli esseri umani creino dei robot in grado di uccidere?
«I computer supereranno gli esseri umani grazie all’intelligenza artificiale nei prossimi cento anni. Quando ciò avverrà, dovremo essere certi che gli obiettivi dei computer coincidano con i nostri».
Quale sarà il nostro destino come specie, secondo lei?
«Credo che la sopravvivenza della specie umana dipenderà dalla sua capacità di vivere in altri luoghi dell’universo, perché il rischio che un disastro distrugga la Terra è grande. Quindi vorrei suscitare l’interesse pubblico per i voli spaziali. Ho imparato a non guardare troppo in avanti, a concentrarmi sul presente. Ci sono ancora molte altre cose che voglio fare».
Si può essere un buon scienziato e credere in Dio?
«Io uso la parola “Dio” in un senso impersonale, come faceva Einstein, per riferirmi alle leggi della natura».
Lei ha detto che non c’è bisogno di Dio per spiegare l’universo così com’è. Pensa che un giorno gli esseri umani abbandoneranno la religione e Dio?
«Le leggi della scienza sono sufficienti per spiegare l’origine dell’universo. Non è necessario invocare Dio».
Molte persone devono usare una sedia a rotelle. Ha qualche messaggio per loro?
«Anche se ho avuto la sfortuna di essere colpito da una malattia del motoneurone, ho avuto la fortuna di lavorare nel campo della fisica teorica, uno dei pochi settori in cui la disabilità non era un serio ostacolo, e il massimo della fortuna con la popolarità dei miei libri. A coloro che sono colpiti da una disabilità consiglio di concentrarsi sulle cose che la loro disabilità non gli impedisce di fare bene, e di non lamentarsi per quelle con cui interferisce. In qualche modo, la mia disabilità mi ha aiutato. Mi ha liberato dal dover fare lezioni o dalla partecipazione a noiosi comitati, e mi ha dato più tempo per dedicarmi alla ricerca ».
© El País/LENA Leading European Newspaper Alliance. Traduzione di Luis E.Moriones
Repubblica 26.9.15
Da Onfray a Sapir, tanti hanno idee vicine a Marine Le Pen
Se la destra seduce i filosofi francesi
di Bernardo Valli


PARIGI È una breccia. Niente di più. Gli intellettuali l’hanno aperta, senza superarla. Ma per il Front National è un varco che può annunciare la fine di un lungo isolamento. Marine Le Pen esulta. Nomi di rilievo del mondo culturale esprimono idee simili o addirittura identiche alle sue. Poco importa che si tengano a distanza.
L’essenziale è che la pensino come lei e lo facciano sapere. Il Front National guadagna elettori (25-30 per cento) e sotto banco non manca di alleati nella destra democratica, ma ufficialmente nella società politica è come se fosse in quarantena. E in particolare lo è per gli intellettuali. La breccia aperta di fatto da alcuni di loro, sia pur fermi nel rifiuto di servirsene, fa intravedere a molti il futuro abbattimento delle barriere tra il movimento di estrema destra, con vecchie tendenze razziste, e l’arco costituzionale, come chiamavamo in Italia lo spazio dei partiti democratici dal quale era escluso l’Msi neofascista.
Un’intervista e la polemica che ne è seguita hanno sottolineato quella che può essere considerata, tenendo conto del ruolo tradizionale degli intellettuali in Francia, una svolta cultural-politica. Ne è stato il protagonista Michel Onfray, 56 anni, fondatore dell’Università popolare di Caen,in Normandia. Autore di successo, almeno sessanta pubblicazioni, in cui propone tra l’altro una teoria dell’edonismo, analizza il rapporto tra edonismo etico e anarchia politica, e tocca tanti altri temi. Dai quali, come si legge nel suo sito, scaturiscono risposte in cui si intravede un percorso con tante deviazioni: il vitalismo libertino, l’etica immanente, l’individualismo libertario, il filosofo artista, il nietzschismo di sinistra, l’estetica generalizzata, il materialismo sensualista, il libertinaggio solare, la soggettività pagana, il corpo faustiano… Per i suoi scritti, la sua erudizione, le sue polemiche, la vivacità del suo linguaggio, costellato di provocazioni e a volte di insulti (ha dato del cretino al primo ministro Manuel Valls), Michel Onfray è considerato il filosofo più popolare di Francia, che non significa il più autorevole. Nell’intervista sul Figaro dell’11 settembre, Onfray ha invocato “il popolo francese disprezzato” da chi governa, mentre “le popolazioni straniere” sono accolte nei telegiornali delle 20. L’accenno ai profughi era evidente; e quando ha aggiunto che la presidente del Front National “parla” al popolo, al contrario delle élites socialiste al potere, è apparso un omaggio a Marine Le Pen.
All’accusa di essere un alleato oggettivo del Front National perché è al tempo stesso contro l’euro e l’Europa e apparentemente anche contro l’immigrazione araba, il filosofo si è infuriato. Ha proclamato il suo ateismo, la sua avversione alla pena di morte, la sua difesa dell’aborto e dei matrimoni gay, la sua difesa del socialismo libertario, e il suo contributo per aiutare i profughi, tutte posizioni escluse dal movimento di estrema destra. Dunque Marine Le Pen può esprimere soddisfazione per i suoi propositi, ma lui, Onfray, non ha nulla a che fare con il Front National.
L’ economista Jacques Sapir, sempre in un’intervista al Figaro , il mese precedente, il 21 agosto, è andato oltre. Lui si è infilato a metà strada nella breccia. Ritenuto vicino al Front de Gauche (estrema sinistra) Sapir ha lanciato l’idea di formare un “ fronte di liberazione nazionale” contro l’euro, al quale l’FN di Marine Le Pen avrebbe il diritto di partecipare. Infine un intellettuale di rilievo, qual è Sapir, sdoganava apertamente il movimento d’estrema destra. Ed è stata rispolverata l’idea di un’alleanza obiettiva tra i due estremismi della società politica francese. Entrambi sono infatti contro l’euro e l’Europa, ma l’estrema sinistra non è contro gli immigrati. Una differenza essenziale. Michel Onfray non si è spinto lontano come Sapir, ma come Sapir si richiama al “souverainisme de gauche”: vale a dire che sostiene, lui dice da sinistra, la piena sovranità della nazione, fuori dai vincoli europei che impedirebbero la giustizia sociale. Affiancando giustizia sociale e nazionalismo, Onfray non arriva a prospettare un’alleanza tattica col FN come fa Sapir, ma nonostante i dinieghi che seguono le dichiarazioni dà a molti l’impressione che si muova di fatto nella stessa direzione.
La figura dell’intellettuale nasce in Francia con Emile Zola, al momento dell’affare Dreyfus, sulle radici dell’Illuminismo. Voltaire, ad esempio, che si batte per la riabilitazione di Jean Calas, mercante protestante giudicato e giustiziato perché ritenuto colpevole a torto di avere assassinato il figlio per impedirgli di convertirsi al cattolicesimo. La tradizionale figura dell’intellettuale era l’espressione della ragione repubblicana opposta ai pregiudizi razziali e al nazionalismo. O era immaginata in questo ruolo. Julien Benda ( La trahison des clercs , 1927) descrive il tradimento degli intellettuali che tra le due guerre, dopo quella del ’14-‘18 e nell’attesa di quella del ’39-’45, in preda alle passioni abbracciano le cause più disparate, dalla monarchia al nazionalismo, dal pacifismo al comunismo. La figura dell’intellettuale universale che affronta tutti i problemi ed emette giudizi, trionfa poi nel dopoguerra a sinistra con l’utopista Jean-Paul Sartre ma anche in campo liberale con lo scettico Raymond Aron e con François Furet, cultore di Tocqueville. Questi due ultimi con meno clamore di Sartre.
La complessa società d’oggi ha amputato l’intellettuale dell’aggettivo universale. Michel Foucault lo aveva capito e si è impegnato su temi precisi: la giustizia, la sessualità, la linguistica… Negli ultimi anni si è precisata una corrente intellettuale che difende la coesione nazionale, che vede nelle minoranze culturali (in particolare quella musulmana) una minaccia a quell’integrità che considera essenziale l’identità francese ed è animata dal sentimento che essa sia una nozione fissa e immutabile. Capita che questa corrente si appropri con disinvoltura di Albert Camus opponendolo a Sartre, con il quale l’autore de Lo Straniero ebbe in vita una polemica, dopo essere stato un amico. Régis Debray, ex compagno di Che Guevara e per un breve periodo consigliere di François Mitterrand, è il personaggio simbolo di quella che viene definita dai critici più severi “retroguardia conservatrice”. Michel Onfray si dice invece l’espressione di una sinistra libertaria. E questa sinistra si riunirà il 20 ottobre alla Mutualité per difenderlo dalle accuse che gli sono state rivolte. E alla riunione dovrebbero essere presenti: Régis Debray, Alain Finkielkraut, Jean François Kahn, Jean-Pierre Le Goff. L’ Europa sarà sul banco degli imputati. E con l’Europa l’immigrazione che la deturpa.
Repubblica 26.9.15
Noi tedeschi in crisi d’identità
di Matthias Mueller e Peter Schneider


LEGGENDO le drammatiche notizie sul caso Volkswagen, mi sembra che una parte dell’anima tedesca oggi appartenga ai colossi dell’auto made in Germany.
E QUINDI l’anima tedesca è in crisi, perché scopre all’improvviso che un simbolo decennale del suo successo di Paese risorto nel dopoguerra dalle macerie, democrazia solida e aperta al mondo — lo dico per Vw, non so quanti e quali altri produttori mondiali siano coinvolti — è fondata da tempo sull’inganno. L’anima tedesca è in crisi, perché questo inganno fa a pezzi l’immagine di credibilità attendibile che a fatica il Paese si era ricostruito. Il caso colpisce al cuore l’anima tedesca, anche perché abbiamo sempre pensato che tutti gli altri paesi sono corrotti, ma noi no: addio all’illusione di essere diversi, migliori rispetto agli altri, in Europa e nel mondo.
Inutile illudersi, noi tedeschi e il resto d’Europa e del mondo, che sia in gioco solo la reputazione di Vw: è in gioco l’immagine del Made in Germany quale sinonimo costitutivo della ricostruzione postbellica, e della fierezza di se stessi, delle virtù tedesche — onestà, serietà, affidabilità — che dopo il 1945 ci fu così arduo ritrovare. Sono spesso in America, sento spesso dire dagli amici americani che per loro i sinonimi della Germania nel loro immaginario collettivo sono “Hitler and good engineering”. Ora purtroppo quel primo orrendo sinonimo resta, ma il secondo diventa “cheating engineering”, tecnologia imbrogliona. Truffa con cui Vw si è creata un vantaggio illegale e scorretto rispetto alla concorrenza mondiale, e questa sua truffa pesa oggi sulla coscienza della nazione.
Riflettendo ancor più a fondo, emergono altre consapevolezze amare: per anni Vw e forse altri produttori hanno mentito al mondo. Proprio loro simbolo del Made in Germany, di eccellenze di un Paese ecologista come pochi altri, hanno detto il falso, hanno sostenuto che è possibile produrre e vendere auto sempre più grandi, potenti e pesanti ma sempre meno inquinanti. Fu soprattutto l’industria dell’auto tedesca e americana a illudere i consumatori mondiali convincendoli che i SUV, quelle orrende jeep di lusso sinonimo di visibile egoismo arrogante, erano ecologici. E’una menzogna di cui adesso paghiamo il conto. La situazione è tanto seria, che persino la Schadenfreude (la gioia maligna per le disgrazie altrui, in questo caso gioia di altri per la disgrazia tedesca) non fa piacere. Nella mia vita, ho avuto la fortuna di vivere nella Germania più felice, migliore, più amata dal mondo che la Storia abbia mai visto. Fino a pochi giorni fa era così... anche con Angela Merkel e le sue braccia aperte ai migranti, risposta civile europea ai razzisti come Orbàn. Ma adesso ci troviamo a una cesura seria. Non siamo alla fine della Storia di questa Germania felice e in pace col mondo, ma alla fine della sua identificazione folle con i successi dell’industria dell’auto. Che tristezza, se pensiamo a come le nostre “famose capacità tecnologiche” avrebbero potuto essere usate per produrre auto sempre più pulite, anziché per imbrogliare con quei software che falsavano i test.
Ci è mancato qualcosa di costitutivo, in un comparto economico chiave e determinante. Ci è mancata, per scelta dei big dell’auto che volevano soltanto vendere ogni anno più vetture, l’immaginazione e la creatività che a volte non vediamo, a volte fingiamo di non vedere altrove. Penso per esempio agli Stati Uniti dove l’alta tecnologia è culturalmente piu legata all’innovazione in nome della curiosità e della qualità della vita. Basta l’esempio della Tesla, la supercar familiare elettrica da 500 cavalli che loro hanno pensato e costruito, e che vendono con successo. Noi avremmo la capacità tecnologica di farlo, ma i nostri grandi Autokonzern hanno scelto di rinunciarvi.
Purtroppo rimane un’altra domanda sul Dieselgate. Come spiegare il silenzio di anni del sindacato più potente del mondo, rappresentato in forza al vertice Volkswagen in nome della Mitbestimmung, la cogestione? Che cosa significa, e che cosa cela, questa armonia dei silenzi tra azienda-simbolo e sindacato- simbolo della democrazia nata dalle macerie? Finché ci mancheranno i risultati delle indagini sui responsabili, sulle aziende colpevoli e mentitrici tedesche e magari anche non tedesche, ci rimane solo etichettare ogni auto Volkswagen come un pacchetto di sigarette, con avvisi obbligatori sul pericolo dell’uso.
(testo raccolto da Andrea Tarquini)
Corriere 25.9.15
L’usato sicuro danneggia il governo Tsipras
di Marco Imarisio


La carriera ministeriale da farfalla di Dimitri Kammenos non è soltanto la logica conseguenza del malfunzionamento della sua testa e dei suoi polpastrelli. Nel tempo libero il parlamentare di Anel, unico e necessario alleato governativo della Syriza di Alexis Tsipras, è solito affidare a Twitter pacate riflessioni sui grandi temi della nostra epoca. Dietro l’attacco alle Torri gemelle vede la mano di Israele con annesso complotto sionista, i gay sono «esseri umani patetici» mentre il nostro continente è la prosecuzione di Auschwitz con altri mezzi, con tanto di fotomontaggio del campo
di concentramento sormontato dalla scritta «Benvenuti in Europa».    Tutto noto, risaputo, alla luce di Internet. Il prode Kammenos ha giurato al mattino da ministro delle Infrastrutture e si è dimesso alla sera, quando l’opinione pubblica ha fatto notare che la nomina di tale personaggio non era il miglior viatico per la nuova avventura governativa. Avanti un altro, il Paese ha ben altri problemi. Eppure sarebbe un errore ridurre la vicenda a un incidente di percorso. Anel, il partitino liberal-nazionalista fondato dal ministro della Difesa Panos Kammenos, omonimo e non parente,
è in buona sostanza una etichetta sotto alla quale si trovano pulsioni che dovrebbero risultare indigeste alla sinistra di governo. Nel premiare la fedeltà di un alleato innocuo, Tsipras ha fatto una scelta di piccola convenienza interna.    Poteva dare un profilo diverso al nuovo governo, alleandosi con i socialisti o con i centristi di Potami. Invece ha preferito un usato sicuro e poco presentabile, che gli garantisce una navigazione tranquilla a casa propria, senza concorrenza interna, ma getta un velo di ambiguità sul suo progetto. D’accordo, dalle ceneri dello scorso luglio è nato un nuovo Tsipras. Addio ideali, evviva il pragmatismo. Ma senza dimenticare i valori fondamentali.
Repubblica 26.9.15
In Marocco, tra i disperati che sognano l’Europa ogni giorno un assalto al “muro”spagnolo
La denuncia delle associazioni umanitarie: bimbi di tre anni da soli alla frontiera dell’enclave iberica in Africa
di Ana Carbajosa


OGNI MATTINA, al primo raggio di sole, Barakat cammina fino alla frontiera, tira fuori dal portafogli il passaporto siriano e lo mostra alla polizia marocchina. Ogni mattina gli ordinano in malo modo di andarsene: non può attraversare le poche decine di metri che lo separano dalla Spagna, da una richiesta di asilo e dalla sua famiglia. Al decimo tentativo il pollaiolo di Homs decide di cambiare approccio. Alle 7 del mattino il poliziotto marocchino lo manda via, ma questa volta Barakat aspetta e si nasconde tra la folla che ogni giorno si accalca al valico di frontiera di Beni Enzar, che separa la città di Nador dall’enclave spagnola in territorio marocchino di Melilla. Aspetta il cambio di turno, il momento esatto in cui il funzionario abbandona la garitta per prendersi un tè e lasciare il posto a un collega, e si intrufola di nascosto. Qualche decina di passi più in là, è in Spagna. Come nel caso di Barakat, 9 richieste di asilo alle frontiere spagnole su 10 vengono presentate a Melilla, secondo i dati dell’Unhcr. Melilla è la grande porta di ingresso del Sud Europa, da cui sono passati quest’anno 6.200 siriani, palestinesi e relative famiglie. Entrano lontani dagli obiettivi dei media, concentrati su altre frontiere dell’Europa, ma i loro drammi sono molto simili a quelli degli altri migranti. Per gran parte di loro, la Spagna è solo una tappa. L’obiettivo è il Nordeuropa, terra di opportunità lavorative. A differenza di Barakat, la maggioranza dei rifugiati che arrivano a Melilla ci riesce solo dopo aver pagato centinaia di euro ai «passatori». Così sono entrati la moglie di Barakat e i loro due figli – di 6 e 10 anni – dopo aver pagato 3.600 euro e diverse settimane prima che ci provasse il capofamiglia. In teoria, qualsiasi rifugiato che voglia chiedere asilo può presentarsi alla frontiera di Melilla e fare domanda presso gli uffici che il ministero dell’Interno spagnolo ha installato a Beni Enzar. E così è stato per alcuni mesi, in cui era possibile passare senza pagare. Ma il mercato dei trafficanti non perdona, e sono bastati due momenti di grande affluenza di rifugiati – a gennaio e aprile di quest’anno – per convincerli che lì fuori c’era un bottino a cui non erano disposti a rinunciare.
Oggi, nei piccoli caffè marocchini vicini alla frontiera, i mojarreb , come i siriani chiamano i passatori, fanno affari sulla pelle dei rifugiati. Spesso, quando i migranti non hanno molti soldi, come nel caso di Barakat, passano prima le donne e i bambini, e questo, negli ultimi mesi, ha lasciato una scia di famiglie separate dalla frontiera. «A Nador ci sono circa 600 siriani e la maggioranza di loro aspetta di poter varcare il confine per entrare in Spagna», spiega Azouz Boulkhbour, dell’Associazione marocchina per i diritti umani. È frequente anche che ci siano bambini soli, che hanno attraversato la frontiera grazie ai facilitatori facendosi passare per marocchini. «I bambini pagano fra i 700 e gli 800 euro. Abbiamo visto bambini soli perfino di 3 anni», racconta José Palazón, direttore di Prodein, un’organizzazione di Melilla che difende i diritti dei migranti. Quando riescono ad arrivare a Melilla, i rifugiati vengono alloggiati nel centro di permanenza temporanea per immigrati (Ceti), un luogo «destinato a fornire servizi e prestazioni sociali di base», con 512 posti e che attualmente, secondo i dati dell’Unhcr, ospita circa 1.600 migranti, nell’80% dei casi siriani. Lì rimangono per due o tre mesi, prima di essere trasferiti via mare, a gruppi di 180, in Spagna. Il Ceti è un posto dove per anni sono stati alloggiati gli immigrati dell’Africa subsahariana – normalmente giovani e senza famiglia – che scavalcavano la barriera al confine, a pochi metri dal centro. Qui maschi e femmine dormono separati. In questi giorni circa 500 bambini stanno aspettando nel Ceti il trasferimento nel continente, in condizioni penose. Aspettano senza sapere in quale giorno, e in base a quale criterio, un funzionario pronuncerà la parola magica: «Uscita».
Il Ceti, la barriera, la frontiera. Sono queste le prime impressioni della Spagna per i richiedenti asilo. Per molti è un’esperienza così amara che, se non avevano deciso di proseguire il cammino fino all’Europa, il passaggio per il Ceti finisce di convincerli. Barakat ora è a Madrid. Vive con la sua famiglia in un centro di accoglienza di rifugiati da quasi sei mesi. Gli hanno già spiegato che fra tre settimane circa se ne dovrà andare, che ha superato il tempo massimo di permanenza in un centro di prima accoglienza e deve trovarsi un appartamento. Non ha lavoro e senza un contratto nessuno gli affitta nulla. «In Spagna la gente è molto simpatica, ma qui non c’è lavoro. Appena mi daranno i documenti di residenza, ce ne andremo nel Nordeuropa. Abbiamo anche un cugino a Dortmund», racconta all’ingresso del centro di accoglienza. Un gruppetto di rifugiati si accalca intorno a noi: tutti fanno cenno di sì con la testa mentre parla Barakat. «Casa e lavoro, casa e lavoro», dicono a bassa voce.
(@El Pais/Lena, Leading European Newspaper Alliance. Traduzione di Fabio Galimberti) 4-continua
Repubblica 25.9.15
Nella Confederazione centri di registrazione situati sulle frontiere esterne e i controversi criteri di ripartizione sono attivi da tempo Per questo la cancelliera tedesca si è detta “ispirata” dall’esempio elvetico
Asilo in quarantotto ore ecco perché l’Ue guarda all’esempio svizzero
Ma Amnesty e Unhcr denunciano: troppo restrittive le politiche nei confronti degli esuli siriani
di Anja Burri
ANJA BURRI

Accade raramente che l’Europa prenda come esempio la piccola Svizzera. Ma la crisi dei profughi sconvolge anche certi copioni. All’inizio del mese la cancelliera tedesca Angela Merkel dopo la sua visita in Svizzera si è mostrata “ispirata” dal sistema di asilo elvetico. L’Europa — ha detto — può imparare da esso.
Merkel ha studiato le statistiche sui richiedenti asilo: accanto ai rifugiati di guerra dalla Siria e dall’Afghanistan, la maggior parte delle richieste di asilo in Europa proviene dai kosovari. In Svizzera le cose stanno in modo diverso. Qui i kosovari sono solo una piccola percentuale di tutti i richiedenti asilo per i quali è stata avviata la procedura — nonostante la grande diaspora kosovara in Svizzera. È il risultato di un’impostazione nuova. Per i richiedenti asilo provenienti dai Balcani occidentali che danno garanzie contro le persecuzioni, la Svizzera ha introdotto una procedura di 48 ore. Da allora le richieste sono nettamente diminuite. I richiedenti asilo vengono radunati nei centri della Confederazione, per essere interrogati nel giro di due giorni da personale specializzato, dopodiché nella maggioranza dei casi vengono respinti. La Svizzera ha stipulato appositi accordi con il Kosovo, la Bosnia-Erzegovina e la Serbia. In cambio aiuta quegli Stati con progetti, ad esempio nell’edilizia o nel sistema scolastico. Nel frattempo, le autorità svizzere adottano una strategia di accelerazione anche con i richiedenti asilo provenienti da Paesi africani considerati sicuri. Chi viene da Marocco, Tunisia, Gambia, Nigeria o Senegal viene preso in esame più rapidamente di chi arriva da Siria, Eri- trea o Afghanistan.
Quando la cancelliera tedesca vuole farsi ispirare dalla Svizzera, pensa anche ai centri di registrazione situati sulle frontiere esterne e i controversi criteri di ripartizione. La Svizzera ha messo in atto entrambe le cose da tempo e sta per varare una riforma. Il principio è: procedure d’asilo più rapide, ma eque. Il sistema di asilo su base federale viene centralizzato. Solo i profughi con buone prospettive di ottenere il diritto alla permanenza sono assegnati ai cantoni, in ragione di quote di ripartizione fisse. Le procedure di asilo nei centri confederali devono durare al massimo 140 giorni; quelle per i profughi nei cantoni al massimo un anno. I termini di presentazione dei ricorsi da parte dei richiedenti asilo vengono abbreviati e viene messo a disposizione gratis un legale.
La Svizzera è diventata la prima della classe in Europa per quanto riguarda l’asilo? Solo fino a un certo punto, almeno a giudizio delle organizzazioni internazionali. Amnesty International e l’Unhcr la criticano perché gli esuli di guerra siriani che non possono dimostrare di essere perseguitati individualmente non vengono riconosciuti come profughi. La maggioranza dei siriani è perciò «accolta in via provvisoria» e ha meno diritti. Lo status di queste persone è meno attraente di quello garantito da altre protezioni in Europa. Questa prassi è uno dei motivi per i quali la Svizzera non è tra le mete prioritarie dei profughi da Siria, Afghanistan o Iraq. E contribuisce anche a far sì che la quota svizzera di richieste di asilo in Europa sia in calo. Nel 1998 l‘11% di tutte le richieste in Europa erano presentate in Svizzera. Nel 2014 erano il 3,8%; nel 2015 la quota “svizzera“ ammonterà, secondo le previsioni, al 3,1%.
(© Tages-Anzeiger/Lena, Leading European Newspaper Alliance. Traduzione di Carlo Sandrelli) 3 – continua
Repubblica 26.9.15
Il business dell’accoglienza.
Gli affari della coop di Mafia capitale appalti sui migranti anche dopo l’inchiesta
La Cascina, commissariata per infiltrazioni lo scorso luglio, è legata a doppio filo alla Senis Hospes, che continua a gestire l’accoglienza di quasi settemila persone al giorno. E a fare affari con lo Stato incassando circa nove milioni di euro al mese
di Giuliano Foschini e Fabio Tonacci


SENISE (POTENZA). C’è una scheggia sfuggita a Mafia Capitale che continua a fare affari con lo Stato. E nello specifico a gestire l’accoglienza di quasi settemila migranti al giorno. Conti alla mano, incassa dal Viminale circa nove milioni di euro al mese. Questa scheggia si chiama Senis Hospes e la sua sede legale è qui, al primo piano di un condominio sgarrupato nel centro di Senise, settemila anime in provincia di Potenza. Ci lavorano, stando alla visura camerale, 187 dei 253 dipendenti totali della Senis. «Al massimo in quell’appartamento quasi sempre chiuso — dicono gli altri inquilini del palazzo — vediamo tre o quattro persone, ogni tanto». Eppure la sede del colosso italiano dell’accoglienza è questa. Cos’è realmente Senis Hospes? Chi sono i suoi proprietari? E perché la sua storia si annoda a doppio filo con quella del Gruppo La Cascina, la cooperativa bianca vicina a Comunione e Liberazione e vicinissima all’ex ministro Maurizio Lupi, da poco commissariata per il tentativo di infiltrazioni mafiose?
Alla Camera di commercio, Senis Hospes è registrata dal 2008 come cooperativa “senza fini di lucro” destinata “all’inserimento sociale di chiunque si trovi in stato di bisogno”. Non ha scopi di lucro, dunque, eppure le prefetture di mezza Italia andrebbero in tilt se non ci fosse. Gestisce 6.592 migranti al giorno nel solo Sud Italia: nella lista degli appalti che ha ottenuto figurano i Cara di Mineo e Foggia, 7 Cpa, 15 strutture Sprar sparse dalla Calabria al Molise. Numeri che salgono di giorno in giorno visto che continuano ad affidarle posti su posti. A giugno Senis è risultata idonea a Roma per quattro lotti su sette. A Bari è in pole position in un bando da un migliaio di posti che sarà aggiudicato a breve. «Siamo in fase di emergenza e dobbiamo affidarci a chi ha disponibilità e know how», spiega una fonte qualificata del governo. Effettivamente Senis questo mestiere lo fa da anni. Quasi mai, però, da sola. Per gli appalti più grossi si presentava sempre in Ati con la Cascina (come nel caso di Mineo), prima che quest’ultima fosse commissariata per i rapporti con Buzzi e Carminati dal prefetto di Roma, Franco Gabrielli, lo scorso luglio. La Cascina — sostengono i pm di Mafia Capitale, che hanno appena accordato il patteggiamento per corruzione a quattro manager della coop bianca — teneva a libro paga Luca Odevaine ed è così che ha vinto l’appalto di Mineo.
Proprio insieme a Senis.
IL DOPPIO FILO CON LA CASCINA
C’è qualcosa di più di un’alleanza di mercato, tra Senis e La Cascina. Ufficialmente non hanno quote societarie in comune, ed è per questo motivo che Senis non viene colpita e fermata dall’interdittiva antimafia di Gabrielli. Ma a leggere le carte giudiziarie, a girare tra le sedi sparse tra la Basilicata e la Puglia, i due soggetti appaiono essere la stessa cosa.
Un primo indizio in questo senso lo offre il gip di Roma Flavia Costantini nell’ordinanza di custodia cautelare che ha scoperchiato “il mondo di mezzo” di Buzzi e Carminati. «Senis — scrive — ha tra i suoi rappresentanti legali esponenti del Gruppo La Cascina ». Il riferimento è all’amministratore delegato di Senis, Camillo Aceto, fino a pochi mesi fa anche vicepresidente della Cascina. Era il braccio destro di Salvatore Menolascina ( l’ad della coop bianca, arrestato a giugno per Mafia Capitale), ed è stato condannato a un anno e sei mesi in primo grado per lo scandalo mense a Bari. Processo nel quale, sul banco degli imputati, figura lo stesso Menolascina.
Ma non è soltanto una questione di nomi. È questione anche di luoghi. La sede amministrativa di Senis Hospes si trova a Bari, in viale Einaudi 15: condivide l’ufficio con Solidarietà e Lavoro, un’altra coop della galassia Cascina. E, curiosamente, nella minuscola Senise, a pochi metri dal condominio della Senis Hospes, c’è il quartier generale del secondo gigante del settore accoglienza, l’Auxilium, il cui amministratore è un altro ex Cascina, Angelo Chiorazzo, ora in pessimi rapporti con i vecchi amici.
I TOTEM PUBBLICITARI
Ci sono poi alcune foto, che testimoniano la contiguità tra le due coop, il cui destino comune ora si è complicato per il fatto che una è commissariata per mafia, l’altra no. Al congresso di Comunione e liberazione del 2014, prima dello scoppio del grande scandalo romano e prima anche dell’inchiesta Grandi appalti che ha portato alle dimissioni di Lupi, lo stand della Cascina era una delle attrazioni principali: enorme, come grandissimi erano anche i cartelloni e i totem pubblicitari che indicavano tutte le aziende controllate dal gruppo. Sorpresa: tra i loghi c’era anche quello della Senis. Così come, su alcuni opuscoli pubblicitari (di cui pubblichiamo la foto), le due società erano insie- me nello stesso annuncio: in grande Cascina, sotto, in piccolo appunto Senis. «Una delusione cocente — ha commentato in una recente intervista a Repubblica don Juliàn Carròn, presidente della Fraternità di Cl — l’ideale del movimento è agli antipodi della corruzione che sta emergendo».
GLI AGGANCI CON L’NCD
Senis, tra le altre cose, ha vinto insieme con la Tre Fontane (altra società del Gruppo La Cascina) convenzioni con la prefettura di Roma per una quindicina di strutture, ed è presente in 24 città. Il numero dei contratti cresce, anche perché hanno un partito intero che li appoggia: l’Ncd di Angelino Alfano. Maurizio Lupi e Menolascina, del resto, sono grandi amici, tanto da condividere escursioni in barca. E Odevaine a verbale racconta: «Menolascina mi fece capire che Cascina aveva finanziato la presentazione di Bari di Ncd». Si tratta della convention nazionale del maggio del 2014 alla quale parteciparono, oltre a Lupi e Alfano, i manager della Coop. Ci fu anche una cena nella quale, sostiene Odevaine, «si parlò della nomine del direttore generale del ministero».
E che La Cascina fosse interessata a conoscere le mosse del Viminale non è un segreto. «Odevaine — scrive il gip di Roma — raccontava ai suoi interlocutori che nel corso di una riunione avvenuta il 28 maggio 2014, i rappresentanti delle Regioni avevano espresso una loro pregiudiziale, ossia che i Centri di prima accoglienza avessero una capienza massima di 100 posti. Al che, sia lui che il prefetto Compagnucci avevano rappresentato che centri da 100 posti “non li fa nessuno”, per cui nel documento finale la capienza dei centri d’accoglienza era stata fissata a 300 posti». Odevaine aveva spinto dunque per aumentare le capienze della prima accoglienza, e così si prepararono bandi per 350 posti all’incirca. A Bari parteciparono in quattro. Al primo posto arrivò la Tga, offrendo 84 disponibilità. Al secondo, la Senis che da sola era pronta a coprire i restanti 270. Ma l’allora prefetto, Antonio Nunziante, oggi assessore nella giunta Emiliano, bloccò tutto. «Capisco l’emergenza, ma ci interessa di più la trasparenza», disse.
La Stampa 26.9.15
Renzi vola negli Usa per incontrare i Clinton ma troverà D’Alema
In programma anche i bilaterali con Obama e Ban ki-moon
di Fabio Martini


La «contaminazione» con personaggi dello sport e dello spettacolo è un genere che piace assai a Matteo Renzi ed infatti questa sera, appena arrivato a New York (per partecipare ad una serie di significativi eventi politici), il presidente del Consiglio come prima cosa si trasferirà al Central Park. Qui è tutto pronto per il mega concerto-evento organizzato dal Global Poverty Project, al quale parteciperanno alcune star mondiali della musica come Bono Vox e un personaggio come Bill Gates. Per il premier un’occasione per salutare il suo recente amico Bono, che ha accompagnato in visita all’Expo di Milano e dal quale è stato ricambiato con affermazioni gratificanti: «Renzi ha fatto delle promesse, credo che le manterrà». Certo, nel suo afflato umanitario e pacifista, Bono è sempre stato generoso con i leader di tutti i colori (da Bush junior ad Angela Merkel), ma ovviamente Renzi ha incassato con piacere le attestazioni di un personaggio come lui, popolarissimo tra giovani di diverse generazioni. Ovviamente Renzi non è a New York per il concerto di Bono, ma per una serie di eventi politici che ruotano attorno alla sessione autunnale dell’Onu che quest’anno festeggia il suo settantesimo «compleanno».
Per Renzi sarà l’occasione per una serie di importanti incontri bilaterali (Obama, Ban ki-moon, ma non solo), anche se l’evento più significativo è destinato a diventare la partecipazione del premier italiano ad un dibattito promosso dalla Clinton Global Initiative, assieme a due personaggi come l’ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton e come il finanziere George Soros. Renzi è stato invitato dalla Fondazione dei Clinton, ed è un segno di riguardo e dunque per il premier è l’occasione per consolidare il link con quello che dovrebbe essere il clan vincente dei Democratici in vista della riconquista della Casa Bianca nel 2016: quello dei Clinton. Certo, nei preliminari delle Primarie democratiche Hillary sta incontrando qualche difficoltà nella corsa alla nomination ma resta la favorita e dunque Renzi può «agganciare» il treno che fra un anno potrebbe riconquistare la presidenza.
Per la verità, tre anni fa, il link iniziale di Renzi con i democratici americani è stato favorito proprio dal «giro» dei Clinton e in particolare dal Center for American Progress, il think thank guidato da John Podesta, uno dei notabili più influenti del partito democratico degli ultimi 20 anni e che ha sempre tenuto i rapporti con i progressisti italiani. Nel 2012 Renzi, da sindaco di Firenze, partecipò alla Convention di Charlotte che incoronò di nuovo Obama e in quella occasione a fare da ponte fu proprio il «giro» legato ai Clinton. Curiosamente alla tre giorni promossa dalla fondazione Clinton parteciperà anche uno dei politici italiani meno amati da Renzi, Massimo D’Alema, che ha mantenuto un rapporto personale con Bill, dopo che i due si erano conosciuti alla fine degli Anni Novanta, quando guidavano i proprio Paesi.
Renzi, dopo aver partecipato al concerto di stasera, domani mattina parteciperà ai lavori della conferenza sull’uguaglianza di genere e sull’enpowerment femminile, promosso da Ban ki-moon e dal presidente cinese Xi Jinping. Subito dopo Renzi interverrà al Vertice sul cambiamento climatico e al summit sullo sviluppo, presieduti da Ban ki-moon. Domenica, alle 17, il presidente del consiglio parteciperà al panel sulla crescita in Europa con Clinton e Soros e successivamente seguirà i lavori di apertura dell’Assemblea generale dell’Onu e il summit sulle operazioni di peacekeeping. Martedì Renzi interverrà al summit sulla lotta al terrorismo, voluto e presieduto dal presidente Usa Barack Obama e successivamente interverrà all’assemblea generale delle Nazioni Unite. Ma che impatto avranno le esternazioni che in questa sede farà il presidente russo Vladimir Putin? Renzi e l’Italia potrebbero essere chiamati in qualche modo a pronunciarsi sul protagonismo russo in Siria e sulla sua «chiamata alle armi» contro il pericolo terrorista.
Meloni è un democristiano, Walter Tocci fra i Pd della così detta “sinistra”, come Corradino Mineo, che hanno salvato il razzista Calderoli in Parlamento contro Kyenge...

Repubblica 25.9.15
Il lettiano Meloni e Tocci firmano il referendum anti Italicum
di Tommaso Ciriaco


ROMA «Il referendum è l’unica via per riconsegnare ai cittadini il potere di eleggere direttamente i deputati». Con una mail inviata ai deputati del Pd, il lettiano Marco Meloni ha annunciato l’adesione al quesito che punta ad abolire i capilista bloccati dell’Italicum. Il deputato, che già non aveva votato la legge, sostiene l’iniziativa di Pippo Civati e provoca un ping pong polemico - sempre via mail con il collega Franco Vazio: «Vedi Marco, quando alle ultime elezioni politiche proposero il tuo nome per rappresentare il Pd in Liguria, non facesti questa giusta battaglia. Accettasti silenziosamente la candidatura. Avresti dovuto ribellarti rifiutando sdegnosamente. Non ti mettesti in gioco con le primarie». Pronta la controreplica di Meloni: «Incoerenza per incoerenza, non trovo troppo coerente neppure il fatto che tu, dopo aver contestato i listini bloccati e esaltato le primarie, abbia entusiasticamente votato persino la prima versione della legge elettorale, che manteneva tali listini». Meloni non è l’unico dem a sostenere il referendum: anche il senatore Walter Tocci ha firmato i quesiti. E ieri è arrivata pure l’adesione di Antonio Di Pietro, ex leader Idv.
Repubblica 26.9.15
Civati dalla Leopolda agli otto referendum “La mia sfida a Matteo”
Nel mirino Jobs act e Buona scuola, ma soprattutto l’Italicum L’ex Pd: “Mancano 100mila firme”. I contrasti con Cgil e Sel
di Giuseppe Alberto Falci


ROMA  Cinque giorni per 100 mila firme. È appeso a questo numero l’esito degli otto quesiti referendari promosso dal movimento politico di Pippo Civati, “Possibile”. «Non è impossibile da raggiungere», gioca con le parole l’ex compagno di banco della prima Leopolda di Matteo Renzi. Da settimane l’ex dem gira in lungo e largo lo stivale, «in questo momento sono a Crotone, in serata a Cosenza, e domani che ci saranno 500 banchetti in tutta Italia tornerò a quello di casa, dove troverò la mia compagna». L’impianto dei quesiti vorrebbe smontare leggi chiave del renzismo. «Non per far cadere il governo», ma, afferma Civati, «per far tornare i cittadini a poter votare». Degli otto, infatti, due riguardano l’Italicum, legge elettorale approvata in via definitiva la primavera scorsa. Che Civati propone di modificare eliminando i capilista bloccati e le candidature plurime. Il terzo e il quarto vogliono le eliminazioni delle trivellazioni a mare. Il quinto è contro lo Sblocca italia, per superare- dice Civati- la politica delle grandi opere. Il sesto e il settimo prendono di mira il Jobs Act, provvedimento che ha scatenato le ire della sinistra interna al Nazareno. E infine, l’ottavo colpisce la “buona Scuola”. Per l’appunto si chiede di abrogare «il potere di chiamate del preside manager ». La campagna referendaria è stata avviata lo scorso 17 luglio. Da completare con la raccolta di 500 mila firma entro il 30 settembre. Secondo i calcoli dello staff di Civati, ne mancherebbero circa 100 mila. Un numero che l’ex leopoldino spera di ottenere in questo weekend. Così da portare a compimento l’impresa: il referendum nella primavera del 2016. Ma la meta appare lontana. I promotori dell’iniziativa hanno iniziato un dialogo con alcune forze politiche e sociali. Con l’intento di servirsi del referendum per provare a «ricostruire una sinistra alternativa a Matteo Renzi e al partito della nazione». Ma Civati ha perso per strada i “compagni” vendoliani di Sel. Il motivo? «Non ci convince di formularli in questo modo e in questi tempi» taglia corto Nicola Fratoianni, parlamentare e segretario nazionale di Sel. «Oltretutto molti soggetti coinvolti, penso ai sindacati della scuola, ma anche alla Cgil, hanno espresso dubbi anche di merito». Qualche giorno fa, però, Fratoianni ha cambiato idea firmandoli ugualmente perché «non sia mai che alla fine dovesse mancarne una, la mia». Anche Paolo Ferrero, Antonio Di Pietro, il grillino Alessandro Di Battista e l’intramontabile Marco Pannella hanno sottoscritto i quesiti proposti da Civati. Il leader radicale ha messo a verbale che «firmo a prescindere dal contenuto dei quesiti anche a nome dei milioni di elettori che non hanno visto il diritto alla conoscenza ». In casa dem si è registrato il sostegno del lettiano Marco Meloni e di Walter Tocci. Grande assente la Cgil. E, soprattutto, quel Maurizio Landini invocato da Civati a più riprese: «Perché non firmi i referendum? ».
Repubblica 26.9.15
Nomine, Cantone ferma Zingaretti
L’Autorità anticorruzione applica la legge Severino e sospende per tre mesi il governatore dalla possibilità di assegnare incarichi amministrativi. La misura dopo la designazione “incompatibile” di Giovanni Agresti all’Ipab
di Liana Milella


ROMA Cantone versus Zingaretti. Lo zar Anticorruzione contro il presidente della Regione Lazio. Sospeso per tre mesi il suo potere di fare nomine amministrative. Una sanzione pesante, ma resa obbligatoria dalla legge Severino. La colpa: una scelta, quella di Giovanni Agresti a commissario straordinario dell’Ipab di Gaeta, fatta da Zingaretti senza verificare eventuali incompatibilità. Che invece c’erano tutte, visto che Agresti è anche amministratore di una società, la Gest- Var, che gestisce due cliniche private. Lui lo segnala nel curriculum vitae, ma si guarda bene dal mettere in evidenza che entrambe le cliniche sono in rapporti con la Regione Lazio.
Da 24 ore una tegola, politicamente pesante, è precipitata sulla testa del dem Zingaretti. L’Anac, l’Autorità Anticorruzione presieduta dall’ex pm Raffaele Cantone, gli ha recapitato la delibera assunta all’unanimità giovedì mattina. Undici pagine che ricostruiscono, con incalzanti dettagli, la storia di una nomina fatta dal presidente della Regione Lazio senza verificare preventivamente se Agresti avesse effettivamente tutti i titoli per diventare commissario dell’Ipab Ss. Annunziata, un ente di diritto pubblico che si occupa di assistenza e beneficenza.
Ma nell’atto d’accusa — che diventerà operativo solo quando la decisione sarà sottoscritta dalla responsabile dell’Anticorruzione della Regione Lazio Giuditta Del Borrello — pesano anche le note di Cantone sulla legge Severino e sul meccanismo obbligatorio della sospensione. Il 5 settembre un analogo provvedimento aveva colpito il governatore della Calabria Mario Oliverio sempre per via di un commissario nominato in una Asl di Reggio Calabria. Inevitabile, quindi, anche quello di Zingaretti, che ha chiesto di essere sentito e di poter esercitare il suo diritto di difesa. Cantone però riscontra «non poche criticità nella legge», già segnalate al Parlamento il 10 giugno e il 9 settembre, a partire «dalla sanzione fissa, e quindi non graduabile, che riguarda gli incarichi». Zingaretti insomma, in base alla legge vigente, non può che essere sospeso per via di una nomina disavveduta. A chiederlo è anche, con un esposto all’Anac del 25 agosto, la grillina Valentina Corrado. Perché Zingaretti è “colpevole”? L’atto di accusa firmato da Cantone lo spiega così: «L’Authority ritiene che non basti a far ritenere insussistente la colpa della nomina il rilascio, da parte del nominando Agresti, della dichiarazione di assenti cause di inconferibilità». Perché «quella dichiarazione non può far venir meno il dovere di accertare i requisiti necessari alla nomina e in particolare uno, l’assenza di cause di incompatibilità che rappresenta una chiara esplicazione concreta del principio costituzionale di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione ». Zingaretti, e per lui quantomeno gli uffici che hanno lavorato alla nomina Ipab, avrebbero dovuto verificare bene le eventuali incompatibilità di Agresti. Un obbligo che non è ancora entrato nel Dna dei pubblici amministratori nonostante le leggi anticorruzione.
La storia, puntigliosamente ricostruita dall’Anac, non lascia dubbi. Il 17 febbraio la nomina di Agresti a commissario straordinario, incarico di per sé delicato. Il 24 il direttore dell’Ipab Giovanni Caprio, pure nella veste di responsabile anticorruzione, rivela che Agresti è incompatibile. Scattano le verifiche di Giuditta Del Borrello, definite «scrupolose» dall’Anac, che portano tre mesi dopo a certificare l’anomalia. L’11 giugno Agresti si dimette. Il 3 luglio si dimette pure il suo accusatore Caprio, di cui l’Anac segnala «stranezze nella gestione dell’Ipab » perché beni e servizi «sono stati attribuiti alla fondazione Alzaia il cui direttore è sempre Caprio», con un «sospetto conflitto d’interesse».
Tant’è. Adesso la palla è nelle mani della responsabile anticorruzione Del Borrello, che si becca una ramanzina da Cantone perché non approfondisce i motivi per cui Agresti non chiarì subito la sua posizione. Sarà lei, dopo aver sentito Zingaretti, a procedere alla sua sospensione. E qui c’è un’altra anomalia della legge Severino, perché toccherà a una dipendente della Regione stessa sospendere ufficialmente il suo presidente.
Repubblica 25.9.15
Roma,via gli assunti di Parentopoli
Terremoto senza precedenti nell’azienda dei rifiuti Ama: licenziati 37 tra impiegati e funzionari e 23 autisti “Nessuna vendetta, furono tutti scelti con metodi clientelari”
I sindacati: sarà battaglia in tribunale
Prendevano stipendi da 60 a 96mila euro Più del presidente che ne guadagna 75mila
Il sindaco Marino: “Il segnale giusto per la città anche se andremo incontro a ricorsi”
di Cecilia Gentile


ROMA Sessanta dipendenti Ama licenziati in un colpo solo. È la prima volta che in un’azienda pubblica si verifica un terremoto del genere. Ieri pomeriggio il cda dell’ex municipalizzata romana dei rifiuti ha deciso di mettere fine al rapporto di lavoro di 37 amministrativi e 23 autisti, tutti raccomandati di Parentopoli, la vicenda di assunzioni pilotate dell’era Alemanno, che oltre all’Ama ha coinvolto anche l’azienda romana dei trasporti, l’Atac. Una vicenda portata sotto i riflettori proprio da Repubblica e chiusa a maggio scorso con la sentenza del tribunale penale che ha condannato l’ex ad Franco Panzironi, adesso in carcere per Mafia capitale, a 5 anni e 3 mesi. Grazie a queste assunzioni, i 41 amministrativi raccomandati, diventati poi 37 perché due si sono dimessi e due sono stati assunti da Acea, percepivano stipendi che andavano da un minimo di 60mila euro lordi l’anno a un massimo di 96mila, più del presidente dell’azienda Daniele Fortini, che ne prende 75mila.
«La nostra è stata una scelta coerente con la sentenza del tribunale — dichiara il presidente Fortini — presa in accordo con il sindaco Ignazio Marino, che da subito si è espresso per il licenziamento ». Ma i sindacati avvertono: «Non esistono licenziamenti collettivi, ci saranno ricorsi». Il sindaco Marino pochi giorni fa era stato chiaro sul destino degli assunti “amici degli amici”: «Licenziamento, anche se si andrà incontro a cause e rischio risarcimenti». Per ora il risarcimento per le assunzioni fuorilegge lo ha chiesto l’Ama agli autori del reato, vale a dire a Panzironi e agli altri dirigenti condannati.
Per deliberare la fine del rapporto di lavoro e mettersi al riparo da eventuali ricorsi, il cda di Ama ha atteso le motivazioni della sentenza che sono arrivate la settimana scorsa. Le quarantuno assunzioni a chiamata diretta tra la fine del 2008 e il 2009 «furono frutto di decisioni arbitrarie e clientelari», hanno scritto i magistrati nella sentenza. Ancora. «Come appurato dalla polizia giudiziaria molti degli assunti erano legati a rapporti di parentela o affinità con esponenti politici o persone a costoro vicine ed erano espressione del volere, per nulla trasparente, dell’amministratore delegato». Tra gli assunti, oltre a quello che sarebbe poi diventato il genero dello stesso Panzironi, Armando Appetito, il figlio del responsabile della segreteria degli onorevoli Gasparri e Alemanno e la figlia del caposcorta di quest’ultimo. Nell’epoca Parentopoli furono 841 gli assunti per cui la procura ipotizzò il falso o l’abuso. Ma la condanna a Panzironi e company è arrivata perché 41 amministrativi, alcuni impiegati altri quadri, sono stati assunti con una delibera retrodatata, per aggirare la legge Brunetta che vieta le assunzioni per chiamata diretta. I 23 autisti, invece, erano stati giudicati inidonei ma il loro punteggio era stato successivamente alterato.
La vicenda Parentopoli ha avuto ripercussioni pesantissime sulla giunta Alemanno, bocciata e punita dai romani nelle ultime elezioni comunali del maggio 2013, che hanno portato alla vittoria di Marino. «Governeremo nel segno della discontinuità », ha più volte ripetuto il neo eletto per marcare la differenza rispetto alla precedente gestione. Adesso l’Ama si avvia a voltare pagina. Il sindaco Marino punta a quotare in borsa l’azienda, e ad avviare un matrimonio di interessi con un partner industriale forte, che supplisca al deficit tecnologico della società dei rifiuti. Proprio in questi giorni l’assemblea capitolina discute l’affidamento del servizio per 15 anni.
La Stampa 26.9.15
Il premier: non taglio la sanità
I medici aiutino non scioperino


«Noi stiamo mettendo più soldi, non meno soldi nella sanità. Se i medici vogliono dare suggerimenti, facciano. Si può fare senza che si arrivi allo sciopero». Matteo Renzi tende la mano dopo le polemiche sul decreto sulla sanità varato dal governo, che ha creato la sollevazione della categoria. Intervistato dal Tg5, il premier spiega che «se i medici ci vogliono suggerire modi diversi per tagliare gli sprechi, saremo ben felici di ascoltarli senza che si arrivi allo sciopero. Penso troveremo agevolmente un punto di intesa, ma deve essere chiaro che noi stiamo mettendo più soldi nella sanità, non meno. Quelli che mettiamo, spendiamoli meglio». A sostegno della sua tesi, il premier elenca i numeri, «nel 2013, 106 miliardi, nel 2014, 109, più 3%, nel 2015, 110 miliardi e il prossimo anno 111 miliardi. Nella sanità i soldi non sono tagliati, ne abbiamo messi di più ma la gente invecchia, ha bisogno di cure, quindi dobbiamo trovare criterio per fare cose che servono davvero».
Prima di partire per il suo viaggio in America, il premier si mostra fiducioso sulla riforma che tiene banco in questi giorni, quella del Senato, dicendosi convinto che «non ci saranno problemi. Le riforme andranno avanti, sono un tentativo di rendere il paese più semplice e giusto, un po’ meno politici e un po’ più concretezza per i cittadini. I tempi vengono rispettati finalmente». Batte sul tasto di quanto siano fondamentali per la ripresa, perché «finalmente le riforme portano alla crescita economica del Paese, finalmente siamo al segno più, finalmente l’Italia non è più il problema: oggi nel mondo il problema sono gli altri, non più gli italiani e di questo dobbiamo essere felici e orgogliosi». E torna sul punto più volte ribadito, «la principale riforma è restituire fiducia. Se gli italiani dopo tanto tempo vedono tornare a crescere i consumi è perché i tanti soldi da parte, fermi in Italia tornano a girare, si rimette in modo l’economia reale e noi diventiamo il Paese più forte dell’Ue».
[r. i.]
Repubblica 26.9.15
Dopo il caos di agosto il governo rinvia i dati sui nuovi contratti
di Valentina Conte


ROMA Alla fine il ministero del Lavoro rinuncia. Ieri, come accade da marzo ogni 25 del mese, dovevano uscire i nuovi dati sui contratti attivati e cessati ad agosto. Ma dopo il caos di quattro settimane fa, con le cifre prima diffuse e poi corrette perché del tutto sballate, il dicastero di Poletti si prende una pausa. Zero numeri, zero confusione. «Puntiamo su un’uscita concordata e condivisa con Istat e Inps», fanno sapere da via Veneto. La necessità è quella di «integrare le fonti informative », per renderle chiare e possibilmente non contraddittorie. Un processo tutt’altro che rapido. «Ci stiamo lavorando», chiosano. E ora dunque cosa succede ai dati sull’occupazione? Anche l’Inps si accoderà ad un’informazione corale con l’Istat? Si tornerà all’aggiornamento trimestrale? Non è dato sapersi.
La confusione è alta sotto il cielo dei «numerini», come li definisce Renzi. E alcuni tra questi più che confusi sembrano invisibili. È il caso dei contratti di collaborazione. Alla domanda quanti sono ora in Italia i cocopro e i cococo, la risposta non esiste. L’Istat prende in considerazione il tempo determinato. Il ministero del Lavoro solo i privati e tra l’altro è un dato di flusso non di stock, ben poco indicativo (se ho cambiato quattro cocopro in un anno sono registrato come un +4). L’Inps ogni mese pubblica l’ormai famoso “ osservatorio sul precariato” che però di tutto parla fuorché dei precari (voucher esclusi). L’ultimo dato aggiornato è comunque il suo e risale alla fine del 2013: 1,3 milioni di collaboratori, di cui 503 mila cocopro e 43 mila cococo statali, ma si sale a 1,7 milioni con le partite Iva.
Nessuno sa quanti sono, ma tutti ne annunciano la morte prematura. Il governo dice che il contratto a progetto è stato abrogato. Vero formalmente, falso nella sostanza. In effetti, il decreto 81 del 2015 ha bandito i cocopro a partire dal 25 giugno. Ma in realtà il più precario dei contratti vive e vivrà nel suo surrogato ancor meno tutelato, il cococo. E anche come cocopro in tutto e per tutto, grazie alle sostanziose deroghe. Due su tutte: i contratti nazionali e gli albi professionali. Se gli accordi collettivi lo prevederanno, i settori del recupero crediti e dei call center, per nominare quelli a più alto tasso di precari, possono dormire sonni tranquilli, si fa per dire. Così avvocati, commercialisti, giornalisti, ingegneri. Senza parlare poi delle associazioni e società sportive dilettantistiche. Ma c’è una terza, subdola e utilissima (per le aziende), deroga: la certificazione.
L’istituto esiste dal 2003, ma il decreto del Jobs Act lo ha arricchito. Il datore può richiederla all’apposita commissione prevista dalla legge (istituita da università o parti sociali, consulenti del lavoro, direzioni territoriali del lavoro). E questa commissione ora potrà anche attestare l’assenza del requisito della cosiddetta “etero-organizzazione”, in vigore dal primo gennaio 2016, la novità principale del Jobs Act in tema di contratti precari. Ovvero certificare, dopo apposita istruttoria, che tempo e luogo di lavoro non sono decisi dal datore. In questo modo, la collaborazione sarà blindata. Nessuna sanzione, se arriva l’ispezione. Nessuna conversione automatica in contratto a tutele crescenti, esito obbligato dal primo gennaio prossimo per tutte le collaborazioni etero-organizzate. A meno che il lavoratore riesca a dimostrare davanti a un giudice che la certificazione era concordata e forzata. La precarietà dunque vive. I numerini meno.
Repubblica 25.9.15
I transfughi
“Traditori, venduti per una poltrona” il grande fuggi fuggi da Forza Italia sul carro vincente
L’emorragia di parlamentari berlusconiani verso Verdini riapre il capitolo del trasformismo: fino ad oggi 308 cambi di casacca
di Sebastiano Messina


Aleggia il fantasma di De Gregorio ma nessuno parla di giri di denaro, piuttosto di promesse di posti di sottogoverno Il centrosinistra respinge le accuse anche perché, dopo l’intesa con la minoranza, oggi Renzi non ha bisogno di aiuti esterni

ROMA «Ecco un altro traditore» mormora un fedelissimo berlusconiano mentre un senatore siciliano attraversa velocemente il salone Garibaldi. È uno degli otto che hanno appena detto addio a Forza Italia per seguire Denis Verdini, il più renziano dei berlusconiani (o il più berlusconiano dei renziani, a seconda dei punti di vista).
Il velocissimo e assai tempestivo trasloco di quei dieci parlamentari – otto al Senato e due alla Camera, proprio nel pieno delle votazioni sulla riforma costituzionale – dal sempre meno folto gruppo forzista alla crescente pattuglia verdiniana ha reso incandescente il clima tra le macerie del fu centrodestra, con il capogruppo Romani che parla apertamente di «campagna acquisti ai limiti del lecito », appellandosi a Mattarella perché la fermi, il governatore della Liguria Giovanni Toti che lascia su Twitter l’hastag ironico “#soapoperatransfughi” e Gasparri che tuona in aula contro il suo ex fedelissimo Francesco Amoruso – neo-verdiniano – accusandolo di «un comportamento miserevole», mentre i grillini annunciano di voler andare alla Procura della Repubblica per «denunciare la compravendita di voti».
Si sente, insomma, l’eco di quello che accadde otto anni fa, quando il senatore napoletano Sergio De Gregorio intascò due milioni di euro per far cadere il governo Prodi. E anche se nessuno oggi parla esplicitamente di giri di denaro, alludendo invece a poltrone, poltroncine o strapuntini nel sottogoverno che sarebbero stati promessi ai transfughi, nel centrosinistra l’accusa brucia.
Tanto più che, conti alla mano, se l’accordo con la minoranza tiene, Renzi oggi non ha bisogno di aiuti esterni per far passare la riforma costituzionale. Chi ha fatto i calcoli assicura che oggi il governo può contare su oltre 170 voti a Palazzo Madama: con i 13 voti dei verdiniani supererebbe persino quota 183, il tetto raggiunto quando Forza Italia votò la prima stesura della riforma.
Eppure, col passare delle ore la migrazione berlusconiana verso la rassicurante sponda del gruppo Ala sembra diventare sempre più folta, e sempre più impetuosa. Adesso gli occhi sono puntati su otto senatori sui quali si sussurra che Verdini abbia messo gli occhi, oltre ai due deputati siciliani (uno è l’agrigentino Riccardo Gallo Afflitto) che la prossima settimana dovrebbero ufficializzare l’addio a Forza Italia.
Su quegli otto senatori si è già concentrato un serrato corteggiamento. C’è il lodigiano Sante Zuffada, che si schermisce («Oggi sono qui, quale sia il futuro nessuno lo sa…»), c’è Franco Cardiello che nega decisamente («Sono abituato a mangiare pane e coerenza, non abbandono Berlusconi»), ci sono l’ex sindaco di Roma Franco Carraro, l’inquieto Francesco Nitto Palma, l’imprenditore Bernabò Bocca, l’ex piddino Riccardo Villari e, infine, l’ex fittiano Michele Boccardi, senatore da appena 15 giorni al posto dello scomparso Donato Bruno.
Cederanno? Resisteranno? Temporeggeranno? Ormai nessuno si meraviglia più di nulla, in questo Parlamento che ha stracciato ogni record di trasformismo, con 144 cambi di casacca a Montecitorio e addirittura 164 a Palazzo Madama: più della metà dei senatori non sta più nel partito che lo ha eletto, anzi nominato.
Il gruppo che ha subìto l’emorragia più violenta (un flusso che sembra inarrestabile, ormai) è quello berlusconiano, che in due anni e mezzo ha perso per strada 83 parlamentari (35 deputati, tra i quali spicca il nome di Angelino Alfano, e 48 senatori, compresi gli ex “fedelissimi” Verdini, Schifani, Bonaiuti e Bondi), ovvero più del 40 per cento dei seggi conquistati nel 2013.
Ma anche i Cinquestelle si sono ristretti, da allora ad oggi, e tra dimissioni ed espulsioni oggi contano 36 parlamentari in meno, 18 al Senato e 18 alla Camera (erano partiti da 163).
In proporzione, è stata più dura la perdita subìta da Sel, che ha visto passare ad altri gruppi 14 dei suoi 37 deputati, a cominciare dall’ex capogruppo Gennaro Migliore che si è trasferito nel Pd, come altri dieci compagni di partito. E non solo loro: le file del partito di Renzi si sono ingrossate di 37 parlamentari, al netto degli addii più sofferti come quelli di Fassina e di Civati, e così oggi il principale partito di governo può contare su 11 senatori e 26 deputati in più rispetto ai 396 conquistati nelle urne.
Tutto questo grazie a un movimentatissimo viavai di deputati e senatori – 308 trasferimenti di gruppo - che ha superato di gran lunga il record della precedente legislatura (quella di Berlusconi e Monti) nella quale cambiarono casacca 261 parlamentari. E siamo ancora a metà del percorso.
Una migrazione tumultuosa ma non tanto caotica – nel Paese dove tutti accorrono in soccorso del vincitore – che ha avuto il suo picco massimo durante il governo Letta, quando la scissione degli alfaniani fece alzare la media dei tradimenti a uno ogni due giorni (al tempo di Berlusconi ce n’era uno la settimana).
Protagonisti, oggi come allora, i transfughi, i fuoriusciti, i migranti del Palazzo. Una volta gli onorevoli colleghi li chiamavano voltagabbana, poi hanno smesso perché si sono resi conto di essere circondati: in due anni mezzo, dal voto del 2013 a oggi, ha cambiato casacca un parlamentare su quattro.
Se fosse un campionato, in vetta alla classifica ci sarebbe un ex liberale (ed ex centrista, ed ex berlusconiano), il napoletano Luigi Compagna, che il suo quarto mandato parlamentare l’ha conquistato nel 2013 con una lista del Pdl. Appena arrivato, s’era iscritto al Misto, per guardarsi intorno. Dopo cinque giorni ha aderito a Gal (Grandi Autonomie e Libertà). Passati otto mesi ha deciso che il suo posto era nel Nuovo Centrodestra, dove però è rimasto quattro giorni appena («Il tempo di votare la fiducia al governo Letta »). Quindi, compiuta l’operazione, è rientrato per undici giorni tra i banchi dei vecchi colleghi di Gal, ma l’inquietudine se lo mangiava vivo. E così alla fine è tornato nel Nuovo Centrodestra. Dove siede tuttora. Provvisoriamente, si capisce.
Repubblica 25.9.15
Il mondo post Berlusconi si sgretola e Renzi se ne impossessa
I vassalli della destra alla corte del nuovo re
Verdini tesse la sua tela spregiudicata per riorganizzare un potere Alfano è in difficoltà e resta spiazzato dalla creazione di due forni centristi
di Stefano Folli


NEL CENTRODESTRA ormai post-Berlusconi la novità è duplice. Da un lato lo smarrimento è tale per cui ognuno si preoccupa della propria sopravvivenza o insegue progetti politici velleitari. Il re ha abdicato e tutti, dignitari e vassalli, sono in crisi di identità. Dall’altro lato c’è la tessitura di Denis Verdini. Che a ben vedere è l’unica operazione, pragmatica e spregiudicata quanto si vuole, per riorganizzare un pezzo di quel mondo in disfacimento.
L’Ala — Alleanza liberale e delle autonomie — era nata come manovra di piccolo cabotaggio parlamentare per far da sponda a Renzi sulla riforma del Senato. È servita allo scopo finché l’accordo interno al Pd ha reso non indispensabili, ossia non decisivi, i voti degli amici di Verdini. Nel frattempo son volate le accuse circa la “compravendita di parlamentari” e le assemblee ridotte a mercato mediorientale. Colpisce in realtà che il nuovo gruppo si sia ingrossato anche quando i suoi voti non erano più immediatamente necessari alla maggioranza. Cosa sta accadendo? Verdini offre una casa e qualche buon argomento a un segmento del mondo berlusconiano a pezzi. Entro certi limiti, la sua pattuglia può ancora allargarsi in quanto rappresenta una calamita naturale. Anche Fitto, per citare un altro personaggio uscito da Forza Italia, ha tentato di aggregare i disorientati, ma non ha avuto finora la stessa fortuna. E si capisce: Fitto propone una linea anti Renzi e indica agli ex berlusconiani una traversata del deserto in senso liberista, nel segno dei repubblicani americani. Non una prospettiva allettante per tanti “peones”. Verdini, viceversa, offre molto di più: la possibilità di restare nel giro del potere e di contare qualcosa nella nuova Italia renziana.
E infatti l’operazione, al di là del notevole tasso di trasformismo, è figlia di una precisa intuizione. Renzi è ormai il personaggio egemone della scena politica — il nuovo Berlusconi, dice qualcuno — e ambisce a ereditare una parte consistente dei voti di Forza Italia, il che significa entrare nel santuario dei ceti sociali che un tempo sostenevano il centrodestra e oggi sono maturi per il “renzismo”. Verdini e i suoi anticipano e assecondano questa tendenza e la portano sul terreno delle manovre parlamentari. Perché è lì, in Parlamento, che il premier può scivolare o cadere in qualche trappola. Al di là della riforma del Senato, sono tanti i passaggi rischiosi: alcuni aspetti della politica economica, i rapporti con il mondo giudiziario, le unioni civili. Qui, ad esempio, sono note le resistenze dei centristi cattolici di Alfano. Viceversa, non c’è dubbio che gli altri centristi, quelli di Verdini, non avranno esitazioni a sostenere la legge. Questo non significa che il gruppo Ala entrerà in modo ufficiale nella maggioranza: non subito, almeno. Nella sostanza, però, ne fa già parte. Come si è visto ieri, quando i verdiniani hanno sostenuto il Pd in un primo voto sulla riforma del Senato, contrario tutto l’arco delle opposizioni, da FI alla Lega fino a Sel.
MOLTI si chiedono quale prezzo Palazzo Chigi è disposto a pagare per avere la certezza del sostegno. Non saranno i posti di governo, ma certo le gratificazioni per i nuovi arrivati non mancheranno, anche a livello locale. Del resto, gli ex berlusconiani saranno i più convinti sostenitori del “partito di Renzi”, post-moderno e centrato sulla figura del leader. È Alfano, semmai a trovarsi in difficoltà. Il ministro dell’Interno non si considera — come Verdini — una costola del mondo renziano. Ma d’ora in poi sarà più complicato per lui marcare un’autonomia, salvaguardare uno spazio, negoziare con Renzi quando sarà necessario farlo. Il premier dispone adesso di due piccoli forni centristi, il che può essere molto comodo all’occorrenza. Se poi Alfano riuscirà a ottenere, prima delle elezioni, una modifica dell’Italicum introducendo il premio alla coalizione e non più alla lista vincitrice, allora lo scenario cambierà. Ma Renzi, anche grazie a Verdini, non sarà obbligato a concederlo: deciderà in base alle convenienze dell’ultima ora.
Corriere 26.9.15
Le tante maggioranze del leader che rinforzano l’asse con Ncd
Renzi prepara un evento a Milano con le «eccellenze italiane» per la fine dell’Expo
di Francesco Verderami


Renzi e il Senato «Se penso a chi remava contro...»
Se sta già pensando alla «sorpresa» per l’ultimo giorno dell’Expo vuol dire che sulle riforme Renzi non teme sorprese dal Senato, grazie alle tante maggioranze di cui dispone e che hanno a cuore la Costituzione e la legislatura.

I forni del premier, che dopo l’elezione di Mattarella al Quirinale sembravano spenti, hanno sorprendentemente ripreso a fumare. E tutti insieme. Il panificio appena aperto da Verdini, per esempio, ha avuto un peso e una certa influenza nel consentire al leader del Pd un onorevole (e vantaggioso) compromesso con la minoranza interna del suo partito. Tanto dovrebbe bastare per evitare cattive sorprese a scrutinio segreto. Ma giusto per scongiurare il rischio che un voto sulle riforme porti poi al voto anticipato, all’occorrenza è previsto anche un robusto soccorso azzurro, neppure sorprendente visto quel che sta succedendo in Forza Italia.
I forni fumano, ognuno si sta predisponendo a fornire il proprio contributo. Ma c’è un motivo se ieri — in Consiglio dei ministri — Renzi ha voluto ringraziare gli alleati centristi: «Vi ringrazio per il decisivo sostegno che state dando sulle riforme», ha detto rivolgendosi ad Alfano. Perché il premier può avere tante maggioranze in Parlamento, ma una sola può essere la sua maggioranza di governo. Le altre possono essere aggiuntive, non sostitutive, ed è un confine su cui il segretario democratico vigila perché non può né vuole che venga violato: segnerebbe la fine del suo esecutivo. E in fondo, proprio con la costituzione delle altre maggioranze, Renzi ha messo in sicurezza quella più importante, depotenziando le fibrillazioni in Area popolare e impedendo sbocchi politici a eventuali operazioni di rottura.
Per questo ieri era «soddisfatto» e «ottimista» sull’esito della sfida al Senato, e si prodigava in complimenti per il lavoro «della nostra Maria Elena», come affettuosamente ha chiamato il ministro delle Riforme Boschi: «Se penso a tutti quelli che hanno remato contro, se penso a tutti quelli che volevano farci saltare, se penso a Grasso...». Nonostante avesse fatto il fioretto di non parlarne e avesse ordinato al suo partito di tacere sul presidente del Senato, Renzi non ha resistito e ha (quasi) completato la frase: «Sì, se penso a Grasso che fa Grasso...». Chiaro il concetto e anche il moto d’animo del premier, che freme in attesa di sapere quale sarà la sentenza dell’inquilino di palazzo Madama sui contestati e controversi emendamenti all’articolo 2 della riforma.
Sembrerebbe questa l’unica incognita nell’iter parlamentare delle riforme, mentre non sono più un mistero le storie tese tra Renzi e Grasso che ogni giorno arricchiscono l’antologia delle battute reciprocamente ostili. In ogni caso, secondo il capo del governo, al Senato la maggioranza sarà «abbondante», e lo sarà ancor di più in futuro. Almeno così si scommette nel Pd, se è vero che i dirigenti renziani già danno appuntamento per il voto sulla Nota di aggiornamento al Def — «primo test significativo» dopo l’esame delle riforme costituzionali — e per il quale a palazzo Madama servirà la maggioranza assoluta dell’Assemblea. Dicono si preveda la ressa.
Ma Renzi continuerà a vigilare quel confine che separa le altre maggioranze dalla sua maggioranza di governo, e si dice pronto a rinforzare l’area di centro della coalizione — che è strategica per la sua permanenza a Palazzo Chigi — con innesti nell’esecutivo. Il resto dopo. E il resto sarebbe la modifica della legge elettorale, il ritorno cioè al premio di maggioranza da assegnare alla coalizione e non più alla lista. Sottovoce autorevoli esponenti democratici sostengono che sarà così e aggiungono che Renzi l’avrebbe di fatto detto pubblicamente qualche settimana fa, in tv. Quando a Otto e mezzo gli è stato chiesto se Alfano sarebbe entrato nella lista del Pd, il premier ha risposto: «No. Alle elezioni ognuno si presenterà con il proprio partito. Io con il mio, Alfano con il suo, Berlusconi con il suo».
Si vedrà se questo messaggio criptico porterà al colpo di scena sull’Italicum nel finale di legislatura. Di sicuro Renzi, che non si aspetta cattive sorprese al Senato, sta preparando una «sorpresa» — così l’ha definita — per il giorno finale dell’Expo: il 31 ottobre vuole organizzare a Milano una convention con le «eccellenze italiane», riunire «i testimonial dell’Italia che funziona». Già di suo il premier è portato ai toni enfatici, figurarsi se si lasciava sfuggire il successo di pubblico dell’Esposizione universale contro quelli che dicevano «chi volete che ci vada?».
Corriere 26.9.15
Il silenzio del Pd fotografa la distanza con Grasso
di Massimo Franco


«Fare bene è possibile senza darsi tempi infiniti per realizzarlo». Il ministro Maria Elena Boschi ieri ha buttato lì questa frase mentre parlava di come le lungaggini della politica condizionano le riforme. E qualcuno ha voluto vedere nelle sue parole un’allusione allo scontro istituzionale che si è aperto tra Palazzo Chigi e il presidente del Senato su quelle costituzionali. Matteo Renzi e Pietro Grasso, entrambi del Pd, non sembrano assecondare la tregua che è stata siglata all’interno del partito. Anzi, i loro rapporti sono tesi. In particolare, il premier non ha gradito l’allungamento di cinque giorni del dibattito in Senato che porterà all’approvazione della riforma.
Anche se ufficialmente usa parole rassicuranti. «Non ci saranno problemi, le riforme vanno avanti, l’abbiamo sempre detto e sempre fatto, ma c’è sempre un po’ di preoccupazione nel mondo politico. I tempi vengono rispettati finalmente». Grasso ritiene di avere soltanto fatto il mestiere di presidente dell’assemblea, tentando di sfoltire i milioni di emendamenti e permettendone la votazione. Ma si tratta di modifiche chieste strumentalmente dalle opposizioni per boicottare la riforma, costringendo il Senato ad un’estenuante maratona: magari nella speranza di qualche inciampo della maggioranza.
Per questo, Renzi sospetta che la seconda carica dello Stato ostacoli la marcia quasi trionfale del governo verso il «sì». Di certo, la piega che hanno preso le cose promette al presidente del Consiglio una vittoria quasi totale sulla minoranza del partito: nonostante le smentite piccate di esponenti come l’ex segretario, Pier Luigi Bersani. La scommessa è di avvicinare il più possibile le elezioni amministrative di primavera con il referendum sulle riforme annunciato da Renzi per il 2016.
Gli avversari accusano il premier di forzare i tempi per «ghigliottinare» la massa di emendamenti scaricati dal vicepresidente del Senato, Roberto Calderoli in vista di questo obiettivo. Anche se l’espediente del leghista, deciso a «usare qualsiasi strumento per mandare Renzi a casa», in realtà potrebbe rivelarsi un aiuto involontario a Palazzo Chigi.
Quando il presidente Grasso si è lasciato sfuggire un «non sarò io il boia della Costituzione», attirandosi le critiche, pensava proprio alla «ghigliottina» parlamentare contro questi ostacoli .
Lo scontro è destinato a rimanere sullo sfondo delle prossime settimane. Il presidente di Palazzo Madama appare sempre più isolato nel partito che lo ha fatto eleggere. Il silenzio del Pd di fronte agli attacchi provenienti da Renzi e dal suo entourage è assordante. E Grasso non fa nulla per rassicurare un governo ansioso di chiudere la partita senza troppe votazioni scivolose in aula. «Le riforme portano alla crescita del Paese, oggi siamo al segno più», assicura Renzi. È una narrativa che non contempla intralci.
Repubblica 26.9.15
Grasso “taglia” l’ostruzionismo di Calderoli
Saranno ridotti a poco più di duemila gli emendamenti. Renzi: “Rispetteremo i tempi”
di Goffredo De Marchis


ROMA Piero Grasso si prepara a tagliare le decine di milioni di emendamenti presentati da Calderoli. «Lo ripeto: non consentirò a un singolo senatore e a un computer di mettere sotto scacco il Parlamento», dice il presidente del Senato nei suoi colloqui riservati. Dal senatore leghista ha ricevuto i dischetti digitali con le proposte di modifica e in questi giorni, fino a martedì quando saranno illustrati i testi in aula, li esaminerà insieme agli altri emendamenti presentati. Alla fine, è la convinzione di Grasso, non saranno più di 3000 gli emendamenti ammessi e non è affatto detto che a questo numero corrisponderanno altrettante votazioni. In alcuni casi potrà essere applicato il canguro, ovvero il sistema che consente la cancellazione di alcune proposte se se n’è votata una uguale.
Ma il gelo con Palazzo Chigi rimane. Grasso non ha ancora sciolto la riserva sulla modifica dell’articolo 2 e comunque potrà decidere su una serie di voti segreti, un pericolo per il governo e per i suoi numeri al Senato che dopo gli scontri dell’estate restano deboli.
Il presidente di Palazzo Madama difende la scelta dei tempi più lunghi concessi all’aula. Possono servire a lavorare su nuovi accordi, a convincere le opposizioni a ritirare alcune modifiche (quelle di Calderoli innanzitutto), ad affrontare le votazioni in un clima più sereno. Questa è la sua risposta al pressing di Matteo Renzi, alle sue osservazioni sull’arbitro che non deve fare il regista. «In fondo, il mio compito principale è far sì che l’aula si esprima con un voto», spiega Grasso.
Roberto Calderoli per il momento conferma i suoi 70 milioni di emendamenti. Ne ha cancellati 15 milioni sugli articoli 1 e 2. Ma non ha rinunciato a combattere anche su questi passaggi. Sul primo articolo ci sono 19 proposte a sua firma, sul secondo 6. «Usero qualsiasi metodo, matematico e non, per cacellare Renzi dalla scena politica», avverte l’ex ministro della Semplificazione. Il premier però sparge ottimismo: «Non ci saranno problemi, le riforme vanno avanti. L’abbiamo sempre detto, l’abbiamo sempre fatto. Le riforme sono il tentativo di rendere l’italia un pò più semplice, un pò più giusta. Finalmente le riforme portano alla crescita econonomica del paese».
Andrà bene anche secondo il ministro delle Riforme Maria Elena Boschi: «La scadenza che ci siamo dati è del tutto compatibile con i regolamenti parlamentari e noi cercheremo di rispettarla». Si è discusso per 18 mesi, è stato usato «un tempo congruo e ragionevole” per dibattere sulla riforma. «Se poi i parlamentari vogliono aspettare altri trent’anni...», conclude la Boschi.
La pace dentro il Pd regge, sebbe i senatori dissidenti abbiano confermato i loro emendamenti all’articolo, 2, quello sul quale Grasso dovrebbe ammettere solo modifiche mirate. La maggioranza vuole risolvere il problema dei grandi elettori del presidente della Repubblica. Con il teso attuale non sembrano sufficienti le garanzie per evitare una scelta di parte. Poi c’è lo scoglio dei poteri alle regioni, la modifica del Titolo V. Un intervento sugli articoli che regolano le competenze regionali potrebbe anche sbloccare il duro confronto con il Carroccio che naturalmente punta a far crescere i poteri federali. Ma le parole di Calderoli non lasciano presagire molti margini di trattativa. Anche se la partita deve ancora iniziare.
Repubblica 25.9.15
Renzi e la sfida all’ex pm “Fa il regista non l’arbitro deve usare la ghigliottina”
di Goffredo De Marchis


ROMA Non è finita. Dopo la pace nel Pd, Pietro Grasso finisce di nuovo nel mirino di Matteo Renzi. «Quella sul calendario è una forzatura», ripetono a Palazzo Chigi. Nella conferenza dei capigruppo al Senato va in scena un vero e proprio braccio di ferro sui tempi della riforma costituzionale. Il Pd e la maggioranza vogliono chiudere l’iter entro l’8 ottobre. Il presidente del Senato rilancia con la data del 15, per lasciare alle minoranze un maggiore spazio di discussione. Luigi Zanda e gli altri senatori s’infuriano. Alla fine il compromesso sentenzia: 13 ottobre. Con l’insoddisfazione dell’esecutivo. «Grasso dovrebbe essere il regolatore nella riunione dei capigruppo. Invece ogni volta vuole fare il regista e l’attore», sono le parole stizzite che usa Renzi commentando la vicenda con i collaboratori. L’accusa è pesante: Grasso non fa l’arbitro e va oltre il suo ruolo.
In verità anche questo nuovo passaggio va inserito nel capitolo del pressing e della guerra di nervi tra la seconda carica dello Stato e il premier-segretario. Grasso non ha ancora sciolto il nodo dell’emendabilità dell’articolo 2, quello sulla modalità di elezione dei senatori e lo farà solo quando il provvedimento arriverà al voto in aula. Dovrebbe andare tutto liscio, in seguito al patto stretto tra renziani e minoranza del Pd. Ma Renzi non si fida. Spetta poi al presidente del Senato decidere come uscire dalla surreale situazione degli 85 milioni di emendamenti presentati da Roberto Calderoli. Secondo il ministro delle Riforme Maria Elena Boschi c’è una sola strada. E non è il canguro, ovvero quello strumento con cui modifiche simili si annullano quando se ne vota una. Le proposte del leghista, più semplicemente, non vanno nemmeno ammesse e nemmeno pubblicate. Questa è la linea del governo. Solo gli emendamenti realmente sottoscritti dal presentante sono validi. «Può bastare l’applicazione del regolamento», dicono a Palazzo Chigi.
In effetti, Calderoli avrebbe firmato soltanto i testi che davvero interessano lui e la Lega. Il resto, il grosso delle modifiche elaborate da un algoritmo, appartengono per il momento al mondo dei fantasmi. Nessuno li ha mai visti, “fisicamente”. Sono ormai un numero iperbolico che naviga nell’immaginario collettivo ma nessuno ha mai avuto modo di verificare. «Come una leggenda metropolitana o il mostro di Lochness», scherza un senatore renziano. Secondo l’esecutivo, quindi, così come sono stati creati andrebbero distrutti, perché il regolamento del Senato ammette esclusivamente gli emendamenti firmati. Una ghigliottina su una testa fantasma.
Ma i regolamenti mille e mille volte sono stati interpretati, rivisti alla luce dei precedenti, tirati da una parte. Allora rimane il dubbio, che si unisce alla stizza per il calendario. Zanda, in un corridoio di Palazzo Madama, si lamenta ma senza fare polemica con Grasso: «Semmai mi sembra poco corretto far filtrare notizie della conferenza dei capigruppo, oltretutto macchiate da versioni di comodo». La battaglia con le opposizioni è solo all’inizio. Ma Grasso rivendica di aver sminato un po’ il campo. «Grazie ai tempi decisi ieri, Sel e la Lega hanno ritirato già milioni di emendamenti. E se lasciamo qualche giorno in più si possono trovare nuovi accordi tra le forze politiche». Il governo dovrebbe perciò ringraziare perché è stato solo il primo passo per arrivare ai 3000 emendamenti che la presidenza del Senato considera «davvero di merito». In realtà, il sospetto delle minoranze è un altro: Renzi gioca con gli 85 milioni e con i tempi «per far saltare tutto e porre in votazione il testo uscito dalla Camera», insinua un grillino. Rinnegando anche l’intesa dentro il Partito democratico.
Il governo vuole accelerare. Incombe la sessione di bilancio che sulla carta scatta il 15 ottobre. Prima va votata la nota di aggiornamento al Def e un collegato sull’ambiente. E non è ancora risolto un problema della riforma: la platea per eleggere il presidente della Repubblica che con il testo attuale non offre sufficienti garanzie.
La Stampa 25.9.15
Riforme, tensione Pd-Grasso sui tempi della votazione finale
Il presidente del Senato: “Non faccio il boia della Costituzione”. Il partito voleva votare l’8 ottobre, si andrà invece al 13 . Sel e Lega ritirano molti emendamenti
di Carlo Bertini


Se è vero che dopo l’accordo che ha riunito il Pd e messo al riparo i numeri ora il problema della riforma costituzionale è la tempistica, il protagonista diventa Roberto Calderoli. I suoi 75 milioni di emendamenti, 10 li ha già sforbiciati ieri, impensieriscono un poco le guarnigioni renziane. Per il resto tranquille dopo aver verificato pure nei voti procedurali di ieri che la maggioranza rinforzata dall’asse con il gruppo di Verdini regge bene. Ma sopra Calderoli, il protagonista principale è il Presidente del Senato. Il quale nella capigruppo convocata ieri per stabilire il calendario dei lavori, di fronte alle pressioni del Pd di fissare la cosiddetta «ghigliottina», cioè il voto finale, l’8 ottobre, esclama «io non faccio il boia della Costituzione!», cioè non voglio essere quello che la fa cadere sulla testa della riforma costituzionale. Dopo questa apertura alle opposizioni, fatta «con l’obiettivo di portare l’aula a discutere e votare», la De Petris di Sel ritira i suoi 62 mila emendamenti, Calderoli una decina di milioni, lasciandone 19 all’articolo uno, 6 all’articolo due. Da martedì si voteranno i primi due articoli e restano questi giorni di trattativa con governo e maggioranza sulle competenze delle regioni per fare rientrare nel cassetto l’altra valanga di richieste. Tanto più che Salvini sbuffa, «85 milioni di emendamenti li terrei per qualcosa di più serio, legge Fornero, studi di settore, immigrazione. Su quello sì faccio le barricate. Sul Senato facciano quello che vogliono, purché facciano in fretta».
Il 14 ottobre unioni civili
Nella lunga contesa tra capigruppo, Luigi Zanda ingaggia un braccio di ferro con Grasso sulla data ultima entro cui approvare il Ddl Boschi perché il Pd vorrebbe «calendarizzare» in aula anche la legge sulle unioni civili, cioè cominciare almeno la discussione generale e dar mostra di buona volontà rispetto agli impegni presi di fare presto con una norma tanto attesa. E la data del 13 sembra troppo in là, poiché il 15 ottobre avrà inizio la sessione di bilancio, ovvero arriverà in Senato la legge di stabilità, e tutti gli altri lavori verranno congelati. Quindi verrà usata la finestra del 14 ottobre per avviare la legge in aula.
Se il Pd reagisce irritato, Sel, Conservatori e riformisti e grillini apprezzano lo «sforzo di mediazione» di Grasso. Anzi, in aula i grillini lodano «la saggezza del Presidente che ha evitato la ghigliottina anticipata». In aula, prima dei voti sul calendario e sulla richiesta delle opposizioni di tornare in Commissione, la Boschi tende la mano, «fino all’ultimo non lasceremo nulla di intentato per un accordo ampio, ma sia chiaro che non possiamo accettare veti da parte di nessuno, perché sappiamo che questa è la volta decisiva».
Il «supercanguro»
Ma se Grasso confida a far votare tutti gli articoli e su un atteggiamento non ostruzionista dell’opposizione - gli uffici calcolano che gli emendamenti di merito sono solo 3 mila - i renziani restano guardinghi e preparano le contromosse cautelative: la richiesta del senatore Russo a Calderoli di dimostrare di aver firmato tutta la sua valanga di proposte, altrimenti da regolamento non sarebbero valide. Il «supercanguro» di Stefano Esposito, emendamento con tutti i capisaldi della riforma, che se votato per primo farebbe cadere tutte le votazioni sugli altri emendamenti: espediente usato per l’Italicum che fece cancellare 35 mila emendamenti in un colpo solo. Mosse procedurali usate come deterrenti, «ma vorremmo evitarle procedendo ad una discussione di merito», spiegano dal gruppo Pd. Insomma si punta ad un ritiro, cioè ad un disarmo di Calderoli nei giorni a venire, previo accordo, ancora tutto da trovare.