giovedì 15 luglio 2010

Corriere della Sera 15.7.10
«Dalla crisi non si esce con la via giudiziaria: ora governo di transizione»
D’Alema: patto per la crescita, come negli anni ’90
È evidente anche alla maggioranza che l’attuale equilibrio non regge più. L’esecutivo non ha credibilità
di Maria Teresa Meli

La proposta di D’Alema «Governo di transizione ma con un premier nuovo»
«In questo momento le prospettive appaiono incerte mentre la crisi appare certa».
«La parabola di Berlusconi è finita».

I messaggi. Il leader pd dice di non credere «alla soluzione giudiziaria » . Ma aggiunge: «Qualsiasi considerazione sulle prospettive politiche dovrebbe partire da una preoccupazione vivissima dello stato del Paese». Il premier, dice, lancia solo «futili messaggi di ottimismo».

Il patto. Per l’ex presidente del Consiglio «il problema è che siamo di fronte a una crisi che è anche morale e di credibilità dello Stato». Serve «un patto per la crescita, come negli anni 90».

ROMA — «In questo momento le prospettive appaiono incerte mentre la crisi appare certa». Esordisce così Massimo D’Alema. E la sua non è una battuta: «Io penso che qualsiasi considerazione sulle prospettive politiche dovrebbe prendere le mosse da una preoccupazione vivissima dello stato del Paese. E non mi pare che Berlusconi ne sia consapevole, visto che continua a lanciare futili messaggi di ottimismo». Che fa l’opposizione? Gufa? «Il problema qui non è dividerci tra chi è ottimista e chi è pessimista. Tutti quanti abbiamo speranza nella capacità di questo Paese di riprendersi, ma il problema vero è che noi siamo di fronte a una grande crisi che non è solo economica. C’è anche una crisi morale, di credibilità dello Stato, di fronte alla quale non c’è nessuna risposta, perché c’è un vuoto di leadership politica impressionante. Berlusconi prova a trovare una via d’uscita cercando di costruire un equilibrio politico che lo tuteli di più, e perciò si lancia nel tentativo abbastanza maldestro di riassorbire nella maggioranza Casini. Ma la questione vera non è come puntellare l’attuale equilibrio, è come uscirne».
E come se ne esce secondo lei, onorevole D’Alema?
«Bisogna prendere atto che la lunga fase della parabola berlusconiana è finita. Nell’ultimo decennio lui è stato il principale arbitro della vita pubblica e ha governato per circa otto anni. Il risultato complessivo di questa esperienza è estremamente negativo. Non credo che l’anno prossimo Berlusconi possa andare all’assemblea della Confindustria e dire che vuole ridurre le tasse, semplificare la pubblica amministrazione, modernizzare il Paese ed essere di nuovo applaudito. Infatti è successo il contrario. La pressione fiscale è aumentata. L’inefficienza e la corruzione della pubblica amministrazione sono cresciute con fenomeni patologici che ricordano per dimensione e gravità la situazione dell’Italia all’inizio degli anni Novanta. Il Pil del 2009 è fermo: è uguale al Pil del 2000, mentre la spesa pubblica è cresciuta di 6 punti. Insomma, un disastro, è difficile usare una espressione diversa».
Lei dipinge un quadro a tinte assai fosche...
«Siamo di fronte a un bilancio fallimentare, il che pone il Paese in una condizione d’emergenza. E una classe dirigente degna di questo nome dovrebbe dire: fermiamoci un momentino, altrimenti l’Italia va a rotoli, e cerchiamo dei rimedi. Naturalmente questo è un discorso che si rivolge a tutte le forze politiche. Nel senso che, secondo me, non ci sono scorciatoie: non si esce da una crisi di questo tipo attraverso una soluzione giudiziaria, come può immaginare una certa parte dell’opposizione, o attraverso una campagna moralista e giustizialista. Io voglio che si faccia giustizia e penso che le persone che sono gravemente indiziate o sotto processo si debbano dimettere. A questo proposito ritengo un fatto positivo che si siano ottenute le dimissioni di Cosentino, dopo le dimissioni di Brancher e dopo quelle di Scajola. Ma proprio questa sfilata di dimissioni dimostra che siamo di fronte a un problema più profondo. La portata della crisi richiede un salto di qualità politico ed escludo che possa farlo Berlusconi, perché non credo che abbia la capacità del barone d i Münchausen che si sollevava da solo. Penso che questa riflessione la si stia facendo anche all’interno del Pdl».
Onorevole D’Alema, lei sembra ipotizzare una crisi di governo neanche troppo lontana nel tempo. A quel punto le soluzioni potrebbero essere diverse. Elezioni anticipate o un governo che guidi la transizione.
«La prospettiva delle elezioni obiettivamente c’è. Ma io sono d’accordo con la lettera che vi ha mandato Macaluso: ritengo che tornare a votare con l’attuale legge elettorale, per una sorta di referendum su Berlusconi sì, Berlusconi no, non sarebbe utile. C’è bisogno di un momento di responsabilità in cui si affrontino i problemi del Paese con coraggio. Abbiamo bisogno di un nuovo patto sociale. Come negli anni Novanta ci fu un patto per il risanamento, oggi abbiamo bisogno di un patto per la crescita. Tutto ciò l’attuale governo non è in grado di farlo, al di là di ogni valutazione, perché non ha credibilità».
Il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini in un’intervista al «Corriere della Sera» ha proposto una soluzione diversa da quella delle elezioni anticipate: lui pensa piuttosto all’opportunità di dare vita a un governo delle larghe intese.
«Se si tratta di un’operazione di ceto politico intorno a Berlusconi non serve assolutamente a nulla. Ha un senso, viceversa, se è un appello alla responsabilità per aprire una fase nuova attraverso un governo di transizione, di larghe intese,
o come vogliamo chiamarlo. Ovviamente, in una democrazia bipolare questa non può che essere una soluzione temporanea, legata a obiettivi precisi, ivi compresa la riforma della legge elettorale, che produce un bipolarismo fondato su una personalizzazione distorta della politica. E come la realizzazione di un compromesso ragionevole tra nord e sud in materia di federalismo, per evitare che questo diventi il tema di uno scontro lacerante per il Paese. Si tratta di un discorso che ha una logica e credo proprio che il maggior partito di opposizione sarebbe pronto a riconoscere la logica di un ragionamento di questo tipo».
Per la verità Pier Ferdinando Casini dice anche che il Pd è pronto a fare un governo guidato da Giulio Tremonti.
«Mi sembra una interpretazione un po’ sbrigativa e credo che tutte queste chiacchiere sui nomi servano solo ad ostacolare i processi politici».
Ma non crede di esagerare le difficoltà del momento? Quella di questi giorni potrebbe anche essere una crisi passeggera e Berlusconi potrebbe continuare a governare fino alla fine della legislatura.
«È evidente anche agli esponenti della maggioranza che l’attuale equilibrio non regge più, gli elementi di scollamento sono troppi».
Ma chi potrebbe mai essere la personalità che riesce a mettere insieme forze politiche tanto diverse?
«Questa è una decisione che spetta, come lei sa, al presidente della Repubblica».
E perché mai il Pdl dovrebbe scaricare Silvio Berlusconi per metter su un governo di transizione con le forze dell’opposizione?
«È chiaro che se questo discorso non troverà un ascolto nell’ambito della maggioranza è probabile che si arriverà alle elezioni anticipate, perché ormai la situazione non è più sostenibile. Però se dentro il Pdl ci sono persone preoccupate del destino del Paese e non soltanto cortigiani — e io non credo che ci siano esclusivamente cortigiani perché comunque è una grande forza politica che ha avuto il voto di tanti milioni di italiani — questa prospettiva è attuabile. Insomma, il Pdl deve dimostrare se è un partito o una sorta di sultanato. I partiti nelle democrazie moderne hanno la capacità di guardare agli interessi del Paese anche al di là del destino delle leadership, che possono anche cambiare. Per loro questa è una prova importante».

Corriere della Sera 15.7.10
Squitieri: quando nel ’68 uccidemmo i nostri padri

ROMA— «In Italia abbiamo ucciso la figura paterna nel ’68», ha detto Pasquale Squitieri parlando del suo nuovo film, Father, con Claudia Cardinale, Franco Nero e Andrea Fachinetti, figlio 22enne di Ornella Muti. «E quando uccidi il padre — ha proseguito il regista— uccidi l’autorità dello Stato, quella religiosa, militare, tutto quello che la struttura protegge come comunità. Ora li vediamo i risultati, ogni giorno ancora parliamo, in un modo o nell’altro, di Mussolini che è stato un padre». Squitieri inizierà a girare il 26 luglio, a Philadelphia, poi in Italia. Father, ha spiegato, è una storia sulla falsa ideologia rappresentata da un padre emigrante apparentemente senza macchia. «La falsa ideologia ci porta fuori strada e ci fa comportare da criminali in tante circostanze. L’assassino è dentro ognuno di noi».

l’Unità 15.7.10
Gheddafi aveva assicurato: li libereremo. Ma gli eritrei respinti dall’Italia sono ancora lì
La Ue: con la Libia parleremo di diritti umani. Si punta a superare l’accordo con l’Italia
«Siamo profughi, aiutateci»
Messaggio disperato da Brak
di Umberto De Giovannangeli

Frattini aveva esultato: grazie all’Italia i 250 eritrei segregati nel lager di Brak sono tornati liberi. Tre giorni dopo, la drammatica testimonianza di uno di loro: siamo ancora qui, in balia dei militari...
Hein, del Cir: «Bene l’indagine di Tripoli. Ma non si rinvii la liberazione»

Per Maroni il caso non è mai esistito. Per Frattini, il caso è stato brillantemente risolto grazie alla mediazione italiana e all’amicizia che lega il Cavaliere e il Colonnello. La realtà è un’altra. Questa: «Siamo stati fotografati e abbiamo riempito i formulari che ci hanno imposto le autorità libiche. Abbiamo sentito che saremo liberati ma non sappiamo quando e non sappiamo come, non sappiamo se davvero ci daranno un lavoro ma nulla viene fatto seguendo il nostro volere, tutto è imposto con la forza. nel campo ci sono solo militari e nessuna autorità che ci dia informazioni». È la testimonianza di Daniel, uno dei 250 rifugiati eritrei ancora prigionieri del governo libico nel campo di Brak, raggiunto telefonicamente ieri mattina da CNRmedia.
SOFFERENZA CONTINUA
«Acqua e cibo sono molto scarsi prosegue Daniel so che stanno preparando dei documenti per noi. Molti avevano provato a raggiungere l’Italia l’anno scorso, ma sono stati respinti e rimandati in Libia. Abbiamo bisogno di protezione internazionale che tuteli i nostri diritti. Non cerchiamo un lavoro, non siamo immigrati in cerca di lavoro, siamo rifugiati politici e chiediamo che sia riconosciuto il nostro status, chiediamo protezione internazionale, chiediamo di essere riconosciuti e rispettati come profughi che chiedono asilo, non come gente obbligata a lavorare qui per tre anni. Nessuno ci ha fatto visita, non abbiamo visto assistenza medica, acqua e cibo sono scarsi, chiediamo solo di essere rispettati».
GIALLO LIBERAZIONE
«Non ci risulta che qualcuno sia stato liberato dal campo di Brak. Non sappiamo quando avverrà, come non sappiamo quali siano le modalità di attuazione dell’accordo annunciato anche dal governo italiano mercoledì scorso», ha denunciato l’altro ieri il direttore del Consiglio Italiano per i Rifugiati (Cir) Christopher Hein. «Non sappiamo nemmeno ha aggiunto le modalità di identificazione delle persone, e questo è molto importante. Sappiamo che Gheddafi ha chiesto un’indagine su tutta la vicenda, ma in Libia quando si fa un’indagine si blocca tutto. Ben venga l’impegno di Gheddafi ma se questo significa che la situazione di queste persone rimane invariata e che qualsiasi soluzione viene rimandata alle calende greche, allora questo non va bene».
Un rapporto difficile ma necessario: così la commissaria Ue per gli Affari interni, Cecilia Malmstrom, ha definito ieri lo stato delle relazioni tra la Libia e l’Ue. «Abbiamo mosso i primi passi» per far progredire le relazioni tra Bruxelles e Tripoli, ha affermato la commissaria ribadendo la sua disponibilità, se ce ne saranno le condizioni, a discutere con la controparte libica di argomenti sensibili come la salvaguardia dei diritti umani e la lotta all’immigrazione clandestina. Per Malmstrom che oggi incontrerà a Bruxelles l’Alto commissario Onu per i rifugiati Antonio Guterres occorre comunque puntare alla definizione di accordi multilaterali con la Libia andando così oltre quelli bilaterali Roma-Tripoli. Puntando sull’accertamento della verità. E lo smascheramento delle bugie. L’altro ieri il ministro degli Esteri libico, Moussa Koussa, aveva confermato alla commissaria Ue agli affari interni, Cecilia Malmstrom, incontrata a Bruxelles, l’intenzione di liberare i 250 eritrei detenuti nei campi libici. «Il ministro ha detto che hanno intenzione di farlo», aveva riferito all’Ansa una fonte presente all’incontro. Sono passati tre giorni. E di questa asserita liberazione non c’è traccia. Lo sa Frattini? E cosa ne pensa? E che cosa ne è della «preziosa mediazione» italiana? La farsa continua...

l’Unità 15.7.10
Una vergogna. L’Italia li accolga subito e cessi i respingimenti
Profughi torturati e imprigionati. Il governo è complice Il ministro Maroni conferma di averli consegnati a Gheddafi in modo indiscriminato, senza rispettare le nostre leggi
di Rita Borsellino

Li hanno rinchiusi e torturati nelle carceri. Poi, dopo la mobilitazione internazionale innescata dall’impegno di giornalisti e organizzazioni umanitarie, hanno deciso di condannarli ai lavori forzati, senza riconoscimento del loro status di rifugiati. È la sorte toccata ai circa 400 migranti eritrei rinchiusi nel centro di detenzione di Brak, in Libia. Una sorte di cui l’Italia porta senza dubbio l’onta della complicità, a dispetto di quanto detto in questi giorni dal Governo.
L’Italia, purtroppo, è complice, perché da due anni ha deciso di applicare respingimenti in mare nei confronti dei migranti. È complice, perché questi respingimenti vengono fatti in direzione della Libia, dove vige un regime militare e dove i diritti umani continuano a essere violati. Tripoli non ha mai ratificato la Convenzione di Ginevra. Eppure, il Governo non ha avuto dubbi nel consegnare in maniera indiscriminata al colonnello Gheddafi migliaia di vite umane, siano pure bambini e profughi. Prova ne sia ciò che ha detto il ministro Maroni a proposito della situazione dei detenuti di Brak: «Non è dimostrato che queste persone siano tra gli 850 migranti respinti dall’Italia verso la Libia». Senza accorgersene, il ministro ha confermato quello che, dal Parlamento di Strasburgo, io e Patrizia Toia abbiamo denunciato alla Commissione europea: l’Italia ha applicato i respingimenti senza neppure curarsi dell’eventuale status di rifugiato di chi ha respinto. Non si tratta di una premura umanitaria, ma del rispetto delle leggi italiane ed europee, oltre che della Convenzione di Ginevra.
Il ministro Maroni, poi, afferma a cuor leggero che, in questa vicenda, le responsabilità sono dell’Unione europea, che ha mostrato «un atteggiamento di disinteresse incredibile e singolare». Ma è stato proprio il Consiglio d’Europa, dopo una mobilitazione partita dal gruppo dei Democratici a chiarire che l’Italia ha «il dovere di vigilare sul rispetto dei diritti umani», invitando il nostro governo, fino ad allora immobile, a muoversi per risolvere diplomaticamente il caso dei profughi di Brak.
La soluzione è arrivata, ma è stata una beffa: i migranti eritrei hanno ottenuto la libertà, ma a patto di svolgere «lavori socialmente utili» sotto la sorveglianza dei militari libici. In pratica, lavori forzati. Inoltre, sottoscrivendo questo accordo, i 400 profughi diventano dei «migranti economici», e rischiano di perdere la possibilità di ottenere, anche da parte dell’Unchr, lo status di profughi.
Anche di questo l’Italia è complice. Per levarsi di dosso l’onta, il Governo accolga gli eritrei detenuti a Brak. E sospenda, ci auguriamo immediatamente, i respingimenti in Libia.

l’Unità 15.7.10
Lo stalking e la psichiatria
risponde Luigi Cancrini
Nove donne uccise in 15 giorni e nessun esponente di questo governo che dica una sola parola. Quando a compiere il “femminicidio” sono dei “bravi ragazzi nostrani” tutto diventa “normale”. Grazie comunque per lo spazio e gli approfondimenti che dedicate a questi eventi sconfortanti.
RISPOSTA L’ondata di delitti degli ultimi mesi ci interroga tutti sull’efficacia pratica della nuova legge: i casi più gravi di stalking sono difficilmente controllabili, infatti, con l’ammonimento del questore (art. 8) o con il divieto di avvicinamento del giudice (art. 9) semplicemente perché il persecutore omicida (e poi spesso suicida) è persona affetta da una grave patologia psichiatrica che attribuisce all’ammonimento e al divieto un significato in linea con il suo vissuto delirante. Quello che servirebbe in questi casi è l’intervento dei servizi specialistici cui il questore e il magistrato dovrebbero poter ricorrere già nel momento della segnalazione. Scrive Michela Marzano su Repubblica che lo stalking non è un problema psichiatrico. L’esperienza clinica dimostra tuttavia che non è così, che la violenza famigliare e di genere può essere prevenuta curando, come ben dimostrato dal caso di Angelo (Corriere della Sera on line di ieri). Liberandosi dal pregiudizio sulla psichiatria violenta e cattiva e rendendo possibile l’accesso di chi sta male al percorso psicoterapeutico di cui ha bisogno.

l’Unità 15.7.10
Comitato “10 luglio antirazzista”
Una giornata contro i CIE
Da sempre nei Cie – ieri Cpt soprusi, pestaggi, cure negate, sedativi nel cibo sono pane quotidiano. Le lotte degli immigrati rinchiusi nei Cie hanno segnato l’ultimo decennio. Una lunga resistenza, spesso disperata, fatta di braccia tagliate, bocche cucite, lamette o pile ingoiate. Qualcuno ha preferito la morte alla deportazione e l’ha fatta finita. In tanti si sono ribellati, bruciando materassi, distruggendo suppellettili, salendo sul tetto. Un po’ ovunque ci sono stati tentativi di fuga. Chi arriva in Italia ha negli occhi il deserto, le galere libiche, il mare, i pescherecci che passano senza fermarsi, i militari che vanno a caccia di uomini. Hanno negli occhi il ricordo dei tanti lasciati per strada, morti senza tomba né umana pietà. Pochi di loro fanno “fortuna”: per i più c’è lavoro nero, salari infimi, paura, discriminazione. Chi viene pescato senza carte in regola finisce nei Cie e di lì via, indietro, ancora verso l’inferno. Un gruppo di antirazzisti torinesi ha lanciato l’idea di costruire un’iniziativa contro i Cie, che sapesse raccogliere un consenso ampio, portando davanti alle mura del lager di corso Brunelleschi tanta gente che forse non c’era mai stata. Nonostante il caldo infernale circa un migliaio di persone ha dato vita al corteo di sabato 10 luglio. Partito da piazza Sabotino, nel cuore del popolare quartiere S. Paolo, è cresciuto durante il percorso. Numerose le soste per informare, parlare con il quartiere, raccontare le storie dei prigionieri di corso Brunelleschi. In corso Peschiera si è sostato a lungo davanti alla ex clinica S. Paolo, occupata da profughi e rifugiati del corno d’Africa, parte dei quali ancora resistono nell’area detta “casa bianca”. Poi giù per le strade del quartiere, con soste al mercato ed ai principali incroci. Lo striscione di apertura aveva la scritta “Torino è antirazzista”. La Torino Samba Band ha accompagnato la giornata attirando l’attenzione dei numerosi passanti. Oltre alle tante facce del movimento antirazzista torinese, c’era tanta, tanta gente venuta a sostenere quanto scritto sull’altro striscione di testa “Chiudere i CIE subito!”. Buona la presenza di immigrati dei collettivi e comitati antirazzisti che hanno contribuito a costruire la giornata.

l’Unità 15.7.10
Fabbrica Italia guarda al passato
Sorvegliare e punire chi dissente

Licenziamenti e sanzioni contro i lavoratori, Marchionne alza la tensione sociale e il livello dello scontro mentre prepara la divisione tra Fiat Auto e il resto del gruppo. Ci sono sorprese in arrivo?
di Rinaldo Gianola

L’impiegato Capozzi di Mirafiori, gli operai Barozzino, Lamorte e Pignatelli di Melfi sono le prime vittime della nuova governance della Fiat. Chi pensava che dopo il risultato favorevole, ma certo non plebiscitario, a Pomigliano d’Arco la Fiat potesse aprire una nuova stagione di confronto e collaborazione con i sindacati, tutti i sindacati, e i suoi dipendenti, deve ora riflettere sulle perplessità e le critiche che alcuni, in particolare la Fiom Cgil ma anche diversi osservatori indipendenti, avevano espresso sulle condizioni imposte dal Lingotto per avviare la produzione della Nuova Panda nello stabilimento campano. Le deroghe al contratto di lavoro e all’esercizio del diritto costituzionale allo sciopero, evidenti nel patto di Pomigliano, sono il modello che, nella visione di Sergio Marchionne, dovrà essere implementato in “Fabbrica Italia“, il progetto che con tanta enfasi, e con tante incertezze, è stato lanciato ad aprile per ribadire le radici e la presenza industriale della Fiat in Italia. Ma c’è di più.
L’invito di Marchionne alla cooperazione, all’abbraccio collettivo, le lettere grondanti retorica sul passaggio storico da affrontare insieme,azionisti, manager e lavoratori, sono aria fritta. propaganda a buon mercato, di fronte a licenziamenti punitivi, ad un’azione sistematica che punta esclusivamente al pieno controllo delle fabbriche, anche a costo di alzare la tensione sociale, di irrigidire le posizioni e di scontentare persino i sindacati che avevano firmato di buon grado il diktat di Pomigliano. L’appello paternalista di Marchionne ha un sapore stantio, è roba vecchia, evoca le lettere di alcuni suoi predecessori quando scrivevano alle mogli dei dipendenti della Magneti Marelli implorando comprensione e solidarietà davanti ai prezzi insostenibili pagati dai mariti-operai. “Fabbrica Italia” può raggiungere i suoi ambiziosi obiettivi di produttività ed efficienza se i vertici dell’azienda considerano i lavoratori non solo un fattore di produzione da comprimere e spremere, ma come un soggetto responsabile, portatore di diritti e che merita dignità e rispetto.
Attorno alla Fiat, invece, tira un’aria brutta. Il licenziamento di Capozzi, delegato della Fiom e aderente al pd, perchè ha usato la mail aziendale per diffondere un volantino sindacale, richiama una lontana stagione quando gli operai iscritti alla Cgil o che portavano in tasca l’Unita venivano spediti nei reparti confino, all’Officina Sussidiaria Ricambi soprannominata Officina Stella Rossa dai lavoratori colpiti. Fa tornare alla mente i brutti momenti dello spionaggio e delle schedature dei dipendenti Fiat. E le sanzioni contro i tre operai di Melfi, perchè hanno bloccato un carrello robotizzato durante una protesta contro gli eccessivi carichi di lavoro, sono un segnale allarmante: anche nella fabbrica-modello, anche nel “prato verde” lucano dove la Fiat si era illusa di superare il conflitto capitale-lavoro, anche qui Marchionne ha bisogno delle punizioni per esercitare e affermare il suo comando. È così, con questi sistemi, che la Fiat vuole realizzare “Fabbrica Italia”? Oppure Marchionne sta alzando volontariamente la tensione, il livello dello scontro perchè il suo progetto non regge se non c’è l’adesione totale di sindacati e lavoratori, se non viene importato e applicato il “modello polacco”, se non trionfa il suo pensiero unico? O, ancora, c’è qualche cosa di nuovo e sconosciuto che bolle in pentola a Torino dove la prossima settimana sarà varata la divisione tra la Fiat Auto e tutto il resto del gruppo? Ci saranno ricadute industriali e occupazionali finora non previste e non comunicate?
Qualche sospetto emerge, soprattutto dopo che ieri la Fiat ha fatto il muso duro non solo con la Fiom, ma anche con i sindacati buoni che avevano accettato senza obiezioni l’”accordo” di Pomigliano. La Fiat ha negato il premio di risultato che dovrebbe essere pagato a fine luglio, e oggi scatterà lo sciopero di Fim, Uilm e Fismic. Agli azionisti Marchionne ha concesso il dividendo per ripagarli dei loro “sacrifici”, per i lavoratori non è rimasto niente, devono solo accettare le condizioni di “Fabbrica Italia” e stare zitti.
In questa situazione fa una certa impressione leggere sui giornali confindustriali ritratti di Marchionne, al limite dell’agiografia, che certo non fanno bene al giornalismo, in lotta contro bavagli di varia natura. Domenica scorsa sul Corriere della Sera l’amministratore delegato della Fiat veniva così descritto: «È inarrivabile. E proprio questo è il suo problema...Marchionne lavora anche 20 ore al giorno. dorme pochissimo, mangia quando capita, fuma almeno due pacchetti di sigarette al giorno e nonostante questo ha un’energia e una capacità di concentrazione che lascia ancora basiti i suoi collaboratori». È vero, c’è proprio da restare basiti

l’Unità 15.7.10
Intervista a Rossana Dettori
«Non ci arrendiamo»
La scuola e i pubblici di nuovo in piazza
La segretaria della Fp Cgil: Finanziaria punitiva per i cittadini, che avranno sempre meno servizi E in autunno si rischia un’altra «correzione»
di Laura Matteucci

Non siamo alla fine della mobilitazione, quello di oggi è un passaggio. Non ci rassegnamo ad una manovra inqua, che è solo punitiva per chi vive di salario e di pensione, pone ancora una volta un problema di democrazia, visto che il governo l’ha blindata con la fiducia e oltretutto, in assenza di misure a favore della crescita, necessiterà di un’altra correzione in autunno». Cgil, Fp e Flc oggi di nuovo in piazza: i lavoratori della funzione pubblica, della scuola e dell’università, dipendenti e precari, saranno davanti al Senato per ricordare che con loro sono i «comuni» cittadini a pagare di più, in termini di riduzione dei servizi, aumento dei «contributi» locali, mortificazione della scuola. Il personale scolastico protesta contro i tagli (8 mld in tre anni), che si assommano a quelli degli anni scorsi: aumentano le condizioni di precarietà per i lavoratori e anche per le istituzioni. In piazza anche il leader Cgil Guglielmo Epifani: «Sulla previdenza l’intervento ha il solo obiettivo di fare cassa: non è una riforma e non risponde a principi di equità intergenerazionale». Di tutto questo parla parla Rossana Dettori, segretaria generale della Fp Cgil. Tra emendamenti, refusi e tentativi di colpi di mano, la manovra ultima versione non presenta alcun miglioramento?
«Semmai è peggiorata. Prendiamo le pensioni: non solo per le donne c’è un salto obbligato di 5 anni, ma per tutti adesso si parla di riscatto oneroso, ovvero costerà molto mettere insieme anni da lavoratore privato e pubblico. In più è stato introdotto il meccanismo della legge Brunetta sul salario legato alla produttività, che quindi per molti viene congelato. Una norma che si aggiunge al blocco per tre anni dei rinnovi contrattuali nazionali, e che investe anche la contrattazione integrativa, l’unico strumento per intervenire su salute e sicurezza, ma anche su questioni che riguardano il rapporto con i cittadini, a partire dall’orario di lavoro. E poi, c’è la partita occupazione».
Un’altra scure.
«Esatto. Oltre al blocco del turn-over, abbiamo l’enorme problema, sia noi sia la scuola, della riduzione del 50% dei precari. Già inziata, peraltro: all’Inpdap 30 lavoratori a tempo determinato sono già usciti. Ne abbiamo altri 45mila, più 60mila precari a vario titolo: che ne sarà di loro?».
Sulle pensioni il governo dice di essere messo alle strette dalla Ue. «Come no. Sulle quote latte c’è un contenzioso aperto da 12 anni con la Ue, sulle pensioni hanno colto l’occasione per fare cassa. Bruxelles vuole che alle donne venga garantita parità di salario e di possibilità di carriera, ma di tutto questo il governo non fa parola. Anzi. Con i tagli alle Regioni e agli Enti locali, mette a rischio i servizi agli anziani, ai bambini, ai disabili. E chi se ne dovrà fare carico?».

Repubblica 15.7.10
Guerra di religione in Nigeria: 8 morti
Scontri fra musulmani e cristiani per la costruzione di una moschea
Nell´area da mesi ci sono tensioni che hanno provocato oltre 1200 vittime nel distretto di Jos
di Daniele Mastrogiacomo

In Nigeria basta poco, un gesto, un´iniziativa, magari la bravata di quattro ragazzotti perché la tensione religiosa si riaccenda, le ritorsioni si trasformino in scontri e alla fine degenerino in stragi. E´ accaduto a gennaio, marzo ed aprile sul grande Plateau centrale dello stato africano: e poi di nuovo ieri. Nei mesi scorsi ci sono stati 1200 morti dentro e attorno alla città di Jos, capoluogo di confine tra il nord musulmano e il sud cristiano. Ieri al termine di una serie di scontri, controllati a fatica dalla polizia e dalla forze speciali, a terra sono rimasti 8 morti e 40 feriti.
Accade nella città di Wukari, nello stato di Taraba, ovest della Nigeria, uno dei 36 che compongono il paese. Da alcuni giorni si lavora attorno alla costruzione di una moschea che deve sorgere all´interno di un terreno di un commissariato di polizia. Wukari è a maggioranza cristiana, ma confina con il Plateau dove c´è una folta presenza musulmana. La convivenza tra le due religioni non è facile. C´è sempre qualcuno che soffia sul fuoco. Perché dietro i contrasti spirituali e teologici c´è una storia di miserie, di terreni fertili assegnati ad una comunità che vengono rivendicati dall´altra, di lavori sottratti e ridistribuiti a clan diversi. Di emigrazioni dalle regioni aride dell´ovest, a maggioranza musulmana, verso l´est più florido, cristiano e animista.
Il progetto della nuova moschea non piace alla comunità cristiana. Un gruppo di giovani protesta, si lamenta, minaccia. Passa alle vie di fatto: armato di vanghe, picconi e martelli entra nel recinto del commissariato e distrugge la parte della moschea ancora in costruzione. Si è sparsa la voce e per ritorsione un folto gruppo di musulmani si accanisce sulla prima chiesa che trova sulla strada. Si mobilitano i cristiani, i due gruppi si affrontano e basta poco per provocare una guerriglia in cui si sfogano vecchi rancori, rabbia e insofferenza.
Sei moschee sono state assaltate, auto danneggiate e incendiate, assieme a piccoli negozi, case, posti di blocco improvvisati con falò di copertoni e di immondizia. E´ dovuta intervenire la polizia che non si è fatta scrupoli e ha aperto il fuoco contro i due gruppi di contendenti. La reazione dei cristiani e dei musulmani è stata ancora più violenta. Per ore la città di Wukari è stata messa a ferro e fuoco. La polizia ha sparato ad altezza d´uomo. Ha ucciso e ferito. Di fronte agli otto morti, ai 40 raggiunti da proiettili, sassi, bastonate e riversi a terra, la folla si è sciolta e si è rintanata a casa. «La polizia di pronto intervento e i soldati», conferma alla Reuters un testimone che vuole restare anonimo, «ha circondato la zona degli scontri e ha iniziato a sparare a raffica. Quattro persone sono morte in quel momento». Alla fine la polizia è riuscita a riportare la calma. «La situazione ormai è sotto controllo», sosteneva nel pomeriggio il capo della polizia di Taraba, Aliyu Musa, «la zona è presidiata da nuovi rinforzi di soldati».
Gli scontri hanno allarmato le due massime autorità religiose del paese. Il sultano Muhammad Saad Abubakar ha esortato «musulmani e cristiani a lavorare per l´armonia e la tolleranza tra le religioni». L´arcivescovo di Abuja, John Onaiyekan, ritiene che le violenze non siano legate a motivi religiosi. «C´è qualcuno che abilmente soffia sul malcontento. La moschea è solo un pretesto. Credo che gli obiettivi siano altri, legati a lotte di potere locali».

Repubblica 15.7.10
Argentina
È il primo paese latino-americano a discutere la legge che concede agli omosessuali gli stessi diritti delle altre coppie Ma il clero chiama a raccolta i fedeli. In piazza a gridare: "I bimbi hanno bisogno di un babbo e di una mamma"
È lite fra Chiesa e governo per il sì ai matrimoni gay
La "presidenta" Cristina Kirchner "Sembra che siamo tornati all´epoca dell´Inquisizione"
di Omero Ciai

Chiesa e governo sul punto di rottura in Argentina per una legge - già approvata dalla Camera e in discussione al Senato - che consente il matrimonio civile tra omosessuali. L´altra sera almeno cinquantamila persone convocate dall´arcivescovo di Buenos Aires, Jorge Bergoglio, si sono date appuntamento nella piazza del Congresso con lo slogan: «I bambini hanno bisogno di un babbo e di una mamma». Il progetto di legge che concede alle coppie gay gli stessi diritti di quelle eterosessuali - compresa la possibilità di adottare bambini - ha superato il primo scoglio lo scorso 5 maggio quando è stata approvata dalla Camera ma ora la battaglia al Senato si annuncia molto più serrata nonostante il forte appoggio che ha dato alla legge la "presidenta" argentina Cristina Kirchner. «Finiremo sul filo di lana», diceva ieri pomeriggio un senatore della maggioranza pochi minuti prima dell´inizio della sessione. Esteban Paulon, segretario generale della locale Federazione gay e lesbiche, ha fatto una previsione: «Stanotte vinciamo con almeno quatto voti di scarto, 34 a 30».
L´approvazione della legge trasformerebbe l´Argentina nel primo paese sudamericano che consente il matrimonio tra persone dello stesso sesso (in Uruguay c´è soltanto l´unione civile in regime di concubinaggio) e la Chiesa si è mobilitata con forti pressioni sul mondo politico. Tanto che nei giorni scorsi una commissione del Senato ha messo in campo un progetto alternativo a quello votato dalla Camera che prevede soltanto l´unione civile e impedisce alle coppie gay di adottare bambini. Ma dopo le proteste delle organizzazioni per i diritti gay il governo di Cristina Kirchner ha ripristinato il testo originale della legge.
«Sono sorpresa e preoccupata - ha detto Cristina Kirchner che si trova in visita ufficiale in Cina - sembra che siamo tornati all´epoca delle Crociate e dell´Inquisizione», riferendosi ai numerosi interventi di vescovi e cardinali in ogni parte del paese. «Qualcuno - ha aggiunto il presidente argentino - ha parlato addirittura di una guerra di Dio e concedere pieni diritti alla coppie omosessuali sarebbe un progetto del demonio». In effetti i toni con i quali la Chiesa ha affrontato la vicenda negli ultimi giorni sono stati piuttosto duri. Tutte le scuole cattoliche hanno incoraggiato gli studenti e i loro genitori a scendere in piazza per protestare contro il governo mentre El Clarin, il maggior quotidiano di Buenos Aires, che ha intervistato gli autisti dei pullman che hanno trasportato nella capitale molti dei partecipanti alle proteste, sostiene che hanno ricevuto soldi dalle parrocchie per scendere in piazza.
Nelle ore in cui il Senato argentino discuteva arrivavano i primi commenti alla possibilità che Buenos Aires diventi la capitale di matrimoni gay in America Latina: una star come Ricky Martin ha dato il suo appoggio alla legge scrivendo su Twitter: «Gli stessi diritti con gli stessi nomi per tutti». E un sacerdote cattolico, Nicolas Alessio, è stato sospeso dall´arcivescovo di Cordoba perché si era dichiarato favorevole alla nuova legge.
In Argentina, il matrimonio tra omosessuali è già ammesso in alcuni Comuni, dove si sono già sposate alcune coppie di gay o lesbiche. E Buenos Aires recentemente ha ospitato la prima edizione dei mondiali di calcio gay ed è stata nominata "città gay friendly" (amica dei gay). Secondo i sondaggi il 70% degli argentini è favorevole a concedere alle coppie omosessuali gli stessi diritti di qualsiasi altra coppia, ragione che - secondo i critici - avrebbe convinto la Kirchner e suo marito a compiacere l´opinione pubblica: l´anno prossimo ci sono le presidenziali e Nestor Kirchner vorrebbe, dopo i quattro anni della moglie, ricandidarsi.

Repubblica 15.7.10
Prendiamola con filosofia
“L’unica saggezza è riscoprire il mondo reale"
Il francese Michel Onfray e Maurizio Ferraris discutono su cosa significa "vivere" nell´epoca contemporanea
"Tra eccessi virtuali e ideologie della perfezione abbiamo disimparato ad accettare il nostro destino"
"Tutti vorremmo un corpo più bello ma bisogna anche saper imparare di invecchiare"
"Pensatori come Epicuro e Montaigne sono sempre più attuali"
di Maurizio Ferraris Michel Onfray

Da domani al 18 luglio a Meina si terrà il seminario annuale della Fondazione Europea del Disegno presieduta da Valerio Adami. Il tema di quest´anno è "La questione dello stile". Al seminario prenderanno parte tra gli altri Omar Calabrese, Paolo Fabbri, Durs Grünbein, Antonio Prete, e sarà inaugurato da un confronto tra Maurizio Ferraris e Michel Onfray. Che i due filosofi anticipano per i lettori di Repubblica

Maurizio FERRARIS: «La nostra generazione è diventata adulta (filosoficamente) in un mondo in cui le promesse di emancipazione del postmoderno si sono trasformate nel populismo mediatico. E ciò che lega le teorie dei postmoderni alle pratiche dei populisti è il principio secondo cui non c´è un reale "là fuori", ma solo un gioco di interpretazioni».
MICHEL ONFRAY: «Metti il dito nella piaga. Nietzsche diceva: "Accontentati del mondo dato". Questo "mondo dato" è in gran parte perduto, e nel mio lavoro cerco di ritornare a quel mondo perché intellettualmente, per non dire ontologicamente, viviamo in un regime filosofico platonico ed essenzialista. Il reale non è: viene presentato come un impoverimento, una diminuzione dell´Idea che è la sola cosa vera. Donde il declassamento del mondo di qui – il corpo, la carne, i desideri, le passioni, le pulsioni, la sessualità, l´edonismo, il godimento, la sensualità, il piacere ecc. Questo congedo dal reale culmina con la televisione, in cui "reale" viene ad essere il virtuale, la cui epifania ha luogo grazie a un oggetto, lo schermo – della televisione, del computer, del telefonino, dell´i-pad. L´immaterialità di questo falso reale diventa la sola e unica realtà, e lo spettatore si stupisce di imbattersi per strada nel corpo reale del filosofo che ha visto alla televisione».
FERRARIS: «Non sono troppo sicuro del fatto che ciò che si chiama "virtuale" sia anche "immateriale". In fondo, se manca l´elettricità non c´è televisione, né computer, né telefonino. Direi, piuttosto, che si tratta di una diversa materialità, un po´ meno ingombrante (ma non dimentichiamo le discariche piene di vecchi computer). Una materialità che tuttavia è trattata ideologicamente - su questo sono d´accordo con te - come se fosse immateriale. Trovo però che tu idealizzi un po´ troppo l´ideologia dominante nel momento in cui la tratti come essenzialista. Da una parte, mi sembra che la smaterializzazione sia finalizzata non a un trionfo dell´idea o del concetto, ma piuttosto al suo contrario, alla costituzione di un terreno vago in cui non ci sono fatti, ma solo interpretazioni (purtroppo Nietzsche ha detto anche questo). D´altra parte, se devo giudicare da quel che vedo in Italia, direi che "il corpo, la carne, i desideri, le passioni, le pulsioni, la sessualità, l´edonismo, il godimento, la sensualità, il piacere" siano al centro del potere, non siano affatto rimossi in nome dell´idea».
ONFRAY: «Esistono due usi dell´edonismo e due usi del corpo, che si accompagnano a due usi della vita. Da una parte, l´uso liberale e mercantile dei corpi, una celebrazione del piacere del possesso che produce la religione consumistica che, te ne rendo atto, oggi detta legge: avere, possedere, accumulare beni e ricchezze, essere perché si esibisce (casa, vestiti, macchina, donna/uomo, telefonino ultimo modello, gadget del momento – i-pad ecc.). Dall´altra, l´uso libertario e ludico dei corpi, una celebrazione dell´essere che si inscrive nella tradizione di Epicuro che invitava a sbarazzarsi delle vanità inseguite dai più: denaro, potere, onori, ricchezze. Epicuro invitava al "puro piacere di esistere", senza sofferenza, senza legami, senza obblighi, senza timori. Questi due modi d´essere suppongono due relazioni con il mondo: una relazione tanatofiliaca, nel primo caso, una relazione biofiliaca, nel secondo: amore della morte, amore della vita. Il corpo virile celebrato nello sport contemporaneo, il corpo platonico proposto nelle riviste di moda o nei magazine, è il corpo della religione consumista: deve essere bello, giovane, performante, in piena salute, abbronzato, scolpito dal body-building».
FERRARIS: «Ti confesso che, potendo scegliere, non mi dispiacerebbe affatto avere un corpo "bello, giovane, performante, in piena salute", anche se non "scolpito dal body-building", e, quanto all´i-phone, lo trovo molto ricco (e istruttivo) anche dal punto di vista concettuale, tanto è vero che ho scritto una ontologia del telefonino. Ma, venendo al nocciolo della questione, mi sembra che tu sia troppo tranchant quando distingui tra liberale e libertario, o tra tanatofilia e biofilia, il mondo – è il meno che si possa dire – è più complicato».
ONFRAY: «Per l´i-phone (anch´io ne ho uno), so quanto è utile questa tecnologia, e sono convinto della necessità di una ontologia e di una fenomenologia del telefonino, ma credo che un tecnofilo debba dotarsi di una saggezza prudenziale: la tecnologia deve obbedirci, non l´inverso. Per il corpo: non si può scegliere tra un corpo che non si ha e il corpo che si ha, ma si ha la scelta di vivere il proprio invecchiamento e la propria morte in maniera filosofica, altrimenti a che serve la filosofia?».
FERRARIS: «Sono pienamente d´accordo sul fatto che la filosofia deve aiutarci a fare i conti in modo realistico e coraggioso con l´invecchiamento e la morte. Oggi invece nel discorso pubblico si assiste a qualcosa di radicalmente antitetico. Da una parte, c´è un culto della vita a qualunque condizione, come se la vita senza memoria, pensiero, speranza, potesse essere ancora tale. Dall´altra, c´è la promessa (giocata anche in termini politici) di una vita prolungata sino a 120 o 150 anni, un modesto surrogato di immortalità in un´epoca scettica rispetto alle cose ultime, una quasi-immortalità per censo, di fatto una sorta di mummificazione».
ONFRAY: «Questo sogno di immortalità o di quasi-immortalità che rovina la vita quotidiana di tanta gente si radica nel sogno di una vita eterna in cui non c´è più tempo, invecchiamento, entropia, sofferenza. La filosofia, diventata universitaria, elitista, elitaria, nascosta, professorale e istituzionale, ha per modello la scolastica, e ha cessato di curarsi dell´esistenza, che viceversa era l´unico programma della filosofia antica. Oggi esiste anche una "filosofia" che propone una vaga saggezza destinata alle riviste femminili. Per quel che mi riguarda, rifiuto in filosofia la duplice tirannide dell´università e del giornalismo, ecco perché da nove anni ho istituito l´università popolare di Caen, per insegnarci venticinque secoli di pensiero esistenziale misconosciuto, dimenticato, travestito».
FERRARIS: «Non sarei troppo severo né con la filosofia sulle riviste femminili (sono sempre meglio che i giornali per soli uomini, e quella filosofia è sempre meglio dell´astrologia), né con la filosofia nelle università, che non è così astratta, se si considera che l´università, in Italia, è la bestia nera del populismo. Ma sono convinto – e su questo sono molto severo – che quando la filosofia dice addio alla realtà e alla verità rinuncia ad essere uno strumento di liberazione».
ONFRAY: «Possiamo scegliere di rifiutare questa religione nichilista per preferirle una saggezza immanente. Continuo a credere che Epicuro e Seneca siano nostri contemporanei, e che il loro messaggio sia di una impressionante attualità. Bisogna dunque ritornare alla filosofia, ma non al nichilismo degli anni Settanta, per il quale tutto ciò che rompeva con l´antico era buono, né ai filosofi che ci si appellano ancora (e sono tantissimi). Credo che Diogene e Aristippo, Democrito ed Epicuro, Lucrezio e Leucippo siano più moderni di Lacan, Sollers o Bernard-Henri Lévi. Solo la filosofia materialista (e atea) può spiegare come e perché siamo iscritti nel tempo che si manifesta nella perpetua metamorfosi delle connessioni atomiche, dove la morte non è che una di queste metamorfosi».
FERRARIS: «Non sono certo che si possa davvero "imparare a morire". Ma cercare di imparare a morire, cercare di conciliarci con il nostro destino, è forse il più grande insegnamento che ci viene dal materialismo (o, meglio, dal realismo, dal rifiuto del nichilismo), se non altro perché, come scriveva Montaigne, "chi ha imparato a morire ha disimparato a servire". A queste condizioni la filosofia può essere davvero uno stile di vita».
ONFRAY: «Credo che gli uomini possano cambiare e che una conversione filosofica sia possibile. Parlo per esperienza, ho avuto una infanzia difficile, quattro anni in un orfanotrofio di salesiani pedofili e tre anni di collegio, prima di lasciare la famiglia a diciassette anni per provare a volare con le mie ali. Inutile dire che dopo quelle prove ero più tanatofilo che biofilo, sono diventato biofilo grazie alla scoperta, l´uso e la pratica della filosofia antica, poi grazie alla decisione di condurre una vita filosofica. Sartre ha ragione quando dice che "siamo ciò che facciamo di ciò che hanno voluto fare di noi"».

Repubblica 15.7.10
Newton si è sbagliato la gravità non esiste
Gravità addio
Negli Usa si è riaperto il dibattito sui principi formulati dal celebre scienziato grazie ai lavori di un fisico olandese
di Federico Rampini

Si tratta di Erik Verlinde che lega le sue critiche all´ipotesi delle stringhe e a quella dell´universo olografico Gli anti-Newton: "La sua teoria è un´illusione"
Molti grandi studiosi avevano già elaborato un superamento Da Harvard a Berkeley la discussione sta appassionando gli esperti
La nuova visione può gettare una luce diversa su alcuni grandi temi contemporanei

La teoria degli universi paralleli funziona anche come una metafora letteraria e ci sono tre modi per raccontare questa storia. Nella prima versione un ladro nel Sud della Francia fa sparire computer, passaporto e carta di credito di un celebre scienziato.
La seconda versione racconta la vita di due gemelli monozigoti la cui vita procede perfettamente identica, fino a un divorzio che spezza l´armonia. La terza storia ci rivela che la teoria della gravità di Isaac Newton è un´illusione. Quest´ultima ci porta alla scoperta dell´universo "olografico", della "teoria delle stringhe" e altri termini esoterici, misteriosi e affascinanti. Nonostante le apparenze è più facile partire dalla fine.
La teoria della gravità è forse la più formidabile legge della fisica, il principio più evidente e universale perché corrisponde a un´esperienza empirica irresistibile. Il bambino ancora non sa parlare e uno dei primi giochi in cui si trastulla dal seggiolone, consiste nel far cadere il cucchiaio della pappa. Lo spettacolo è affascinante nella sua ripetitività. Afferra il cucchiaio, lo solleva, lo lascia cadere, e ogni volta il miracolo si ripete: quell´oggetto viene attratto irresistibilmente a terra, costringendo il paziente genitore a raccoglierlo. Ognuno di noi all´età di 18 mesi è stato Newton senza saperlo. Ebbene, ricrediamoci: la forza di gravità è un´illusione, una beffa cosmica, o un "effetto collaterale" di qualcos´altro che avviene a un livello molto più profondo della realtà.
L´abbandono di Newton era già stato anticipato dalla relatività di Albert Einstein ma ora avviene una rottura ancora più radicale. Un celebre fisico matematico olandese-americano, il 48enne Erik Verlinde che ha già legato il suo nome alla "teoria delle stringhe" (la supersimmetria negli universi paralleli), sta agitando il mondo accademico degli Stati Uniti con una serie di conferenze in cui fa a pezzi la teoria della gravità. Da Harvard a Berkeley, i colleghi scienziati lo stanno prendendo molto sul serio. La sua nuova visione infatti può gettare una diversa luce su alcuni dei grandi temi della fisica contemporanea: la cosiddetta dark energy (energia oscura), una sorta di anti-gravità che sembra accelerare l´espansione dell´universo, o la "materia oscura" che ipoteticamente tiene unite le galassie.
Andrew Strominger, fisico-matematico di Harvard, è uno dei colleghi di Verlinde che non nasconde la sua ammirazione: «Queste idee stanno ispirando discussioni molto interessanti, vanno dritte al cuore di tutto ciò che non comprendiamo del nostro universo». Verlinde è l´ultimo di una serie di scienziati che da trent´anni a questa parte stanno smantellando pezzo dopo pezzo la teoria della gravità. Negli anni Settanta Jacob Bekenstein e Stephen Hawking hanno esplorato i legami tra i buchi neri e la termodinamica. Negli anni Novanta Ted Jacobson ha illustrato i buchi neri come degli ologrammi, le immagini tridimensionali usate per la sicurezza delle nostre carte di credito: tutto ciò che è stato "inghiottito" ed è sparito dentro i buchi neri dell´universo, è presente come un´informazione stampata nell´ologramma, sulla superficie esterna. Juan Maldacena dell´"Institute for Advanced Study" ha costruito un modello matematico dell´universo espresso come un barattolo di minestra in conserva. Tutto ciò che accade dentro il barattolo, inclusa quella che chiamiamo la gravità, è sintetizzato nell´etichetta incollata all´esterno: fuori invece la gravità non esiste.
È a questo punto che entrano in gioco i gemelli e il ladro, che sembrano presi da sceneggiature di film surrealisti. Lo scienziato Erik Verlinde, autore di una formula algebrica che porta il suo nome, ha un fratello monovulare: Herman. Le loro due vite sono state identiche per molto tempo. I gemelli sono due matematici molto rispettati. Si sono laureati insieme all´università olandese di Utrecht nel 1988, insieme andarono in America per proseguire gli studi a Princeton, dove tutti e due ottennero la cattedra. Sposarono due sorelle. Divorziarono. E solo a questo punto una leggera discrepanza si è introdotta nel meccanismo delle loro vite speculari. Herman è rimasto a Princeton, Erik ha deciso di vivere ad Amsterdam per essere più vicino ai figli. L´estate scorsa, mentre era in vacanza nel sud della Francia, un ladro gli portò via il laptop, le chiavi di casa, il passaporto. «Fui costretto a fermarmi una settimana in più», racconta Erik. Una settimana di cogitazioni che è stata fatale per l´eredità di Newton. Pensate all´universo come una scatola dello scrabble (lo scarabeo, ndr), il gioco in cui si compongono parole con le lettere dell´alfabeto. Se agitate la scatola e sparpagliate le lettere a caso, c´è una sola possibile combinazione che può darvi una poesia del Leopardi. Una quantità pressoché infinita di combinazioni non hanno alcun significato. Più scuotete la scatola delle lettere più è probabile che il disordine aumenti via via che le lettere si combinano per ordine di probabilità. Questo è il nuovo modo di vedere la forza di gravità, come una forma di entropia. O un «effetto collaterale della propensione naturale verso il disordine». Se non è chiaro che cosa la sostituirà, e ancora siamo ben lontani dall´immaginare le possibili applicazioni pratiche, su un punto Verlinde è categorico: «Il re è nudo. Da tempo si era capito che la gravità non esiste. Ora è giunto il momento di gridarlo».

Repubblica 15.7.10
Golem
Nelle strade di Praga. Qui il mostro è diventato un mito
Tra passato e presente viaggio alla ricerca del rabbino Loew, il cabalista che creò il gigante d’argilla
di Marek Halter

La statua che lo rappresenta sta davanti al municipio: non è mai stata danneggiata. Né i nazisti, né i sovietici dopo di loro, si sono azzardati a toccarla: è lì, protetta dalla sua stessa leggenda
Oggi c´è chi l´ha trasformato in un piccolo amuleto da vendere nelle botteghe: tanti lo acquistano
Un anziano signore mi ha detto: "Lo tengo come portafortuna"

A Praga, davanti al municipio cittadino, troneggia l´imponente statua del gran rabbino Loew Jehouda ben Bezalel (1512-1609), detto il "MaHaRaL", il cabalista. La statua ha più di un secolo e nessuno - né i nazisti, né i sovietici dopo di loro, e neppure i graffitari odierni - si è mai azzardato a danneggiarla. È là, sempre identica, protetta dalla sua stessa leggenda. Durante il processo dell´ "Ebreo Slánský" nel 1952 - intentato dal potere stalinista contro le spie e i "cosmopoliti", ovvero gli ex dirigenti comunisti di origine ebraica - il governo sistemò delle guardie tutto intorno al monumento, per proteggerlo da eventuali aggressioni antisemite. Jiri Danicek, presidente delle comunità ebraiche della Repubblica Ceca, osserva con umorismo che «gli stessi uccelli evitano di poggiarsi sulla testa del MaHaRaL».
Perché questa singolare eccezione? Per paura di una maledizione. È là che nacque, fatto di parole e fango, il primo umanoide della storia, il Golem, e a distanza di così tanto tempo dalla sua morte, il suo creatore incute ancora paura. I praghesi raccontano che nel 1941 Heydrich, neoeletto governatore ausiliario del Reich in Boemia-Moravia - regione che Hitler poi trasformò in protettorato - avrebbe proposto al suo amico Himmler di sfruttare la forza del Golem per vincere la guerra. Appassionato di esoterismo, Hitler approvò. Era tuttavia necessario decifrare le formule della Cabala che una notte dell´anno 1600 avevano permesso l´apparizione del prodigio davanti alla folla ammassatasi ai piedi della Sinagoga Vecchia-Nuova.
All´epoca l´Europa era in fiamme: cattolici e protestanti si facevano la guerra. Erano divisi su tutto, fuorché nell´odio per gli ebrei. Le persecuzioni antisemite si moltiplicarono. Gli ebrei si rivolsero al loro rabbino chiedendo protezione. Egli esitò, ma alla fine si fece consegnare migliaia di secchi pieni di fango argilloso estratto dal fiume Moldava che attraversa la città. Con esso modellò una forma gigantesca, dai contorni vagamente umani, e in essa infuse la vita. Era il Golem, forza bruta priva di bocca, perché il Verbo appartiene esclusivamente agli uomini. Quella specie di bomba atomica impressionò gli antisemiti, ma il MaHaRaL disse anche che da un giorno all´altro, senza preavviso, avrebbe potuto ribellarsi contro i suoi stessi creatori.
Il mostro d´argilla garantì la sicurezza della città ebraica, dove riportò la pace e il benessere. In seguito, però, il Golem cessò di avere un´utilità pratica. Lo si impiegò per mansioni impegnative e compiti umili. I bambini iniziarono a deriderlo. Lo si insultò. Del resto, non era un estraneo? Un giorno, come aveva previsto il MaHaRaL, il Golem si ribellò e distrusse tutto ciò che incontrò sul suo cammino. Il suo creatore, il gran rabbino Loew, fu avvisato immediatamente e dovette togliere la vita alla sua creatura: il Golem tornò a essere fango. Gli abitanti della città ebraica, pieni di rimorso, trasportarono il fango nel solaio della Sinagoga Vecchia-Nuova, la più vecchia d´Europa.
Fu per ridar vita a quel mucchio di argilla che il nazista Heydrich costituì addirittura un commando, denominato "Commando Golem". Suo compito era quello di rintracciare gli ultimi officianti della sinagoga e, alla bisogna, torturarli per ottenere le formule necessarie a farlo tornare in vita.
Secondo i praghesi che nel weekend visitano il quartiere con le loro famiglie, il Commando sarebbe riuscito a recuperare le informazioni desiderate. Ma - mi spiega rab Haïm, custode della sinagoga - "poiché non riuscì a rintracciare anche la melodia che accompagnava le parole pronunciate da MaHaRaL", di fatto il Commando non riuscì a esaudire il sogno di Hitler.
Con mia grande sorpresa, Arno Parik, il curatore del Museo ebraico di Praga, cita le parole di David Gans, che assistette al prodigio ed è la voce narrante del mio libro: «Nessuno, salvo MaHaRaL, fu mai puro a sufficienza per conoscere questo segreto della Cabala».
MaHaRaL, il gran rabbino Loew, illustre cabalista, era nato nel 1512 a Worms sul Reno e ed era arrivato a Praga in età avanzata, su richiesta della comunità ebraica e dell´imperatore romano germanico Rodolfo II. Rimase a svolgere il suo incarico di rabbino fino alla sua morte, sopravvenuta nel 1609, all´età di 97 anni (...).
Per me, che sono nato a Varsavia, è stato un avvenimento raro camminare lungo le strade nelle quali il Golem si era animato. Seguendo le tracce e i passi del MaHaRaL, ho esaudito il sogno della mia infanzia, privilegio di pochi. Ma ho scoperto con una certa sorpresa che l´antico quartiere di Praga è rimasto intatto (...). Ne sono rimasto sbalordito: la mia città, la città ebraica di Varsavia, è stata interamente distrutta. Perché i nazisti hanno risparmiato Praga? Per paura di MaHaRaL e del Golem? Goethe stesso aveva visitato la Sinagoga Vecchia-Nuova prima di scrivere il suo Apprendista stregone. Il Golem di Gustav Meyrink (1915) è stato uno dei primi best-seller della letteratura mondiale, letto da centinaia di migliaia di tedeschi. Del resto, il fascino che gli ebrei esercitavano su Heydrich era tale che egli si era fatto preparare un attestato dalla Commissione di valutazione razziale a riprova della sua origine tedesca e della purezza del suo sangue. Scrissero che il suo sangue non conteneva "né sangue di nero né sangue di giudeo". Portò quel documento sempre con sé, appuntato sul petto, e così fu ritrovato dopo essere stato ucciso il 4 giugno 1942 dalla resistenza ceca. Nondimeno, prima di quel momento ebbe tutto il tempo necessario a presentare a Hitler il suo progetto, consistente nel fare del quartiere di Josefov a Praga il "museo esotico di una razza estinta".
Considerato che era pericoloso toccare la Praga ebraica a causa del MaHaRaL, demiurgo del Golem, perché non trasformarla - alla stregua di un Jurassic Park - in un luogo nel quale osservare le tracce di un popolo malvagio, cancellato per sempre dalla faccia della Terra? (...).
Al numero uno di via Staré Školy, in un bell´edificio in stile Art Nouveau dell´ex quartiere ebraico di Praga, si trova il Museo ebraico. Il suo storico e curatore, Arno Parik, mi racconta che "sotto il controllo nazista, quaranta dipendenti lavorarono dodici ore al giorno per ricostruire un altro museo nello stesso posto del nostro, chiuso nel 1939, inaugurato infine il 3 agosto 1942. Sui cataloghi classificarono oltre duecentomila reperti".
La prima esposizione che organizzarono, nella sinagoga detta Alta, riguardò i testi ebraici e i manoscritti che i nazisti avevano fatto venire da tutta Europa. A quell´epoca vivevano a Praga circa centoventimila ebrei. Oggi sono a malapena mille e settecento. Il loro quartiere non è cambiato, presenta ancora i suoi "angolini oscuri, passaggi segreti, finestre cieche, cortili sudici, brasserie rumorose, alberghi sinistri", come scrive Kafka. Anche quel quartiere si è salvato grazie alla paura che incuteva e incute ancora il cabalista di Praga?
All´ombra del Klaus, la scuola di studi di MaHaRaL, scopro il vecchio cimitero ebraico. Migliaia di tombe - oltre dodicimila, si dice - alcune delle quali vecchie di parecchi secoli, si sovrappongono e si puntellano a vicenda per non crollare. Nell´imponente basamento di pietra sotto il quale riposano il gran rabbino Loew e sua moglie Perl, il tempo ha aperto numerose crepe, dentro le quali - come in quelle del Muro del Pianto - i pellegrini infilano i loro fogliettini scritti, contenenti i loro messaggi.
Uscendo dal cimitero mi imbatto in un edificio sbilenco di mattoni scuri a due piani. Come indica una targa fissata sull´architrave della porta d´ingresso, è lì dentro che nel 1664 fu fondata la Confraternita dell´Ultimo Dovere (Hevrah Kadisha). Questa confraternita, formata da volontari, aveva l´obbligo di servire senza distinzione alcuna tutti i membri della comunità e di prendere a carico i più bisognosi, per esempio i malati (...).
Non mi sarebbe piaciuto lasciare Praga senza aver rivisto il MaHaRaL (...). Per sbaglio ho dato le spalle alla statua del gran rabbino Loew e mi sono ritrovato davanti alla casa di Kafka, al numero 2b della via Cihelná. Nulla mi è parso cambiato, a esclusione, forse, al primo piano, di un bar, il Café Franz Kafka, beninteso, e all´ingresso dello stabile, di una botteguccia nella quale si vendono penne con l´effigie dello scrittore e piccole statuine in terracotta del Golem. All´interno una coppia di anziani era indecisa se acquistare una penna o una statuina. Alla fine i due hanno scelto di acquistare venti Golem in un colpo solo, "per regalarli", ha spiegato l´uomo dai capelli bianchi in un inglese dal forte accento tedesco. Poi, girandosi e reggendo un piccolo Golem in mano, mi ha detto: «Lo terrò come portafortuna personale».
Ho ritenuto che in fondo non avesse torto e ne ho acquistati alcuni anch´io.
Traduzione di Anna Bissanti

Agi 15.7.10
Istat: Pettini, dati povertà situazione grave e persistente
Roma, 15 lug. - I nuovi dati Istat sulla poverta' fotografano una situazione grave e ben piu' persistente di quanto non possa essere giustificato dal dato congiunturale della crisi economica, cui anzi e' stato messo un temporaneo argine dall'intervento degli ammortizzatori sociali. E' quanto afferma l'economista Anna Pettini, docente di Economia Politica all'Universita' di Firenze, Facolta' di Scienze Politiche. "Il tema della poverta', ampiamente studiato e dibattuto, vede contrapporsi posizioni diverse in merito al giudizio di valore che puo' essere fatto valere per contrastarla - aggiunge - e le giustificazioni vanno da motivazioni di tipo solidalistico a valutazioni di efficienza economica. Prima di qualsiasi altra considerazione si dovrebbe sostenere che un paese ad alto tasso di sviluppo non dovrebbe potersi dire tale fino a quando non ha azzerato il problema della poverta', almeno quella assoluta". Ed aggiunge, "le persone che devono spendere le giornate a rincorrere lo stretto necessario per sopravvivere avranno difficilmente accesso a quella che puo' dirsi vita umana, prima che civile. Vita che si differenzia da quella animale solo in quanto rivolta alla ricerca della propria realizzazione personale, che puo' arrivare dalle attivita' piu' diverse, ma che certamente - precisa l'economista - non puo' prescindere dalla soddisfazione dei bisogni necessari alla sopravvivenza". Insomma, "questo e' il punto di partenza, e se neppure questo e' garantito da societa' dette ampiamente avanzate in termini di sviluppo economico, forse ci si deve chiedere se sviluppo economico significa ancora - nota la Pettini - precondizione per la possibilita' dello sviluppo umano, o se l'inversione di senso prevale, e ci si rassegna a dover rincorrere un sistema che sembra autonomo dalla sorte delle persone in carne e ossa". E cosi' conclude. "ci sono studi che dimostrano la possibilita' di avere politiche di reddito minimo universale a parita' di gettito fiscale, ovvero manovre redistributive e di sostegno al reddito senza variazioni di gettito fiscale netto, ad esempio la proposta di Ugo Colombino. Ne leggeremo la discussione sui giornali?". (AGI) Pat

Avvenire 14.07.10
Gerusalemme, trovato testo del 1400 a.C.

Un frammento di creta di pochi centimetri recuperato dagli archeologi israeliani a Gerusalemme potrebbe dimostrare che quattro secoli prima del biblico re Davide, ossia nel XIV secolo a.C., nella zona di Gerusalemme c’era già una influente città-stato che intratteneva relazioni con il faraone egiziano Akhenaton (Amenofi IV), noto anche come il «re eretico». Il frammento è in caratteri cuneiformi e in lingua accadica, e ricorda i testi dell’epoca recuperati a Tell al-Amarna (Egitto). Ad al-Amarna furono reperiti poi messaggi di Abed-Haba, «re di Urushalem».

Liberazione Lettere 15.07.10
Vaticano, "chiuso per restauro"
Cara “Liberazione”, se un giorno si trovano le ossa di una donna nei loro lucernai, dove la luce non entra e nessuna chiarezza è possibile. Se un altro giorno si scopre che l’obbligo della loro astinenz riguarda soltanto i rapporti con l’altro sesso, ma non sono esclusi uomini e bambini; che le violenze su questi ultimi sono fisiche e morali, “annullanti” e distruttive…
Se un altro giorno ancora si stabilisce che, quando la loro parola non ti giunge attraverso campane, messe e politica, viaggia indisturbata su onde elettromagnetiche e cancerogene; vittime sempre i più deboli, i bambini. Se l’ultimo giorno ci si rende conto che sono ancora tra i Paesi più ricchi del mondo, nonostante l’apparente carità mondiale: evangelizzazione mascherata da solidarietà. Allora, c’è qualcosa che, ignominiosamente, non va. Allora, diventa necessario e urgente che dalle loro porte lascino entrare e uscire soltanto… l’arcangelo della Giustizia. E che per tutti gli altri mettano un bel cartello: “chiusi per restauro”
Paolo Izzo

mercoledì 14 luglio 2010

l’Unità 14.7.10
Intervista a Pier Luigi Bersani. L’offensiva dell’opposizione
«Il berlusconismo è giunto al punto critico. Democratici, nervi saldi»
Il segretario Pd negli Usa: la corruzione infetta le istituzioni, Paese senza guida «Teniamo la barra di un’opposizione ferma e guardiamo alle forze più responsabili»
di Dimone Collini

Ai democratici dico: nervi saldi». Pier Luigi Bersani guarda con preoccupazione ai «gravissimi fatti di corruzione che stanno infettando le istituzioni e i luoghi di governo». Ora spunta “Cesare”, quello che tutto sapeva. Il leader del Pd sottolinea che al di là dei nomi di Nicola Cosentino, Denis Verdini, Claudio Scajola e di tutti gli altri invischiati in questa torbida vicenda che passa per l’eolico sardo, gli appalti per il G8 e vecchie e nuove logge segrete, quel che ormai è chiaro è che «sotto l’ombrello dell’imperatore si sono creati dei meccanismi quasi feudali, con vassalli, valvassori e valvassini che hanno ritenuto di potersi muovere avendo in mano un pezzo di potere e giostrandolo anche al di fuori dei circuiti istituzionali». Siamo arrivati, dice il segretario del Pd, a «un punto critico». E alle «forze più responsabili del centrodestra» lancia un appello: «Riconoscano che il Paese è senza guida, che non si sta facendo nulla per gli italiani, che non si può andare avanti per mesi e mesi in queste condizioni».
Bersani si ritaglia una pausa tra gli incontri previsti dall’agenda statunitense per parlare di quanto sta avvenendo in Italia. «Anche qui mi stanno chiedendo cosa succede, il tema ha già oltrepassato i nostri confini», dice il leader del Pd dopo un colloquio al Dipartimento di Stato di Washington per discutere della situazione in Afghanistan con il vicedirettore delle operazioni Nato Carleton Bulkin e prima di un incontro per parlare di crisi economica con Phil Gordon, del Bureau per gli affari europei ed euroasiatici.
E lei che risponde, a chi le domanda cosa succede da noi? «Che una brutta fase presto si andrà chiudendo, perché da ogni punto di vista la si guardi è ormai evidente che più si allunga e peggio è. E che tutto quello che si sta vedendo non si sarebbe visto senza un ruolo dell’opposizione, sia per quel che riguarda il distacco sui temi sociali tra il centrodestra e il paese, sia per quel che riguarda la difesa del tema democratico, civile, della legalità». E lei dice che questa volta è diverso dal passato, da tutte le volte che avete parlato di berlusconismo al tramonto?
«A questo punto è innegabile che siamo al secondo tempo del berlusconismo, una fase in cui il meccanismo populista si scontra con la realtà, con l’incapacità a fare le riforme necessarie e a parlare con sincerità al paese. Questo governo ha dimostrato di non essere in grado di proporre interventi e misure per far fronte alla crisi che abbiano carattere di equità e condivisione. Ha dimostrato di avere in disprezzo le regole democratiche, di volere un Parlamento succube, di pensare di poter attaccare impunemente le istituzioni dello Stato e gli organi costituzionali, di non sopportare la libertà di stampa. E ora siamo arrivati a una fase in cui l’intero impianto tocca un punto critico». Di fronte al quale Berlusconi reagisce denunciando il clima “giacobino e giustizialista”: che farà a questo punto il Pd?
«Berlusconi può tentare il colpo di coda, tentare una chiamata alle armi contro il nemico, che di volta in volta sono i magistrati, i comunisti, i giacobini, i giustizialisti, con l’idea di farla franca e di sottrarsi alle sue responsabilità e ai suoi fallimenti. Il Pd farà una ferma opposizione, tenendo assieme questione sociale e questione democratica, in modo da poter muovere uno schieramento di opinione molto ampio. E lo farà sia in Parlamento che in giro per l’Italia, attraverso giornate di mobilitazione sui temi della manovra, della legalità e della libertà d’informazione».
In Parlamento avete comunque di fronte una maggioranza che ha cento voti in più, e posizionamenti diversi di alcune personalità non possono cambiare i risultati, non crede? «Noi ci rivolgeremo alle forze più responsabili della maggioranza, se ci sono, perché riconoscano che l’Italia è senza guida, che non si sta facendo nulla per gli italiani, che il paese è sopraffatto da continue notizie di fatti gravissimi di corruzione, di infezione delle istituzioni e dei luoghi di governo».
Pensa a una sede e un momento specifici? «Abbiamo chiesto una discussione al Senato per parlare dello stato della Repubblica. E bene ha fatto Anna Finocchiaro ad avanzare al presidente Schifani questa richiesta, perché siamo di fronte a una crisi sociale micidiale e a una deriva democratica che è sotto gli occhi di tutti. Quella discussione sarà l’occasione, se ritiene la maggioranza, per fare un discorso serio, per chiedersi se sono in grado di governare il paese. Questo è il punto. Si comincia a ragionare da qui in poi, da questo riconoscimento. Dopodiché, qualora ci fosse, la parola non toccherebbe a noi ma al Presidente della Repubblica, e il Pd si comporterebbe come la forza responsabile che è».
Il “riconoscimento” a cui lei fa riferimento prevedrebbe però l’uscita di scena di Berlusconi, cosa che il diretto interessato non sembra intenzionato a mettere nel novero delle possibilità...
«Per noi questo è un punto ineliminabile. Questo è il secondo tempo e un terzo non c’è. Farlo durare a lungo significa soltanto provocare altri danni al paese».
Berlusconi ha vinto le elezioni, ha fatto notare anche il leader dell’Udc Casini... «Sì, ma ha anche fallito la prova di governo, palesemente, anche se nega l’evidenza».
Berlusconi ha anche negato di aver detto che chi voterà la mozione di sfiducia nei confronti di Cosentino è fuori dal Pdl. Un avvertimento comunque fatto filtrare: pensa che questa prova di forza del premier avrà successo?
«Più che di prova di forza direi che Berlusconi in questo momento ha bisogno di mostrare la forza. Ma questo vuol dire semplicemente che non ce l’ha, che è in una posizione di estrema difficoltà e che reagisce tirando colpi di coda. E sapendo quel che significa il berlusconismo è evidente che non siamo in una situazione qualsiasi. Quindi il nostro compito adesso è tenere i nervi a posto, rimanendo combattivi nel lavoro di opposizione».
Finché le opposizioni si muoveranno in ordine sparso Berlusconi ha meno da temere, non crede? «Ma infatti adesso dobbiamo anche cominciare ad accorciare le distanze fra le forze dell’opposizione. A questo punto tutte quante devono sentire la responsabilità del momentoenonfarelagaraachivaunmetro più avanti o più indietro. Tutti dobbiamo sentire la responsabilità di lavorare a un progetto riformatore per l’Italia, perché in tutta questa vicenda il nostro problema principale sarà dare un messaggio positivo al paese, stremato da questa cura berlusconiana». Parlava di corruzione e infezione delle istituzioni, ora dalle carte dell’inchiesta sulla nuova loggia sembrerebbe che Berlusconi venisse costantemente informato circa le attività della cricca.
«Quel che è certo, guardando ai nomi di Cosentino, Verdini, Scajola e di tutti gli altri, è che sotto l’ombrello dell’imperatore si sono creati dei meccanismi quasi feudali, con vassalli, valvassori e valvassini che hanno ritenuto di potersi muovere avendo in mano un pezzo di potere e giostrandolo anche al di fuori dei circuiti istituzionali».
La corruzione c’è sempre stata, le risponderebbe qualcuno... «In questo caso siamo di fronte a un salto di qualità molto grave. Le stesse legislazioni speciali sugli appalti sono state l’autostrada per la corruzione. E noi l’avevamo detto già quando le approvarono. Ora ne abbiamo prove a bizzeffe».

l’Unità 14.7.10
Allarme Onu per il bavaglio «Rischi per la libertà»
«Se adottata nella sua forma attuale può minare il godimento del diritto alla libertà di espressione in Italia». È il giudizio sulla legge bavaglio del relatore speciale Onu sulla libertà di espressione. L’ira di Frattini...
di Umberto De Giovannangeli

Gli ultimi Paesi di cui si è occupato non sono certo campioni di democrazia e di libertà di stampa: Venezuela, Sri Lanka, Birmania...E ora, l’Italia. L’Italia del Cavaliere-Bavaglio. Il Governo italiano deve «abolire o modificare» il progetto di legge sulle intercettazioni perché «se adottato nella sua forma attuale può minare il godimento del diritto alla libertà di espressione in Italia». Ad affermarlo, in una nota ufficiale, è il relatore speciale dell'Onu sulla libertà di espressione, Frank La Rue. Secondo il progetto di legge 1415, ricorda la nota, chi non è accreditato come giornalista professionista può essere condannato alla reclusione fino a quattro anni per la registrazione di qualsiasi comunicazione o conversazione senza il consenso della persona coinvolta e la diffusione di tali informazioni. «Una sanzione così severa sottolinea La Rue minerebbe seriamente il diritto di tutti gli individui a cercare e comunicare informazioni, in violazione della Convenzione internazionale sui diritti civili e politici, di cui l'Italia è parte».
J’ACCUSE ARGOMENTATO
La Rue, guatemalteco, incaricato dal Consiglio dei diritti umani dell'Onu di monitorare la situazione del diritto alla libertà di opinione ed espressione nel mondo, ha inoltre espresso preoccupazione per la prevista introduzione di una sanzione per i giornalisti e gli editori che pubblicano materiale intercettato prima dell'inizio di un processo. «Una tale punizione, che include fino a 30 giorni di carcere ed una sanzione fino a 10.000 euro per i giornalisti e 450.000 euro per gli editori, è sproporzionata rispetto al reato», spiega. Inoltre, «queste disposizioni possono ostacolare il lavoro dei giornalisti di intraprende-
re giornalismo investigativo su questioni di interesse pubblico, quali la corruzione, data l'eccessiva durata dei procedimenti giudiziari in Italia, sottolineata a più riprese dal Consiglio d'Europa», osserva La Rue che ha auspicato una missione dell'Onu in Italia, nel 2011, per esaminare la situazione della libertà di stampa e il diritto alla libertà di espressione. «Frank La Rue è un esperto che fa capo al Consiglio dei Diritti umani delle Nazioni Unite con base a Ginevra e presta il proprio servizio in veste indipendente all'Onu senza ricevere alcun pagamento», precisa l'Onu, sul suo sito di informazione.,
FRATTINI INSORGE
Da Ginevra a Roma. Da una denuncia argomentata a una furente reazione. Quella del ministro degli Esteri, Franco Frattini. Sono fortemente sconcertato e sorpreso per la posizione del rappresentante dell'Onu» sul Ddl intercettazioni», tuona il titolare della Farnesina. «Il processo mediatico è una barbarie. Non un principio di diritto», insorge Frattini, partito lancia in resta contro il relatore Onu sulla libertà di espressione. «In tutti i Paesi liberali e democratici del mondo non è consentito alla pubblica accusa di divulgare prima della sentenza definitiva elementi di indagine che devono restare segreti. «Questo insiste il ministro per la semplice ragione che, in democrazia, si tutelano anche i diritti degli indagati. Il processo mediatico è una barbarie, non un principio di diritto». Il Cavaliere e i suoi fedelissimi contro l’Onu: la storia si ripete. L’opposizione insorge. «Non mi stupiscono le reazioni scomposte e, aggiungo, imbarazzanti, che vengono da autorevoli esponenti del governo e della maggioranza al richiamo che l'Onu ha rivolto al Ddl intercettazioni. Sono rimasti solo gli amici di Berlusconi, perché nemmeno tutto il Pdl è unito, a difendere la legge che questa maggioranza ha partorito sulle intercettazioni», rimarca la presidente dei senatori del Pd Anna Finocchiaro. «Non c’è commentatore, non c’è giornalista, non c’è giudice o rappresentante delle forze di polizia che consideri quel Ddl una buona legge osserva Finocchiaro -. L'Onu non fa che confermare questo giudizio. Aggredire in maniera violenta e arrogante l'Onu è sintomo del grande nervosismo che serpeggia dentro la maggioranza devastata da tensioni e da una evidente questione morale che nessuno, nemmeno questa pessima legge, riuscirà a nascondere...».

l’Unità 14.7.10
Intervista a Corradino Mineo
«Rainews va bene e costa poco. Mi cacciano per logiche politiche»
Il direttore del canale all news: Masi non mi ha informato ma ho ricevuto tanta solidarietà «Negli ultimi giorni abbiamo raggiunto Sky. Il mio successore Ferraro? So che ha altri modelli»
di Natalia Lombardo

Corradino Mineo, direttore di RaiNews, sembra davvero sul filo della rimozione, non giustificata se non con le mire della Lega sul canale all news, per regionalizzarne l’identità in un futuro accorpamento con RaiTre, anche questa resa «federalista».
Oggi e domani si riunisce il Cda della Rai: continua il braccio di ferro del direttore generale, Mauro Masi, per impedire che Annozero riprenda a settembre. E poi l’ultimo repulisti: via Mineo da RaiNews per fare entrare, dall’esterno, Franco Ferraro, conduttore di Seven a Sky, giornalista professionista da due anni, dato in quota Lega per lo sponsor Antonio Marano. Potrebbe fermarsi, invece, la nomina di Susanna Petruni a RaiDue, scalzando Liofredi che annuncia una causa. La prepara anche Raffaele Genah, vicedirettore del Tg1 rimosso dalla conduzione.
In difesa di Mineo si è sollevato un fronte bipartisan: non solo il Pd, l’Idv, i radicali, l’Udc, ma anche Granata e il ministro Rotondi. Protestano per le nomine politiche e le assunzioni dall’esterno i dirigenti dell’Adrai, e l’Usigrai annuncia un «voto sul Dg Masi». Mineo, una difesa trasversale...
«Fa piacere che qualcuno abbia apprezzato il nostro lavoro. Con il “Caffè” abbiamo alimentato il dibattito all’interno della maggioranza e dell’opposizione. Il compito della tv all news non è quello di sparare notizie a raffica, ma di muovere il confronto, uscire dalla propaganda».
Il Dg Masi l’ha informata della sua volontà di cambiare direttore, o l’ha saputo solo dalle indiscrezioni? «No, ne so quanto voi. Ma dico, avete mai visto l’azienda vantare i risultato di RaiNews? No, quindi non mi stupisco del fatto che non mi dicano niente. Negli ultimi tre giorni siamo in parità di ascolti con Sky: domenica eravamo in testa, sabato e lunedì eravamo sotto di 50 spettatori di media. In prime time, la mattina presto, siamo leader assoluti: su RaiTre facciamo il 10 per cento di share, quasi il 2 sul digitale e sul sito. Mi hanno chiuso Il Caffè per dare spazio a Buongiorno Italia su RaiTre, e me lo restituiscono l’estate dalle 7 alle 8 perché non hanno i soldi per la tv glocal».
Un rimozione dalla logica politica?
«Non so che dire. Non è legata agli ascolti, né ai costi perché costiamo pochissimo e non ci hanno dato niente. C’è un’altra idea di all news? Qual è? Questo piano industriale è secretato. Si parla di fusione con Televideo. Si parla molto, il che spiegherebbe la scelta del giornalista Ferraro, che spero che sia un ottimo professionista, per le attribuzioni di fede che gli danno, che il modello dovrebbe essere quello di Buongiorno Italia: notizie a mitraglia dal burka all’assassinio alla festa locale. Un modello non vincente e che costa molto. Le uniche tv all news del mondo che vanno bene hanno un’identità netta: Fox News e Al Jazeera. La Cnn ha 200mila telespettatori in prime time, Fox News un milione. RaiNews 50mila, perché ha un’idea chiara: dare la notizie sempre animata dal dubbio, e discutere tutto. Se Masi le proponesse di dirigere il Gr Parlamento, però sotto la supervisione di Preziosi, accetterebbe? «Come faccio a prendere sul serio un proposta da un editore che per un anno e otto mesi mi ha lasciato in trincea senza darmi niente, né un riconoscimento né mi ha comunicato alcunché».
Pensa che farebbe causa?
«Non so. Questo sì che è da regime: uno prima spara e poi tratta. Io non faccio la vittima, i direttori si cambiano, ma dopo un confronto onesto con chi ha lavorato. C’è una redazione che si è comportata benissimo pur senza mezzi. Il problema non è Corradino Mineo, il problema è RaiNews. Quando, per ragioni che non conosco, mi toglieranno allora mi preoccuperò di cosa fare».

l’Unità 14.7.10
L’appello online degli africanisti: diritti ai profughi eritrei in Libia

Una lettera aperta degli africanisti italiani (promotori Anna Maria Gentili, Alessandro Triulzi, Uoldelul Chelati Dirar) ai ministri Frattini e Maroni sulla vicenda dei 245 profughi eritrei nelle prigioni libiche ha raccolto più di cento firme in due giorni. A quei 245, dicono gli africanisti, come a tutti i profughi, «dovrebbe essere riconosciuto il diritto di vedere presa in considerazione la propria eleggibilità allo status di rifugiati». Continuano: «Il dramma di questo gruppo di eritrei abbandonati in un limbo caratterizzato dalla più totale e indiscriminata negazione dei diritti elementari è sotto gli occhi di tutti, perché finalmente ne hanno parlato anche i nostri giornali e si sono mobilitate autorevoli organizzazioni umanitarie. L'Italia tende a rifiutare le critiche, ma non può non riconoscere quanto e come la responsabilità di questa drammatica situazione sia l’inevitabile conseguenza della politica dei respingimenti collettivi, in palese violazione degli obblighi della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo che l’Italia ha sottoscritti, e del divieto di refoulement della Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato».
Questa politica illegale e disumana «finanziata col nostro denaro, non riguarda certo solo eritrei, ma di questi abbiamo saputo con maggiori dettagli perché in Italia abitano e lavorano molti famigliari o amici... L'Eritrea ha fornito all'Italia intere generazioni di ascari che hanno combattuto coraggiosamente sotto la sua bandiera, anche nelle stesse terre libiche dove ora i loro nipoti sono sottoposti a un trattamento disumano nel silenzio se non col consenso del Governo italiano». Tra le richieste, il vincolo al rispetto dei diritti nell’uomo per gli accordi sul pattugliamento e sospensione dei respingimenti in Libia; che l’accordo preveda il ritorno dei funzionari Unhcr così che ascoltino i migranti possano deciderne la sorte e la vita.

Repubblica 14.7.10
Perché gli uomini uccidono le donne
di Michela Marzano

La violenza non è solo di pazzi, mostri, malati E poco importa il contesto sociale Spesso sono uomini che non accettano l´autonomia femminile
Molti di questi delitti passionali sono il sintomo del "declino dell´impero patriarcale", l´unico modo per sventare la minaccia della perdita

Si continua a chiamarli delitti passionali. Perché il movente sarebbe l´amore. Quello che non tollera incertezze e faglie. Quello che è esclusivo ed unico. Quello che spinge l´assassino ad uccidere la moglie o la compagna proprio perché la ama. Come dice Don José nell´opera di Bizet prima di uccidere l´amante: «Sono io che ho ucciso la mia amata Carmen». Ma cosa resta dell´amore quando la vittima non è altro che un oggetto di possesso e di gelosia? Che ruolo occupa la donna all´interno di una relazione malata e ossessiva che la priva di ogni autonomia e libertà?
Per secoli, il "dispotismo domestico", come lo chiamava nel XIX secolo il filosofo inglese John Stuart Mill, è stato giustificato nel nome della superiorità maschile. Dotate di una natura irrazionale, "uterina", e utili solo - o principalmente - alla procreazione e alla gestione della vita domestica, le donne dovevano accettare quello che gli uomini decidevano per loro (e per il loro bene) e sottomettersi al volere del pater familias. Sprovviste di autonomia morale, erano costrette ad incarnare tutta una serie di "virtù femminili" come l´obbedienza, il silenzio, la fedeltà. Caste e pure, dovevano preservarsi per il legittimo sposo. Fino alla rinuncia definitiva. Al disinteresse, in sostanza, per il proprio destino. A meno di non accettare la messa al bando dalla società. Essere considerate delle donne di malaffare. E, in casi estremi, subire la morte come punizione.
Le battaglie femministe del secolo scorso avrebbero dovuto far uscire le donne da questa terribile impasse e sbriciolare definitivamente la divisione tra "donne per bene" e "donne di malaffare". In nome della parità uomo/donna, le donne hanno lottato duramente per rivendicare la possibilità di essere al tempo stesso mogli, madri e amanti. Come diceva uno slogan del 1968: "Non più puttane, non più madonne, ma solo donne!". Ma i rapporti tra gli uomini e le donne sono veramente cambiati? Perché i delitti passionali continuano ad essere considerati dei "delitti a parte"? Come è possibile che le violenze contro le donne aumentino e siano ormai trasversali a tutti gli ambiti sociali?
Quanto più la donna cerca di affermarsi come uguale in dignità, valore e diritti all´uomo, tanto più l´uomo reagisce in modo violento. La paura di perdere anche solo alcune briciole di potere lo rende volgare, aggressivo, violento. Grazie ad alcune inchieste sociologiche, oggi sappiamo che la violenza contro le donne non è più solo l´unico modo in cui può esprimersi un pazzo, un mostro, un malato; un uomo che proviene necessariamente da un milieu sociale povero e incolto. L´uomo violento può essere di buona famiglia e avere un buon livello di istruzione. Poco importa il lavoro che fa o la posizione sociale che occupa. Si tratta di uomini che non accettano l´autonomia femminile e che, spesso per debolezza, vogliono controllare la donna e sottometterla al proprio volere. Talvolta sono insicuri e hanno poca fiducia in se stessi, ma, invece di cercare di capire cosa esattamente non vada bene nella propria vita, accusano le donne e le considerano responsabili dei propri fallimenti. Progressivamente, trasformano la vita della donna in un incubo. E, quando la donna cerca di rifarsi la vita con un altro, la cercano, la minacciano, la picchiano, talvolta l´uccidono.
Paradossalmente, molti di questi delitti passionali non sono altro che il sintomo del "declino dell´impero patriarcale". Come se la violenza fosse l´unico modo per sventare la minaccia della perdita. Per continuare a mantenere un controllo sulla donna. Per ridurla a mero oggetto di possesso. Ma quando la persona che si ama non è altro che un oggetto, non solo il mondo relazionale diventa un inferno, ma anche l´amore si dissolve e sparisce. Certo, quando si ama, si dipende in parte dall´altra persona. Ma la dipendenza non esclude mai l´autonomia. Al contrario, talvolta è proprio quando si è consapevoli del valore che ha per se stessi un´altra persona che si può capire meglio chi si è e ciò che si vuole. Come scrive Hannah Arendt in una lettera al marito, l´amore permette di rendersi conto che, da soli, si è profondamente incompleti e che è solo quando si è accanto ad un´altra persona che si ha la forza di esplorare zone sconosciute del proprio essere. Ma, per amare, bisogna anche essere pronti a rinunciare a qualcosa. L´altro non è a nostra completa disposizione. L´altro fa resistenza di fronte al nostro tentativo di trattarlo come una semplice "cosa". È tutto questo che dimenticano, non sanno, o non vogliono sapere gli uomini che uccidono per amore. E che pensano di salvaguardare la propria virilità negando all´altro la possibilità di esistere.

Repubblica 14.7.10
La notte Caravaggio
Roma apre le porte al genio divenuto una rockstar
di Francesca Giuliani

Si potranno ammirare anche l´Oloferne di Palazzo Barberini e il Battista della Galleria Corsini
È il pittore dei record: seicentomila visitatori alla mostra appena chiusa alle Scuderie del Quirinale
Si comincia sabato alle 19, si va avanti fino a domenica alle 9: niente biglietto, niente prenotazione, basta mettersi in fila. Galleria Borghese, Piazza del Popolo, San Luigi dei Francesi, Sant´Agostino. Più altre opere "prestate" per l´occasione

Di Caravaggio s´è detto che sapeva vedere nel buio, che nell´oscurità riusciva a riconoscere la luce e da lì, dalla violenza dei contrasti, si generavano i suoi dipinti. È un tratto, questo, che aggiunge senso all´iniziativa "La Notte di Caravaggio", dedicata all´artista più amato di tutti i tempi, colui il quale ha ormai superato in popolarità globale persino i suoi "pari" Michelangelo e Leonardo. E proprio il suo lato oscuro è tra gli aspetti di seduzione, attrazione, bramosia, che lo hanno fatto paragonare a un idolo rock, rendendolo un fenomeno di consumo culturale del tutto moderno.
Sabato 17 luglio, nell´esatta ricorrenza del quarto centenario della morte, Roma gli rende omaggio con l´apertura dei luoghi che custodiscono le sue opere. I musei e le chiese, raccordati da una linea continua di bus-navetta, inviteranno alla visita: dal tramonto all´alba, l´ingresso sarà libero, le visite guidate ma senza prenotazione e secondo la capienza dei luoghi. Un´idea di Rossella Vodret, soprintendente, studiosa e appassionata del maestro, promossa e poi realizzata dalla Soprintendenza speciale per il patrimonio e per il polo museale della città di Roma, con il coordinamento di Mondomostre. La stessa squadra reduce dal recente successo dell´esposizione record alle Scuderie del Quirinale. «Le tante opere di Caravaggio conservate nelle chiese e nei musei romani fanno rivivere il suo genio assoluto e irripetibile agli occhi di chi, ancora oggi, si emoziona davanti alle sue splendide tele», spiega Vodret.
Porte aperte, orario continuato dal tramonto a giorno fatto (dalle 19 alle 9): una sfida non da poco se si pensa ai quasi seicentomila visitatori della mostra Caravaggio alle Scuderie che, nonostante il rush finale dell´apertura notturna, ne ha lasciati certo molti desiderosi di rivivere quella vertigine che può dare l´osservare da vicino (a lungo, con concentrazione) un dipinto del maestro, aldilà di ogni conoscenza storico-artistica: la Notte di Caravaggio è per tutti loro.
Nell´occasione, i capolavori di casa alla Galleria Borghese ovvero il Ragazzo con il canestro di frutta, il Bacchino malato, il San Girolamo scrivente, la Madonna dei palafrenieri, Davide con la testa di Golia (il San Giovanni è in queste settimane esposto a Porto Ercole, dove il Merisi morì) saranno raggiunti dal Narciso e dalla Giuditta che taglia la testa a Oloferne di Palazzo Barberini oltre che dai due San Giovanni Battista, quello della Galleria Corsini e l´altro conservato alla Pinacoteca Capitolina. Tutti insieme verranno allestiti nella magnifica magione-museo del Cardinal Scipione, in modo da restituire larga parte della fenomenale parabola che trasformò Caravaggio da poverissimo, sconosciuto emigrante ad apprezzato artista, oggetto di contesa e status symbol tra le famiglie blasonate del primo Seicento.
A Roma, Michelangelo Merisi arrivò nel 1592 poco più che ventenne dove si diede da fare come garzone di bottega fino all´incontro, nel 1595, con il potente fra i potenti, quel cardinal Del Monte che lo toglie dalla strada, offrendogli alloggio e protezione nella sua residenza di Palazzo Madama. Sono i tempi delle prime glorie e delle grandi committenze, che lo portano a trasformare le già sontuose chiese della città del Papa. La cappella Contarelli, a San Luigi dei Francesi è il suo primo incarico pubblico, occasione di debutto ufficiale nell´ambiente romano per cui realizzò il Martirio di San Matteo, la Vocazione di San Matteo e San Matteo e l´Angelo. Solo due mesi più tardi inizia l´avventura della Cappella Cerasi di Santa Maria del Popolo, dove oggi si fronteggiano la Conversione di Paolo e la Crocifissione di San Pietro e tra il 1604 e il 1605 dipinge la Madonna dei pellegrini in Sant´Agostino.
In questi stessi anni avvengono gli episodi più turbolenti della sua vita: le risse, le denunce e la frequentazione dei salotti del potere, ma anche di popolani, bevitori, bari, delinquenti che prendono forma piena e forza scandalosa in una pittura che porta questa bassa umanità nei luoghi più sacri. Una vita tormentata e leggendaria fino alla drammatica condanna per omicidio nel 1606, e alla fuga da Roma, dove non tornò più.
In questo quarto centenario ricco di celebrazioni, la Roma del Caravaggio-rockstar invita a un viaggio al termine della notte, nel ricordo di quella che fu la sua ultima quando si ritrovò solo, in fuga, malato. "La Notte di Caravaggio", oltre ai nove dipinti raccolti alla Borghese, condurrà i visitatori nelle chiese-tempio della sua opera, in un rito collettivo degno di un idolo che non smette di nutrire la passione di chi ama l´arte.

Repubblica 14.7.10
Dall'urlo di "Golia" agli aguzzini di Pietro fino al martirio di Matteo
Buio dell´anima e luce divina
di Carlo Alberto Bucci

La notte di Caravaggio comincia la sera del 28 maggio 1606 quando uccide in una rissa Ranuccio Tommasoni e fugge da Roma. Un incubo che prende corpo nel Davide e Golia che l´artista dipinge, ritraendosi come peccatore nella testa mozzata del gigante, nella speranza di ottenere il perdono della curia romana. Intorno al capolavoro di Michelangelo Merisi ruotano gli altri cinque dipinti della Galleria Borghese, punto di partenza della "Notte di Caravaggio" che, dalle 19 di sabato alle 9 di domenica, terrà aperta la collezione allestita dal cardinal Scipione Borghese nella sua villa ma anche tre chiese che conservano sei dipinti del maestro: Santa Maria del Popolo (aperta solo fino all´una di notte), Sant´Agostino e San Luigi dei Francesi. Una "notte bianca caravaggesca" per ricordare, quattrocento anni dopo, la morte avvenuta a 39 anni il 18 luglio 1610 a Port´Ercole.
Niente prenotazioni e ingresso gratuito alla Galleria Borghese. Basterà mettersi in fila per ammirare l´altro autoritratto di Caravaggio (quello giovanile da Bacchino malato), la potente Madonna dei palafrenieri, lo straziante San Girolamo e il pasoliniano Ragazzo con il canestro di frutta esposti accanto a tre dipinti prestati per l´occasione: l´"esecuzione" di Oloferne di palazzo Barberini e i due Battista della galleria Corsini e dei Musei capitolini.
Passando in navetta o a piedi in santa Maria del Popolo, il buio della morte è squarciato dalla luce divina che colpisce e redime Saulo sulla via di Damasco e che si posa lieve sul corpo di Pietro issato sulla croce. In primo piano Caravaggio pone i piedi sporchi di uno degli aguzzini. Stesso dettaglio realistico che ritroviamo nei pellegrini adoranti la Madonna di Loreto in Sant´Agostino. Pochi metri più in là, in San Luigi dei Francesi tre dipinti raccontano lo straordinario exploit pubblico: nella cappella Contarelli, la storia di Matteo dalla vocazione fino martirio al quale l´artista prende parte ritraendosi tra le comparse di questa drammatica "esecuzione".

Repubblica 14.7.10
Da Augé a Bauman alla rassegna di settembre I filosofi e la fortuna un festival di lezioni
di Marco Filoni

ROMA - Il tema che quest´anno vedrà protagonisti fra i maggiori filosofi e intellettuali al Festival di Filosofia sarà la fortuna. Un augurio di buon auspicio per i dieci anni della manifestazione che, fra Modena, Carpi e Sassuolo, dal 17 al 19 settembre ospiterà un ricco programma di iniziative: lezioni magistrali, dibattiti, spettacoli e concerti. Per l´occasione interverranno i più grandi maestri del pensiero: Jean-Luc Nancy, Zygmunt Bauman, Marc Augé, Peter Sloterdijk, Remo Bodei, Massimo Cacciari, François Jullien, Michela Marzano, Maurizio Ferraris, Enzo Bianchi, Niles Eldredge e tanti altri. Oltre 200 appuntamenti per confrontarsi con le molte declinazioni della fortuna fra caso e rischio, probabilità e imprevisto. Cioè il carattere dell´inatteso e il lavoro simbolico delle culture per addomesticare il futuro all´esperienza dell´azzardo e della scommessa. Vi sarà spazio per affrontare il tema nella scrittura (Erri de Luca e Stefano Benni), nel teatro (Paolo Rossi e Paolo Hendel) e nel cinema con una rassegna dedicata al personaggio di Fantozzi. Ci saranno anche cene filosofiche proposte da Tullio Gregory.