Walter Veltroni conosce bene il linguaggio dei simboli e della comunicazione, dunque sa bene di cosa parliamo quando polemizziamo sulle candidature dell’operaio e dell’imprenditore. Parliamo delle classi sociali e della lotta tra di esse, cioè della lotta di classe. Bel tema, per capire come ci si colloca in questa società contemporanea e quali interessi e istanze sociali una forza politica vuole difendere. Penso che se si dice di volerli difendere tutti, in realtà si finisce col difendere solo i più forti. Perciò credo che la politica della sinistra debba essere di parte, cioè organizzare e rappresentare, nel terreno sociale, in primo luogo, gli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori. Del resto così è stato sempre, non solo per i comunisti ma per i socialisti, i socialdemocratici e i labouristi e così continua ad esserlo. Le classi c’erano nell’Ottocento come nel Novecento, come nel Duemila; diversa è la loro natura, si pensi alla diversità tra i primi del ‘900 e il neo-capitalismo della società dei consumi, diversa la loro composizione, e dunque diverse sono le caratteristiche del conflitto. Ma per sapere che esistono due punti di vista diversi nell’impresa e tra loro conflittuali non c’è bisogno di Marx e neppure dei coniugi Webb, basta la sociologia del lavoro, ben compresa quella americana. Veltroni dovrebbe sapere che non c’è nulla di più vecchio e di più volte smentito dalla storia come dalla cronaca che la tesi della scomparsa delle classi, della lotta di classe e del capitalismo. Quante volte ne è stato decretato il superamento, salvo ritrovarselo di fronte, ogni volta mutato, e ogni volta portatore di vecchie e nuove diseguaglianze. Oggi addirittura ce lo troviamo di fronte luccicante nella nuova veste della globalizzazione, una veste così nuova da volerci far credere, proprio mentre il capitalismo tende a farsi totalizzante, così da mettere all’opera non solo le mani ma le menti e i corpi, che si è invece volatilizzato. Qualche anno fa, caro Walter, si è teorizzata la fine del lavoro e il lavoro è scomparso dalla politica, dalle comunicazioni e dalle arti. Ma quando è riapparso ha persino preso la forma drammatica dei corpi degli operai uccisi sul lavoro. Il 2008 non è il ’53. Ma alla ThyssenKrupp si muore come a Marcinelle. Storie di operai e di padroni.
Fausto Bertinotti
da Liberazione
da Liberazione
Repubblica 23.2.08
Le passioni del presente
Intervista a Giacomo Marramao sulla nuova raccolta di saggi
di Antonio Gnoli
La tristezza della nostra epoca
Lo sguardo rivolto al passato appare opaco e quello verso il futuro è incerto. Come procedere in "una terra di mezzo" segnata dal rumore dell´attualità
La questione religiosa? Intrecciata al moderno non è una novità
Non è un caso che la Chiesa Cattolica faccia valere sopra ogni cosa logiche di schieramento
Viviamo in un mondo attraversato da numerose crisi: economiche, politiche, morali, identitarie. Viviamo su un territorio vasto, apparentemente omogeneo, in realtà complesso e oftalmicamente schiacciato sul presente. Lo sguardo rivolto al passato appare opaco. Quello verso il futuro risulta incerto. Manchiamo di profondità e di prospettiva. Per qualche anno ci siamo adagiati nel postmoderno, nell´eleganza ironica della superficie, del debole è bello, dell´annullamento del tempo: nel qui e ora dei sentimenti e dei pensieri. Non è detto che ciò sia necessariamente frustrante, avvilente, confuso. È come se una natura antropologica abituata ad agire e riflettere secondo collaudate esperienze spazio-temporali (il bisogno di rifarsi al passato, di sviluppare aspettative per il futuro, di definire i confini) abbia deposto strumenti tradizionali e collaudati e si trovi improvvisamente sola, nuda, inesperta in una grande terra di mezzo. Ecco, se si vuole, su quella terra di mezzo, in quell´intervallo tra ciò che si è chiuso e ciò che non si è ancora aperto, che è cresciuta la riflessione di Giacomo Marramao. Si legge con piacere la raccolta di articoli, saggi, lectures, interventi che egli ha svolto nel corso degli ultimi anni. Ne viene fuori un libretto denso e puntuto dal titolo La passione del presente (Bollati Boringhieri, pagg. 291, euro 10).
Il presente ha ancora passioni che vale la pena vivere?
«Subiamo una fase di "passioni tristi", ma questo non ci impedisce di immaginare che il presente non possa essere vissuto anche emotivamente con nuove aperture di senso».
Che cosa è il presente nel tempo della nostra crisi?
«Innanzitutto è uno stato di cose che non può essere rappresentato, ma al tempo stesso è anche una condizione che ci investe, rumorosamente o silenziosamente, attraversandoci».
Perché il presente non si può rappresentare?
«Per il semplice fatto che si dà, si dona. Presente è anche il regalo. Non c´è distanza tra noi e il presente. Non è il passato e neppure il futuro. È ciò in cui siamo immersi, ma non incardinati. E in questo presente nel quale per forza di cose ci troviamo, ma senza convinzione, è sempre più difficile prendere decisioni».
Michel Foucault anni fa se ne uscì con una formula piuttosto curiosa. Parlò di una "ontologia del presente". Sembra quasi una contraddizione in termini.
«Foucault sviluppò il concetto nell´ambito di una lezione del 1983 tenuta al Collège de France. Con il consueto acume anticipava il bisogno di ridefinire la temporalità, a partire dalla crisi di progresso e tradizione. Oggi mi pare discutibile l´accostamento che egli fece tra presente e attualità. Assunto in un´accezione filosoficamente rigorosa il presente è sempre "inattuale"».
Ma se siamo immersi nel presente siamo anche immersi nell´attualità. Non le pare?
«Apparentemente è così. Ma vi è nel presente qualcosa, che chiamo piega inattuale, che il rumore dell´attualità, con le sue emergenze e innovazioni costanti, nasconde».
"Piega" è una parola cara al filosofo Deleuze.
«È il risvolto che non appare nella faccia pubblica del presente in quanto attualità».
Come si può uscire dalla prigionia dell´attualità?
«Hegel, Marx e Nietzsche, per fare tre esempi del pensiero della modernità, ci sono riusciti. Nel senso che ciascuno con le proprie lenti ha colto una genealogia del presente, liberandolo dal rumore dell´attualità».
Si spieghi meglio.
«Per Hegel tutto quello che è accaduto è il risultato di uno sviluppo della ragione occidentale, dalla filosofia greca al suo tempo. Marx colse nel presente capitalistico l´avanzare verso la globalità di una forma di dominio che era già incapsulata fin dalle sue origini in quel modo di produzione. Nietzsche vide nel nichilismo che pervade il nostro presente ipermoderno una sorta di peccato originale del pensiero occidentale, inteso come rinuncia alla vita e al divenire».
Più volte nei suoi studi lei si è richiamato al concetto di moderno. Perché è così importante?
«Potremmo riassumere con una formula: modernità è uguale a curiositas scientifica più libertà soggettiva, disintegrazione del cosmo chiuso più rottura del monopolio dell´interpretazione. Aggiungo che queste formule sebbene corrette oggi sono insufficienti. Il moderno non ha solo reso soggettiva la libertà, ma ha al tempo stesso fornito il potere a tecnologie e procedure razionali prima impensabili. Il moderno ha inventato il cosmopolitismo e lo Stato».
Ma gli Stati sono oggi molto meno forti che in passato. C´è o no una crisi dell´ordine statuale?
«Indiscutibilmente c´è. Ma occorre intendersi sulla portata e sulla irreversibilità di questa crisi. Oggi stiamo vivendo una fase di passaggio dall´era della modernità il cui cardine era la nazione a un´era della modernità in cui il perno è diventato il mondo stesso. Ma questo non deve indurci a credere che le logiche territoriali e locali siano destinate a sparire o a svolgere un ruolo subalterno».
Diciamo che si iscrivono in nuove forme di conflitto.
«Scaturiscono dall´attuale interregno tra il non-più del vecchio ordine interstatale e il non-ancora di un nuovo ordine sovranazionale. In questa situazione la struttura del mondo globalizzato assume i tratti ambivalenti dell´uniformità e della diaspora».
Siamo globalizzati ma non lo siamo fino in fondo?
«Viviamo in un mondo che è insieme unipolare e multicentrico. Dentro questa contraddizione assistiamo alla crisi del modello proposto da Hobbes, per cui lo Stato è l´effettivo garante della pace, quello in grado di risolvere il conflitto».
Non basta la legalità della forza?
«Non è più sufficiente. Perché i caratteri dominanti del conflitto vanno oggi ricercati non solo nella sfera redistributiva, come accadeva nell´era industriale, ma soprattutto nella dimensione identitaria».
Di qui il pericolo di nuovi fondamentalismi?
«Un liberale come John Rawls aveva istituito l´analogia, che avrebbe potuto fare la gioia di Carl Schmitt, tra gli odierni fondamentalismi e le guerre di religione precedenti la pace di Westfalia».
A questo proposito si può parlare di un vero e proprio ritorno delle religioni?
«La questione religiosa ha occupato da sempre la scena pubblica. Non si tratta né di una novità né di un ritorno. Religione e mondo moderno sono strettamente intrecciati».
Habermas ha parlato di un post-secolarismo, nel quale la religione ha un ruolo che le era sconosciuto nella modernità.
«Stimo le posizioni di Habermas, ma ho l´impressione che egli si sia lasciato fortemente condizionare dalla categoria di "post-secolare", coniata da Klaus Eder e ripresa da Papa Ratzinger. Egli vede il peso della Chiesa cattolica nella sfera pubblica come un bilanciamento all´invadenza delle biotecnologie. Farei due osservazioni. La prima è che l´influenza della Chiesa è un´eccezione italiana, molto meno sentita all´estero. La seconda è che è difficile sottrarsi alla sensazione che, in tal modo, Habermas finisce per conferire alla posizione dei credenti un "valore aggiunto" rispetto ai laici».
Non ritiene che proprio l´evento dell´11 settembre abbia di fatto conferito alle religioni un ruolo che prima non avevano?
«L´11 settembre ha evidenziato un mutamento di funzione delle religioni nel mondo globalizzato: da comunità di fede esse tendono a trasformarsi in medium di identificazione simbolica e surrogato di appartenenza. Ma nel momento in cui divengono blocchi identitari, finiscono inevitabilmente per tracciare una netta linea di demarcazione tra "noi" e "gli altri", proprio allo stesso modo delle ideologie. E forse non è un caso che la Chiesa cattolica faccia valere sopra ogni altra cosa le logiche di schieramento, accogliendo fra le sue braccia gli atei devoti e respingendo con sdegno cattolici meno allineati. Mi sorprende che non venga quasi mai ricordato nelle poco edificanti dispute degli ultimi tempi che il solo punto di intersezione tra un´attitudine veramente "laica" e una autenticamente "religiosa" è rappresentato dall´esperienza vissuta del dubbio radicale. È sufficiente leggersi i testi della grande tradizione mistica o le pagine toccanti dei diari di Madre Teresa di Calcutta».
l’Unità 23.2.08
Sfilate, chi si ricorda delle anoressiche?
di Silvia Ballestra
TERMINATI I CLAMORI dell’ultima campagna mediatica e politica contro i disturbi alimentari, torniamo a vedere, nel silenzio generale, ragazze emaciate sfilare sulle passerelle milanesi. Ci siamo già dimenticati di questa malattia mortale...
Queste cerbiatte dagli occhi enormi devono essere magre per far cadere meglio l’abito ma anche per non interferire troppo col suo design, in sostanza devono essere gradevoli, ma in qualche modo annullate da ciò che indossano, che è più importante, redditizio e prezioso di loro. La lingua francese, con eleganza e cinismo, le chiama mannequin, manichini. Perché non torna ancora in quota il problema «anoressia»? Queste diafane e scavate figurine di solito confinate al servizio moda dei settimanali femminili possono spuntare, per qualche giorno, fra il pezzo su Obama-Hillary e il reportage sulla monnezza a Pianura, per venirci a interrogare, mute e miti come sono, su cosa è diventato il nostro rapporto col corpo. Esse sono purtroppo vittime di una malattia professionale, soggette agli effetti collaterali di un mestiere che richiede espressamente di ridurti ai limiti dell’umano, tant’è che, più o meno in evidenza, la notizia della morte di una giovane modella per anoressia non è infrequente. E questa sarebbe già una buona ragione per occuparsi della questione.
Mettiamoci anche, però, il potere di seduzione - di appeal direbbero gli addetti ai lavori di moda e pubblicità - che queste modelle (cioè modelli, cioè esempi da imitare, le parole non raccontano frottole) esercitano sulle donne di ogni età, cultura e estrazione sociale. È vero, come ammoniscono esperti e osservatori, che anche tra giovani ragazzi si segnalano casi di anoressia, ma resta il fatto: a leggere le statistiche, si vede che il problema è ancora prevalentemente femminile. Una cosa da donne. E anche se sono in tanti ad occuparsene, politici, sociologi, psicologi, giornalisti (esiste una bibliografia molto nutrita sull’argomento, la rete è piena di studi e testimonianze, il problema sembra «di moda», è una maledizione), scrittori che pure hanno costruito personaggi e romanzi quando non vere e proprie mitologie sulla fame d’artista, studiosi di rapporti fra digiuno e santità e via elencando, su una cosa tutti sono d’accordo: la donna anoressica non piace agli uomini, non piace alle donne, non piace ai bambini, ma piace solo a se stessa, ad altre anoressiche e a tutti quelli che devono vendere i vestiti. O meglio, un’idea di donna buona per i loro vestiti. A volte piace ai fotografi di grido che non esitano a sbattere l’anoressica nuda, secca e screpolata, sui muri delle città. Memento mori ma allo stesso tempo strumento del diabolico mercato, pretesa di impegno sociale ma anche scusa per piazzare il brand. La campagna di Toscani di qualche mese fa scatenò un dibattito che ciclicamente torna a fare capolino per poi scomparire subito dopo (ricordate la campagna sulla taglia 38?) perché troppo strettamente legato a mondi e modi apparentemente futili ed effimeri. Tristemente, dell’impegno attraverso la pubblicità, alla fine resta soltanto la pubblicità, e poi nemmeno quella, più nulla, e silenzio.
Ora è vero che l’anoressia, direi meglio: le anoressie, hanno cause complesse e articolate che investono principalmente relazioni affettive o situazioni patologiche (vedi la depressione) e sulle quali noi non possiamo intervenire, ma invece, per quel che riguarda un certo clima culturale, la critica è possibile e doverosa: dopotutto, si tratta delle nostre vite, degli stimoli e dei «modelli» (modelle) che ci vengono proposti. Una delle interpretazioni più interessanti del fenomeno l’ha fornita l’antropologo René Girard rileggendo questa questione attraverso la sua affascinante teoria del desiderio mimetico cioè «il desiderio di essere secondo l’altro» già da lui elaborata nell’ambito della critica letteraria. A proposito dell’anoressia dice Girard: «Il desiderio mimetico punta alla magrezza assoluta dell’essere splendente di qualcun altro ch’è sempre nei nostri occhi, mentre noi stessi non lo siamo mai, per lo meno ai nostri occhi». Nello stesso saggio, contenuto ne Il risentimento, Lo scacco del desiderio nell’uomo contemporaneo (Cortina), Girard riflette ugualmente sul tenersi in forma, altro aspetto di questa nuova e nevrotica ansia del perdere peso, e sottolinea il fatto che le anoressiche sono, per lo più, donne emancipate, ricordando come l’anoressia colpisca soprattutto le giovani donne migliori e più brillanti.
Nessuno, nessuna, infatti, riesce a sottrarsi alla presa della competitività e del desiderio indotto, neanche le femministe più consapevoli. In un inquietante librino Il corpo giusto (Tropea), l’autrice de I monologhi della vagina, Eve Ensler confessa la sua ossessione per la pancia imperfetta e intraprende, col metodo delle interviste a donne diversissime, un viaggio sui complessi e le nevrosi che intrappolano donne di ogni paese, religione ed estrazione sociale, riguardo al fisico ideale e alle sofferenze, frustrazioni, rabbie, sforzi per ottenerlo. Ne esce un quadro impressionante fatto di palestre, trucchi, chirurgie plastiche, digiuni che neanche l’ironia intelligente dell’autrice riesce a rendere meno sinistro. Lei si chiede: «in un’epoca di escalation del terrorismo, mentre è in corso la guerra in Iraq e i diritti civili si assottigliano rapidamente quanto lo strato di ozono, mentre nel mondo una donna su tre viene violentata o picchiata almeno una volta nella vita, perché scrivere una pièce sulla mia pancia?», e si risponde che è per «analizzare i meccanismi che ci imprigionano ed essere di nuovo libere».
Ecco, il nostro corpo ridotto a prigione. L’immagine della prigione ritorna anche ne La gabbia d’oro, l’enigma dell’anoressia mentale di Hilde Bruch (Feltrinelli), che si rivolge a genitori e insegnanti e a chi è in contatto con gli adolescenti, fornendo molte informazioni su come riconoscere i segnali di questa terribile malattia. Anche qui si ribadisce come vittime dell’anoressia siano per lo più ragazze imprigionate da aspettative, ruoli pazzeschi e mete irraggiungibili. E comunque è dai tempi del fondamentale Dalla parte delle bambine della Gianini Belotti (Feltrinelli) che sappiamo a quante pressioni e condizionamenti culturali sono sottoposte le nostre ragazzine.
Bombardate da una certa cultura, target di un mercato anche diversificato (che a volte le vuole magre a volte le vuole grasse). Siamo sempre lì, alla fine, al corpo femminile come campo di battaglia per religioni e ideologie, oppure terreno per sperimentazioni tecnico-scientifiche: le donne, da sempre, sono fatte oggetto nei loro corpi di una violenza a volte manifesta a volte più subdola e sottile.
E sempre più spesso, consapevoli o inconsapevoli, reagiscono come la protagonista di un romanzo di Margaret Atwood: accortasi che tutti la consumano con indifferenza, smette di mangiare per non farsi mangiare.
l’Unità 23.2.08
Confessione d’una digiunatrice pentita
di Adele Cambria
Io, a cinque anni, nei corridoi della scuola elementare «Principe di Piemonte» e la bidella in grembiule nero, che, supplicata da mia madre, mi inseguiva col termos di latte caldo. La parola «anoressia», all’epoca, non la conosceva probabilmente nessuno. Se io non volevo prendere il latte prima di andare a scuola, facevo soltanto i capricci. Ma nel 1965, quando, ed avevo già trent’anni e due figli, fui ricoverata al Policlinico Umberto I° di Roma, nel reparto diretto dall’illustre clinico Professor Cataldo Cassano (il medico di fiducia di Aldo Moro), la situazione diagnostico/terapeutica era sempre quella. Sintetizzata dal Professore in due enigmatiche parole: «Circolo vizioso». Appunto, di «vizio» si trattava.
Come è evidente, sono sopravvissuta. La svolta psicologica fu la lettura del libro di Goffredo Parise, di ritorno dal Biafra, e le immagini di quei bambini spaventosamente denutriti che mi guardavano anche dallo schermo della Tv. Mi vergognai di me stessa, e mi misi letteralmente nelle mani di una nutrizionista «implacabile», Domenica Arcari Morini.(Purtroppo se ne è andata nel dicembre scorso). Infatti l’anoressica è sostenuta da un eccesso di orgoglio, essendo in perenne sfida con/contro il proprio corpo, e quindi ha bisogno di umiltà. Ma ormai di anoressia si cominciava a discorrere anche in Italia, il fenomeno è emerso - e questo è un bene - dalla rimozione/ignoranza collettiva.
«Il corpo femminile può obiettivamente essere un ostacolo alla creatività dello stilista». Una frase di cui non citerò l’autore, pronunciata a commento del Manifesto di autoregolamentazione della moda italiana contro l’anoressia, promosso e firmato il 22 dicembre 2006 da Giovanna Melandri, come titolare del Ministero per le Politiche giovanili e le Attività sportive, dalla Camera Nazionale della Moda Italiana e da AltaRoma.
…Sfogliando il Corriere della Sera di oggi, 22 febbraio 2008, vedo un’intera pagina occupata dalla pubblicità di una griffe già «diseducativa» nello slogan che propone: «Love Sex Money». Ma l’immagine è ancora peggio: una donna scheletrica che non sembra nemmeno giovane, seminuda sotto una brevissima tunica bianca ricamata. Ciò nonostante, non credo che la moda sia l’unica responsabile della morte volontaria per fame, e, in genere, dei disturbi alimentari, anoressia e bulimia, che oggi colpiscono in Italia circa tre milioni di persone, al 95% donne.
Le top-model che di tanto in tanto soccombono, fanno ovviamente notizia per la loro visibilità professionale. Benedetta Barzini, primo volto italiano dell’Alta Moda ad apparire sulla copertina di Vogue, dalla sua breve esperienza di indossatrice per le grandi griffes internazionali, aveva tratto un libro, negli Anni Ottanta ancora d’avanguardia. Si intitolava Storia di una passione senza corpo, ed in quelle pagine di scrittura surreale il suo vissuto di quegli anni appare come un incubo; da cui sfuggire con una proposta che all’epoca sembrava ancora utopica, ma chissà… Sostituire alle indossatrici figure femminili create al computer, che soddisfino le esigenze degli stilisti - vedi sopra- e non distruggano le donne vere.
Ma nell’incrocio- a prima vista improbabile- tra anoressia/bulimia e letteratura, ha un posto di rilievo un clinico romano, il gastroenterologo Mario Mazzetti di Pietralata. Non solo è stato il primo a impiantare a Roma, tra mille difficoltà, all’ospedale Sant’Eugenio, un attivo reparto dedicato ai disturbi alimentari, con una équipe preparata ed affiatata; ma ha promosso anche, quindici anni fa, il primo convegno italiano sulla letteratura nascente dalla condizione esistenziale di cui queste malattie sono il sintomo. Qualche nome: Fabiola De Clerq, Alessandra Arachi, la slovacca «bolognese» Jarmila Ockayova, Chiara Gamberale. Oggi al quarto romanzo, La zona cieca, quest’ultima autrice, nel suo primo libro, Una vita sottile scritto a vent’anni, raccontava con pudore e levità di scrittura, il dolore di vivere.
Del resto grandi sante, intellettuali e imperatrici, non sarebbero definite «anoressiche» se vivessero oggi? Da Santa Caterina da Siena,che si nutriva soltanto di ostie consacrate, a Simone Weil che rifiutava di mangiare perché troppi non avevano cibo, fino all’imperatrice Elisabetta d’Austria (Sissi). Che inseguiva, nei suoi versi, «la leggerezza delle farfalle», e che veniva considerata pazza perché si nutriva in modo strano, e certamente di poco o nulla. A giudicare dalle dimensioni del minuscolo corpetto di seta che vidi esposto alla mostra di Trieste a lei dedicata, nel 2000; lo indossava quando, nel 1898, fu uccisa dall’anarchico italiano Luigi Luccheni. Un foro sulla seta sbiadita segnalava la lama sottile che venne inconsapevolmente incontro al suo desiderio… Scriveva infatti l’imperatrice nel 1897: «Le mie ali sono bruciate, desidero la morte e non ne ho paura».
l’Unità 23.2.08
Con Fo viaggio nei misteri di Leonardo
Il premio Nobel domani sera all’Auditorium per la lezione-spettacolo su «L’Ultima cena»
di Adele Cambria
«QUALCUNO DI VOI MI TRADIRÀ» È la frase che, dice Dario Fo, emana dall’espressione malinconica del volto di Cristo, e dalle sue mani abbandonate quasi rassegnate sul tavolo fraternamente imbandito della cena - «L’Ultima cena» - nell’affresco dipinto
da Leonardo Da Vinci. Quella frase, spiega l’attore, rimbalza e si propaga tra gli apostoli in movimenti di drammatica scenografica danza: «Un agitarsi quasi di onde marine». Come se tutti, con i gesti, con gli sguardi, fossero presi dall’ansia di discolparsi. Tutti, salvo uno che, viceversa, sembra cercare conforto alla sciagura annunciata, avvicinando il volto a quello del più vecchio degli apostoli, ascoltando forse parole rassicuranti. Ma quell’uno, secondo la lettura già anticipata dal Premio Nobel su l’Unità di ieri - e che ora ripete alla conferenza stampa indetta dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali nella sede dell’Associazione Civita a Piazza Venezia - non è l’apostolo prediletto, Giovanni. E’ la Maddalena. E Fo sviluppa la tesi da par suo, citando non tanto «Il Codice da Vinci», quanto la tradizione popolare e i vangeli apocrifi. Ed aggiunge: «Qualche anno fa, a Palazzo Reale di Milano, fu allestita una grande Mostra intitolata "Il genio e le passioni", dove sono state esposte decine di dipinti, tutti raffiguranti l’Ultima Cena, eseguiti da allievi ed epigoni di Leonardo… Nella gran parte di queste opere, alla destra di Gesù c’è una donna. Ma ci sono donne anche nelle catacombe romane, le figure delle oranti accanto a Cristo, Cristo prediligeva le donne...».
L’incontro di ieri con i giornalisti era in effetti la presentazione di un doppio evento. Il primo è costituito dalla pubblicazione del libro, "Leonardo - L’Ultima Cena", curato da Giuseppe Basile e Maurizio Marabelli, e che dà conto di ventunanni di difficilissimo lavoro - «Indagini, ricerche, restauro», così recita il sottotitolo - svolto attorno e su "L’Ultima Cena". Il secondo evento è la lezione-spettacolo su Leonardo, che Dario Fo, a suo tempo allievo dell’Accademia di Brera a Milano, terrà domani sera all’Auditorium Sala Santa Cecilia. (Si annunciano folle enormi, le porte si aprono alle 19,30).
«Ho incontrato Leonardo a 14 anni - racconta Fo - appena mi sono iscritto a Brera, la prima visita scolastica fu quella a L’Ultima Cena. Da allora posso dire che non mi sono mai separato da lui, ho cercato di sapere tutto di quel genio… Leonardo era arrivato a Milano per acqua e non per terra. All’epoca la città aveva 80 chilometri di canali, ora quasi tutti interrati, e Leonardo era affascinato dal sistema delle chiuse… Si legò subito a questa città, "Ogni giorno- scrisse in una lettera- vedo cose che non basterebbero due vite ad entrarne in possessione…"».
Fo sostiene che, se è vero - come del resto aveva ricordato il Professore Giuseppe Basile - che «il dipinto dell’Ultima Cena cominciò a morire quasi ancora prima di cominciare a vivere», il problema non dipendeva da un errore tecnico dell’artista. «Il suo era un esperimento, voleva provare ad usare la tempera che adoperava per le pitture anche per gli affreschi. E gli avevano assicurato che il muro era asciutto... Invece cominciò a colare acqua dall’interno mentre Leonardo lo affrescava... E Giorgio Vasari, quando vide l’opera commentò: «E’ uno squaqquarone sgangherato…»
«Ma si sa - mi dice poi sul terrazzo della Civita il Professore Basile - che Vasari stava per Michelangelo!».
Il Professore mi chiarisce che la restituzione de L’Ultima Cena ai visitatori - non più di 25 alla volta! - è la devota restituzione di ciò che di originario resta…. Le tante ridipinture - che cominciarono fin dal 1726 - e i malaccorti restauri moderni (1924, 1947-54), non potevano consentire di andare «oltre il limite del possibile». Così si è espresso, citando la tesi di restauro non-violento, nata dall’insegnamento di Cesare Brandi, il Professore Roberto Cecchi, Direttore Generale per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico.
Repubblica 23.2.08
Allarmi siam giovani fascisti
Conquistano le scuole e le università, dominano negli stadi: da Roma a Milano radiografia di un movimento in crescita
di Concita de Gregorio
Nel Parlamento degli studenti la destra è maggioranza assoluta
"Basta con questa storia che siamo razzisti, con noi sfilano anche ragazzi di colore"
A Roma i "camerati" sfondano nelle elezioni nei licei e nelle università. Al Nord si alleano con gli ultras da stadio e i reduci dell´estremismo anni ´70: viaggio alla scoperta delle mille facce dell´ultradestra. Braccia tese e scritte antisemite, ma anche convegni sulle foibe e volantini sul "caro cd". Tra nuovi slogan e vecchi ideali, identikit del "balilla" del 2008
Roma. I balilla che governano la "Cosa nera", parlamento delle scuole romane, non si riconoscono dalla divisa: non ce l´hanno. Nemmeno quella diffusa sui giornali da foto d´archivio: ray-ban a goccia specchiati e bomber di pelle, capelli cortissimi. Non si usa più: sono i più grandi semmai a bardarsi ancora così, gli ultra ventenni e Cesare Previti quando si veste da giovane, la domenica mattina. I ragazzini di 15-17 anni eletti in liste di destra che gestiscono gli 80mila euro della Consulta provinciale studentesca insieme alla gloria di aver defenestrato la sinistra da sempre al potere sono indistinguibili da migliaia di loro simili. Andrea Moi, 17, presidente della Consulta, è un adolescente con la voce ancora sottile, secondo di tre figli cresciuto in mezzo a due sorelle, vive a Roma Sud - Colli Albani - e va a scuola al Terzo istituto d´arte, fermata della Metro Giulio Agricola. Milita in Azione giovani da quando aveva 13 anni, è in consulta da quando ne aveva 14. Dice che «un tempo a scuola in assemblea si parlava solo di temi difficili e lontani dagli interessi dei ragazzi tipo l´Europa, gli anni Settanta. Ora finalmente di discute di cose che interessano a loro: il caro cd, il caro libri». Va così e attenzione a sottovalutare o liquidare con spallucce la portata dell´onda.
Le battaglie sono per utilizzare l´aula di informatica, mettere i pannelli solari sul tetto, fare più ore di educazione fisica e più gite «a contatto con la natura», possibilmente senza telefonino perché «lo spirito se ne giova». Per avere libri di testo non obbligatori, insomma non studiare la storia solo sul Villari, ma almeno affiancarlo, dice Moi, a «un libro che mi dica che la Rivoluzione francese è stata anche una carneficina e che non liquidi in tre righe la rivolta di Vandea». A Roma otto anni fa gli studenti di destra eletti nel Parlamento dei ragazzi erano 20 su 400. Oggi sono la maggioranza assoluta, più di 200. Decuplicati. Marco Perissa, 25 anni, responsabile scuola per Roma di An: c´era allora e c´è adesso. Nel ‘99 era uno dei consiglieri della Consulta, «facemmo il libro bianco sull´edilizia scolastica». Dice: «Ha vinto la destra perché ha perso la sinistra. Ci siamo inseriti nell´antipolitica e abbiamo rubato voti alla sinistra ideologica. Le abbiamo opposto una destra pragmatica: non tutti gli studenti che ci votano sono di destra, anzi. Ci votano perché facciamo le cose. Perché gli anni Settanta sono lontani e non si può restare lì, perché pensiamo all´oggi».
Dunque vediamo, oggi. Oggi al Tufello, periferia romana, c´è qualche centinaio di studenti di sinistra che sfila in mezzo ad una impressionante saracinesca di polizia: ricordano Valerio Verbano, studente dell´Archimede ucciso dai fascisti nell´80, sua madre apre il corteo. Esprimono solidarietà a Simone, ex studente dell´Aristofane di Vigne Nuove picchiato qualche giorno fa da una spedizione punitiva del Blocco studentesco, falange scolastica della Fiamma. Il Blocco - sede principale a Casa Pound, centro sociale di destra - ha conquistato quest´anno 55 rappresentanti alla Consulta. Uno di loro è Giorgio Evangelisti, 17 anni, studente del Convitto nazionale fin da quando era in terza elementare. Il Convitto è la scuola della classe dirigente, fama di rigore estremo. Giorgio dice che «è l´ora di finirla con questa storia che siamo violenti e razzisti. Al corteo per le foibe c´erano quattro ragazzi di colore, uno di loro è attivista nella sezione di Roma Nord. Picchiare ci si picchia, ogni tanto, succede da sempre. Però quando noi abbiamo fatto volantinaggio davanti al Tasso due mesi fa sono venuti a menarci con caschi e bastoni, una cosa organizzata, non dico bugie, e non ne ha parlato nessuno. Fa notizia, la violenza, solo quando fa comodo a sinistra». Non è proprio così, questa è una versione di Giorgio, parte in causa.
Dice anche che è una bugia che la destra cresca solo in periferia e la sinistra mantenga le roccaforti del centro storico. Vediamo la mappa delle scuole, come è cambiata. Fortino del Blocco è il Farnesina, scientifico di Vigna Clara: è lì che è cominciata la prima occupazione della Destra «perché non se ne poteva più di far lezione nei container, ci pioveva dentro». Due del Blocco sono eletti al liceo classico Visconti, piazza del Collegio romano, la sede del processo a Galilei. Al Righi, lo scientifico più rinomato della città, il rappresentante di istituto è di Azione studentesca, braccio nella scuola di Azione giovani. Il Giulio Cesare, un tempo classico di destra, ha oggi un esponente di sinistra e uno cattolico. Restano "rossi" il Mamiani, il Virgilio, il Tasso. La destra va fortissimo allo scientifico dei Parioli, l´Azzarita, dove il Blocco raccoglie firme per far intitolare l´aula magna a Nanni De Angelis. «Sa chi è? - domanda Evangelisti - un ragazzo degli anni Settanta». Due consiglieri di destra sono stati eletti al classico Nomentano, uno allo scientifico Benedetto da Norcia, due al tecnico Armellini di San Paolo fuori le mura. Non si parla solo di Ostia, dunque. Andrea Moi cita il coraggio del giovane eletto con As al Machiavelli di via de´ Volsci, quartiere San Lorenzo, roccaforte storica della sinistra radicale, Radio popolare e controcultura militante. «Però non lo nomini per favore perché magari a scuola non lo sanno che è di destra». Ecco, magari non lo sanno.
La novità è che il 65 per cento degli studenti romani ha votato a destra ma magari, una parte almeno, non lo sa. Azione studentesca ha uno slogan che dice "Contro lezioni tristi e grigi professori, per una scuola capace di divertire e unire": un programma capace di raccogliere l´unanimità dei consensi. Quando il Blocco chiede «più ore di ginnastica» non lo fa esponendo un manifesto di prestanza fisica neomussoliniana, sui manifesti delle elezioni scolastiche ci sono gli eroi del film western e Bart Simpson quello dei cartoni animati, e poi fare più ginnastica vuol sempre dire fare meno greco e estimo. Per arrivare allo scacco del due a uno (la Cosa nera vede 15 consiglieri alla destra, 10 alla sinistra) le due liste romane di destra, fra i quattordicenni, hanno fatto "propaganda sulle cose". Aule più belle, libri e cd meno cari, più ginnastica e più gite. L´anticomunismo un sottile sottofondo, scenario per ora marginale. Intanto stare meglio, divertirsi di più. Poi è alle manifestazioni politiche che tornano fuori i simboli, le croci runiche e le aquile. Arrivano i venti e anche trentenni, lì. Sono loro che menano la danza. L´8 febbraio era previsto un convegno della Consulta al teatro Brancaccio. Tema: "Istria, Slovenia, Dalmazia: anche le pietre parlano italiano". Dopo tanti convegni sulla Resistenza, dicono i balilla, ora che il vento è cambiato finalmente uno sulle foibe. Perissa, il responsabile scuola: «Purtoppo 15 attivisti del collettivo del Virgilio hanno tirato un fumogeno nel teatro, Costanzo ha ritirato la disponibilità della sala, duemila studenti pacifici sono rimasti per strada. La riprova questo che non è un paese libero». Le cronache di quel giorno raccontano una storia diversa. Scontri violenti in via Nomentana fra adulti neofascisti e studenti delle scuole del centro. Nel blog di Casa Pound però c´è scritto che non bisogna leggerli i giornali. La verità è nella "forza dell´azione". La rivoluzione è la nostra: "Sveglia bastardi, la ricreazione è finita". Marx, ha stancato: "Dopo Marx, aprile". Una nuova primavera invisibile, per alcuni inconsapevole. Ma si sa che la coscienza politica si forgia con costanza: a tredici anni voti per la gita in Abruzzo, a sedici per i computer nuovi in aula d´informatica. Le foibe dopo, c´è tempo.
Repubblica 23.2.08
Fianco a fianco naziskin e picchiatori da curva, uniti da ideali e proselitismo
Milano, palestra e birreria e la voglia di essere contro
di Paolo Berizzi
«Vai a dare un´occhiata su YouTube... «, mi suggerisce Franco come fosse un´avvertenza per l´uso. I link da caricare, quelli a cui tiene di più, sono: "Manifestazione ultras Inter per Gabriele Sandri" (12 novembre 2007) e "Prodi contestato in Cattolica" (18 gennaio 2007, con fischi, saluti romani e croci celtiche). «Se guardi bene mi vedi, là, in mezzo al casino». Quel 18 gennaio 2007 è una data di nascita: Cuib, Cattolica. Letteralmente "Comitato universitario iniziative di base". Meno letteralmente, e tolta la vernice, la stessa sigla di uno dei nidi da cui era sorta la "Guardia di Ferro" filonazista di Cornelius Codreanu.
A Milano e in Lombardia, una vita dopo i sanbabilini, c´è un "Cuore nero" che pulsa. Visto dall´esterno può apparire come una ristretta enclave di nostalgici. In realtà, sotto c´è di più. Cose che le nuove leve, forse, persino ignorano. Sponde istituzionali. Contatti con terroristi ex Nar. Intrecci con le famiglie della ndrangheta calabrese e della mafia siciliana trapiantate a Milano. Il tutto condito con una massiccia opera di proselitismo tra i giovani. Fianco a fianco, nelle sacche nere della grande metropoli, s´ingrossano le fila di naziskin, nostalgici della Rsi e ultrà di Inter e Milan. La fotografia scattata dall´Osservatorio democratico (curato da Saverio Ferrari) trova riscontri nelle indagini della magistratura. Ce n´è una che Repubblica ha già raccontato. Quella sui rigurgiti di neo nazismo che hanno come alveo la provincia di Varese (pm Maurizio Grigo e Luca Petrucci). Nelle pieghe dell´inchiesta (ancora in corso, sin qui 50 indagati e due arrestati) sono saltati fuori nuovi collegamenti e sta venendo alla luce una struttura a cerchi concentrici. Che sconfina oltre la provincia varesotta, abbraccia Milano e la sua vasta cintura, e scende fino a Roma.
Alcuni dei personaggi che si muovono su questo asse sono riconducibili a "Cuore Nero", il centro sociale che doveva nascere in viale Certosa a Milano ma che è stato bruciato l´11 aprile scorso prima che venisse inaugurato. La sede era un negozio di lapidi mortuarie di fronte al cimitero Musocco, a due passi dunque dal mitico Campo Dieci dove riposano alcuni soldati delle SS. Ma chi sono i fondatori di Cuore Nero? Roberto Jonghi Lavarini, ex presidente di Zona 3, già dirigente di An (terzo dei non eletti a palazzo Marino) e Alessandro Todisco, leader degli "Irriducibili" dell´Inter e proprietario della linea di abbigliamento "Calci&pugni", già Azione Skinheads, condannato a un anno e un mese per istigazione all´odio razziale e partecipazione a struttura clandestina.
Le mani che tessono la paziente tela della Cosa Nera appartengono a personaggi noti dell´estremismo meneghino. Quelli che si riconoscono nella firma "I camerati", alias del Comitato per Sergio Ramelli (lo studente di destra ucciso il 13 marzo 1975 da militanti di Avanguardia Operaia). Presidente del comitato, dopo la morte del militante di Ordine Nuovo Nico Azzi (al suo funerale nella chiesa di Sant´Ambrogio, c´era anche il vicepresidente di An Ignazio La Russa), è Luca Cassani detto "Kassa", inquisito nel ‘97 per l´accoltellamento di un consigliere comunale del Prc (poi successivamente prosciolto) e oggi tra i leader dei Guerrieri ultras, il gruppo egemone del tifo milanista. Suo compagno di tifo è Alessandro Pozzoli detto "Peso", ex assessore di Opera e responsabile locale dell´associazione culturale Area, indagato per le guerre intestine - pestaggi e pistolettate - nella curva rossonera.
I modelli di riferimento sono nomi "di richiamo": Remo Casagrande, picchiatore missino degli anni ‘70, Cesare Ferri, accusato e poi assolto per la strage di piazza della Loggia a Brescia, e Maurizio Murelli, condannato per aver ucciso nel 1973 un poliziotto a Milano. L´orbita nera milanese, a caccia di territori prima inesplorati, è sempre in bilico tra una miriade di gruppi, Alleanza Nazionale, e persino ambienti della malavita organizzata. A Quarto Oggiaro, periferia Nord-Ovest, alle ultime elezioni amministrative le influenti famiglie Carvelli, Di Giovine e Crisafulli non hanno fatto mancare il loro appoggio ad alcuni candidati di An. Ci sono foto che ritraggono assieme Jonghi Lavarini (in corsa per An) e Salvatore Di Giovine detto "Zio Salva", della nota famiglia calabrese da sempre implicata nel traffico e nello spaccio di droga nella zona. In altre foto, altri politici sono immortalati accanto a Ciccio Crisafulli, nipote ed erede del boss Biagio "Dentino" Crisafulli. Intrecci arditi. Favori concessi per tornaconto o in nome di vecchie amicizie. Come il posto di lavoro fittizio che Lino Guaglianone, un tempo tesoriere dei Nar, oggi ricco imprenditore già candidato alle ultime politiche con l´Azione sociale di Alessandra Mussolini, trovò nella sua palestra di Novate Milanese a Gilberto Cavallini, plurimomicida ergastolano ex Nar. Di Guaglianone è anche la palestra Doria di via Mascagni. Tra i ragazzi la Doria è considerata la palestra "vera", non "fighetta". Quella che è anche un po´ palestra di vita. Pugni, tifo ultrà, "azioni" universitarie e militanza politica. Perché il cuore nero «fa brutto».
Repubblica 23.2.08
Uno studioso: "Lo uccisero perché era contro l’astrologia"
Il mistero di Pico della Mirandola “Fu avvelenato”
di Alessandro Rota
cciso per amore della scienza, difesa contro lo strapotere dell´arte divinatoria per eccellenza: l´astrologia. Il giallo della morte di Pico della Mirandola continua ad arricchirsi di particolari. Inediti, come la lettera di un autore sconosciuto, indirizzata a Marsilio Ficino e scritta pochi mesi dopo la morte del filosofo, detto anche Conte della Concordia. La missiva, che sarà pubblicata nel libro Delitti e misteri del passato (in primavera per Rizzoli) di Silvano Vincenti, contiene allusioni alla scomparsa dell´umanista, non per malattia ma per assassinio. Disputationes adversus astrologiam divinatricem si intitola l´opera a cui lo studioso si dedicò nell´ultimo periodo della sua vita. Rimase incompiuta, anche se alcuni concetti base furono ripresi e rielaborati da Girolamo Savonarola nel suo Trattato contro gli astrologi.
«Pico - sottolinea un passo della lettera - si sarebbe fatto dimenticare ritirandosi dal gioco e adesso eccolo trasformato in vittima. Il suo libro assumerà ancora più importanza. Pico esitava a pubblicarlo, ora il suo erede si sentirà in dovere di farlo. Il Papa vuole il libro per comprometterci. Quel manoscritto deve sparire, ritrovalo». Vincenti, che è anche presidente del Comitato nazionale per la valorizzazione dei beni storici e che sta studiando le sembianze e il Dna del filosofo, sottolinea che «il trattato dava assai fastidio alla società dell´epoca. L´astrologia era molto diffusa e considerata da molti, tra cui Ficino, e la più nota astrologa del tempo, la Rucellai, una scienza perfetta. La Chiesa era contraria e Pico portò avanti l´idea che fosse solo un´arte divinatoria. Se le sue convinzioni fossero state diffuse, avrebbero mandato davanti all´Inquisizione parecchi nomi noti. Per questo qualcuno decise di far sparire lo scritto e il suo autore. Tra i probabili mandanti c´è Piero de´ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico».
Marsilio Ficino fu incaricato di rubare la Disputazione ma, evidentemente, non ci riuscì (fu pubblicata due anni dopo la morte di Pico della Mirandola). Che Pico della Mirandola fosse stato ammazzato, addirittura avvelenato con l´arsenico, è stato stabilito recentemente, dopo le analisi effettuate sui resti, riesumati, dell´autore dell´Heptalus: nei campioni ossei, nei tessuti molli e, in particolare, nelle unghie sono state ritrovate alte percentuali del veleno. Finora però non era chiaro il movente dell´omicidio, anche se il nome del rampollo dei Medici era stato fatto. Le ossa di Pico della Mirandola sono state rimesse al loro posto nella Basilica di San Marco a Firenze.
Corriere della Sera 23.2.08
«Conta la donna, normali gli aborti con feti sani»
Silvio Viale: ho fatto quasi sempre interventi per la salute psichica della gestante
intervista di Alessandra Arachi
ROMA — Silvio Viale, torinese, ginecologo. Lei è un forte sostenitore della pillola Ru486?
«È dal 2001 che ho cominciato a chiedere l'aborto medico in Italia. Finalmente ci siamo».
Ci siamo? « Certo, l'autorizzazione per la Ru486 arriverà a breve. Ormai abbiamo superato tutti i passaggi internazionali, manca solo il mutuo- riconoscimento».
Eppure...
«Eppure c'è chi, come Giuliano Ferrara, ha detto che vuole impedirne l'introduzione?».
Già.
«Non ha capito niente».
Lei invece? « Parlo con cognizione di causa ».
È stato indicato dai radicali come candidato per il Pd. Non sarà facile conciliare le sue idee con alcune anime del partito...
«Se allude a Paola Binetti, non mi spavento».
Come mai?
«Paola Binetti ha detto che non vuole mettere in discussione il principio di autodeterminazione della donna».
Ma ha detto anche che vuole arrivare all'aborto zero...
«Quello non ha senso. È come dire di voler abolire la miseria del mondo. O che non si vuole parlare con chi è brutto. Non credo si possa discutere partendo da qui».
Partiamo dall'aborto terapeutico allora?
«Lasciamo stare però le sparate mediatiche di Giuliano Ferrara sulla sindrome di Klinefelter».
Lui ha detto di soffrirne...
«Se è per questo ha detto anche di essere stato il partner di tre donne che ha accompagnato ad abortire. Non può avere la Klinefelter: sarebbe sterile, oltre che glabro, ritardato mentale, alto. Ma il punto non è questo».
E qual è, allora?
«Ferrara ha chiesto di togliere questa sindrome dalla lista delle patologie per l'aborto terapeutico. Ma non lo sa che non esiste nessuna lista?».
E come si stabiliscono gli aborti terapeutici?
«In Italia non si fa un aborto terapeutico perché il feto è malformato, ma in base alla salute psichica e fisica della donna. In vent'anni di interventi mi sarà capitato un paio di volte di fare un aborto terapeutico per la salute fisica di una donna».
Tutti gli altri?
«Per la salute psichica della donna. Che vuol dire anche far abortire feti sani».
Lei ha fatto aborti terapeutici di feti sani?
«Certo. Lo prevede la legge. Ripeto è un problema di salute psichica della donna».
In quali casi, ad esempio?
«Non so: vogliamo parlare di una quindicenne che scopre di essere incinta al quarto mese?».
Oppure?
«Una donna che alla quindicesima settimana mi chiede un aborto terapeutico ed è gravemente depressa?».
Ma come ci si regola in questi casi?
«Tocca al medico valutare il reale stato psichico della donna. È una responsabilità importante. La stessa Veronica Lario ha raccontato di aver fatto un aborto terapeutico negli anni Ottanta. Ed è stato importante, visto i tre bei figli che poi ha avuto».
Lei si rende conto che ci sono medici e medici nel nostro Paese?
«Certo, ma mi rendo conto anche che c'è molta ipocrisia».
Che vuol dire?
«Prendiamo il caso di feti malformati: davanti alla diagnosi la reazione delle donne è sempre la stessa, abbiano o no il crocifisso al collo. Eppure il 99% dei medici obiettori di coscienza si offre di fare una diagnosi prenatale. Dopo spediscono le donne ad abortire da me o da medici come me».
Lei è favorevole anche all'eutanasia?
«Assolutamente sì. E c'è di più».
Cosa?
«Sono convinto che pure per quella non resta che aspettare. Come successe per la Ru486. Io nel 2001 dissi: non ho fretta, arriverà. E ci siamo. Così succederà per l'eutanasia: arriverà».
I radicali l'hanno candidata per la corsa al Partito democratico: è ufficiale?
«Non ci sono veti sul mio nome ».
Corriere della Sera 23.2.08
Altruisti non si nasce ma (forse) si diventa
Generosi per obbligo, i geni non c'entrano
di Massimo Piattelli Palmarini
Studi effettuati su alcune specie di insetti sociali (e altri animali) aprono nuovi scenari su uno dei rompicapi della teoria evoluzionista
Un giorno del lontano 1939, subito dopo la dichiarazione di guerra dell'Inghilterra alla Germania e la conseguente mobilitazione generale, il grande genetista J. B. S. Haldane, eroe della prima guerra mondiale, già troppo anziano per essere richiamato sotto le armi, con un suo collega umanista, osservava con tristezza, alla stazione ferroviaria di Cambridge, tanti giovani partire per il fronte, consapevoli che molti non sarebbero tornati.
Il letterato sbottò: «Caro Haldane, come può la tua teoria evoluzionistica spiegare tutto questo?» Haldane ci pensò un attimo e rispose, lapidariamente: «Nessun problema, se con il loro sacrificio salvano la vita ad almeno due fratelli o otto cugini ».
Molti anni dopo, nel 1964, questa brillante intuizione venne sviluppata da un altro genetista inglese, William Donald Hamilton, in una teoria detta della selezione parentale (kin selection). Le sue equazioni prevedono che un comportamento altruista sia evolutivamente efficace, se il costo riproduttivo di tale comportamento è inferiore ai vantaggi riproduttivi ottenuti da un buon numero di stretti consanguinei. In altre parole, quello che conta non è la trasmissione dei geni fisici, portati da un singolo individuo, ma quella di tutte le copie di quei geni, portati da individui imparentati. Questo aprì la strada all'idea del «gene egoista», resa famosa da ancora un altro genetista ed evoluzionista ingles e, Richard Dawkins.
Gli individui, secondo questa teoria, sarebbero macchine riproduttive al servizio dei propri geni. Una lunga storia, quindi, quella dei comportamenti altruistici, un perenne rompicapo per la teoria dell'evoluzione darwiniana. Fu, infatti, lo stesso Darwin a confessare esplicitamente che essi potevano essere «fatali» per la sua teoria. Perché? Beh, supponiamo che esista un gene, o un complesso di geni, che predispone un individuo ad essere altruista nel senso ristretto contemplato dalla teoria dell'evoluzione. Con quel comportamento, il portatore di quei geni diminuisce la propria probabilità di lasciare discendenti, aumentando invece, la probabilità di altri individui di lasciarne. Il meccanismo ortodosso della selezione naturale prevede che tale corredo genetico debba scomparire piuttosto rapidamente.
Invece, si osservano in natura molteplici comportamenti, in specie diverse, che sono altruisti proprio in questo senso. Scimmie che emettono un caratteristico grido, avvertendo le altre scimmie dell'approssimarsi di un predatore, ma rendendosi così più facile preda. Sempre all'avvicinarsi di un predatore, alcune specie di gazzelle saltellano cospicuamente sul posto e alzano la coda, scoprendo così un cospicuo sotto-coda bianco, dando così un segnale di fuga al branco, ma ritardando la loro propria fuga. Il comportamento altruista per eccellenza, il più studiato e il più discusso, è quello delle femmine «nutrici» in svariate società di insetti, per esempio le api e le formiche. Le nutrici non si riproducono affatto, accudendo invece le uova delle loro sorelle, figlie della regina.
La scena si sposta ora a Harvard, nel 1976, quando Hope Hare e Robert Trivers spiegano in dettaglio, adottando le equazioni di Hamilton, le ragioni evolutive del comportamento delle nutrici.
La particolare conformazione dei cromosomi negli insetti sociali fa sì che due sorelle abbiano il 75% dei geni in comune, contro il 50% di geni in comune tra madri e figlie, e appena il 25% tra sorelle e fratelli. Quindi è evolutivamente per loro più vantaggioso accudire le sorelle che non avere discendenti propri. Non solo, ma i conteggi genetici di Hare e Trivers prevedevano che le nutrici allevassero, in media, tre uova femmine per ogni uovo maschio. I dati sperimentali lo confermavano e il loro articolo, pubblicato in «Science», divenne un classico.
Arrivano, però, questo mese di Febbraio 2008, due guastafeste: l'inglese Francis L.W. Ratnieks e il belga Tom Wenseleers. In un dettagliato articolo appena pubblicato su «Trends in Ecology and Evolution », rivedono le bucce alla teoria di Hamilton e di Hare e Trivers. Dopo aver ben calcolato tutti i coefficienti di correlazione genetica in molte specie di insetti sociali, concludono, cifre alla mano, che la parentela stretta non spiega completamente il fenomeno delle femmine nutrici. La spiegazione risiede anche nella «coercizione» sociale (letteralmente).
La colonia nel suo insieme punisce severamente, non di rado con la morte, le femmine che tentano di accoppiarsi ed avere discendenti propri. Il motore dell'altruismo delle nutrici, quindi, non è solo la correlazione tra i geni, ma anche un severo e spietato controllo sociale. Questi autori usano i termini «coercion» e «policing» (controllo poliziesco), estendendolo anche ai comportamenti in società di pesci. Nasce, adesso, il problema della spiegazione evoluzionistica della coercizione, legata ai coefficienti di parentela, ma non completamente spiegata da questi. Il quadro si fa più complicato. Trivers, Hare, il loro maestro E. O Wilson e Dawkins, tra altri, non si erano peritati di trarre «lezioni » dalla loro «kin selection» per le società umane. Il sacrificio dei piloti kamikaze, ci dissero, si spiegava con l'altissimo grado di imparentamento del popolo giapponese.
Ratnieks e Wenseleers indulgono anche loro, brevemente, in diverse estrapolazioni sulle società umane. Lasciamole da parte, perché non penso avranno miglior destino delle precedenti. Il genetista americano Theodosius Dobjansky è famoso per aver detto: «In biologia niente ha un senso se non alla luce dell'evoluzione». Ma io concordo con il genetista inglese Gabriel Dover, in passato amico e collaboratore di Steven J. Gould e Richard Lewontin: non c'è molta luce da ricavare dall'evoluzione, per le società umane.
Corriere della Sera 23.2.08
Fascismo totalitario, mito o realtà
D'Orsi: «Controllò la cultura più di Hitler e Stalin». Belardelli: «No, fino al '38 fu solo autoritario»
colloquio tra Giovanni Belardelli e Angelo D’Orsi
Un dibattito su «Memoria e Ricerca» riapre la questione del rapporto fra intellettuali e potere durante e dopo il regime
La questione del rapporto tra intellettuali e fascismo continua a suscitare polemiche e discussioni. Il tema sembrerebbe costituire un nervo tuttora scoperto della coscienza pubblica nazionale. Quali le ragioni?
D'Orsi — Se la domanda si riferisce alla riluttanza a «fare i conti», la risposta mi pare sia da ricercare almeno un po' nel famoso «carattere degli italiani», che rinvia alla storia di una nazione divisa, con scarsa moralità, incapace di costruire un senso di appartenenza. Un popolo sul quale il cattolicesimo ha esercitato un ruolo sostanzialmente negativo, esaltando l'esteriorità, a scapito dell'interiorità. Il perdono del sacerdote nel confessionale sembra produrre una diffusa, generale tendenza all'autoassoluzione, le scelte degli individui vengono annegate negli orientamenti della massa, un tutto in cui ogni responsabilità si stempera. Ma altre ragioni si affacciano, a cominciare da quella più precisamente politica. La continuità tra fascismo e Repubblica è nei fatti. Scavare lungo i fili che congiungono i due momenti storici significherebbe mettere a repentaglio almeno una parte degli stessi «miti fondatori» del postfascismo. Su questa linea, storicamente, democristiani e comunisti, liberali e socialisti si sono trovati tacitamente d'accordo. Non è un caso che chi ha condotto ricerche sull'intellettualità nel Ventennio abbia trovato, spesso con un certo sgomento, episodi di compromissioni che investono quasi paritariamente l'intellettualità di varia collocazione.
Belardelli — Non mi pare si possa parlare del rapporto intellettuali-fascismo come di un nervo scoperto. Dagli anni Settanta tale rapporto ha rappresentato uno degli argomenti più frequentati dalla storiografia. È da quel momento che il quadro di una vita culturale in gran parte indipendente dal regime si è rovesciato nel suo opposto; fino a documentare una situazione che Roberto Vivarelli ha ben definito come «un regime di convivenza», nel quale anche quanti erano conosciuti come antifascisti, «se non si esponevano in forme di opposizione attiva, continuarono a svolgere i loro mestieri e le loro carriere accademiche». Diversa è invece la questione della successiva «conversione all'antifascismo». A questo riguardo, le polemiche dipendono dal modo in cui un intero ceto intellettuale che aveva operato durante il fascismo si trovò a dover rielaborare il proprio passato dopo il 1945, negando o molto sminuendo i precedenti rapporti con il regime.
Il disciplinamento blando e tardivo degli intellettuali sotto il fascismo, se confrontato con i metodi adottati nella Germania nazista, ha indotto a parlare di «totalitarismo riluttante». Condivide questa lettura?
D'Orsi — Sostanzialmente no. Ritengo che l'interpretazione del fascismo come «totalitarismo imperfetto » abbia fatto il suo tempo, rivelandosi inadeguata e fuorviante. Penso piuttosto che il fascismo costituisca quasi il modello idealtipico del totalitarismo novecentesco, a cominciare dalle inoppugnabili ragioni cronologiche. Se nel totalitarismo un elemento essenziale, accanto all'esercizio di un potere dispotico, è il disordine, la mancanza di un vero centro politico, al di là delle decisioni del capo, che a loro volta sono sempre incerte, non v'è dubbio che il fascismo sia stato il regime totalitario per eccellenza, con i contrasti acutissimi tra centro e periferia, tra prefetti e federali, tra partito e Stato. D'altra parte l'incapacità del regime di realizzare un effettivo controllo delle istituzioni culturali non sembra sia dipesa da una carenza di volontà politica: nel fascismo il disegno di dare vita a una totale e totalitaria «politica della cultura», a una vera irreggimentazione dei chierici, è a mio avviso più nitido e convinto che nella Germania hitleriana e nella Russia staliniana. Nel fascismo si dà assai più importanza agli intellettuali, di quanto essi non ne ricevano in altri regimi «totalitari».
Belardelli — Mi sembra che l'idea di un totalitarismo «tardivo» o «riluttante» non faccia che registrare dati di fatto. Mi limito a due esempi. Si pensi alla legge del dicembre 1925 che consentiva di allontanare dall'università i professori antifascisti; ebbene, sul finire del 1926, vennero estromessi soltanto due docenti, uno dei quali peraltro, il socialista Luigi Montemartini, verrà reintegrato di lì a poco. Siamo dunque di fronte a un quadro incomparabile con quello fornito dalla Germania dove, a nemmeno due anni dall'ascesa al potere di Hitler, risultavano allontanate dall'università 600 persone. O ancora, si pensi al giuramento di fedeltà al regime introdotto nel 1931: si trattava a ben vedere di una misura congegnata, più che per estromettere i molti docenti di sentimenti antifascisti, per favorirne la permanenza dopo un formale atto di subordinazione. Naturalmente, questo non vuol dire che l'una e l'altra misura che ho citato non avessero un carattere repressivo. Ma si tratta di misure che sembra difficile poter interpretare come il segno di una politica effettivamente totalitaria. Tutto ciò, naturalmente, vale fino al 1938, un anno che segna, come è noto, una svolta dal punto di vista delle inclinazioni (e realizzazioni) totalitarie del regime, non solo a causa delle leggi razziali. Ma appunto, un regime che comincia ad applicare sistematicamente misure totalitarie a oltre dieci anni dalla nascita della dittatura vera e propria, come altro potrebbe definirsi se non come un totalitarismo riluttante o tardivo?
Pier Giorgio Zunino ha sottolineato come il mito dell'antifascismo fosse una «impostura necessaria». Quale fu la funzione assolta dalla cosiddetta «vulgata antifascista» nell'Italia postbellica?
D'Orsi — Si tratta di una espressione forte, che condivido solo nell'aggettivo: parlerei di «mito necessario », dietro il quale esiste una precisa realtà. L'antifascismo e la Resistenza sono stati dati oggettivi. Il fatto che la Resistenza attiva sia stata una presenza minoritaria non può ridurne il significato a mero dato virtuale e mitologico. Inoltre, va ribadito che dietro quel fatto minoritario esisteva un'amplissima zona di complicità con il partigianato. La vulgata, a ben vedere, è ormai quella di chi continua a denunciare la vulgata: è il tentativo, giunto ormai alle estreme conseguenze con Pansa, di pareggiare i conti, di annullare le differenze, e di togliere alla Resistenza qualsiasi significato storico. Eppure, la fine del fascismo, il 25 aprile, significò una rottura, e prima ancora l'8 settembre, che non fu la «morte», ma la rinascita di una patria, una patria non nazionalista e bellicista; patria come scelta, non come appartenenza e imposizione. Fu, poi, soprattutto, una prima, parzialissima e minoritaria riappropriazione della politica da parte di quegli italiani chiamati per oltre vent'anni solo ad applaudire il Capo: fu un ritorno della voglia di partecipare, che il fascismo aveva scoraggiato. In tal senso, pur con i limiti di una transizione troppo «continuista », il biennio 8 settembre - 25 aprile fu davvero un grande atto liberatorio.
Belardelli — Sono d'accordo con Zunino: potremmo anche dire che il mito antifascista ha dato vita a una «tradizione inventata. In riferimento alla funzione assolta dalla «vulgata antifascista », vorrei almeno sottolineare, però, come di «vulgate» ve ne siano state varie. Distinguerei da una parte il racconto ufficiale della nuova Italia antifascista, incentrato sulla proclamata estraneità al fascismo della maggioranza degli italiani e sulla larga partecipazione popolare alla Resistenza; dopo il 1945 la costruzione di un tale racconto risultava necessaria e utile perché il Paese si incamminasse sulla via della democrazia. Dall'altro vi è stata una «vulgata » più specificamente ascrivibile al Pci, costruita in primo luogo sull'idea che il partito stesso, per la sua ventennale opposizione clandestina al regime e per il ruolo centrale svolto poi nella Resistenza, rappresentasse la forza più coerentemente antifascista e anzi quella che aveva il «potere battesimale» di decidere dell'antifascismo altrui. Da questo punto di vista, la vulgata antifascista-comunista rappresentò un'arma politica usata contro la Dc, accusata dai comunisti di voler instaurare un regime «clerico-fascista». Peraltro, fu sulla base della vulgata antifascista-comunista che il Pci, in anni nei quali guardava all'Urss come al proprio modello, poté tuttavia acquisire una legittimazione politica come partito «democratico » perché «antifascista»; e in tal modo ricevere anche una sorta di risarcimento per l'emarginazione dall'area del governo.
(testo a cura di Luca La Rovere)
Liberazione 23.2.08
La Sinistra romana fa il pienone all'Eliseo, si replica il 2 marzo
di Daniele Nalbone
Bertinotti vede a Roma una grande Sinistra che dovrà riprendere le redini della città
Sandro Medici: «Ringrazio tutti coloro che hanno pensato a me, ma non mi candiderò».
« Quando quasi dieci anni fa ho lasciato la Sicilia per venire a Roma, mi aspettavo di trovare una città aperta, in cui poter vivere la mia omosessualità alla luce del sole. Ma Roma non offre nulla a noi "diversi" se non l'anonimato». Questa di Salvatore Cannavò è uno dei "cinque racconti per il programma de la Sinistra l'Arcobaleno" ospitati al Teatro Piccolo Eliseo mercoledì scorso: considerato indegno di salire su un taxi in quanto gay, lasciato a piedi, in piena notte, nella "Gay Street", in via San Giovanni in Laterano, proprio nei pressi del Coming Out, locale simbolo non solo del mondo gay ma purtroppo del clima di intolleranza e di violenza che si respira nella capitale.
«Arrivando al teatro - commenta il presidente della Camera Fausto Bertinotti - ho visto amici e compagni per strada, affollare l'ingresso del Piccolo Eliseo, chiedere di entrare per assistere alla nascita del programma di questo nuovo soggetto politico: purtroppo solo una piccola parte delle persone accorse qui ha trovato spazio all'interno della struttura. Per questo voglio dare a tutti appuntamento per domenica 2 marzo, stavolta in un grande cinema, per dimostrare che a Roma è rinata una grande sinistra». Una sinistra che dovrà riprendere le redini di una città in cui violenza e intolleranza provenienti dall'estrema destra sono all'ordine del giorno.
Rispetto dei diritti, lotta alla precarietà, tutela dell'ambiente, integrazione razziale, lotta alla criminalità. Ecco i punti intorno ai quali Fausto Bertinotti vuole costruire il programma di questa «nuova comunità che si vuole costruire per un vero cambiamento». Necessario anche, soprattutto, in quella che è falsamente dipinta come "città vetrina": quella di Salvatore è solo una delle tante storie dell' "altra Roma" che vedrebbe in Sandro Medici il suo sindaco.
«Un giusto, doveroso riconoscimento per quanto fatto in questi anni dal presidente del X Municipio per la città di Roma. Il suo governo è stato un modello ideale a cui tendere» spiega Bertinotti a margine dell'evento.
«Le parole di stima del presidente della Camera non possono che farmi piacere. Voglio ringraziare fortemente tutti coloro che hanno pensato a me per questo ruolo», commenta Sandro Medici.
«Sto vivendo questa "investitura" come riconoscimento per aver fatto qualcosa di sinistra nel mio mestiere di amministratore, ma non ci sono né le possibilità né le condizioni, politiche e personali, di avventurarsi su questa strada. Per me è impossibile fare qualcosa di diverso dal partecipare alla Sinistra Arcobaleno». Per quanto riguarda la sua ricandidatura come minisindaco del X Municipio, spiega di essere «indeciso. Incerto. In primis di me stesso, in quanto temo di perdere lo slancio che mi ha guidato in questi anni. Sono consapevole dei miei limiti, pertanto non so se continuerò a fare questo mestiere».
Non possiamo non chiedere al giornalista-politico-amministratore-compagno un giudizio sulla situazione politica romana: in primo luogo sulla proposta avanzata dalla Sinistra di un referendum cittadino sul registro delle unioni civili. «Credo che questa sia la strada giusta per un tema così contrastante: è ovvio che noi vediamo nel registro una conquista di civiltà ma dobbiamo renderci conto che è allo stesso modo normale che la parte cattolica della coalizione veda in questo un pericolo. Per questo ritengo la soluzione migliore che a decidere siano i cittadini». Per quanto riguarda l'investitura, questa sì reale e concreta, di Rutelli come futuro sindaco di Roma, Medici chiede «un risarcimento ai soggetti indeboliti per eccellenza: i giovani. Non solo dalla precarietà, ma in quanto tali: senza reddito, senza opportunità. E un risarcimento per i territori periferici sotto forma di investimenti, strutture, spazi sociali e non centri commerciali. E' necessario un rilancio dei municipi indeboliti da quasi sette anni di "monarchia costituzionale" veltroniana».
Proprio nel X Muncipio, stasera, presso le Officine Marconi, artisti e personaggi noti come Acustimantico, Ascanio Celestini, Têtes de Bois, Ulderico Pesce, Ambrogio Sparagna, si esibiranno "Contro le mafie per la legalità e la giustizia sociale" appoggiando la battaglia di Libera. «Sono felice - commenta Medici - che sia stato scelto di svolgere questo evento in periferia, in una struttura seducente come le Officine Marconi anziché recarsi all'Auditorim. Sono proprio questi i territori ad aver bisogno di momenti e spazi aggregativi». Ancora qualcosa di Sinistra nel X Municipio. Qualcuno dice che "si può fare". Qui qualcosa di importante è stato fatto.
Liberazione 23.2.08
Berlinguer Dobbiamo costruire un Partito
intervista di Stefano Bocconetti
Riordina le carte, prende appunti. E ogni tanto risponde al telefono, risponde ai tanti che lo invitano a mille iniziative elettorali. E risponde quasi sempre di sì. Giovanni Berlinguer, 83 anni, oggi al Parlamento europeo fra i banchi dei socialisti, ma prima una vita nel Pci e nei diesse e soprattutto uno dei più autorevoli, se non il più autorevole studioso italiano di medicina sociale, è già tutto dentro la campagna elettorale.
La prima cosa: sei contento di come è partita?
Ti riferisci alla manifestazione dell'Eliseo?
Anche, perché come ti è sembrata?
Un ottimo avvio. Anche se vorrei che smettessimo di sottovalutare la voglia di partecipazione che c'è in giro. Lì, all'Eliseo metà della gente è dovuta restar fuori; troviamo invece posti, luoghi dove possa incontrarsi la nostra gente. Dove magari possa venire anche chi non è convinto del tutto.
Tutto bene, allora?
Si, anche se...
Anche se?
Intendiamoci, non voglio che ci sia alcun equivoco: io sono felice che si sia raggiunto il risultato di creare la lista unitaria della sinistra. E' importante, darò tutto quello che ho per sostenerla. Ma sono convinto che questa campagna elettorale debba diventare anche qualcos'altro.
Cosa esattamente?
L'occasione per costruire il nuovo partito della sinistra. Che in Italia, a differenza che nel resto d'Europa, rischia di mancare.
Stai parlando del nuovo soggetto unitario?
Dipende da quel che intendi con questa definizione. Io sto parlando di un soggetto che chiamo il partito della sinistra italiana. Sto parlando della forma che deve assumere la sinistra nel nostro paese.
La "Sinistra-l'Arcobaleno" ti sembra ancora troppo poco?
Se resta solo un cartello elettorale sì, ovvio che non basta.
Ma per capire: pensi che comunque quest'aggregazione sia partita in ritardo?
No, tardi no. Ma in questi dieci mesi - da tanto se ne parla - ci sono stati molti freni e ci si è preoccupati più di costruire equilibri interni ai gruppi dirigenti che ascoltare i cittadini, acquisire nuovi consensi, recuperare chi si è allontanato.
Scusa la franchezza: ma molti sostengono che i "freni" sono venuti proprio dalla Sinistra democratica, dal gruppo che è uscito dai diesse e di cui fai parte.
Francamente non mi pare che sia così. E poi, davvero adesso ha poco senso mettersi col bilancino a disegnare le colpe dei contraenti. Guardiamo al futuro: oggi dobbiamo impegnarci come una sola persona. Per strappare il miglior risultato possibile alle elezioni e, contemporaneamente, per gettare le basi del nuovo partito.
Campagna elettorale, allora. Qualche osservatore ha fatto notare che, al di là del merito, Veltroni s'è presentato con un'idea forte. Discutibilissima, ma comunque un progetto che sembra mancare alla sinistra. Che ne dici?
Non sono d'accordo. Ho letto i materiali che hanno avviato la discussione sul programma e mi pare che lì ci sia quello di cui c'è bisogno. C'è la parola d'ordine, l'idea necessaria e vincente: il lavoro. Inteso non più solo come rivendicazione dei diritti sindacali o contrattuali. No, mi sembra che finalmente la sinistra, questa nuova sinistra, ricominci a disegnare il ruolo che il mondo del lavoro deve avere nella società. Un ruolo che gli stessi lavoratori devono riprendersi nelle loro coscienze.
Stai pensando a qualche proposta in particolare?
No, penso all'insieme del progetto della sinistra. C'è una linea che tende a riequilibrare quelle risorse e quei poteri che in questi ultimi 25 anni si sono spostati a vantaggio delle imprese. Sì, insomma, mi sembra importante che finalmente si ritorni a parlare di una verità semplicissima: che chi assicura la produzione della ricchezza dovrebbe poterne usufruire in una quota molto maggiore dell'attuale. E ti ripeto: dopo un quarto di secolo in cui si è andati nella direzione opposta.
E la sinistra, tutta, non ha alcuna responsabilità per come sono andate le cose in questi 25 anni?
Sicuramente questi processi sono stati poco contrastati. Non si è percepito - parlo dell'Italia ma anche dell'Europa - che, nonostante le negazioni, c'è stata davvero lotta di classe. Ma l'ha fatta una parte sola: il capitale. E a questo, negli ultimi anni, si è aggiunto, in maniera lampante, lo schiacciamento operato dall'economia finanziaria sull'economia della produzione. Determinando le distorsioni che conosciamo.
Parli di lotta di classe. Su questo giornale ne parlava anche un altro grande dirigente che viene dal Pci, Pietro Ingrao, pochi giorni fa. E' una formulazione che ti convince? Nel senso che c'è necessità di una nuova stagione di lotta di classe?
Mi stai chiedendo se è una formula che si può usare? Ma sì, certo. Se serve a far capire che c'è bisogno di di impegnarsi, che c'è bisogno di conflitto. Anche se io resto convinto che c'è bisogno di lotta, ma anche di collaborazione. Per questo, se permetti, mi viene da dire una cosa sugli slogan di questa campagna elettorale...
Ovviamente.
Diciamo che non sono molto convinto di uno slogan che dice: vota a sinistra, fai "una scelta di parte".
Che vuoi dire?
Che in una società democratica, e complessa come l'attuale, non si può solo puntare su una parte, anche se rilevantissima e meritevole di ogni considerazione. Io penso che occorra tener presenti anche altri interessi, che considero legittimi, e che occorra considerare in primo luogo ciò che può migliorate la vita di tutti gli italiani.
Stai dicendo che quella parola d'ordine mina le possibilità di alleanze?
No, però sono convinto che la nostra battaglia debba procedere senza isolarsi, debba prevedere rapporti con le altre forze politiche.
E siamo a parlare del piddì.
Parliamone. A me non piace uno schema per cui ci sarebbe un "nemico", la destra, aggressivo e inquietante, e un "avversario", il partito democratico. Al contrario penso che dovremmo incalzare il partito di Veltroni, sollecitarlo, scontrarci quando necessario, ma per costruire le ragioni di una convergenza.
Davvero vedi le possibilità di una qualche convergenza?
Me la auguro e la considero possibile (e prende fra le sue carte il Manifesto dei democratici, ndr). La parte sulla laicità dello Stato, laddove descrive il diritto degli individui, di tutti, a decidere di se stessi, la trovo abbastanza condivisibile.
Ma come? Proprio su questi temi, il piddì è stato attraversato da una discussione fortissima, perché tanti hanno lamentato una mancanza di laicità nel documento fondante del nuovo partito?
Io non la vedo così. Se vogliamo restare ai documenti, non alle cose che dice la Binetti o qualche altro, lì si disegna un partito con il quale è possibile convergere nelle grandi battaglie di libertà. Tutt'altra cosa, invece, per ciò che riguarda le scelte economiche e sociali...
In questo caso ci si contrappone?
Si discute, perchè sono scelte lontane, e spesso profondamente diverse da quelle che deve fare la sinistra.
Parli di possibili convergenze coi democratici, eppure tanti dicono che dopo il voto, Veltroni e Berlusconi governeranno insieme. Con la sinistra relegata ai margini.
Io non do affatto per scontato che il risultato elettorale debba relegarci inesorabilmente all'opposizione. E penso che dipenda anche dalla forza e dalla capacità di iniziativa della sinistra la possibilità di ridare vita a nuove forme di collaborazione. L'unica cosa che darei per certa è l'impossibilità per la sinistra a partecipare a maggioranze insieme al cosiddetto partito della libertà.
Mi dai una definizione del partito di Veltroni?
Il partito di un leader che ha saputo cogliere un'esigenza diffusa. Quella di superare una lunga fase, segnata da ampie coalizioni che non riuscivano ad esprimere una politica unitaria. Sottoposte, com'è stato evidente col governo Prodi, a pressioni sgangherate, da parte dei piccoli partiti che hanno sempre guardato con più simpatia al centro destra. Ha avuto quell'intuizione e mi sembra che la stia comunicando bene.
Niente grande coalizione per la sinistra, dici. Eppure al parlamento europeo spesso, socialisti e popolari votano insieme. Come mai?
So che la "vulgata" racconta questo, almeno sui nostri giornali. Ma non è affatto così. A Bruxelles sui temi dei diritti civili e delle libertà spesso riusciamo a costruire un vasto arco di forze che comprende la sinistra "radicale", i socialisti, i verdi, i liberaldemocratici. Quando invece si affrontano temi economici e sociali, una parte di queste forze si avvicina e vota con il partito popolare. Sto parlando anche dei liberaldemocratici italiani, compresi gli esponenti eletti nelle liste della Margherita, oggi fra i democratici. Questa è la vera situazione, altro che grande coalizione.
Torniamo in Italia, alla sinistra. Che ti aspetti all'indomani del voto?
Tre cose.
La prima?
L'avvio del passaggio da raggruppamento elettorale a partito.
La seconda?
Una campagna di conoscenza e di ascolto dei giovani.
Nuovo partito, che parli il linguaggio dei giovani: la terza cosa sembra scontata. Non è così?
Certo. E' necessario svecchiare radicalmente i gruppi dirigenti di questa sinistra. Non per escludere chi ha lavorato fino ad ora per garantire un futuro alle forze legate al movimento operaio. Il loro ruolo c'è, è importante e deve essere valorizzato. Ma c'è bisogno di forze fresche.
E te?
Vale anche per me. Ci sono e ci saranno tante occasioni per contribuire agli impegni futuri.