sabato 23 febbraio 2008

BERTINOTTI RISPONDE A VELTRONI

Walter Veltroni conosce bene il linguaggio dei simboli e della comunicazione, dunque sa bene di cosa parliamo quando polemizziamo sulle candidature dell’operaio e dell’imprenditore. Parliamo delle classi sociali e della lotta tra di esse, cioè della lotta di classe. Bel tema, per capire come ci si colloca in questa società contemporanea e quali interessi e istanze sociali una forza politica vuole difendere. Penso che se si dice di volerli difendere tutti, in realtà si finisce col difendere solo i più forti. Perciò credo che la politica della sinistra debba essere di parte, cioè organizzare e rappresentare, nel terreno sociale, in primo luogo, gli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori. Del resto così è stato sempre, non solo per i comunisti ma per i socialisti, i socialdemocratici e i labouristi e così continua ad esserlo. Le classi c’erano nell’Ottocento come nel Novecento, come nel Duemila; diversa è la loro natura, si pensi alla diversità tra i primi del ‘900 e il neo-capitalismo della società dei consumi, diversa la loro composizione, e dunque diverse sono le caratteristiche del conflitto. Ma per sapere che esistono due punti di vista diversi nell’impresa e tra loro conflittuali non c’è bisogno di Marx e neppure dei coniugi Webb, basta la sociologia del lavoro, ben compresa quella americana. Veltroni dovrebbe sapere che non c’è nulla di più vecchio e di più volte smentito dalla storia come dalla cronaca che la tesi della scomparsa delle classi, della lotta di classe e del capitalismo. Quante volte ne è stato decretato il superamento, salvo ritrovarselo di fronte, ogni volta mutato, e ogni volta portatore di vecchie e nuove diseguaglianze. Oggi addirittura ce lo troviamo di fronte luccicante nella nuova veste della globalizzazione, una veste così nuova da volerci far credere, proprio mentre il capitalismo tende a farsi totalizzante, così da mettere all’opera non solo le mani ma le menti e i corpi, che si è invece volatilizzato. Qualche anno fa, caro Walter, si è teorizzata la fine del lavoro e il lavoro è scomparso dalla politica, dalle comunicazioni e dalle arti. Ma quando è riapparso ha persino preso la forma drammatica dei corpi degli operai uccisi sul lavoro. Il 2008 non è il ’53. Ma alla ThyssenKrupp si muore come a Marcinelle. Storie di operai e di padroni.
Fausto Bertinotti
da Liberazione


Repubblica 23.2.08
Le passioni del presente
Intervista a Giacomo Marramao sulla nuova raccolta di saggi
di Antonio Gnoli


La tristezza della nostra epoca
Lo sguardo rivolto al passato appare opaco e quello verso il futuro è incerto. Come procedere in "una terra di mezzo" segnata dal rumore dell´attualità
La questione religiosa? Intrecciata al moderno non è una novità
Non è un caso che la Chiesa Cattolica faccia valere sopra ogni cosa logiche di schieramento

Viviamo in un mondo attraversato da numerose crisi: economiche, politiche, morali, identitarie. Viviamo su un territorio vasto, apparentemente omogeneo, in realtà complesso e oftalmicamente schiacciato sul presente. Lo sguardo rivolto al passato appare opaco. Quello verso il futuro risulta incerto. Manchiamo di profondità e di prospettiva. Per qualche anno ci siamo adagiati nel postmoderno, nell´eleganza ironica della superficie, del debole è bello, dell´annullamento del tempo: nel qui e ora dei sentimenti e dei pensieri. Non è detto che ciò sia necessariamente frustrante, avvilente, confuso. È come se una natura antropologica abituata ad agire e riflettere secondo collaudate esperienze spazio-temporali (il bisogno di rifarsi al passato, di sviluppare aspettative per il futuro, di definire i confini) abbia deposto strumenti tradizionali e collaudati e si trovi improvvisamente sola, nuda, inesperta in una grande terra di mezzo. Ecco, se si vuole, su quella terra di mezzo, in quell´intervallo tra ciò che si è chiuso e ciò che non si è ancora aperto, che è cresciuta la riflessione di Giacomo Marramao. Si legge con piacere la raccolta di articoli, saggi, lectures, interventi che egli ha svolto nel corso degli ultimi anni. Ne viene fuori un libretto denso e puntuto dal titolo La passione del presente (Bollati Boringhieri, pagg. 291, euro 10).
Il presente ha ancora passioni che vale la pena vivere?
«Subiamo una fase di "passioni tristi", ma questo non ci impedisce di immaginare che il presente non possa essere vissuto anche emotivamente con nuove aperture di senso».
Che cosa è il presente nel tempo della nostra crisi?
«Innanzitutto è uno stato di cose che non può essere rappresentato, ma al tempo stesso è anche una condizione che ci investe, rumorosamente o silenziosamente, attraversandoci».
Perché il presente non si può rappresentare?
«Per il semplice fatto che si dà, si dona. Presente è anche il regalo. Non c´è distanza tra noi e il presente. Non è il passato e neppure il futuro. È ciò in cui siamo immersi, ma non incardinati. E in questo presente nel quale per forza di cose ci troviamo, ma senza convinzione, è sempre più difficile prendere decisioni».
Michel Foucault anni fa se ne uscì con una formula piuttosto curiosa. Parlò di una "ontologia del presente". Sembra quasi una contraddizione in termini.
«Foucault sviluppò il concetto nell´ambito di una lezione del 1983 tenuta al Collège de France. Con il consueto acume anticipava il bisogno di ridefinire la temporalità, a partire dalla crisi di progresso e tradizione. Oggi mi pare discutibile l´accostamento che egli fece tra presente e attualità. Assunto in un´accezione filosoficamente rigorosa il presente è sempre "inattuale"».
Ma se siamo immersi nel presente siamo anche immersi nell´attualità. Non le pare?
«Apparentemente è così. Ma vi è nel presente qualcosa, che chiamo piega inattuale, che il rumore dell´attualità, con le sue emergenze e innovazioni costanti, nasconde».
"Piega" è una parola cara al filosofo Deleuze.
«È il risvolto che non appare nella faccia pubblica del presente in quanto attualità».
Come si può uscire dalla prigionia dell´attualità?
«Hegel, Marx e Nietzsche, per fare tre esempi del pensiero della modernità, ci sono riusciti. Nel senso che ciascuno con le proprie lenti ha colto una genealogia del presente, liberandolo dal rumore dell´attualità».
Si spieghi meglio.
«Per Hegel tutto quello che è accaduto è il risultato di uno sviluppo della ragione occidentale, dalla filosofia greca al suo tempo. Marx colse nel presente capitalistico l´avanzare verso la globalità di una forma di dominio che era già incapsulata fin dalle sue origini in quel modo di produzione. Nietzsche vide nel nichilismo che pervade il nostro presente ipermoderno una sorta di peccato originale del pensiero occidentale, inteso come rinuncia alla vita e al divenire».
Più volte nei suoi studi lei si è richiamato al concetto di moderno. Perché è così importante?
«Potremmo riassumere con una formula: modernità è uguale a curiositas scientifica più libertà soggettiva, disintegrazione del cosmo chiuso più rottura del monopolio dell´interpretazione. Aggiungo che queste formule sebbene corrette oggi sono insufficienti. Il moderno non ha solo reso soggettiva la libertà, ma ha al tempo stesso fornito il potere a tecnologie e procedure razionali prima impensabili. Il moderno ha inventato il cosmopolitismo e lo Stato».
Ma gli Stati sono oggi molto meno forti che in passato. C´è o no una crisi dell´ordine statuale?
«Indiscutibilmente c´è. Ma occorre intendersi sulla portata e sulla irreversibilità di questa crisi. Oggi stiamo vivendo una fase di passaggio dall´era della modernità il cui cardine era la nazione a un´era della modernità in cui il perno è diventato il mondo stesso. Ma questo non deve indurci a credere che le logiche territoriali e locali siano destinate a sparire o a svolgere un ruolo subalterno».
Diciamo che si iscrivono in nuove forme di conflitto.
«Scaturiscono dall´attuale interregno tra il non-più del vecchio ordine interstatale e il non-ancora di un nuovo ordine sovranazionale. In questa situazione la struttura del mondo globalizzato assume i tratti ambivalenti dell´uniformità e della diaspora».
Siamo globalizzati ma non lo siamo fino in fondo?
«Viviamo in un mondo che è insieme unipolare e multicentrico. Dentro questa contraddizione assistiamo alla crisi del modello proposto da Hobbes, per cui lo Stato è l´effettivo garante della pace, quello in grado di risolvere il conflitto».
Non basta la legalità della forza?
«Non è più sufficiente. Perché i caratteri dominanti del conflitto vanno oggi ricercati non solo nella sfera redistributiva, come accadeva nell´era industriale, ma soprattutto nella dimensione identitaria».
Di qui il pericolo di nuovi fondamentalismi?
«Un liberale come John Rawls aveva istituito l´analogia, che avrebbe potuto fare la gioia di Carl Schmitt, tra gli odierni fondamentalismi e le guerre di religione precedenti la pace di Westfalia».
A questo proposito si può parlare di un vero e proprio ritorno delle religioni?
«La questione religiosa ha occupato da sempre la scena pubblica. Non si tratta né di una novità né di un ritorno. Religione e mondo moderno sono strettamente intrecciati».
Habermas ha parlato di un post-secolarismo, nel quale la religione ha un ruolo che le era sconosciuto nella modernità.
«Stimo le posizioni di Habermas, ma ho l´impressione che egli si sia lasciato fortemente condizionare dalla categoria di "post-secolare", coniata da Klaus Eder e ripresa da Papa Ratzinger. Egli vede il peso della Chiesa cattolica nella sfera pubblica come un bilanciamento all´invadenza delle biotecnologie. Farei due osservazioni. La prima è che l´influenza della Chiesa è un´eccezione italiana, molto meno sentita all´estero. La seconda è che è difficile sottrarsi alla sensazione che, in tal modo, Habermas finisce per conferire alla posizione dei credenti un "valore aggiunto" rispetto ai laici».
Non ritiene che proprio l´evento dell´11 settembre abbia di fatto conferito alle religioni un ruolo che prima non avevano?
«L´11 settembre ha evidenziato un mutamento di funzione delle religioni nel mondo globalizzato: da comunità di fede esse tendono a trasformarsi in medium di identificazione simbolica e surrogato di appartenenza. Ma nel momento in cui divengono blocchi identitari, finiscono inevitabilmente per tracciare una netta linea di demarcazione tra "noi" e "gli altri", proprio allo stesso modo delle ideologie. E forse non è un caso che la Chiesa cattolica faccia valere sopra ogni altra cosa le logiche di schieramento, accogliendo fra le sue braccia gli atei devoti e respingendo con sdegno cattolici meno allineati. Mi sorprende che non venga quasi mai ricordato nelle poco edificanti dispute degli ultimi tempi che il solo punto di intersezione tra un´attitudine veramente "laica" e una autenticamente "religiosa" è rappresentato dall´esperienza vissuta del dubbio radicale. È sufficiente leggersi i testi della grande tradizione mistica o le pagine toccanti dei diari di Madre Teresa di Calcutta».

l’Unità 23.2.08
Sfilate, chi si ricorda delle anoressiche?
di Silvia Ballestra


TERMINATI I CLAMORI dell’ultima campagna mediatica e politica contro i disturbi alimentari, torniamo a vedere, nel silenzio generale, ragazze emaciate sfilare sulle passerelle milanesi. Ci siamo già dimenticati di questa malattia mortale...

Queste cerbiatte dagli occhi enormi devono essere magre per far cadere meglio l’abito ma anche per non interferire troppo col suo design, in sostanza devono essere gradevoli, ma in qualche modo annullate da ciò che indossano, che è più importante, redditizio e prezioso di loro. La lingua francese, con eleganza e cinismo, le chiama mannequin, manichini. Perché non torna ancora in quota il problema «anoressia»? Queste diafane e scavate figurine di solito confinate al servizio moda dei settimanali femminili possono spuntare, per qualche giorno, fra il pezzo su Obama-Hillary e il reportage sulla monnezza a Pianura, per venirci a interrogare, mute e miti come sono, su cosa è diventato il nostro rapporto col corpo. Esse sono purtroppo vittime di una malattia professionale, soggette agli effetti collaterali di un mestiere che richiede espressamente di ridurti ai limiti dell’umano, tant’è che, più o meno in evidenza, la notizia della morte di una giovane modella per anoressia non è infrequente. E questa sarebbe già una buona ragione per occuparsi della questione.
Mettiamoci anche, però, il potere di seduzione - di appeal direbbero gli addetti ai lavori di moda e pubblicità - che queste modelle (cioè modelli, cioè esempi da imitare, le parole non raccontano frottole) esercitano sulle donne di ogni età, cultura e estrazione sociale. È vero, come ammoniscono esperti e osservatori, che anche tra giovani ragazzi si segnalano casi di anoressia, ma resta il fatto: a leggere le statistiche, si vede che il problema è ancora prevalentemente femminile. Una cosa da donne. E anche se sono in tanti ad occuparsene, politici, sociologi, psicologi, giornalisti (esiste una bibliografia molto nutrita sull’argomento, la rete è piena di studi e testimonianze, il problema sembra «di moda», è una maledizione), scrittori che pure hanno costruito personaggi e romanzi quando non vere e proprie mitologie sulla fame d’artista, studiosi di rapporti fra digiuno e santità e via elencando, su una cosa tutti sono d’accordo: la donna anoressica non piace agli uomini, non piace alle donne, non piace ai bambini, ma piace solo a se stessa, ad altre anoressiche e a tutti quelli che devono vendere i vestiti. O meglio, un’idea di donna buona per i loro vestiti. A volte piace ai fotografi di grido che non esitano a sbattere l’anoressica nuda, secca e screpolata, sui muri delle città. Memento mori ma allo stesso tempo strumento del diabolico mercato, pretesa di impegno sociale ma anche scusa per piazzare il brand. La campagna di Toscani di qualche mese fa scatenò un dibattito che ciclicamente torna a fare capolino per poi scomparire subito dopo (ricordate la campagna sulla taglia 38?) perché troppo strettamente legato a mondi e modi apparentemente futili ed effimeri. Tristemente, dell’impegno attraverso la pubblicità, alla fine resta soltanto la pubblicità, e poi nemmeno quella, più nulla, e silenzio.
Ora è vero che l’anoressia, direi meglio: le anoressie, hanno cause complesse e articolate che investono principalmente relazioni affettive o situazioni patologiche (vedi la depressione) e sulle quali noi non possiamo intervenire, ma invece, per quel che riguarda un certo clima culturale, la critica è possibile e doverosa: dopotutto, si tratta delle nostre vite, degli stimoli e dei «modelli» (modelle) che ci vengono proposti. Una delle interpretazioni più interessanti del fenomeno l’ha fornita l’antropologo René Girard rileggendo questa questione attraverso la sua affascinante teoria del desiderio mimetico cioè «il desiderio di essere secondo l’altro» già da lui elaborata nell’ambito della critica letteraria. A proposito dell’anoressia dice Girard: «Il desiderio mimetico punta alla magrezza assoluta dell’essere splendente di qualcun altro ch’è sempre nei nostri occhi, mentre noi stessi non lo siamo mai, per lo meno ai nostri occhi». Nello stesso saggio, contenuto ne Il risentimento, Lo scacco del desiderio nell’uomo contemporaneo (Cortina), Girard riflette ugualmente sul tenersi in forma, altro aspetto di questa nuova e nevrotica ansia del perdere peso, e sottolinea il fatto che le anoressiche sono, per lo più, donne emancipate, ricordando come l’anoressia colpisca soprattutto le giovani donne migliori e più brillanti.
Nessuno, nessuna, infatti, riesce a sottrarsi alla presa della competitività e del desiderio indotto, neanche le femministe più consapevoli. In un inquietante librino Il corpo giusto (Tropea), l’autrice de I monologhi della vagina, Eve Ensler confessa la sua ossessione per la pancia imperfetta e intraprende, col metodo delle interviste a donne diversissime, un viaggio sui complessi e le nevrosi che intrappolano donne di ogni paese, religione ed estrazione sociale, riguardo al fisico ideale e alle sofferenze, frustrazioni, rabbie, sforzi per ottenerlo. Ne esce un quadro impressionante fatto di palestre, trucchi, chirurgie plastiche, digiuni che neanche l’ironia intelligente dell’autrice riesce a rendere meno sinistro. Lei si chiede: «in un’epoca di escalation del terrorismo, mentre è in corso la guerra in Iraq e i diritti civili si assottigliano rapidamente quanto lo strato di ozono, mentre nel mondo una donna su tre viene violentata o picchiata almeno una volta nella vita, perché scrivere una pièce sulla mia pancia?», e si risponde che è per «analizzare i meccanismi che ci imprigionano ed essere di nuovo libere».
Ecco, il nostro corpo ridotto a prigione. L’immagine della prigione ritorna anche ne La gabbia d’oro, l’enigma dell’anoressia mentale di Hilde Bruch (Feltrinelli), che si rivolge a genitori e insegnanti e a chi è in contatto con gli adolescenti, fornendo molte informazioni su come riconoscere i segnali di questa terribile malattia. Anche qui si ribadisce come vittime dell’anoressia siano per lo più ragazze imprigionate da aspettative, ruoli pazzeschi e mete irraggiungibili. E comunque è dai tempi del fondamentale Dalla parte delle bambine della Gianini Belotti (Feltrinelli) che sappiamo a quante pressioni e condizionamenti culturali sono sottoposte le nostre ragazzine.
Bombardate da una certa cultura, target di un mercato anche diversificato (che a volte le vuole magre a volte le vuole grasse). Siamo sempre lì, alla fine, al corpo femminile come campo di battaglia per religioni e ideologie, oppure terreno per sperimentazioni tecnico-scientifiche: le donne, da sempre, sono fatte oggetto nei loro corpi di una violenza a volte manifesta a volte più subdola e sottile.
E sempre più spesso, consapevoli o inconsapevoli, reagiscono come la protagonista di un romanzo di Margaret Atwood: accortasi che tutti la consumano con indifferenza, smette di mangiare per non farsi mangiare.

l’Unità 23.2.08
Confessione d’una digiunatrice pentita
di Adele Cambria


Io, a cinque anni, nei corridoi della scuola elementare «Principe di Piemonte» e la bidella in grembiule nero, che, supplicata da mia madre, mi inseguiva col termos di latte caldo. La parola «anoressia», all’epoca, non la conosceva probabilmente nessuno. Se io non volevo prendere il latte prima di andare a scuola, facevo soltanto i capricci. Ma nel 1965, quando, ed avevo già trent’anni e due figli, fui ricoverata al Policlinico Umberto I° di Roma, nel reparto diretto dall’illustre clinico Professor Cataldo Cassano (il medico di fiducia di Aldo Moro), la situazione diagnostico/terapeutica era sempre quella. Sintetizzata dal Professore in due enigmatiche parole: «Circolo vizioso». Appunto, di «vizio» si trattava.
Come è evidente, sono sopravvissuta. La svolta psicologica fu la lettura del libro di Goffredo Parise, di ritorno dal Biafra, e le immagini di quei bambini spaventosamente denutriti che mi guardavano anche dallo schermo della Tv. Mi vergognai di me stessa, e mi misi letteralmente nelle mani di una nutrizionista «implacabile», Domenica Arcari Morini.(Purtroppo se ne è andata nel dicembre scorso). Infatti l’anoressica è sostenuta da un eccesso di orgoglio, essendo in perenne sfida con/contro il proprio corpo, e quindi ha bisogno di umiltà. Ma ormai di anoressia si cominciava a discorrere anche in Italia, il fenomeno è emerso - e questo è un bene - dalla rimozione/ignoranza collettiva.
«Il corpo femminile può obiettivamente essere un ostacolo alla creatività dello stilista». Una frase di cui non citerò l’autore, pronunciata a commento del Manifesto di autoregolamentazione della moda italiana contro l’anoressia, promosso e firmato il 22 dicembre 2006 da Giovanna Melandri, come titolare del Ministero per le Politiche giovanili e le Attività sportive, dalla Camera Nazionale della Moda Italiana e da AltaRoma.
…Sfogliando il Corriere della Sera di oggi, 22 febbraio 2008, vedo un’intera pagina occupata dalla pubblicità di una griffe già «diseducativa» nello slogan che propone: «Love Sex Money». Ma l’immagine è ancora peggio: una donna scheletrica che non sembra nemmeno giovane, seminuda sotto una brevissima tunica bianca ricamata. Ciò nonostante, non credo che la moda sia l’unica responsabile della morte volontaria per fame, e, in genere, dei disturbi alimentari, anoressia e bulimia, che oggi colpiscono in Italia circa tre milioni di persone, al 95% donne.
Le top-model che di tanto in tanto soccombono, fanno ovviamente notizia per la loro visibilità professionale. Benedetta Barzini, primo volto italiano dell’Alta Moda ad apparire sulla copertina di Vogue, dalla sua breve esperienza di indossatrice per le grandi griffes internazionali, aveva tratto un libro, negli Anni Ottanta ancora d’avanguardia. Si intitolava Storia di una passione senza corpo, ed in quelle pagine di scrittura surreale il suo vissuto di quegli anni appare come un incubo; da cui sfuggire con una proposta che all’epoca sembrava ancora utopica, ma chissà… Sostituire alle indossatrici figure femminili create al computer, che soddisfino le esigenze degli stilisti - vedi sopra- e non distruggano le donne vere.
Ma nell’incrocio- a prima vista improbabile- tra anoressia/bulimia e letteratura, ha un posto di rilievo un clinico romano, il gastroenterologo Mario Mazzetti di Pietralata. Non solo è stato il primo a impiantare a Roma, tra mille difficoltà, all’ospedale Sant’Eugenio, un attivo reparto dedicato ai disturbi alimentari, con una équipe preparata ed affiatata; ma ha promosso anche, quindici anni fa, il primo convegno italiano sulla letteratura nascente dalla condizione esistenziale di cui queste malattie sono il sintomo. Qualche nome: Fabiola De Clerq, Alessandra Arachi, la slovacca «bolognese» Jarmila Ockayova, Chiara Gamberale. Oggi al quarto romanzo, La zona cieca, quest’ultima autrice, nel suo primo libro, Una vita sottile scritto a vent’anni, raccontava con pudore e levità di scrittura, il dolore di vivere.
Del resto grandi sante, intellettuali e imperatrici, non sarebbero definite «anoressiche» se vivessero oggi? Da Santa Caterina da Siena,che si nutriva soltanto di ostie consacrate, a Simone Weil che rifiutava di mangiare perché troppi non avevano cibo, fino all’imperatrice Elisabetta d’Austria (Sissi). Che inseguiva, nei suoi versi, «la leggerezza delle farfalle», e che veniva considerata pazza perché si nutriva in modo strano, e certamente di poco o nulla. A giudicare dalle dimensioni del minuscolo corpetto di seta che vidi esposto alla mostra di Trieste a lei dedicata, nel 2000; lo indossava quando, nel 1898, fu uccisa dall’anarchico italiano Luigi Luccheni. Un foro sulla seta sbiadita segnalava la lama sottile che venne inconsapevolmente incontro al suo desiderio… Scriveva infatti l’imperatrice nel 1897: «Le mie ali sono bruciate, desidero la morte e non ne ho paura».

l’Unità 23.2.08
Con Fo viaggio nei misteri di Leonardo
Il premio Nobel domani sera all’Auditorium per la lezione-spettacolo su «L’Ultima cena»
di Adele Cambria


«QUALCUNO DI VOI MI TRADIRÀ» È la frase che, dice Dario Fo, emana dall’espressione malinconica del volto di Cristo, e dalle sue mani abbandonate quasi rassegnate sul tavolo fraternamente imbandito della cena - «L’Ultima cena» - nell’affresco dipinto
da Leonardo Da Vinci. Quella frase, spiega l’attore, rimbalza e si propaga tra gli apostoli in movimenti di drammatica scenografica danza: «Un agitarsi quasi di onde marine». Come se tutti, con i gesti, con gli sguardi, fossero presi dall’ansia di discolparsi. Tutti, salvo uno che, viceversa, sembra cercare conforto alla sciagura annunciata, avvicinando il volto a quello del più vecchio degli apostoli, ascoltando forse parole rassicuranti. Ma quell’uno, secondo la lettura già anticipata dal Premio Nobel su l’Unità di ieri - e che ora ripete alla conferenza stampa indetta dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali nella sede dell’Associazione Civita a Piazza Venezia - non è l’apostolo prediletto, Giovanni. E’ la Maddalena. E Fo sviluppa la tesi da par suo, citando non tanto «Il Codice da Vinci», quanto la tradizione popolare e i vangeli apocrifi. Ed aggiunge: «Qualche anno fa, a Palazzo Reale di Milano, fu allestita una grande Mostra intitolata "Il genio e le passioni", dove sono state esposte decine di dipinti, tutti raffiguranti l’Ultima Cena, eseguiti da allievi ed epigoni di Leonardo… Nella gran parte di queste opere, alla destra di Gesù c’è una donna. Ma ci sono donne anche nelle catacombe romane, le figure delle oranti accanto a Cristo, Cristo prediligeva le donne...».
L’incontro di ieri con i giornalisti era in effetti la presentazione di un doppio evento. Il primo è costituito dalla pubblicazione del libro, "Leonardo - L’Ultima Cena", curato da Giuseppe Basile e Maurizio Marabelli, e che dà conto di ventunanni di difficilissimo lavoro - «Indagini, ricerche, restauro», così recita il sottotitolo - svolto attorno e su "L’Ultima Cena". Il secondo evento è la lezione-spettacolo su Leonardo, che Dario Fo, a suo tempo allievo dell’Accademia di Brera a Milano, terrà domani sera all’Auditorium Sala Santa Cecilia. (Si annunciano folle enormi, le porte si aprono alle 19,30).
«Ho incontrato Leonardo a 14 anni - racconta Fo - appena mi sono iscritto a Brera, la prima visita scolastica fu quella a L’Ultima Cena. Da allora posso dire che non mi sono mai separato da lui, ho cercato di sapere tutto di quel genio… Leonardo era arrivato a Milano per acqua e non per terra. All’epoca la città aveva 80 chilometri di canali, ora quasi tutti interrati, e Leonardo era affascinato dal sistema delle chiuse… Si legò subito a questa città, "Ogni giorno- scrisse in una lettera- vedo cose che non basterebbero due vite ad entrarne in possessione…"».
Fo sostiene che, se è vero - come del resto aveva ricordato il Professore Giuseppe Basile - che «il dipinto dell’Ultima Cena cominciò a morire quasi ancora prima di cominciare a vivere», il problema non dipendeva da un errore tecnico dell’artista. «Il suo era un esperimento, voleva provare ad usare la tempera che adoperava per le pitture anche per gli affreschi. E gli avevano assicurato che il muro era asciutto... Invece cominciò a colare acqua dall’interno mentre Leonardo lo affrescava... E Giorgio Vasari, quando vide l’opera commentò: «E’ uno squaqquarone sgangherato…»
«Ma si sa - mi dice poi sul terrazzo della Civita il Professore Basile - che Vasari stava per Michelangelo!».
Il Professore mi chiarisce che la restituzione de L’Ultima Cena ai visitatori - non più di 25 alla volta! - è la devota restituzione di ciò che di originario resta…. Le tante ridipinture - che cominciarono fin dal 1726 - e i malaccorti restauri moderni (1924, 1947-54), non potevano consentire di andare «oltre il limite del possibile». Così si è espresso, citando la tesi di restauro non-violento, nata dall’insegnamento di Cesare Brandi, il Professore Roberto Cecchi, Direttore Generale per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico.

Repubblica 23.2.08
Allarmi siam giovani fascisti
Conquistano le scuole e le università, dominano negli stadi: da Roma a Milano radiografia di un movimento in crescita
di Concita de Gregorio


Nel Parlamento degli studenti la destra è maggioranza assoluta
"Basta con questa storia che siamo razzisti, con noi sfilano anche ragazzi di colore"
A Roma i "camerati" sfondano nelle elezioni nei licei e nelle università. Al Nord si alleano con gli ultras da stadio e i reduci dell´estremismo anni ´70: viaggio alla scoperta delle mille facce dell´ultradestra. Braccia tese e scritte antisemite, ma anche convegni sulle foibe e volantini sul "caro cd". Tra nuovi slogan e vecchi ideali, identikit del "balilla" del 2008

Roma. I balilla che governano la "Cosa nera", parlamento delle scuole romane, non si riconoscono dalla divisa: non ce l´hanno. Nemmeno quella diffusa sui giornali da foto d´archivio: ray-ban a goccia specchiati e bomber di pelle, capelli cortissimi. Non si usa più: sono i più grandi semmai a bardarsi ancora così, gli ultra ventenni e Cesare Previti quando si veste da giovane, la domenica mattina. I ragazzini di 15-17 anni eletti in liste di destra che gestiscono gli 80mila euro della Consulta provinciale studentesca insieme alla gloria di aver defenestrato la sinistra da sempre al potere sono indistinguibili da migliaia di loro simili. Andrea Moi, 17, presidente della Consulta, è un adolescente con la voce ancora sottile, secondo di tre figli cresciuto in mezzo a due sorelle, vive a Roma Sud - Colli Albani - e va a scuola al Terzo istituto d´arte, fermata della Metro Giulio Agricola. Milita in Azione giovani da quando aveva 13 anni, è in consulta da quando ne aveva 14. Dice che «un tempo a scuola in assemblea si parlava solo di temi difficili e lontani dagli interessi dei ragazzi tipo l´Europa, gli anni Settanta. Ora finalmente di discute di cose che interessano a loro: il caro cd, il caro libri». Va così e attenzione a sottovalutare o liquidare con spallucce la portata dell´onda.
Le battaglie sono per utilizzare l´aula di informatica, mettere i pannelli solari sul tetto, fare più ore di educazione fisica e più gite «a contatto con la natura», possibilmente senza telefonino perché «lo spirito se ne giova». Per avere libri di testo non obbligatori, insomma non studiare la storia solo sul Villari, ma almeno affiancarlo, dice Moi, a «un libro che mi dica che la Rivoluzione francese è stata anche una carneficina e che non liquidi in tre righe la rivolta di Vandea». A Roma otto anni fa gli studenti di destra eletti nel Parlamento dei ragazzi erano 20 su 400. Oggi sono la maggioranza assoluta, più di 200. Decuplicati. Marco Perissa, 25 anni, responsabile scuola per Roma di An: c´era allora e c´è adesso. Nel ‘99 era uno dei consiglieri della Consulta, «facemmo il libro bianco sull´edilizia scolastica». Dice: «Ha vinto la destra perché ha perso la sinistra. Ci siamo inseriti nell´antipolitica e abbiamo rubato voti alla sinistra ideologica. Le abbiamo opposto una destra pragmatica: non tutti gli studenti che ci votano sono di destra, anzi. Ci votano perché facciamo le cose. Perché gli anni Settanta sono lontani e non si può restare lì, perché pensiamo all´oggi».
Dunque vediamo, oggi. Oggi al Tufello, periferia romana, c´è qualche centinaio di studenti di sinistra che sfila in mezzo ad una impressionante saracinesca di polizia: ricordano Valerio Verbano, studente dell´Archimede ucciso dai fascisti nell´80, sua madre apre il corteo. Esprimono solidarietà a Simone, ex studente dell´Aristofane di Vigne Nuove picchiato qualche giorno fa da una spedizione punitiva del Blocco studentesco, falange scolastica della Fiamma. Il Blocco - sede principale a Casa Pound, centro sociale di destra - ha conquistato quest´anno 55 rappresentanti alla Consulta. Uno di loro è Giorgio Evangelisti, 17 anni, studente del Convitto nazionale fin da quando era in terza elementare. Il Convitto è la scuola della classe dirigente, fama di rigore estremo. Giorgio dice che «è l´ora di finirla con questa storia che siamo violenti e razzisti. Al corteo per le foibe c´erano quattro ragazzi di colore, uno di loro è attivista nella sezione di Roma Nord. Picchiare ci si picchia, ogni tanto, succede da sempre. Però quando noi abbiamo fatto volantinaggio davanti al Tasso due mesi fa sono venuti a menarci con caschi e bastoni, una cosa organizzata, non dico bugie, e non ne ha parlato nessuno. Fa notizia, la violenza, solo quando fa comodo a sinistra». Non è proprio così, questa è una versione di Giorgio, parte in causa.
Dice anche che è una bugia che la destra cresca solo in periferia e la sinistra mantenga le roccaforti del centro storico. Vediamo la mappa delle scuole, come è cambiata. Fortino del Blocco è il Farnesina, scientifico di Vigna Clara: è lì che è cominciata la prima occupazione della Destra «perché non se ne poteva più di far lezione nei container, ci pioveva dentro». Due del Blocco sono eletti al liceo classico Visconti, piazza del Collegio romano, la sede del processo a Galilei. Al Righi, lo scientifico più rinomato della città, il rappresentante di istituto è di Azione studentesca, braccio nella scuola di Azione giovani. Il Giulio Cesare, un tempo classico di destra, ha oggi un esponente di sinistra e uno cattolico. Restano "rossi" il Mamiani, il Virgilio, il Tasso. La destra va fortissimo allo scientifico dei Parioli, l´Azzarita, dove il Blocco raccoglie firme per far intitolare l´aula magna a Nanni De Angelis. «Sa chi è? - domanda Evangelisti - un ragazzo degli anni Settanta». Due consiglieri di destra sono stati eletti al classico Nomentano, uno allo scientifico Benedetto da Norcia, due al tecnico Armellini di San Paolo fuori le mura. Non si parla solo di Ostia, dunque. Andrea Moi cita il coraggio del giovane eletto con As al Machiavelli di via de´ Volsci, quartiere San Lorenzo, roccaforte storica della sinistra radicale, Radio popolare e controcultura militante. «Però non lo nomini per favore perché magari a scuola non lo sanno che è di destra». Ecco, magari non lo sanno.
La novità è che il 65 per cento degli studenti romani ha votato a destra ma magari, una parte almeno, non lo sa. Azione studentesca ha uno slogan che dice "Contro lezioni tristi e grigi professori, per una scuola capace di divertire e unire": un programma capace di raccogliere l´unanimità dei consensi. Quando il Blocco chiede «più ore di ginnastica» non lo fa esponendo un manifesto di prestanza fisica neomussoliniana, sui manifesti delle elezioni scolastiche ci sono gli eroi del film western e Bart Simpson quello dei cartoni animati, e poi fare più ginnastica vuol sempre dire fare meno greco e estimo. Per arrivare allo scacco del due a uno (la Cosa nera vede 15 consiglieri alla destra, 10 alla sinistra) le due liste romane di destra, fra i quattordicenni, hanno fatto "propaganda sulle cose". Aule più belle, libri e cd meno cari, più ginnastica e più gite. L´anticomunismo un sottile sottofondo, scenario per ora marginale. Intanto stare meglio, divertirsi di più. Poi è alle manifestazioni politiche che tornano fuori i simboli, le croci runiche e le aquile. Arrivano i venti e anche trentenni, lì. Sono loro che menano la danza. L´8 febbraio era previsto un convegno della Consulta al teatro Brancaccio. Tema: "Istria, Slovenia, Dalmazia: anche le pietre parlano italiano". Dopo tanti convegni sulla Resistenza, dicono i balilla, ora che il vento è cambiato finalmente uno sulle foibe. Perissa, il responsabile scuola: «Purtoppo 15 attivisti del collettivo del Virgilio hanno tirato un fumogeno nel teatro, Costanzo ha ritirato la disponibilità della sala, duemila studenti pacifici sono rimasti per strada. La riprova questo che non è un paese libero». Le cronache di quel giorno raccontano una storia diversa. Scontri violenti in via Nomentana fra adulti neofascisti e studenti delle scuole del centro. Nel blog di Casa Pound però c´è scritto che non bisogna leggerli i giornali. La verità è nella "forza dell´azione". La rivoluzione è la nostra: "Sveglia bastardi, la ricreazione è finita". Marx, ha stancato: "Dopo Marx, aprile". Una nuova primavera invisibile, per alcuni inconsapevole. Ma si sa che la coscienza politica si forgia con costanza: a tredici anni voti per la gita in Abruzzo, a sedici per i computer nuovi in aula d´informatica. Le foibe dopo, c´è tempo.

Repubblica 23.2.08
Fianco a fianco naziskin e picchiatori da curva, uniti da ideali e proselitismo
Milano, palestra e birreria e la voglia di essere contro
di Paolo Berizzi


«Vai a dare un´occhiata su YouTube... «, mi suggerisce Franco come fosse un´avvertenza per l´uso. I link da caricare, quelli a cui tiene di più, sono: "Manifestazione ultras Inter per Gabriele Sandri" (12 novembre 2007) e "Prodi contestato in Cattolica" (18 gennaio 2007, con fischi, saluti romani e croci celtiche). «Se guardi bene mi vedi, là, in mezzo al casino». Quel 18 gennaio 2007 è una data di nascita: Cuib, Cattolica. Letteralmente "Comitato universitario iniziative di base". Meno letteralmente, e tolta la vernice, la stessa sigla di uno dei nidi da cui era sorta la "Guardia di Ferro" filonazista di Cornelius Codreanu.
A Milano e in Lombardia, una vita dopo i sanbabilini, c´è un "Cuore nero" che pulsa. Visto dall´esterno può apparire come una ristretta enclave di nostalgici. In realtà, sotto c´è di più. Cose che le nuove leve, forse, persino ignorano. Sponde istituzionali. Contatti con terroristi ex Nar. Intrecci con le famiglie della ndrangheta calabrese e della mafia siciliana trapiantate a Milano. Il tutto condito con una massiccia opera di proselitismo tra i giovani. Fianco a fianco, nelle sacche nere della grande metropoli, s´ingrossano le fila di naziskin, nostalgici della Rsi e ultrà di Inter e Milan. La fotografia scattata dall´Osservatorio democratico (curato da Saverio Ferrari) trova riscontri nelle indagini della magistratura. Ce n´è una che Repubblica ha già raccontato. Quella sui rigurgiti di neo nazismo che hanno come alveo la provincia di Varese (pm Maurizio Grigo e Luca Petrucci). Nelle pieghe dell´inchiesta (ancora in corso, sin qui 50 indagati e due arrestati) sono saltati fuori nuovi collegamenti e sta venendo alla luce una struttura a cerchi concentrici. Che sconfina oltre la provincia varesotta, abbraccia Milano e la sua vasta cintura, e scende fino a Roma.
Alcuni dei personaggi che si muovono su questo asse sono riconducibili a "Cuore Nero", il centro sociale che doveva nascere in viale Certosa a Milano ma che è stato bruciato l´11 aprile scorso prima che venisse inaugurato. La sede era un negozio di lapidi mortuarie di fronte al cimitero Musocco, a due passi dunque dal mitico Campo Dieci dove riposano alcuni soldati delle SS. Ma chi sono i fondatori di Cuore Nero? Roberto Jonghi Lavarini, ex presidente di Zona 3, già dirigente di An (terzo dei non eletti a palazzo Marino) e Alessandro Todisco, leader degli "Irriducibili" dell´Inter e proprietario della linea di abbigliamento "Calci&pugni", già Azione Skinheads, condannato a un anno e un mese per istigazione all´odio razziale e partecipazione a struttura clandestina.
Le mani che tessono la paziente tela della Cosa Nera appartengono a personaggi noti dell´estremismo meneghino. Quelli che si riconoscono nella firma "I camerati", alias del Comitato per Sergio Ramelli (lo studente di destra ucciso il 13 marzo 1975 da militanti di Avanguardia Operaia). Presidente del comitato, dopo la morte del militante di Ordine Nuovo Nico Azzi (al suo funerale nella chiesa di Sant´Ambrogio, c´era anche il vicepresidente di An Ignazio La Russa), è Luca Cassani detto "Kassa", inquisito nel ‘97 per l´accoltellamento di un consigliere comunale del Prc (poi successivamente prosciolto) e oggi tra i leader dei Guerrieri ultras, il gruppo egemone del tifo milanista. Suo compagno di tifo è Alessandro Pozzoli detto "Peso", ex assessore di Opera e responsabile locale dell´associazione culturale Area, indagato per le guerre intestine - pestaggi e pistolettate - nella curva rossonera.
I modelli di riferimento sono nomi "di richiamo": Remo Casagrande, picchiatore missino degli anni ‘70, Cesare Ferri, accusato e poi assolto per la strage di piazza della Loggia a Brescia, e Maurizio Murelli, condannato per aver ucciso nel 1973 un poliziotto a Milano. L´orbita nera milanese, a caccia di territori prima inesplorati, è sempre in bilico tra una miriade di gruppi, Alleanza Nazionale, e persino ambienti della malavita organizzata. A Quarto Oggiaro, periferia Nord-Ovest, alle ultime elezioni amministrative le influenti famiglie Carvelli, Di Giovine e Crisafulli non hanno fatto mancare il loro appoggio ad alcuni candidati di An. Ci sono foto che ritraggono assieme Jonghi Lavarini (in corsa per An) e Salvatore Di Giovine detto "Zio Salva", della nota famiglia calabrese da sempre implicata nel traffico e nello spaccio di droga nella zona. In altre foto, altri politici sono immortalati accanto a Ciccio Crisafulli, nipote ed erede del boss Biagio "Dentino" Crisafulli. Intrecci arditi. Favori concessi per tornaconto o in nome di vecchie amicizie. Come il posto di lavoro fittizio che Lino Guaglianone, un tempo tesoriere dei Nar, oggi ricco imprenditore già candidato alle ultime politiche con l´Azione sociale di Alessandra Mussolini, trovò nella sua palestra di Novate Milanese a Gilberto Cavallini, plurimomicida ergastolano ex Nar. Di Guaglianone è anche la palestra Doria di via Mascagni. Tra i ragazzi la Doria è considerata la palestra "vera", non "fighetta". Quella che è anche un po´ palestra di vita. Pugni, tifo ultrà, "azioni" universitarie e militanza politica. Perché il cuore nero «fa brutto».

Repubblica 23.2.08
Uno studioso: "Lo uccisero perché era contro l’astrologia"
Il mistero di Pico della Mirandola “Fu avvelenato”
di Alessandro Rota


cciso per amore della scienza, difesa contro lo strapotere dell´arte divinatoria per eccellenza: l´astrologia. Il giallo della morte di Pico della Mirandola continua ad arricchirsi di particolari. Inediti, come la lettera di un autore sconosciuto, indirizzata a Marsilio Ficino e scritta pochi mesi dopo la morte del filosofo, detto anche Conte della Concordia. La missiva, che sarà pubblicata nel libro Delitti e misteri del passato (in primavera per Rizzoli) di Silvano Vincenti, contiene allusioni alla scomparsa dell´umanista, non per malattia ma per assassinio. Disputationes adversus astrologiam divinatricem si intitola l´opera a cui lo studioso si dedicò nell´ultimo periodo della sua vita. Rimase incompiuta, anche se alcuni concetti base furono ripresi e rielaborati da Girolamo Savonarola nel suo Trattato contro gli astrologi.
«Pico - sottolinea un passo della lettera - si sarebbe fatto dimenticare ritirandosi dal gioco e adesso eccolo trasformato in vittima. Il suo libro assumerà ancora più importanza. Pico esitava a pubblicarlo, ora il suo erede si sentirà in dovere di farlo. Il Papa vuole il libro per comprometterci. Quel manoscritto deve sparire, ritrovalo». Vincenti, che è anche presidente del Comitato nazionale per la valorizzazione dei beni storici e che sta studiando le sembianze e il Dna del filosofo, sottolinea che «il trattato dava assai fastidio alla società dell´epoca. L´astrologia era molto diffusa e considerata da molti, tra cui Ficino, e la più nota astrologa del tempo, la Rucellai, una scienza perfetta. La Chiesa era contraria e Pico portò avanti l´idea che fosse solo un´arte divinatoria. Se le sue convinzioni fossero state diffuse, avrebbero mandato davanti all´Inquisizione parecchi nomi noti. Per questo qualcuno decise di far sparire lo scritto e il suo autore. Tra i probabili mandanti c´è Piero de´ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico».
Marsilio Ficino fu incaricato di rubare la Disputazione ma, evidentemente, non ci riuscì (fu pubblicata due anni dopo la morte di Pico della Mirandola). Che Pico della Mirandola fosse stato ammazzato, addirittura avvelenato con l´arsenico, è stato stabilito recentemente, dopo le analisi effettuate sui resti, riesumati, dell´autore dell´Heptalus: nei campioni ossei, nei tessuti molli e, in particolare, nelle unghie sono state ritrovate alte percentuali del veleno. Finora però non era chiaro il movente dell´omicidio, anche se il nome del rampollo dei Medici era stato fatto. Le ossa di Pico della Mirandola sono state rimesse al loro posto nella Basilica di San Marco a Firenze.

Corriere della Sera 23.2.08
«Conta la donna, normali gli aborti con feti sani»
Silvio Viale: ho fatto quasi sempre interventi per la salute psichica della gestante
intervista di Alessandra Arachi


ROMA — Silvio Viale, torinese, ginecologo. Lei è un forte sostenitore della pillola Ru486?
«È dal 2001 che ho cominciato a chiedere l'aborto medico in Italia. Finalmente ci siamo».
Ci siamo? « Certo, l'autorizzazione per la Ru486 arriverà a breve. Ormai abbiamo superato tutti i passaggi internazionali, manca solo il mutuo- riconoscimento».
Eppure...
«Eppure c'è chi, come Giuliano Ferrara, ha detto che vuole impedirne l'introduzione?».
Già.
«Non ha capito niente».
Lei invece? « Parlo con cognizione di causa ».
È stato indicato dai radicali come candidato per il Pd. Non sarà facile conciliare le sue idee con alcune anime del partito...
«Se allude a Paola Binetti, non mi spavento».
Come mai?
«Paola Binetti ha detto che non vuole mettere in discussione il principio di autodeterminazione della donna».
Ma ha detto anche che vuole arrivare all'aborto zero...
«Quello non ha senso. È come dire di voler abolire la miseria del mondo. O che non si vuole parlare con chi è brutto. Non credo si possa discutere partendo da qui».
Partiamo dall'aborto terapeutico allora?
«Lasciamo stare però le sparate mediatiche di Giuliano Ferrara sulla sindrome di Klinefelter».
Lui ha detto di soffrirne...
«Se è per questo ha detto anche di essere stato il partner di tre donne che ha accompagnato ad abortire. Non può avere la Klinefelter: sarebbe sterile, oltre che glabro, ritardato mentale, alto. Ma il punto non è questo».
E qual è, allora?
«Ferrara ha chiesto di togliere questa sindrome dalla lista delle patologie per l'aborto terapeutico. Ma non lo sa che non esiste nessuna lista?».
E come si stabiliscono gli aborti terapeutici?
«In Italia non si fa un aborto terapeutico perché il feto è malformato, ma in base alla salute psichica e fisica della donna. In vent'anni di interventi mi sarà capitato un paio di volte di fare un aborto terapeutico per la salute fisica di una donna».
Tutti gli altri?
«Per la salute psichica della donna. Che vuol dire anche far abortire feti sani».
Lei ha fatto aborti terapeutici di feti sani?
«Certo. Lo prevede la legge. Ripeto è un problema di salute psichica della donna».
In quali casi, ad esempio?
«Non so: vogliamo parlare di una quindicenne che scopre di essere incinta al quarto mese?».
Oppure?
«Una donna che alla quindicesima settimana mi chiede un aborto terapeutico ed è gravemente depressa?».
Ma come ci si regola in questi casi?
«Tocca al medico valutare il reale stato psichico della donna. È una responsabilità importante. La stessa Veronica Lario ha raccontato di aver fatto un aborto terapeutico negli anni Ottanta. Ed è stato importante, visto i tre bei figli che poi ha avuto».
Lei si rende conto che ci sono medici e medici nel nostro Paese?
«Certo, ma mi rendo conto anche che c'è molta ipocrisia».
Che vuol dire?
«Prendiamo il caso di feti malformati: davanti alla diagnosi la reazione delle donne è sempre la stessa, abbiano o no il crocifisso al collo. Eppure il 99% dei medici obiettori di coscienza si offre di fare una diagnosi prenatale. Dopo spediscono le donne ad abortire da me o da medici come me».
Lei è favorevole anche all'eutanasia?
«Assolutamente sì. E c'è di più».
Cosa?
«Sono convinto che pure per quella non resta che aspettare. Come successe per la Ru486. Io nel 2001 dissi: non ho fretta, arriverà. E ci siamo. Così succederà per l'eutanasia: arriverà».
I radicali l'hanno candidata per la corsa al Partito democratico: è ufficiale?
«Non ci sono veti sul mio nome ».

Corriere della Sera 23.2.08
Altruisti non si nasce ma (forse) si diventa
Generosi per obbligo, i geni non c'entrano
di Massimo Piattelli Palmarini


Studi effettuati su alcune specie di insetti sociali (e altri animali) aprono nuovi scenari su uno dei rompicapi della teoria evoluzionista

Un giorno del lontano 1939, subito dopo la dichiarazione di guerra dell'Inghilterra alla Germania e la conseguente mobilitazione generale, il grande genetista J. B. S. Haldane, eroe della prima guerra mondiale, già troppo anziano per essere richiamato sotto le armi, con un suo collega umanista, osservava con tristezza, alla stazione ferroviaria di Cambridge, tanti giovani partire per il fronte, consapevoli che molti non sarebbero tornati.
Il letterato sbottò: «Caro Haldane, come può la tua teoria evoluzionistica spiegare tutto questo?» Haldane ci pensò un attimo e rispose, lapidariamente: «Nessun problema, se con il loro sacrificio salvano la vita ad almeno due fratelli o otto cugini ».
Molti anni dopo, nel 1964, questa brillante intuizione venne sviluppata da un altro genetista inglese, William Donald Hamilton, in una teoria detta della selezione parentale (kin selection). Le sue equazioni prevedono che un comportamento altruista sia evolutivamente efficace, se il costo riproduttivo di tale comportamento è inferiore ai vantaggi riproduttivi ottenuti da un buon numero di stretti consanguinei. In altre parole, quello che conta non è la trasmissione dei geni fisici, portati da un singolo individuo, ma quella di tutte le copie di quei geni, portati da individui imparentati. Questo aprì la strada all'idea del «gene egoista», resa famosa da ancora un altro genetista ed evoluzionista ingles e, Richard Dawkins.
Gli individui, secondo questa teoria, sarebbero macchine riproduttive al servizio dei propri geni. Una lunga storia, quindi, quella dei comportamenti altruistici, un perenne rompicapo per la teoria dell'evoluzione darwiniana. Fu, infatti, lo stesso Darwin a confessare esplicitamente che essi potevano essere «fatali» per la sua teoria. Perché? Beh, supponiamo che esista un gene, o un complesso di geni, che predispone un individuo ad essere altruista nel senso ristretto contemplato dalla teoria dell'evoluzione. Con quel comportamento, il portatore di quei geni diminuisce la propria probabilità di lasciare discendenti, aumentando invece, la probabilità di altri individui di lasciarne. Il meccanismo ortodosso della selezione naturale prevede che tale corredo genetico debba scomparire piuttosto rapidamente.
Invece, si osservano in natura molteplici comportamenti, in specie diverse, che sono altruisti proprio in questo senso. Scimmie che emettono un caratteristico grido, avvertendo le altre scimmie dell'approssimarsi di un predatore, ma rendendosi così più facile preda. Sempre all'avvicinarsi di un predatore, alcune specie di gazzelle saltellano cospicuamente sul posto e alzano la coda, scoprendo così un cospicuo sotto-coda bianco, dando così un segnale di fuga al branco, ma ritardando la loro propria fuga. Il comportamento altruista per eccellenza, il più studiato e il più discusso, è quello delle femmine «nutrici» in svariate società di insetti, per esempio le api e le formiche. Le nutrici non si riproducono affatto, accudendo invece le uova delle loro sorelle, figlie della regina.
La scena si sposta ora a Harvard, nel 1976, quando Hope Hare e Robert Trivers spiegano in dettaglio, adottando le equazioni di Hamilton, le ragioni evolutive del comportamento delle nutrici.
La particolare conformazione dei cromosomi negli insetti sociali fa sì che due sorelle abbiano il 75% dei geni in comune, contro il 50% di geni in comune tra madri e figlie, e appena il 25% tra sorelle e fratelli. Quindi è evolutivamente per loro più vantaggioso accudire le sorelle che non avere discendenti propri. Non solo, ma i conteggi genetici di Hare e Trivers prevedevano che le nutrici allevassero, in media, tre uova femmine per ogni uovo maschio. I dati sperimentali lo confermavano e il loro articolo, pubblicato in «Science», divenne un classico.
Arrivano, però, questo mese di Febbraio 2008, due guastafeste: l'inglese Francis L.W. Ratnieks e il belga Tom Wenseleers. In un dettagliato articolo appena pubblicato su «Trends in Ecology and Evolution », rivedono le bucce alla teoria di Hamilton e di Hare e Trivers. Dopo aver ben calcolato tutti i coefficienti di correlazione genetica in molte specie di insetti sociali, concludono, cifre alla mano, che la parentela stretta non spiega completamente il fenomeno delle femmine nutrici. La spiegazione risiede anche nella «coercizione» sociale (letteralmente).
La colonia nel suo insieme punisce severamente, non di rado con la morte, le femmine che tentano di accoppiarsi ed avere discendenti propri. Il motore dell'altruismo delle nutrici, quindi, non è solo la correlazione tra i geni, ma anche un severo e spietato controllo sociale. Questi autori usano i termini «coercion» e «policing» (controllo poliziesco), estendendolo anche ai comportamenti in società di pesci. Nasce, adesso, il problema della spiegazione evoluzionistica della coercizione, legata ai coefficienti di parentela, ma non completamente spiegata da questi. Il quadro si fa più complicato. Trivers, Hare, il loro maestro E. O Wilson e Dawkins, tra altri, non si erano peritati di trarre «lezioni » dalla loro «kin selection» per le società umane. Il sacrificio dei piloti kamikaze, ci dissero, si spiegava con l'altissimo grado di imparentamento del popolo giapponese.
Ratnieks e Wenseleers indulgono anche loro, brevemente, in diverse estrapolazioni sulle società umane. Lasciamole da parte, perché non penso avranno miglior destino delle precedenti. Il genetista americano Theodosius Dobjansky è famoso per aver detto: «In biologia niente ha un senso se non alla luce dell'evoluzione». Ma io concordo con il genetista inglese Gabriel Dover, in passato amico e collaboratore di Steven J. Gould e Richard Lewontin: non c'è molta luce da ricavare dall'evoluzione, per le società umane.

Corriere della Sera 23.2.08
Fascismo totalitario, mito o realtà
D'Orsi: «Controllò la cultura più di Hitler e Stalin». Belardelli: «No, fino al '38 fu solo autoritario»
colloquio tra Giovanni Belardelli e Angelo D’Orsi


Un dibattito su «Memoria e Ricerca» riapre la questione del rapporto fra intellettuali e potere durante e dopo il regime

La questione del rapporto tra intellettuali e fascismo continua a suscitare polemiche e discussioni. Il tema sembrerebbe costituire un nervo tuttora scoperto della coscienza pubblica nazionale. Quali le ragioni?
D'Orsi — Se la domanda si riferisce alla riluttanza a «fare i conti», la risposta mi pare sia da ricercare almeno un po' nel famoso «carattere degli italiani», che rinvia alla storia di una nazione divisa, con scarsa moralità, incapace di costruire un senso di appartenenza. Un popolo sul quale il cattolicesimo ha esercitato un ruolo sostanzialmente negativo, esaltando l'esteriorità, a scapito dell'interiorità. Il perdono del sacerdote nel confessionale sembra produrre una diffusa, generale tendenza all'autoassoluzione, le scelte degli individui vengono annegate negli orientamenti della massa, un tutto in cui ogni responsabilità si stempera. Ma altre ragioni si affacciano, a cominciare da quella più precisamente politica. La continuità tra fascismo e Repubblica è nei fatti. Scavare lungo i fili che congiungono i due momenti storici significherebbe mettere a repentaglio almeno una parte degli stessi «miti fondatori» del postfascismo. Su questa linea, storicamente, democristiani e comunisti, liberali e socialisti si sono trovati tacitamente d'accordo. Non è un caso che chi ha condotto ricerche sull'intellettualità nel Ventennio abbia trovato, spesso con un certo sgomento, episodi di compromissioni che investono quasi paritariamente l'intellettualità di varia collocazione.
Belardelli — Non mi pare si possa parlare del rapporto intellettuali-fascismo come di un nervo scoperto. Dagli anni Settanta tale rapporto ha rappresentato uno degli argomenti più frequentati dalla storiografia. È da quel momento che il quadro di una vita culturale in gran parte indipendente dal regime si è rovesciato nel suo opposto; fino a documentare una situazione che Roberto Vivarelli ha ben definito come «un regime di convivenza», nel quale anche quanti erano conosciuti come antifascisti, «se non si esponevano in forme di opposizione attiva, continuarono a svolgere i loro mestieri e le loro carriere accademiche». Diversa è invece la questione della successiva «conversione all'antifascismo». A questo riguardo, le polemiche dipendono dal modo in cui un intero ceto intellettuale che aveva operato durante il fascismo si trovò a dover rielaborare il proprio passato dopo il 1945, negando o molto sminuendo i precedenti rapporti con il regime.
Il disciplinamento blando e tardivo degli intellettuali sotto il fascismo, se confrontato con i metodi adottati nella Germania nazista, ha indotto a parlare di «totalitarismo riluttante». Condivide questa lettura?
D'Orsi — Sostanzialmente no. Ritengo che l'interpretazione del fascismo come «totalitarismo imperfetto » abbia fatto il suo tempo, rivelandosi inadeguata e fuorviante. Penso piuttosto che il fascismo costituisca quasi il modello idealtipico del totalitarismo novecentesco, a cominciare dalle inoppugnabili ragioni cronologiche. Se nel totalitarismo un elemento essenziale, accanto all'esercizio di un potere dispotico, è il disordine, la mancanza di un vero centro politico, al di là delle decisioni del capo, che a loro volta sono sempre incerte, non v'è dubbio che il fascismo sia stato il regime totalitario per eccellenza, con i contrasti acutissimi tra centro e periferia, tra prefetti e federali, tra partito e Stato. D'altra parte l'incapacità del regime di realizzare un effettivo controllo delle istituzioni culturali non sembra sia dipesa da una carenza di volontà politica: nel fascismo il disegno di dare vita a una totale e totalitaria «politica della cultura», a una vera irreggimentazione dei chierici, è a mio avviso più nitido e convinto che nella Germania hitleriana e nella Russia staliniana. Nel fascismo si dà assai più importanza agli intellettuali, di quanto essi non ne ricevano in altri regimi «totalitari».
Belardelli — Mi sembra che l'idea di un totalitarismo «tardivo» o «riluttante» non faccia che registrare dati di fatto. Mi limito a due esempi. Si pensi alla legge del dicembre 1925 che consentiva di allontanare dall'università i professori antifascisti; ebbene, sul finire del 1926, vennero estromessi soltanto due docenti, uno dei quali peraltro, il socialista Luigi Montemartini, verrà reintegrato di lì a poco. Siamo dunque di fronte a un quadro incomparabile con quello fornito dalla Germania dove, a nemmeno due anni dall'ascesa al potere di Hitler, risultavano allontanate dall'università 600 persone. O ancora, si pensi al giuramento di fedeltà al regime introdotto nel 1931: si trattava a ben vedere di una misura congegnata, più che per estromettere i molti docenti di sentimenti antifascisti, per favorirne la permanenza dopo un formale atto di subordinazione. Naturalmente, questo non vuol dire che l'una e l'altra misura che ho citato non avessero un carattere repressivo. Ma si tratta di misure che sembra difficile poter interpretare come il segno di una politica effettivamente totalitaria. Tutto ciò, naturalmente, vale fino al 1938, un anno che segna, come è noto, una svolta dal punto di vista delle inclinazioni (e realizzazioni) totalitarie del regime, non solo a causa delle leggi razziali. Ma appunto, un regime che comincia ad applicare sistematicamente misure totalitarie a oltre dieci anni dalla nascita della dittatura vera e propria, come altro potrebbe definirsi se non come un totalitarismo riluttante o tardivo?
Pier Giorgio Zunino ha sottolineato come il mito dell'antifascismo fosse una «impostura necessaria». Quale fu la funzione assolta dalla cosiddetta «vulgata antifascista» nell'Italia postbellica?
D'Orsi — Si tratta di una espressione forte, che condivido solo nell'aggettivo: parlerei di «mito necessario », dietro il quale esiste una precisa realtà. L'antifascismo e la Resistenza sono stati dati oggettivi. Il fatto che la Resistenza attiva sia stata una presenza minoritaria non può ridurne il significato a mero dato virtuale e mitologico. Inoltre, va ribadito che dietro quel fatto minoritario esisteva un'amplissima zona di complicità con il partigianato. La vulgata, a ben vedere, è ormai quella di chi continua a denunciare la vulgata: è il tentativo, giunto ormai alle estreme conseguenze con Pansa, di pareggiare i conti, di annullare le differenze, e di togliere alla Resistenza qualsiasi significato storico. Eppure, la fine del fascismo, il 25 aprile, significò una rottura, e prima ancora l'8 settembre, che non fu la «morte», ma la rinascita di una patria, una patria non nazionalista e bellicista; patria come scelta, non come appartenenza e imposizione. Fu, poi, soprattutto, una prima, parzialissima e minoritaria riappropriazione della politica da parte di quegli italiani chiamati per oltre vent'anni solo ad applaudire il Capo: fu un ritorno della voglia di partecipare, che il fascismo aveva scoraggiato. In tal senso, pur con i limiti di una transizione troppo «continuista », il biennio 8 settembre - 25 aprile fu davvero un grande atto liberatorio.
Belardelli — Sono d'accordo con Zunino: potremmo anche dire che il mito antifascista ha dato vita a una «tradizione inventata. In riferimento alla funzione assolta dalla «vulgata antifascista », vorrei almeno sottolineare, però, come di «vulgate» ve ne siano state varie. Distinguerei da una parte il racconto ufficiale della nuova Italia antifascista, incentrato sulla proclamata estraneità al fascismo della maggioranza degli italiani e sulla larga partecipazione popolare alla Resistenza; dopo il 1945 la costruzione di un tale racconto risultava necessaria e utile perché il Paese si incamminasse sulla via della democrazia. Dall'altro vi è stata una «vulgata » più specificamente ascrivibile al Pci, costruita in primo luogo sull'idea che il partito stesso, per la sua ventennale opposizione clandestina al regime e per il ruolo centrale svolto poi nella Resistenza, rappresentasse la forza più coerentemente antifascista e anzi quella che aveva il «potere battesimale» di decidere dell'antifascismo altrui. Da questo punto di vista, la vulgata antifascista-comunista rappresentò un'arma politica usata contro la Dc, accusata dai comunisti di voler instaurare un regime «clerico-fascista». Peraltro, fu sulla base della vulgata antifascista-comunista che il Pci, in anni nei quali guardava all'Urss come al proprio modello, poté tuttavia acquisire una legittimazione politica come partito «democratico » perché «antifascista»; e in tal modo ricevere anche una sorta di risarcimento per l'emarginazione dall'area del governo.
(testo a cura di Luca La Rovere)

Liberazione 23.2.08
La Sinistra romana fa il pienone all'Eliseo, si replica il 2 marzo
di Daniele Nalbone


Bertinotti vede a Roma una grande Sinistra che dovrà riprendere le redini della città
Sandro Medici: «Ringrazio tutti coloro che hanno pensato a me, ma non mi candiderò».

« Quando quasi dieci anni fa ho lasciato la Sicilia per venire a Roma, mi aspettavo di trovare una città aperta, in cui poter vivere la mia omosessualità alla luce del sole. Ma Roma non offre nulla a noi "diversi" se non l'anonimato». Questa di Salvatore Cannavò è uno dei "cinque racconti per il programma de la Sinistra l'Arcobaleno" ospitati al Teatro Piccolo Eliseo mercoledì scorso: considerato indegno di salire su un taxi in quanto gay, lasciato a piedi, in piena notte, nella "Gay Street", in via San Giovanni in Laterano, proprio nei pressi del Coming Out, locale simbolo non solo del mondo gay ma purtroppo del clima di intolleranza e di violenza che si respira nella capitale.
«Arrivando al teatro - commenta il presidente della Camera Fausto Bertinotti - ho visto amici e compagni per strada, affollare l'ingresso del Piccolo Eliseo, chiedere di entrare per assistere alla nascita del programma di questo nuovo soggetto politico: purtroppo solo una piccola parte delle persone accorse qui ha trovato spazio all'interno della struttura. Per questo voglio dare a tutti appuntamento per domenica 2 marzo, stavolta in un grande cinema, per dimostrare che a Roma è rinata una grande sinistra». Una sinistra che dovrà riprendere le redini di una città in cui violenza e intolleranza provenienti dall'estrema destra sono all'ordine del giorno.
Rispetto dei diritti, lotta alla precarietà, tutela dell'ambiente, integrazione razziale, lotta alla criminalità. Ecco i punti intorno ai quali Fausto Bertinotti vuole costruire il programma di questa «nuova comunità che si vuole costruire per un vero cambiamento». Necessario anche, soprattutto, in quella che è falsamente dipinta come "città vetrina": quella di Salvatore è solo una delle tante storie dell' "altra Roma" che vedrebbe in Sandro Medici il suo sindaco.
«Un giusto, doveroso riconoscimento per quanto fatto in questi anni dal presidente del X Municipio per la città di Roma. Il suo governo è stato un modello ideale a cui tendere» spiega Bertinotti a margine dell'evento.
«Le parole di stima del presidente della Camera non possono che farmi piacere. Voglio ringraziare fortemente tutti coloro che hanno pensato a me per questo ruolo», commenta Sandro Medici.
«Sto vivendo questa "investitura" come riconoscimento per aver fatto qualcosa di sinistra nel mio mestiere di amministratore, ma non ci sono né le possibilità né le condizioni, politiche e personali, di avventurarsi su questa strada. Per me è impossibile fare qualcosa di diverso dal partecipare alla Sinistra Arcobaleno». Per quanto riguarda la sua ricandidatura come minisindaco del X Municipio, spiega di essere «indeciso. Incerto. In primis di me stesso, in quanto temo di perdere lo slancio che mi ha guidato in questi anni. Sono consapevole dei miei limiti, pertanto non so se continuerò a fare questo mestiere».
Non possiamo non chiedere al giornalista-politico-amministratore-compagno un giudizio sulla situazione politica romana: in primo luogo sulla proposta avanzata dalla Sinistra di un referendum cittadino sul registro delle unioni civili. «Credo che questa sia la strada giusta per un tema così contrastante: è ovvio che noi vediamo nel registro una conquista di civiltà ma dobbiamo renderci conto che è allo stesso modo normale che la parte cattolica della coalizione veda in questo un pericolo. Per questo ritengo la soluzione migliore che a decidere siano i cittadini». Per quanto riguarda l'investitura, questa sì reale e concreta, di Rutelli come futuro sindaco di Roma, Medici chiede «un risarcimento ai soggetti indeboliti per eccellenza: i giovani. Non solo dalla precarietà, ma in quanto tali: senza reddito, senza opportunità. E un risarcimento per i territori periferici sotto forma di investimenti, strutture, spazi sociali e non centri commerciali. E' necessario un rilancio dei municipi indeboliti da quasi sette anni di "monarchia costituzionale" veltroniana».
Proprio nel X Muncipio, stasera, presso le Officine Marconi, artisti e personaggi noti come Acustimantico, Ascanio Celestini, Têtes de Bois, Ulderico Pesce, Ambrogio Sparagna, si esibiranno "Contro le mafie per la legalità e la giustizia sociale" appoggiando la battaglia di Libera. «Sono felice - commenta Medici - che sia stato scelto di svolgere questo evento in periferia, in una struttura seducente come le Officine Marconi anziché recarsi all'Auditorim. Sono proprio questi i territori ad aver bisogno di momenti e spazi aggregativi». Ancora qualcosa di Sinistra nel X Municipio. Qualcuno dice che "si può fare". Qui qualcosa di importante è stato fatto.

Liberazione 23.2.08
Berlinguer Dobbiamo costruire un Partito
intervista di Stefano Bocconetti


Riordina le carte, prende appunti. E ogni tanto risponde al telefono, risponde ai tanti che lo invitano a mille iniziative elettorali. E risponde quasi sempre di sì. Giovanni Berlinguer, 83 anni, oggi al Parlamento europeo fra i banchi dei socialisti, ma prima una vita nel Pci e nei diesse e soprattutto uno dei più autorevoli, se non il più autorevole studioso italiano di medicina sociale, è già tutto dentro la campagna elettorale.

La prima cosa: sei contento di come è partita?
Ti riferisci alla manifestazione dell'Eliseo?

Anche, perché come ti è sembrata?
Un ottimo avvio. Anche se vorrei che smettessimo di sottovalutare la voglia di partecipazione che c'è in giro. Lì, all'Eliseo metà della gente è dovuta restar fuori; troviamo invece posti, luoghi dove possa incontrarsi la nostra gente. Dove magari possa venire anche chi non è convinto del tutto.

Tutto bene, allora?
Si, anche se...

Anche se?
Intendiamoci, non voglio che ci sia alcun equivoco: io sono felice che si sia raggiunto il risultato di creare la lista unitaria della sinistra. E' importante, darò tutto quello che ho per sostenerla. Ma sono convinto che questa campagna elettorale debba diventare anche qualcos'altro.

Cosa esattamente?
L'occasione per costruire il nuovo partito della sinistra. Che in Italia, a differenza che nel resto d'Europa, rischia di mancare.

Stai parlando del nuovo soggetto unitario?
Dipende da quel che intendi con questa definizione. Io sto parlando di un soggetto che chiamo il partito della sinistra italiana. Sto parlando della forma che deve assumere la sinistra nel nostro paese.

La "Sinistra-l'Arcobaleno" ti sembra ancora troppo poco?
Se resta solo un cartello elettorale sì, ovvio che non basta.

Ma per capire: pensi che comunque quest'aggregazione sia partita in ritardo?
No, tardi no. Ma in questi dieci mesi - da tanto se ne parla - ci sono stati molti freni e ci si è preoccupati più di costruire equilibri interni ai gruppi dirigenti che ascoltare i cittadini, acquisire nuovi consensi, recuperare chi si è allontanato.

Scusa la franchezza: ma molti sostengono che i "freni" sono venuti proprio dalla Sinistra democratica, dal gruppo che è uscito dai diesse e di cui fai parte.
Francamente non mi pare che sia così. E poi, davvero adesso ha poco senso mettersi col bilancino a disegnare le colpe dei contraenti. Guardiamo al futuro: oggi dobbiamo impegnarci come una sola persona. Per strappare il miglior risultato possibile alle elezioni e, contemporaneamente, per gettare le basi del nuovo partito.

Campagna elettorale, allora. Qualche osservatore ha fatto notare che, al di là del merito, Veltroni s'è presentato con un'idea forte. Discutibilissima, ma comunque un progetto che sembra mancare alla sinistra. Che ne dici?
Non sono d'accordo. Ho letto i materiali che hanno avviato la discussione sul programma e mi pare che lì ci sia quello di cui c'è bisogno. C'è la parola d'ordine, l'idea necessaria e vincente: il lavoro. Inteso non più solo come rivendicazione dei diritti sindacali o contrattuali. No, mi sembra che finalmente la sinistra, questa nuova sinistra, ricominci a disegnare il ruolo che il mondo del lavoro deve avere nella società. Un ruolo che gli stessi lavoratori devono riprendersi nelle loro coscienze.

Stai pensando a qualche proposta in particolare?
No, penso all'insieme del progetto della sinistra. C'è una linea che tende a riequilibrare quelle risorse e quei poteri che in questi ultimi 25 anni si sono spostati a vantaggio delle imprese. Sì, insomma, mi sembra importante che finalmente si ritorni a parlare di una verità semplicissima: che chi assicura la produzione della ricchezza dovrebbe poterne usufruire in una quota molto maggiore dell'attuale. E ti ripeto: dopo un quarto di secolo in cui si è andati nella direzione opposta.

E la sinistra, tutta, non ha alcuna responsabilità per come sono andate le cose in questi 25 anni?
Sicuramente questi processi sono stati poco contrastati. Non si è percepito - parlo dell'Italia ma anche dell'Europa - che, nonostante le negazioni, c'è stata davvero lotta di classe. Ma l'ha fatta una parte sola: il capitale. E a questo, negli ultimi anni, si è aggiunto, in maniera lampante, lo schiacciamento operato dall'economia finanziaria sull'economia della produzione. Determinando le distorsioni che conosciamo.

Parli di lotta di classe. Su questo giornale ne parlava anche un altro grande dirigente che viene dal Pci, Pietro Ingrao, pochi giorni fa. E' una formulazione che ti convince? Nel senso che c'è necessità di una nuova stagione di lotta di classe?
Mi stai chiedendo se è una formula che si può usare? Ma sì, certo. Se serve a far capire che c'è bisogno di di impegnarsi, che c'è bisogno di conflitto. Anche se io resto convinto che c'è bisogno di lotta, ma anche di collaborazione. Per questo, se permetti, mi viene da dire una cosa sugli slogan di questa campagna elettorale...

Ovviamente.
Diciamo che non sono molto convinto di uno slogan che dice: vota a sinistra, fai "una scelta di parte".

Che vuoi dire?
Che in una società democratica, e complessa come l'attuale, non si può solo puntare su una parte, anche se rilevantissima e meritevole di ogni considerazione. Io penso che occorra tener presenti anche altri interessi, che considero legittimi, e che occorra considerare in primo luogo ciò che può migliorate la vita di tutti gli italiani.

Stai dicendo che quella parola d'ordine mina le possibilità di alleanze?
No, però sono convinto che la nostra battaglia debba procedere senza isolarsi, debba prevedere rapporti con le altre forze politiche.

E siamo a parlare del piddì.
Parliamone. A me non piace uno schema per cui ci sarebbe un "nemico", la destra, aggressivo e inquietante, e un "avversario", il partito democratico. Al contrario penso che dovremmo incalzare il partito di Veltroni, sollecitarlo, scontrarci quando necessario, ma per costruire le ragioni di una convergenza.

Davvero vedi le possibilità di una qualche convergenza?
Me la auguro e la considero possibile (e prende fra le sue carte il Manifesto dei democratici, ndr). La parte sulla laicità dello Stato, laddove descrive il diritto degli individui, di tutti, a decidere di se stessi, la trovo abbastanza condivisibile.

Ma come? Proprio su questi temi, il piddì è stato attraversato da una discussione fortissima, perché tanti hanno lamentato una mancanza di laicità nel documento fondante del nuovo partito?
Io non la vedo così. Se vogliamo restare ai documenti, non alle cose che dice la Binetti o qualche altro, lì si disegna un partito con il quale è possibile convergere nelle grandi battaglie di libertà. Tutt'altra cosa, invece, per ciò che riguarda le scelte economiche e sociali...

In questo caso ci si contrappone?
Si discute, perchè sono scelte lontane, e spesso profondamente diverse da quelle che deve fare la sinistra.

Parli di possibili convergenze coi democratici, eppure tanti dicono che dopo il voto, Veltroni e Berlusconi governeranno insieme. Con la sinistra relegata ai margini.
Io non do affatto per scontato che il risultato elettorale debba relegarci inesorabilmente all'opposizione. E penso che dipenda anche dalla forza e dalla capacità di iniziativa della sinistra la possibilità di ridare vita a nuove forme di collaborazione. L'unica cosa che darei per certa è l'impossibilità per la sinistra a partecipare a maggioranze insieme al cosiddetto partito della libertà.

Mi dai una definizione del partito di Veltroni?
Il partito di un leader che ha saputo cogliere un'esigenza diffusa. Quella di superare una lunga fase, segnata da ampie coalizioni che non riuscivano ad esprimere una politica unitaria. Sottoposte, com'è stato evidente col governo Prodi, a pressioni sgangherate, da parte dei piccoli partiti che hanno sempre guardato con più simpatia al centro destra. Ha avuto quell'intuizione e mi sembra che la stia comunicando bene.

Niente grande coalizione per la sinistra, dici. Eppure al parlamento europeo spesso, socialisti e popolari votano insieme. Come mai?
So che la "vulgata" racconta questo, almeno sui nostri giornali. Ma non è affatto così. A Bruxelles sui temi dei diritti civili e delle libertà spesso riusciamo a costruire un vasto arco di forze che comprende la sinistra "radicale", i socialisti, i verdi, i liberaldemocratici. Quando invece si affrontano temi economici e sociali, una parte di queste forze si avvicina e vota con il partito popolare. Sto parlando anche dei liberaldemocratici italiani, compresi gli esponenti eletti nelle liste della Margherita, oggi fra i democratici. Questa è la vera situazione, altro che grande coalizione.

Torniamo in Italia, alla sinistra. Che ti aspetti all'indomani del voto?
Tre cose.

La prima?
L'avvio del passaggio da raggruppamento elettorale a partito.

La seconda?
Una campagna di conoscenza e di ascolto dei giovani.

Nuovo partito, che parli il linguaggio dei giovani: la terza cosa sembra scontata. Non è così?
Certo. E' necessario svecchiare radicalmente i gruppi dirigenti di questa sinistra. Non per escludere chi ha lavorato fino ad ora per garantire un futuro alle forze legate al movimento operaio. Il loro ruolo c'è, è importante e deve essere valorizzato. Ma c'è bisogno di forze fresche.

E te?
Vale anche per me. Ci sono e ci saranno tante occasioni per contribuire agli impegni futuri.

venerdì 22 febbraio 2008

coincidenza degli opposti o solo "ma anchismo" qualunquistico e arraffone?
l’Unità 22.2.08
Pd-Radicali, arriva l’intesa
Binetti e aborto: «Una relazione annuale sulle patologie fetali»


«È arrivato il momento, a 30 anni dalla 194, di fare il tagliando alla legge. E di vedere gli obiettivi che sono stati raggiunti, e quelli rimasti sullo sfondo». La senatrice Paola Binetti spiega così le ragioni della mozione sull’aborto al programma del Pd presentata insieme ad Anna Finocchiaro. Il senso è quello di rendere l’aborto sempre meno necessario potenziando soprattutto i servizi, ma anche - ed è questa la novità - una relazione annuale al Parlamento sulle patologie fetali. La richiesta arriva naturalmente sulla scia delle polemiche per il caso Napoli, quello della donna che ha abortito con la polizia in corsia. E dice che, nel caso di aborti terapeutici, vengano tenuti in adeguato conto «i progressi fatti dalla medicina» e le ricerche scientifiche compiute negli ultimi decenni. Come dire: la legge 194 non dice che si può sottoporsi a un aborto terapeutico perché il feto ha una patologia invalidante. Dice solo che se questo è psicologicamente gravoso per la madre si può intervenire. Ecco, la mozione Binetti-Finocchiaro comincia a introdurre un nuovo concetto: e cioè che quello che poteva essere difficile per la madre trent’anni fa oggi potrebbe essere molto più accettabile visti i progressi della medicina. Un feto con una patologia grave che prima nasceva e viveva male, oggi vive meglio. «Si sono accresciute - spiega Binetti - le possibilità di intervento terapeutiche sul feto per annullare o contenere alcune malformazioni». Un altro passaggio caro soprattutto ai teodem è quello che chiede al governo di «contrastare ogni interpretazione difforme della 194 che incoraggi il ricorso a mezzi abortivi diversi da quelli previsti dall'ordinamento. Metodi che possono indurre una privatizzazione dell'aborto».

l’Unità 22.2.08
La Sinistra radicale insulta Ichino: «Servo del padrone...»
Il candidato del Pd duramente criticato. Ferrero: dalla revisione dell’articolo 18 danni enormi per i lavoratori


CONTESTAZIONE È polemica tra Partito democratico e Sinistra per la candidatura, nelle liste che sosterranno Veltroni, di Pietro Ichi-
no, il giuslavorista che più volte ha assunto posizioni critiche nei confronti del sindacato e dei partiti che adesso si sono fusi nella Sinistra Arcobaleno.
Già deputato del Pci negli anni ottanta, Ichino candidato nel Pd ha suscitato diverse reazioni tra gli esponenti politici della così detta Sinistra radicale.
Marco Rizzo ha definito Ichino «servo del padrone». Ma lo scontro è soprattutto sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Il divieto di licenziamento senza giusta causa è giudicato dal professore come un lascito del passato, che può essere messo in discussione, con l’obiettivo di convincere le aziende ad assumere di più. La modifica secondo Ichino «sarebbe una misura molto incisiva contro l’abuso del lavoro precario».
Per il ministro della solidarietà sociale, Paolo Ferrero, la proposta «di Pietro Ichino di rivedere l’articolo 18, mascherata sotto forma di intesa tra imprese e lavoratori, in realtà non è altro che un’arma in più nelle mani delle imprese che recherebbe danni enormi per i lavoratori. Ichino, dietro un giro di parole, di fatto smonta una garanzia perché senza l’articolo 18, che garantisce che il licenziamento non possa avvenire se non in presenza di una giusta causa, si consegna di fatto il diritto di licenziamento alle imprese. Sono quindi totalmente in disaccordo e propongo al contrario l’estensione dei diritti previsti dallo Statuto dei lavoratori in caso di licenziamento, compresi quelli assicurati dall’articolo 18».
Per Franco Giordano l’ingresso di Ichino e quello dei radicali è «il segno di una medesima scelta di campo del Pd: quella in favore di una politica economica di stampo liberista». Allo stesso modo la pensa Diliberto, che accusa Ichino di «voler cancellare l’articolo 18, come Berlusconi».
Un giudizio severo viene da Cesare Salvi, che immagina con preoccupazione Ichino ministro del Lavoro in un governo Veltroni: con lui, sostiene, si arriverebbe ai «licenziamenti facili».

l’Unità 22.2.08
Cambogia, l’inferno che cambiò Terzani
di Gabriel Bertinetto

MEMORIE L’incontro con la tragedia dei khmer rossi nel libro postumo del grande corrispondente. In Fantasmi, tra rigore e disillusione, un momento topico nella biografia del giornalista che proprio allora conobbe una svolta decisiva

La svolta nel percorso umano e professionale di Tiziano Terzani è datata 6 giugno 1976. Quel giorno il settimanale L’Espresso pubblica la corrispondenza in cui si racconta il cambio di governo a Phnom Penh. I khmer rossi hanno preso il potere già da un anno, ma sinora la «Repubblica democratica di Kampuchea» ha avuto come capo di Stato nominale l’ex-re Sihanouk. Sihanouk ora annuncia le dimissioni. Cade il simulacro di un’alleanza fra tutte le forze nazionali ostili al governo fantoccio che gli americani avevano messo in piedi nel 1970 per poter meglio combattere la loro guerra d’Indocina. I khmer rossi non hanno più bisogno di coperture formali. Pol Pot è il nuovo primo ministro. Annota Terzani: «Nessuno fuori dalla Cambogia ha sentito questo nome prima d’ora». Se ne sentirà parlare tantissimo negli anni a seguire. Ancora oggi quel nome è associato alla memoria del rivolgimento politico più ferocemente radicale che l’umanità abbia conosciuto in epoca moderna. Tre anni e mezzo di annichilimento fisico, culturale, sociale, nel nome di un progetto di palingenesi che prevedeva di costruire l’utopia comunista del futuro sull’azzeramento completo del passato.
Per la Cambogia la svolta è già avvenuta il 17 aprile del 1975, quando l’esercito di guerriglieri-contadini laceri e scalzi ha invaso le strade della capitale Phnom Penh ed ha immediatamente avviato la gigantesca deportazione dei suoi abitanti verso i campi di lavoro nelle campagne, nella jungla.
Per il grande inviato di guerra, innamorato dell’Asia, del mestiere giornalistico, degli ideali socialisti, la svolta inizia in quel giugno del 1976 in cui gli eventi lo costringono a rielaborare la sua visione della vita e del mondo. O perlomeno, è qui che ci sembra di coglierla nel suo momento di maturazione drammatica, in cui la nostalgia di un magnifico sogno infranto si fonde con l’obbligo di fare i conti con la realtà. Qui, in questo articolo del giugno 1976, raccolto nel volume Fantasmi dall’editore Longanesi assieme ad altre corrispondenze cambogiane uscite su vari giornali italiani e stranieri in un arco di tempo che spazia dal 1973 al 1993. Vediamo il professionista onesto mettere i lettori al corrente dei dubbi che stanno inesorabilmente affiorando in lui. Saltano i vecchi schemi di analisi, la realtà si presenta con più facce, ed emerge il timore che quella meno bella e gloriosa corrisponda purtroppo maggiormente al vero.
«I racconti dei rifugiati cambogiani - scrive Terzani - descrivono i khmer rossi come una banda di assassini assetati di sangue... I dettagli delle esecuzioni sono raccapriccianti. Per risparmiare le pallottole i condannati sarebbero stati finiti a colpi di bastone e di baionetta o soffocati con sacchetti di plastica legati attorno al collo. I bambini sarebbero stati semplicemente squartati o presi per le gambe e sbatacchiati contro gli alberi. Quanti i morti? Mezzo milione, settecento, ottocentomila. Un vero genocidio, dicono i rifugiati». Tiziano non può fare a meno di registrare quelle testimonianze. Ed è evidente che non sono solo raccapriccianti in sé, ma bruciano come altrettante coltellate al cuore per l’idealista che vede sgretolarglisi davanti agli occhi l’amato castello di convinzioni e di speranze. La prosa esprime obiettività narrativa e tormento interiore: «Le prove? Decisive, inconfutabili, nessuna. Anzi, ogni documento che dovrebbe avallare la storia dei massacri è così poco credibile da far pensare che il tutto sia un’abile montatura». Il giornalista espone i fatti e cerca di trovare un filo logico, una chiave esplicativa: «I massacri sono dunque una montatura propagandistica dei nemici della Cambogia, come affermano le autorità rivoluzionarie di Phnom Penh? O qualcosa di terribile è davvero successo nel paese, che è poi stato esagerato e distorto dalla propaganda anticomunista?». «La seconda ipotesi - conclude Terzani, quasi rassegnato a quella terribile ammissione -, è più verosimile».
Il giornalista cerca di spiegare, si aggrappa alle circostanze storiche per giustificare avvenimenti che lo lasciano ora perplesso, ora disgustato. L’evacuazione manu armata della capitale dipese dal fatto che la città era senza riserve di cibo. «L’unico modo di sfamare la gente era mandarla nelle campagne dove anche le radici di alcune piante potevano in un primo momento tenere in vita la gente... Il lavoro più o meno forzato dell’intera popolazione nei campi o alla costruzione di un intero nuovo sistema di irrigazione fu una decisione ugualmente dura, ma obbligata».
Cinque anni dopo, il velo è squarciato. Il 7 aprile 1980 Terzani narra così per il settimanale tedesco Spiegel il suo viaggio attraverso la Cambogia: «Dovunque mi sono fermato, spesso per caso ... sono incappato nelle fosse comuni, negli ex-campi di sterminio di Pol Pot. A volte traversando una risaia mi è stato impossibile non cammninare sui resti di gente massacrata fra il 1975 ed il 1978 dai khmer rossi». La settimana seguente il reportage prosegue con una serie angosciante di orrori meticolosamente documentati, che sfociano in immagini di cupa amarezza: «La Cambogia è sempre stata un paese di leggende e fantasmi... Oggi ogni collina, ogni fiume, ogni pianura, ogni pozzo, ogni stagno è popolato di terrificanti storie di fantasmi, tutte legate ai massacri e alle fosse comuni di Pol Pot».
Aveva già usato quel termine, «fantasmi» - che dà il titolo al libro -, varie altre volte nelle corrispondenze cambogiane. Ma era per designare l’incertezza ed il dubbio. Fantasmi erano i leader del movimento insurrezionale alla macchia, Khieu Samphan ed altri, che la propaganda di Lon Nol dava per morti, e ricomparivano invece continuamente come protagonisti di gesta che la fantasia popolare riportava amplificate e circonfuse di aspetti talvolta leggendari. Erano quei fantasmi presunti ad avere poi trasformato la vita dei connazionali in una concretissima spettrale ossessione.
Spiega Angela Staude, la vedova, nella prefazione: «Con i khmer rossi il sogno socialista con cui Tiziano era partito per l’Asia si trasforma in un incubo. Siccome con la Cambogia si apre e venticinque anni dopo si chiude la sua vita di corrispondente dall’Asia, sembra quasi che la sua storia personale e quella recente cambogiana siano andate di pari passo, che l’una abbia inseguito i meandri dell’altra».
Molto tempo dopo la caduta dei khmer rossi, negli anni Novanta, Terzani torna ancora varie volte in Cambogia. L’Onu vuole mettere in moto un processo di pace e organizzare elezioni. A Pattaya, in Thailandia, si svolge una conferenza internazionale per coinvolgere nelle trattative gli stessi khmer rossi che dopo essere stati rovesciati avevano continuato a resistere nella jungla grazie all’aiuto americano e cinese. La real-politik della guerra fredda dava meno importanza alle atrocità da loro commesse che alla loro ostilità verso il governo filo-vietnamita e filo-sovietico installatosi a Phon Penh. A Pattaya Tiziano intravede Khieu Samphan, complice di Pol Pot nel genocidio, e sente che i diplomatici lo chiamano “eccellenza”. E commenta: «Mi sento addosso la paura dei vecchi fantasmi della depressione, sempre pronti a riprendermi alla gola». Oggi se fosse ancora in vita si consolerebbe forse sapendo che, seppure con enorme ritardo, per quei crimini Khieu Smaphan ed altri sono sotto processo.

l’Unità 22.2.08
Cenacolo, quell’apostolo è una donna
Ora vi spiego quel genio di Leonardo
di Dario Fo

Anticipiamo, in un pezzo che parte dalla prima pagina del giornale, un brano della lezione che Dario Fo terrà domenica sera all’Auditorium Parco della Musica di Roma (ore 20). Il premio Nobel presenterà il volume «Leonardo, l’Ultima Cena-Indagini, ricerche, restauro» (a cura di Giuseppe Basile e Maurizio Marabelli, Nardini Editore) e subito dopo terrà una lezione-spettacolo sullo stesso argomento.

LEZIONE-SPETTACOLO domenica prossima all’Auditorium di Roma. Il premio Nobel parlerà, a modo suo, dell’Ultima Cena: gestualità, ritmica e ambiguità degli apostoli radunati attorno a Cristo

Quasi tutte le guide che illustrano ai visitatori il Cenacolo di Leonardo si soffermano abbondantemente sulla scansione dei personaggi: «Osservate come gli apostoli siano radunati a gruppi di tre, mentre nel mezzo, quasi isolato e inscritto in un perfetto triangolo equilatero, sta il Cristo come assorto con le mani stese, quasi abbandonate sul tavolo».
Ancora descrivono le guide: «Alla destra di Gesù vediamo l’immagine di quello che è comunemente chiamato Giovanni o l’apostolo prediletto del Salvatore».
Osservandolo però con attenzione viene il fiero dubbio si tratti di una giovane donna. A questo riguardo sono nate dispute alle volte feroci. Uno dei libri di maggior successo degli ultimi vent’anni, che ha fatto grande scandalo, Il codice da Vinci di Dan Brown, si muove proprio dal presupposto che questo apostolo sia di sesso femminile, anzi più esattamente sia la Maddalena, che la tradizione popolare e più di un Vangelo apocrifo indicano come la moglie di Gesù.
Qualche anno fa, a Palazzo Reale a Milano, fu allestita una grande mostra dal titolo Il genio e le passioni in cui venivano esposti diecine di dipinti, tutti raffiguranti l’Ultima Cena, eseguiti da allievi ed epigoni di Leonardo; inoltre nella prima parte della mostra erano esposte tavole, miniature e strappi di affreschi realizzati da artisti vissuti prima di Leonardo. Nella gran parte di queste Ultime Cene si nota sempre la presenza di una donna vicino a Gesù, evidentemente la Maddalena che spesso si ritrova abbandonata fra le braccia del Messia.
Tornando all’Ultima Cena di Leonardo, le figure, con la loro gestualità e in particolare col movimento delle braccia, del corpo e delle mani, producono un agitarsi quasi di onde marine che disegnano archi distesi e spezzati, arabescanti su se stessi.
Flutti che scendono e riprendono, sorpassando, la figura di Cristo che sta immobile come inscritta dentro una piramide.

l’Unità 22.2.08
Ristampe. La storia clinica di Renée raccontata dalla sua analista: un viaggio attraverso la sofferenza che si fa poesia
Torna il «Diario di una schizofrenica». Da rileggere
di Danilo Di Matteo

Perché rileggere dopo tanti anni Diario di una schizofrenica?
Tante le possibili risposte. Innanzitutto per cogliere la tensione e il contrasto fra la poeticità della narrazione di Renée e delle immagini che ella usa e la gravità dei sintomi che descrive. Sì, come acutamente notato nella presentazione da Cesare Musatti, la sofferenza, rivisitata e quasi rivissuta dopo la guarigione, si fa poesia.
Così nella dimensione dell’irrealtà la luce può essere implacabile e senza ombre; il «paese della Luce» è la metafora del delirio, di un altro mondo persecutorio; gli oggetti più familiari divengono presenze sinistre e minacciose; i corpi si muovono come automi, inautentici.
Paroloni della psicopatologia come derealizzazione e depersonalizzazione acquistano una drammatica concretezza.
E non mancano i paradossi e le antinomie. «Ero immensamente, immensamente colpevole senza conoscere la mia colpa», scrive Renée. «Innocente e colpevole nello stesso tempo» dinanzi agli strazianti vissuti di colpa, come «un criminale innocente».
E ancora: «Intanto continuavo a rispondere a voci, che in realtà non sentivo, ma che per me esistevano». Oppure si noti il suo sguardo fisso su un particolare per i più insignificante: «Obbedivo e con profondo sollievo mi riabbandonavo al mondo senza limiti di una goccia di caffè».
Ma perché in copertina l’autrice risulta Marguerite Sechehaye (che in conclusione propone un’interpretazione del «caso»)? È la psicoanalista che cura Renée. Di più: per Renée è a lungo «la Mamma», pur assumendo talora il volto di una Regina fredda e distante.
Una Mamma in grado di compiere quello svezzamento che la paziente non aveva mai davvero provato mediante la «realizzazione simbolica» dei suoi bisogni e dei suoi desideri infantili e il loro superamento: così le mele rappresentano per un periodo il nutrimento di Renée, che le associa al seno dell’analista. Per non dire degli oggetti transizionali, dallo «scimmiotto di pelo» al «bel tigrotto di pelo» alla bambola Ezéchiel, i quali mediano il rapporto della paziente con la realtà e con se stessa: oggetti che non fanno più parte di sé ma non sono ancora collocati nel mondo.
E pian piano ella scopre il proprio corpo; corpo posseduto e vissuto, inestricabilmente legato al suo Io. Sembra poi riconciliarsi con la realtà, e l’analista, da appendice qual era, viene accettata come persona. La Mamma diviene la signora Sechehaye e ciò a suo modo sancisce la guarigione.

Diario di una schizofrenica, Marguerite A. Sechehaye, pagine 147,euro 9,50, Giunti

l’Unità 22.2.08
Italia e Cina si incontrano al Palazzo delle Esposizioni


AL PALAZZO DELLE ESPOSIZIONI di Roma, in occasione della mostra Cina XXI secolo. Arte fra identità e trasformazione, il Laboratorio d’arte ospita oggi, a partire dalle 18.00 nell’Atelier del museo, l’incontro tra due artisti che indagano la realtà delle periferie urbane come Gianfranco Botto e Roberta Bruno, con l’artista cinese, Liu Xiaodong, uno dei maggiori interpreti del realismo cinico. L’incontro avverrà all’interno dell’installazione La mia casa è la tua casa di Botto e Bruno. L’opera si propone di creare un dialogo tra artisti lontani geograficamente che affrontano con la stessa sensibilità il tema dell’identità nelle nuove realtà urbane. Come un ospite in visita l’artista cinese giunge nelle casa con la sua valigia di oggetti personali, libri, cd, vestiti e foto.

Repubblica 22.2.08
Valori e diritti nei conflitti della politica
di Gustavo Zagrebelsky


Dietro ai conflitti della politica un paese diviso dai grandi dilemmi della bioetica
Dalla legge sull´aborto alle questioni legate alla vita nelle sue diverse forme
Ecco la storia di due concetti che hanno segnato la civiltà occidentale

Non si parla mai tanto di valori, quanto nei tempi di cinismo. Questo, a mio parere, è uno di quelli. Le discussioni e i conflitti sulle questioni che si dicono "eticamente sensibili" (come se le questioni, non gli esseri umani, fossero sensibili) sono un´ostentazione di valori. Tanto più perentoriamente li si mette in campo, tanto più ci si sente moralmente a posto. Che cosa sono i valori? Li si confronti con i principi. Principi e valori si usano, per lo più, indifferentemente, mentre sono cose profondamente diverse. Possono riguardare gli stessi beni: la pace, la vita, la salute, la sicurezza, la libertà, il benessere, eccetera, ma cambia il modo di porsi di fronte a questi beni. Mettendoli a confronto, possiamo cercare di comprendere i rispettivi concetti e, da questo confronto, possiamo renderci conto che essi corrispondono a due atteggiamenti morali diversi, addirittura, sotto certi aspetti, opposti.
Il valore, nella sfera morale, è qualcosa che deve valere, cioè un bene finale che chiede di essere realizzato attraverso attività a ciò orientate. E un fine, che contiene l´autorizzazione a qualunque azione, in quanto funzionale al suo raggiungimento. In breve, vale il motto: il fine giustifica i mezzi. Tra l´inizio e la conclusione dell´agire "per valori" può esserci di tutto, perché il valore copre di sé, legittimandola, qualsiasi azione che sia motivata dal fine di farlo valere. Il più nobile dei valori può giustificare la più ignobile delle azioni: la pace può giustificare la guerra; la libertà, gli stermini di massa; la vita, la morte, eccetera. Perciò, chi molto sbandiera i valori, spesso è un imbroglione. La massima dell´etica dei valori, infatti, è: agisci come ti pare, in vista del valore che affermi. Che poi il fine sia raggiunto, e quale prezzo, è un´altra questione e, comunque, la si potrà esaminare solo a cose fatte.
Se, ad esempio, una guerra preventiva promuove pace, e non alimenta altra guerra, lo si potrà stabilire solo ex post. I valori, infine sono "tirannici", cioè contengono una propensione totalitaria che annulla ogni ragione contraria. Anzi, i valori stessi si combattono reciprocamente, fino a che uno e uno solo prevale su tutti gli altri. In caso di concorrenza tra più valori, uno di essi dovrà sconfiggere gli altri poiché ogni valore, dovendo valere, non ammetterà di essere limitato o condizionato da altri. Le limitazioni e i condizionamenti sono un almeno parziale tradimento del valore limitato o condizionato. Per questo, si è parlato di "tirannia dei valori" e, ancora per questo, chi integralmente si ispira all´etica del valore è spesso un intollerante, un dogmatico.
Il principio, invece, è qualcosa che deve principiare, cioè un bene iniziale che chiede di realizzarsi attraverso attività che prendono da esso avvio e si sviluppano di conseguenza. Il principio, a differenza del valore che autorizza ogni cosa, è normativo rispetto all´azione. La massima dell´etica dei principi è: agisci in ogni situazione particolare in modo che nella tua azione si trovi il riflesso del principio. Per usare un´immagine: il principio è come un blocco di ghiaccio che, a contatto con le circostanze della vita, si spezza in molti frammenti, in ciascuno dei quali si trova la stessa sostanza del blocco originario. Tra il principio e l´azione c´è un vincolo di coerenza (non di efficacia, come nel valore) che rende la seconda prevedibile. Infine, i principi non contengono una necessaria propensione totalitaria perché, quando occorre, quando cioè una stessa questione ne coinvolge più d´uno, essi possono combinarsi in maniera tale che ci sia un posto per tutti. I principi, si dice, possono bilanciarsi. Chi agisce "per principi" si trova nella condizione di colui che è sospinto da forze morali che gli stanno alle spalle e queste forze, spesso, sono più d´una. Ciascuno di noi aderisce, in quanto principi, alla libertà ma anche alla giustizia, alla democrazia ma anche all´autorità, alla clemenza e alla pietà ma anche alla fermezza nei confronti dei delinquenti: principi in sé opposti, ma che si prestano a combinazioni e devono combinarsi. Chi si ispira all´etica dei principi sa di dover essere tollerante e aperto alla ricerca non della giustizia assoluta, ma della giustizia possibile, quella giustizia che spesso è solo la minimizzazione delle ingiustizie.
Passando ora da queste premesse in generale alle loro conseguenze circa il modo di legiferare sulle questioni "eticamente sensibili" di cui si diceva all´inizio, avvicinandoci così alle discussioni odierne sul tema dell´aborto, qui prese a esempio (ma ci si potrebbe riferire anche ad altro, come l´eutanasia, la fecondazione assistita, ecc.), si può stabilire un´altra differenza a seconda che si adotti l´etica dei valori o quella dei principi. Nel primo caso (il caso del valore), saranno appaganti le norme giuridiche che proteggono in assoluto il bene assunto come valore prevalente, e inappaganti le norme giuridiche che danno rilievo, cercando di conciliarli relativizzandoli l´uno rispetto all´altro, a beni diversi. Possiamo parlare, per gli uni, di assolutismo etico-giuridico; per i secondi, di pluralismo (non certo, evidentemente, di relativismo etico, equivalente a indifferenza morale).
Nell´assolutismo, si trovano a casa propria tanto coloro che parlano dell´aborto, né più né meno, come di un assassinio (oggi si dice "feticidio"), quanto coloro che ne parlano come diritto incondizionato. Assassinio e diritto sono due modi per dire il riconoscimento assoluto, come valori, della vita o della libertà. I primi, in nome del valore prevalente della vita del concepito, si disinteressano di tutto il resto: la salute e la vita stessa della donna, messa in pericolo dagli aborti illegali e clandestini; i secondi, in nome dell´autodeterminazione della donna come valore prevalente, si disinteressano della sorte del concepito. Costoro, pur su fronti avversi, si muovono sullo stesso terreno e possono farsi la guerra. Ma, tutti, si troveranno insieme, alleati contro coloro che, ragionando diversamente, non accettano il loro assolutismo.
Questo ragionar diversamente, cioè ragionar per principi, è certo assai più difficile, ma è ciò che la Costituzione impone di fare: la Costituzione, ciò che ci siamo dati nel momento in cui eravamo sobri, a valere per i momenti in cui siamo sbronzi. Orbene, la Costituzione, attraverso l´interpretazione della Corte costituzionale, dice che nella questione dell´aborto ci sono due aspetti rilevanti, due esigenze di tutela, due principi: l´uno, a favore del concepito la cui situazione giuridica è da collocarsi, "con le particolari caratteristiche sue proprie", tra i diritti inviolabili della persona umana, il diritto alla vita; l´altro, a favore dei diritti alla vita e alla salute, fisica e psichica, della madre, che può essere anch´essa "soggetto debole". Quando entrambe le posizioni siano in pericolo, occorre operare in modo di salvaguardare sia la vita e la salute della madre, sia la vita del concepito, quando ciò sia possibile. Quando non è possibile, cioè quando i due diritti entrano in collisione, deve prevalere la salvaguardia della vita e della salute della donna, "che è già persona", rispetto al diritto alla vita del concepito, "che persona non è ancora". Dunque: si parla di diritti della donna e del concepito, ma non si parla mai di aborto come (dicono i giuristi) "diritto potestativo" della donna, né, al contrario, di dovere di condurre a termine la gravidanza. Ci si deve districare tra le difficoltà e non ci sono soluzioni a un solo lato.
Non interessa, ora, se la legge 194 bene abbia svolto il suo compito. Interessa il modo di ragionare e di porsi di fronte a questo "problema grave", un modo non intollerante, carico di tutte le possibili preoccupazioni morali, aperto alla considerazione di tutti i principi coinvolti. Se nel dibattito pubblico, si usano quelli che si sono detti "esangui fantasmi in lotta per diventare i tiranni unici delle coscienze", cioè i valori, la legge che ne verrà sarà solo sopraffazione.
C´è poi un altro aspetto della distinzione valore-principi, importante per il legislatore. Il ragionare per valori è compatibile, anzi esige leggi tassative: tutto o niente, bianco o nero, lecito o illecito, vietato o permesso. Il ragionar per principi spesso induce la legge a fermarsi prima, rinunciare alle regole generali e astratte e a rimettere la decisione ultima alla decisione responsabile di chi opera nel caso concreto. Prendiamo la discussione odierna circa la sorte degli "immaturi", i nati diverse settimane prima del tempo, portatori di deficienze nello sviluppo di organi e funzioni destinate a pesare più o meno pesantemente sull´esistenza futura, sempre che ci sia. C´è un qualunque legislatore che possa ragionevolmente imporre una regola assoluta circa il che fare? Per esempio, la rianimazione sempre e a ogni costo, senza considerare nient´altro? Solo la cieca assunzione della vita come valore assoluto, della vita come mera materia vivente, potrebbe giustificarla. Ma sarebbe, in molti casi, un arbitrio. Ogni caso è diverso dall´altro e i rigidi automatismi legali, quando si tratta di principi da far valere in situazioni morali di conflitto, si trasformano in sopraffazione.
C´è un dialogo classico tra Alcibiade e Pericle, riferito da Senofonte, che ci fa pensare. Il discepolo chiede al maestro, semplicemente: che cosa è la legge? Pericle risponde: ciò che l´assemblea ha deciso e messo per iscritto. Anche la sopraffazione, decisa e messa per iscritto? No, questa non sarebbe legge. È legge solo quella che riesce a "persuadere" tutti quanti, il resto è solo violenza in forma legale. Chi professa valori assoluti non si propone di persuadere ma di imporre. Chi ragiona per principi può sperare, districandosi nella difficoltà delle situazioni complicate, di essere persuasivo; naturalmente a condizione che si sia ragionevoli, non fanatici.

Repubblica 22.2.08
La società multiculturale
Intervista a Alain Touraine: "Cosa ci ha insegnato il velo islamico nelle scuole"
Ecco come muoiono i nostri valori universali
di Fabio Gambaro


Il multiculturalismo assoluto che implica un relativismo assoluto dei valori conduce a quello scontro di civiltà teorizzato da Huntington. Il relativismo dei valori finisce per dissolvere le fondamenta dei diritti comuni

PARIGI. «Al comunitarismo che confonde valori e diritti, deve rispondere il diritto che si fonda su valori universali». È questa la posizione difesa da Alain Touraine, il celebre sociologo francese che nel suo ultimo libro, Penser autrement (Fayard), ha sottolineato ancora una volta l´importanza dei diritti politici, sociali e culturali in un mondo sempre più confuso, frammentario, dominato dalle divisioni e dall´individualismo. «La relazione tra valori e diritti è sempre complicata», spiega l´autore di Libertà, uguaglianza, diversità e Critica della modernità (entrambi pubblicati dal Saggiatore). «Un diritto non è tale se non è istituzionalizzato da una legge, mentre un valore è più che altro un´aspirazione ideale, che solo a volte si concretizza nel diritto».
Di solito si dice che i diritti sono collettivi, mentre i valori sono individuali?
«L´idea dei diritti ha una doppia valenza, dato che definiscono i diritti e gli obblighi di ciascuno rispetto alla comunità, ma anche gli obblighi della comunità nei confronti del singolo. Quella dei diritti è una logica conforme all´idea della coesione sociale. Ciò che è in gioco è l´organizzazione della vita sociale, che evidentemente implica problemi enormi anche di ordine etico e morale. Nel XVIII e XIX secolo il pensiero sociale è stato essenzialmente assorbito dalla filosofia del diritto e dello stato».
I valori, invece?
«Si parla di valori, quando si invoca un fondamento non sociale alle regole della vita sociale. È una nozione più confusa che viene interpretata in modi diversi, ma che comunque introduce l´idea che i comportamenti sociali debbano essere sottomessi a principi superiori non sociali. Naturalmente si pensa alle religioni, ma lo stesso discorso vale anche per taluni valori nati dall´illuminismo, come il progresso, la nazione, ecc. In entrambi i casi, ci si colloca su un piano che è aldilà dei rapporti sociali concreti».
In passato, qual è stata l´evoluzione delle relazioni tra valori e diritti?
«Nella lunga fase della modernità abbiamo assistito a una progressiva separazione tra diritti e valori. All´interno di questo processo, alcuni valori a poco a poco sono stati trasformati in diritti, secondo un processo di secolarizzazione che negava ogni aldilà dell´orizzonte sociale. Il sociale si spiega solo con il sociale, diceva Durkheim. Non a caso, la sinistra più tradizionalista è sempre stata molto sospettosa nei confronti degli appelli ai valori, dato che dietro a questi essa scorgeva sempre interessi particolari. Addirittura c´è chi sostiene che l´appello ai valori universali nasconda un processo di dominazione, dato che l´idea di valori universali è un´invenzione dell´Occidente che ha dominato il mondo. Si tratta di un punto di vista che naturalmente non condivido, perché, al contrario, penso che l´appello ai valori universali sia essenziale per rafforzare i diritti».
Lei parla di valori universali, oggi però sembra dominare un processo di frantumazione dei valori. Assistiamo infatti all´emergere dirompente di valori condivisi da gruppi sempre più ristretti...
«Sebbene per ora non si sia ancora arrivati al pulviscolo dei valori personali, è vero però che l´universalismo arretra di fronte al particolarismo delle comunità. Più le società entrano in crisi, più prosperano i valori comunitari. Il ritorno contemporaneo del comunitarismo – che alla fine del XIX secolo pensavamo moribondo – trasforma il mondo dei valori in un mondo sociale. In questa prospettiva, i valori tendono ad acquistare valore di legge. In una società dominata dalla religione, ad esempio quella islamica, le leggi sociali derivano per principio dai valori. È la parola di dio che si trasforma in legge. Per il Corano leggi e valori si confondono. A seconda delle diverse realtà, i valori possono essere messaggi divini o tradizioni degli antenati. In ogni caso, annullando la separazione tra mondo dei valori e mondo dei diritti, il comunitarismo implica un ritorno al passato».
Come reagire all´esplosione dei valori comunitari?
«Facendo appello a valori universali. Più la società definisce nuovi diritti sociali e culturali (il diritto di aver la propria lingua, la propria religione, la propria alimentazione, ecc.), più essa rischia di perdere la coesione interna, scindendosi in mille comunità e sottocomunità. Infatti, più si specificano i diritti di singoli gruppi di cittadini, più aumentano le occasioni di esclusione. Da qui il bisogno di definire dei valori che siano condivisibili da tutti. Ad esempio, i valori che hanno prodotto i diritti dell´uomo, il diritti della vita umana o i diritti del pianeta».
Nella società multiculturale, valori universali e valori comunitari entrano spesso in rotta di collisione. E´ il vecchio scontro tra relativismo e universalismo?
«Il multiculturalismo assoluto che implica un relativismo assoluto dei valori conduce inevitabilmente a quello scontro di civiltà di cui ha tanto parlato Huntington. Il relativismo dei valori dissolve le fondamenta dei diritti comuni. Perché ci sia comunicazione occorre sempre un certo grado di universalismo, come ha spiegato Habermas, interrogandosi sulle condizioni della comunicabilità. In questo senso, è importante ricordare che ogni essere umano o gruppo sociale è comunque dotato di diritti di natura universale. Proprio perché i diritti sociali e culturali sono sempre più complessi e frammentari, diventa più che mai necessario ribadire valori che facciano appello all´evidenza della condizione comune. Se c´è una caratteristica della modernità, è proprio il riconoscimento della dimensione universale nell´individuo che diventa fondamento dei diritti. Più il valore è condiviso e universale, più si traduce in diritto. Mentre la "non modernità" attuale è quella che ricolloca i diritti nell´orbita della comunità e dei suoi valori, creando situazioni tragicamente pericolose. E´ stato così in passato per il nazismo, rischia di esserlo oggi per l´islamismo».
Che fare quando, in nome dei propri valori, un gruppo rimette in discussione i diritti comuni?
«In Francia, l´interrogativo si è posto di fronte ai problemi dell´escissione o del velo islamico nelle scuole. In queste situazioni il diritto basato su valori universali deve prendere il sopravvento sul valore particolare espressione di un comunitarismo. Naturalmente in democrazia conta la maggioranza, e in Francia la maggioranza dei cittadini era contro l´escissione e contro il velo nelle scuole. Ma queste battaglie di libertà acquistano ancora più forza se sono fatte in nome di principi universali e non solo in nome della maggioranza democratica».
Nel caso del velo o dell´escissione, il diritto ha vinto sui valori?
«Più precisamente la libertà, che è un valore universale, attraverso un diritto, ha vinto su un valore particolare di una comunità. In futuro spero che le regole della vita sociale siano fondate non più solo sulla funzionalità dei diritti, ma sull´assoluto dei valori universali».

Repubblica 22.2.08
Soggetti di diritto
La dichiarazione universale dei diritti dell´uomo e la sua mancata realizzazione
La sfera dei principi tradita dall’occidente
di Roberto Esposito


Una scossa all´edificio giuridico moderno è venuta dallo sviluppo incontenibile della tecnica, capace di influire potentemente sui processi della nascita, della morte e della salute

Che rapporto passa tra diritto e valore? Possono, i diritti, in quanto prodotti storici, incarnare un valore universale, oppure sono destinati a restare in un ambito, appunto giuridico, diverso e distante da quello dell´etica e, tanto più, della teologia?
Il diritto è interno, confinante o esterno, alla sfera della giustizia? Domande, queste, cui l´intera tradizione filosofica da sempre cerca di rispondere, senza mai pervenire a una conclusione univoca. Se la scuola giusnaturalista - nata nella prima età moderna, ma ripresa da autori anche contemporanei come Leo Strauss - ha individuato nella natura la fonte di diritti universali forniti di valore eterno, la concezione positivistica ha ricondotto la creazione del diritto alla sola legislazione statale. E tuttavia, nonostante questa profonda differenza di principio, le due linee interpretative hanno conosciuto più di un punto di intreccio e di sovrapposizione - a dimostrazione del fatto che la questione del valore permanente della norma giuridica non poteva essere risolta nel flusso del processo storico. Anzi si può dire che il diritto positivo, come ancora lo concepiamo, recepisca al suo interno - secolarizzandole - le esigenze di universalismo implicite nella tradizione giusnaturalistica.
La Dichiarazione del 1789, estendendo a ogni cittadino i diritti politici, traduce sul piano reale i principi di libertà e uguaglianza presupposti dai teorici del diritto naturale. Successivamente, già dalla metà del XIX secolo, vengono proclamati altri diritti fondamentali indisponibili, cioè vincolanti per lo stesso Stato che li pone in essere.
Ultima tappa di questo processo di universalizzazione giuridica è segnata dalla Dichiarazione universale dei diritti dell´uomo, formulata alla fine della seconda guerra mondiale, che assegna a ogni persona, a prescindere da ogni altra qualificazione, diritti non soltanto civili e politici, ma anche sociali, includendo all´interno della sfera protetta tutte le minoranze prima discriminate. Il concetto, sempre più esteso e ormai accettato in tutti i paesi democratici, di "diritti umani" sembra concludere questo lungo percorso, portando il diritto positivo allo stesso obiettivo etico presupposto dal giusnaturalismo: quelle medesime prerogative che lì erano desunte da un ordine naturale non soggetto a mutamento storico appaiono adesso prodotte da una storia che ha cancellato ogni differenza pregiudiziale, di tipo etico, sessuale, religioso, tra tutti gli esseri umani. La saggezza della storia ha così eguagliato le promesse della natura. Il diritto può finalmente ambire a farsi giustizia, a realizzare il più universale dei valori - quello dell´uguaglianza tra tutti gli uomini della terra.
Questo, almeno, è il racconto autolegittimante ampiamente diffuso in tutto il mondo occidentale. Basta uno sguardo al quadrante internazionale per accorgersi che le cose non stanno affatto così. Che il diritto umano primario - quello alla vita - è continuamente smentito da infinite morti per fame, malattia, guerra. Per non parlare di libertà e di uguaglianza.
Da dove origina questo scarto scandaloso tra dichiarazioni e realtà, tra proclami umanitari e violenza omicida, tra ricchezze senza pudore e povertà senza fondo? La prima risposta a tale domanda fa capo alla inesistenza di un´istituzione internazionale dotata di capacità coattiva - cioè in grado di imporre attraverso la forza il rispetto dei diritti umani laddove vengano violati. Ma una contraddizione ancora più cospicua, perché interna allo stesso dispositivo giuridico moderno, risiede proprio nella astrattezza di termini come "soggetto" o "persona" - incapaci di dare forma e voce alla realtà materiale, corporea, di individui inassimilabili nella identità di uno stesso genere, irriducibili a una categoria generale.
Perché, al contrario di quanto si poteva pensare, con la crisi profonda degli Stati nazionali - che hanno funzionato da involucri immunitari almeno per larghe fasce di popolazione - le dinamiche di globalizzazione hanno reso ancora più sensibili quelle differenze di carattere biologico che l´universalizzazione del diritto ha immaginato di ingabbiare nelle sue paratie formali.
Una ulteriore scossa all´edificio giuridico moderno è venuta dallo sviluppo incontenibile della tecnica, ormai penetrata profondamente nella vita umana, capace di influire potentemente sui processi della nascita, della morte e della salute, e dunque incontenibile nelle griglie necessariamente generali della legge. Da qui il conflitto frequente tra soggetti di diritto contrapposti come possono essere madri e figli, giovani e anziani, uomini e donne. Rispetto ai quali è difficile - e forse controproducente - immaginare una legislazione senza falle, capace di risolvere, in nome di una legge naturale, rivelata o anche positiva, casi drammatici o altamente problematici, sui quali non esistono criteri validi per sempre, prontuari di etica, convinzioni inconcusse. In questo orizzonte complesso - in cui la sofferenza dell´uno, o dell´una, può doversi misurare con quella dell´altro - l´unico atteggiamento possibile è quello dell´attenzione e della comprensione, come ha scritto con grande sensibilità Francesco Merlo su questo giornale.
Probabilmente il diritto può accostarsi al valore, può approssimarsi alla Giustizia, solo sapendo di non poterlo fare mai del tutto. Ammettendo, e accettando, la propria imperfezione etica - manifestando il proprio limite e il proprio punto cieco. Anche questa - diceva Max Weber - è una scelta. La più difficile delle scelte.

Corriere della Sera 22.2.08
Londra Parla Minger, lo scienziato degli ibridi uomo-mucca
Nel centro degli embrioni chimera
di Mario Pappagallo


Cellule «Con le mie ricerche si potranno evitare gli aborti terapeutici»
Un giorno nel laboratorio degli embrioni chimera
I piani di Minger, lo scienziato degli ibridi uomo-mucca

Green Market. Cuore di Londra, come Trastevere a Roma. Qui c'è uno dei 35 laboratori del Wolfson Centre for Age-Related Disease, quello diretto da Stephen Minger. Americano, 52 anni, Minger è l'uomo degli «embrioni chimera», colui che vuole curare gli embrioni con malattie genetiche.

LONDRA — Green Market. Cuore di Londra. A cento metri scorre il Tamigi. Bancarelle colorate di cibi da tutto il mondo. Ostriche fresche vendute da improbabili pescatori. Un turco travestito da pastore sardo che espone cibi calabri. La parola organic, biologico, è dominante. E quel signore dalla lunga treccia grigia ben curata lungo la schiena, alto e snello, è Stephen Minger: l'uomo degli «embrioni chimera», quello che vuole curare gli embrioni con ma-lattie genetiche. L'americano più noto a Londra... e in Vaticano. Sì, perché lui inglese non è. «Ho avuto il via libera allo studio, ma non ho un pound» confida. Tradotto: non ho un euro. Colpo di scena. Per questo progetto ha perfino sfidato il governo inglese.
Cinquantadue anni, nato a New Orleans («Mio padre era un militare, con lui ho girato mezzo mondo») da 12 anni al
King's College di Londra, che con il Guys Hospital e i centri di ricerca collaterali, forma la più grande scuola di medicina d'Europa. Il suo appartamento è davanti a Tower Bridge, i suoi embrioni sono lì a 50 metri dal Green Market. Minger dirige uno dei 35 laboratori del Wolfson Centre for Age-Related Diseases.
Il badge di Minger scorre sul lettore di ingresso, lui compone un codice e la porta si apre. Eccoci nel santa sanctorum. Un team multietnico di 15 persone lavora per il buddista Minger. «Infanzia cattolica, poi attorno ai 27 anni il mio spirito ha trovato un'altra via». Un credo che influenza le sue ricerche? «Il mio credo è la scienza per il bene ». Ma come? Manipola embrioni? «Certo, ma non per creare chissà cosa. Voglio "curare" le malattie genetiche, quelle che portano agli aborti terapeutici».
Lo studio di Minger è a pian terreno, 5 metri per 4, una parete piena di schedari. In terra pile di lavori scientifici, pubblicazioni, progetti. La scrivania ad angolo divisa con la segretaria Sarah, una barbie bionda, vestito blu attillato e tacchi da 10 centimetri che cerca su Internet voli British per il suo capo. Appena rientrato dalla California, è in partenza per Cina e India. Una bottiglia di rosso, forse un dono, aspetta sopra gli schedari. Sembra lo studio di un investigatore privato, stile Philip Marlowe. E investigatore Minger lo è. Ha ricevuto, lo scorso gennaio, l'autorizzazione (per un anno) a procedere con gli embrioni chimera. «Mai chiamati così, io li chiamo interspecie e ora nel progetto ufficiale la loro sigla è Ad mixed» specifica. Una sfida. «Sì, ma eticamente più corretta di quelle autorizzate a Newcastle e Edimburgo in cui si creano embrioni da cellule adulte e ovuli umani ». Perché? Lei non crea ibridi interspecie? «No, io uso una cellula uovo di mucca come involucro "fertilizzante" per la cellula umana completa e malata. Una scarica elettrica dà l'input alla trasformazione: dall'adulta ecco due cellule di embrione che iniziano a raddoppiarsi. Ma nell'embrione che ne deriva non c'è traccia di Dna bovino». La preparazione dell'uovo di mucca dura una notte: pulito di ogni traccia di Dna. La scintilla di vita è una scarica elettrica, stesso metodo che diede vita alla pecora Dolly. Quando parte il progetto? «Forse ad agosto, forse tra un anno. Devo trovare un milione e mezzo di sterline (circa 2 milioni di euro). Ho avuto l'autorizzazione ma nessun fondo» ripete. Sterline per comprare un «tavolo vibrante» per lavorare con le staminali, due potenti micromanipolatori, un altro microscopio. «Poi 2-3 ricercatori in più». Da 7 anni Minger lavora sulle staminali, prima si occupava di terapia genica. «Il mio obiettivo è capire cosa accade nella fibrosi cistica e nella corea di Huntigton. Su che cosa accade nell'embrione prima e nel feto poi non si sa nulla. Dai 6 giorni ai 6 mesi. Voglio sapere come si differenziano cellule in apparenza tutte uguali, tutte predisposte a tutto, ma che in una malattia genetica a un certo punto fanno un'altra cosa. Per capirlo inserisco una cellula adulta di un malato nell'uovo bovino e creo l'embrione da studiare. Più osservo, provo terapie, più è probabile arrivare a una "cura" talmente precoce da seguire di poco la diagnosi preimpianto ». Aborti terapeutici addio? «È il mio obiettivo». Perché non usare allora ovuli umani, come hanno chiesto e ottenuto Newcastle e Edimburgo? «Perché la possibilità di riuscita è difficile: ogni 2.000 ovuli riescono 14 embrioni. E gli ovuli di donna vanno trovati: è vietato pagarli. A Newcastle e Edimburgo offrono uno sconto del 50% per la fecondazione artificiale a chi li dona ». Non lo dice, ma ritiene questa via meno etica dei suoi Ad mixed.
E, invece, quanta fatica per quell'ok senza fondi. «Subito il no del governo, poi la pressione dell'opinione pubblica: 300 associazioni di malati in appoggio al mio progetto. Così, nell'agosto 2007, l'Authority ( Hfea) comincia l'esame. Due mesi di ispezioni nel mio laboratorio». Da chi è composta l'Authority? «Da 17 membri: scienziati, teologi, legali, rappresentanti dei malati. C'è anche un vescovo. È molto severa».
Hobby? «No, poco tempo... Qui ho la mia fidanzata». Apre la porta delle stanze a pressione differenziata. Locali asettici. Camici e copriscarpe. Primo piano. Ricercatori al lavoro. «Ecco Vanessa, la mia fidanzata». Sorpresa. È un macchinario. Una supermacchina fotografica con tre obiettivi in linea. «Le colture di cellule embrionali stanno qui 5 giorni mentre si moltiplicano e i tre occhi di Vanessa le immortalano ogni 30 minuti. Ne viene un film da cui vediamo tutto quanto accade». Mostra un embrione di topo ai primi stadi. Genitori con malattia cardiaca ereditaria. Le cellule si differenziano. «Ecco. A un certo punto i geni fasulli danno un ordine incompatibile con il progetto giusto. Noi cerchiamo di individuarlo. E se l'errore è in una proteina, possiamo correggere. Avere un topo sano». Il sogno: fare lo stesso con l'uomo.
Il team Minger con due dei suoi quindici collaboratori

Lo scienziato
Stephen Minger, cinquantadue anni, è nato negli Stati Uniti, a New Orleans. Da dodici anni lavora al King's College di Londra che, con il Guys Hospital e i centri di ricerca collaterali, costituisce la più grande scuola di medicina e di ricerca biomedica d'Europa.
Oggi Minger, un ex cattolico che ha abbracciato il credo buddista, è il direttore di uno dei 35 laboratori del «Wolfson Centre for Age-Related Disease»: con lui lavora un team di quindici ricercatori
La ricerca
A gennaio Minger ha ricevuto il via libera dall'autorità britannica per procedere con le sue ricerche di «Ad mixed», una tecnica nota anche come «embrioni chimera». Lo scienziato inserisce una cellula adulta di un malato nell'uovo bovino, al quale è stato precedentemente tolto il nucleo, e in questo modo crea l'embrione da studiare
Le polemiche
Il lavoro di Minger è stato criticato per i problemi etici che solleva: la creazione di «cellule ibride» implica infatti la fusione di materiale genetico umano e animale
La difesa
Minger sostiene che gli embrioni prodotti dal suo laboratorio non saranno impiantati, ma serviranno a studiare lo sviluppo di malattie genetiche osservando quello che accade nell'embrione e nel feto, scoprendo il momento in cui i geni malati danno ordini incompatibili con il progetto «giusto», e creando le condizioni per intervenire in tempo

Corriere della Sera 22.2.08
Da Londra a Roma
«Gli italiani? Usano le cellule vietate»

Il contenitore della crioconservazione: permette di congelare e quindi conservare gli embrioni. Un procedimento in Italia vietato dalla legge 40

LONDRA — Accusato di ricerche non etiche, dalla manipolazione degli embrioni alle cosiddette chimere. «Ogni volta che vengo in Italia e parlo a un convegno scateno un putiferio». Stephen Minger non riesce a capire perché. «Nel 2002 in Gran Bretagna è stato autorizzato l'uso degli embrioni congelati orfani: dopo 5 anni che sono congelati si buttano o si usano a fini di ricerca. Trovo etico studiarli per trovare il rimedio a malattie incurabili, invalidanti, disumane nella loro espressione». Da questa scelta del governo inglese è nata a Londra una banca centrale di linee cellulari embrionali, la Nibsc. «Le sue linee di cellule staminali servono per fare ricerca in tutto il mondo» spiega Minger. Un affare. «No.
Questo sarebbe non etico. Sono offerte gratuitamente ai centri accreditati che le richiedono». Anche in Italia, dove si lavora solo sulle staminali adulte? «Anche in Italia, secondo la chiesa questi ricercatori rischiano la scomunica». Sono anni che si parla di staminali embrionali per curare Parkinson, Alzheimer, diabete di tipo I. E ancora di applicazioni sull'uomo non se ne parla?
«Due compagnie in California hanno chiesto l'autorizzazione all'Fda (l'agenzia federale di controllo sui farmaci): la Geron per le lesioni alla spina dorsale e l'Act per curare la retinite pigmentosa». Tradotto: per riuscire a ridare il movimento ai paralizzati e la vista a chi è destinato alla cecità. E poi? «In India, a Bombay, una ricercatrice sta infondendo staminali embrionali a tutti i pazienti che le capitano. Autorizzata dal governo, ma senza regole. Un grave rischio... E forse anche altrove accade lo stesso». Minger confronta questi esempi fuori etica alla sua difficoltà per avere l'autorizzazione. E creare organi ex novo? «Occorrono miliardi di cellule. Sarà un passo successivo. Forse però tra due anni...».
M. Pap.

Corriere della Sera 22.2.08
Università
Stop alla Bossi-Fini per i ricercatori esteri

ROMA — Da ieri, niente più vincoli della legge Bossi-Fini sull'immigrazione per i ricercatori extracomunitari. Lo ha annunciato il ministero dell'Università e ricerca. «Con il decreto legislativo 17/2008 in vigore da ieri — spiega il ministero — i cittadini extracomunitari che vorranno soggiornare in Italia per scopi di ricerca potranno entrare al di fuori delle quote della Bossi-Fini».
Infatti, con il recepimento della direttiva europea sull'ammissione di cittadini di Paesi terzi ai fini di ricerca scientifica, gli istituti «potranno stipulare convenzioni di impegno per i cittadini stranieri e chiedere il visto evitando spiacevoli trafile. Le convenzioni avranno validità per tutto il tempo stabilito dal programma di ricerca».

Corriere della Sera 22.2.08
Ipotesi. In un saggio di Brian Everitt la storia di una disciplina matematica nata a un tavolo da gioco
La teoria del caso contro la fede
Rifugiarsi nella religione o affidarsi alla statistica: alle origini della scienza
di Sandro Modeo


«In principio era il Caso, e il Caso era presso Dio, e il Caso era Dio». Questa variazione eversiva del sublime incipit del Vangelo di Giovanni — attacco del romanzo L'uomo dei dadi di Luke Rhinehart (Marcos y Marcos) — è incisa sulla porta d'ingresso del percorso cui ci invita Brian Everitt, direttore dell'Istituto di Biostatistica al King's College di Londra, con il saggio Le leggi del caso (Utet).
Se in principio c'è il caso, il caso diventa il principio-guida di una lunga cascata di eventi: «per caso» il nostro universo (come i molti universi paralleli ipotizzati dalla fisica) è sbocciato da una fluttuazione del vuoto o, almeno, dall'esplosione di un agglomerato superdenso, portando con sé anche l'idea del tempo; «casuali» sono le incessanti mutazioni senza scopo con cui l'evoluzione ha operato (come un «orologiaio cieco ») per selezionare le specie più adatte nel rispondere alle sollecitazioni dell'ambiente; e la «casualità» sovrintende ai tanti microeventi che condizionano la nostra esperienza individuale, come infiniti «sentieri che si biforcano».
Immerso in questa tirannia dell'aleatorio, l'uomo può reagire soprattutto in due modi. Può affidarsi a una prospettiva — quella religiosa — che inquadra il caso come una limitazione del nostro sguardo, incapace (secondo sant'Agostino) di cogliere le regole e l'armonia del paesaggio cosmico; prospettiva, com'è noto, insita anche in certe implicazioni della scienza (il famoso «Dio non gioca ai dadi» di Einstein). Oppure — più modestamente — può affidarsi alla disciplina di Everitt, la statistica, sola strategia per venire a patti col caso e rendere «l'incertezza più certa».
La riconduzione del caso al divino nel mondo antico — ricorda Everitt nella parte storica del libro — ha prodotto una lunga serie di sopraffazioni arbitrarie, se ai dadi (e al loro antefatto, gli astragali, ricavati dalle ossa della caviglia di pecora) venivano affidate la giustizia (come nell'antica Roma) o la distribuzione della terra (come testimonia la Bibbia). E anche molto dopo la sconfessione di tale pratica da parte del cristianesimo (i dadi, per san Cipriano, sono una creazione di Lucifero), la concezione oracolare del caso ha continuato a produrre orrori: nella colonia penale dell'isola australiana di Norfolk — negli anni Trenta dell'Ottocento — veniva imposto un sorteggio di pagliuzze tra coppie di detenuti, che designava come condannato chi pescava la più corta e come boia chi pescava la più lunga. Del resto, prima di rendersi autonoma, la statistica stessa nasce come «effetto collaterale» delle scommesse nelle bettole e nei caffè sei-settecenteschi: snodo decisivo, il rapporto tra il Cavalier de Méré — accanito giocatore di dadi che sembra uscito da Barry Lyndon di Kubrick — e il suo «consulente» Pascal.
Affidarsi alla statistica e al calcolo delle probabilità — come a ogni altra scienza — significa anzitutto procedere contromano rispetto al senso comune e ai pregiudizi. Everitt allerta così i giocatori e gli scommettitori di ogni ramo (roulette, poker, cavalli) a non lasciarsi travolgere dalle «rotazioni immaginarie» del malinteso concetto di «media»: dopo dieci lanci di monetina in cui è uscito «testa», la probabilità che esca «croce » all'undicesimo, è la stessa che al primo, cioè il 50 per cento. Oppure invita i cultori della «coincidenza » (quelli che rimangono sconvolti per aver sognato dopo molto tempo un parente il giorno prima che morisse) a collocare gli eventi sorprendenti nella legge dei grandi numeri, senza confondere il «raro» col «soprannaturale». Che una coincidenza abbia «una probabilità su un milione» di realizzarsi, significa, in un Paese come gli Stati Uniti (di 250 milioni di abitanti), 250 coincidenze al giorno e quasi 100.000 l'anno. Non solo. Entrando nel vivo della propria professione, Everitt dimostra come la statistica possa fornire contributi decisivi alla scienza medica. L'evidenza empirica dei dati nella sperimentazione clinica, infatti (specie attraverso il cosiddetto «doppio cieco», cioè col medico e il paziente all'oscuro della cura sotto verifica), ha da un lato falsificato certe teorie della medicina ufficiale (quella sulla vitamina C come rimedio per il raffreddore) o evidenziato l'ambiguità di certe pratiche diagnostiche (vedi il lungo capitolo sui «falsi positivi» di certi esami), dall'altro ha drasticamente ridimensionato l'efficacia di tante cure alternative, dall'agopuntura all'omeopatia.
L'unica domanda inevasa — nel percorso di Everitt — è quella sull'ostinazione con cui sfidiamo certe leggi fino al masochismo. Eppure la biologia evoluzionistica e la neuropsicologia ce lo spiegano in modo convincente. Se continuiamo a puntare in un ippodromo o in un casinò sapendo di arricchire gli allibratori o il banco, è per una forma di addiction, di dipendenza, in cui il rischio fine a se stesso scatena maggior piacere persino della vincita. Se vediamo coincidenze dappertutto, è perché il nostro cervello è programmato per scremare ordine dal caos e senso dal nonsenso. E se giochiamo alla lotteria pur avendo chances quasi nulle di successo, è perché immaginarsi una vita più agiata aiuta a sopportare l'opacità di quella che conduciamo. In fondo, anche nei nostri comportamenti più complessi, siamo guidati da pulsioni adattative: per vivere o solo per sopravvivere, dobbiamo ricorrere all'illusione e al sogno; qualche volta, anche alla menzogna.

L'autore
Brian Everitt dirige l'istituto di Biostatistica al King's College di Londra.
Il suo libro «Le leggi del caso. Guida alla probabilità e al rischio», traduzione di Costanza Masi è edito da Utet (pp. 194, e 20)

Il Riformista 22.2.08
Domenica si vota ad Amburgo
L'ex Germania orientale riscopre i comunisti
E la Spd è costretta a ripensare un'alleanza
Ora in Assia la situazione è complicata per i socialdemocratici
Di Paolo Petrillo


Berlino. Dopo la caduta del Muro di Berlino, le regioni della Germania orientale si affidarono compatte al cancelliere della riunificazione Helmut Kohl e alla sua Cdu. Oggi, a quasi vent'anni di distanza e dopo molto speranze deluse, la situazione è cambiata al punto che il posto di prima forza politica potrebbe essere ricoperto dai neo-comunisti di Die Linke. È quanto emerge dall'ultimo sondaggio dell'Istituto demoscopico Allensbach: almeno stando alle intenzioni di voto, nei Laender orientali Die Linke supera la Cdu di oltre tre punti - 29,7 contro 26,4 - e relega i socialdemocratici dell'Spd al ruolo di terzo partito, con il 23,3 per cento dei consensi. A livello federale i risultati non sono così macroscopici, ma con l'11,8 per cento delle indicazioni, Die Linke eguaglia i liberali dell'Fdp, diventa a pari merito il terzo partito del Paese e soprattutto si conferma nuovo ago della bilancia del panorama politico tedesco. A fare le spese del crescente peso dei neocomunisti sono i due grandi partiti popolari: la Cdu e, ancor più, l'Spd.
Per arginare la concorrenza a sinistra, i socialdemocratici hanno già provveduto a modificare programmi e parole d'ordine, riscoprendo l'attenzione per le fasce deboli; ma a fronte di un elettorato sempre più scettico nei confronti del mondo politico e dei suoi protagonisti, la manovra pare aver dato finora risultati modesti, o almeno non decisivi. Prova ne sia l'esito del voto regionale in Assia del 27 gennaio scorso, dove pur battendo (d'un soffio) la Cdu, i socialdemocratici si trovano ancora in una situazione di stallo, impossibilitati dai numeri ad andare al governo con i Verdi e incapaci di convincere i liberali a dar vita alla cosiddetta «coalizione semaforo». La soluzione potrebbe offrirla un'alleanza con Die Linke, ma l'Spd ha finora sposato una linea d'intransigenza nei confronti del partito di Gysi e Lafontaine, garantendo a più riprese che mai e poi mai i socialdemocratici avrebbero accettato di lavorare con i neo-comunisti. Ora la situazione in Assia mostra quanto sia difficile per l'Spd mantener fede alla parola data, se non vuole regalare la vittoria alla sconfitta Cdu, e offre così un anticipo di quello che potrebbe succedere fra poco a livello federale. «L'errore - spiega al Riformista Thomas Schmid, editorialista e caporedattore di Die Welt - i socialdemocratici lo hanno commesso alla fine degli anni Novanta, quando dissero di non voler considerare il nascente Pds come un possibile partner di governo. La stessa linea è stata poi ripresa nei confronti di Die Linke. E ora l'Spd ha un problema: come cambiare rotta, senza perdere pubblicamente la faccia?».
Così, fra i successi dei neocomunisti si può ora annoverare anche questo: aver costretto l'Spd a muoversi a due livelli: quello ufficiale, per cui si continua a rifiutare ogni ipotesi di collaborazione. E quello ufficioso, fatto invece di manovre d'avvicinamento e prove di disponibilità. Solo che il tempo stringe, il voto parlamentare per l'elezione del capo del governo regionale in Assia è fissato il 5 aprile, e le prime crepe cominciano ad aprirsi anche a livello di comunicazione ufficiale. Parlando ieri con la stampa, il leader dell'Spd Kurt Beck ha nuovamente respinto l'idea di un'alleanza di governo, ma ha ammesso che pur di garantire la nomina della candidata socialdemocratica in Assia, Andrea Ypsilanti, si potrebbe far ricorso ai voti dei deputati eletti nelle fila di Die Linke. Alcune voci accennano anche a un piano a due tappe, concepito durante una «cena segreta» fra Beck e Ypsilanti: guadagnarsi il governo con l'appoggio dei neocomunisti, poi tornare al voto dopo cinque o sei mesi con il vantaggio di condurre la campagna elettorale dai banchi della maggioranza. Voci seccamente smentite dai portavoce del partito, ma che intanto hanno offerto a Cdu e Fdp il destro per chieder conto delle reali intenzioni dei socialdemocratici, accusati di progettare una «truffa agli elettori». «Il comportamento dell'Spd in Assia - ha dichiarato Nicola Beer, esponente liberale - è importante anche per i cittadini di Amburgo». Già, perché domenica prossima si vota per il rinnovo del parlamento nella città anseatica. E anche qui, Die Linke potrebbe confermare il suo nuovo ruolo di ago della bilancia.

Repubblica 22.2.08
Scontro sull'articolo 18
La Sinistra contro Ichino: "Servo del padrone"
di Concetto Vecchio


ROMA - Il più tranchant, Rizzo del Pdci: «Ichino? Servo del padrone». Diliberto lo accomuna a Berlusconi. Per Palermi «dà un calcio in faccia ai lavoratori e ai loro diritti». La Sinistra Arcobaleno va all´attacco di Pietro Ichino, il giuslavorista milanese che ha accettato di correre in Lombardia nelle liste del Pd e che ieri su Repubblica si è detto favorevole a «una riforma della disciplina dei licenziamenti», una messa in discussione dell´articolo 18 dello statuto dei lavoratori, che disciplina il divieto di licenziamento senza giusta causa. «Sarebbe una misura incisiva contro l´abuso del lavoro precario».
Violente e compatte le reazioni della Sinistra arcobaleno, al punto che il socialista Lanfranco Turci ha paragonato Rizzo ai brigatisti rossi: «La virulenza del suo linguaggio è la stessa adottata da coloro che costringono il professor Ichino a vivere sotto la tutela continua delle forze di polizia e che hanno già colpito Marco Biagi e Massimo D´Antona». Nella candidatura dell´autore di libri come "A cosa serve il sindacato" e "I nullafacenti", Franco Giordano, segretario del Prc, vede «la volontà di favorire una politica economica di stampo liberista». Salvi (Sd) paventa già l´ipotesi Ichino ministro del lavoro: «Contro la precarietà la ricetta del Pd è quella dei licenziamenti facili». «Anch´io - dice il candidato premier Fausto Bertinotti - sono per una revisione dell´articolo 18, nel senso che sono per estenderlo a tutti». Ovvero anche alle aziende con meno di 15 lavoratori. Rifondazione nel 2003 promosse un referendum che fallì per mancanza di quorum. Alla fine Giorgio Tonini, responsabile economico del Pd, ha parato tutte le critiche: «Il contributo intellettuale che Ichino sta dando all´elaborazione di una linea moderna di politica economica e di lavoro è di primo piano ed è un contributo prezioso». Per poi mettere i puntini sulle idee: «Le idee si discutono, Ichino preferisce il contratto unico, nel nostro programma si sono preferite proposte diverse che non riaprono la questione dell´articolo 18».

L'espresso n.8 2008
Partigiani. Si chiude una pagina controversa
Torna la volante rossa
di Paolo Biondani


Condannato all'ergastolo nel '49. Fuggito a Praga. Graziato da Pertini. Oggi riabilitato. Il capo della banda milanese rientra in Italia: 'Voglio votare'

La sua vita è una pagina di storia. Macchiata di sangue. Sessant'anni dopo la sua clamorosa fuga a Praga con il marchio di superlatitante protetto dal regime comunista, Paolo Finardi, classe 1928, ultimo capo della Volante Rossa, sta per tornare in Italia, da libero cittadino, per votare alle elezioni. Condannato all'ergastolo come esecutore dei due omicidi che nel 1949 segnarono la fine di quella 'mitica' o 'famigerata' (non esistono vie di mezzo) organizzazione armata, l'ex subcomandante 'Pastecca' - il suo nome di battaglia - aveva già ottenuto la grazia il 26 ottobre 1978 dall'allora presidente della Repubblica, il socialista Sandro Pertini. Ora che il tribunale di Milano gli ha concesso anche la "riabilitazione", cancellando così tutti gli effetti della condanna, Finardi ha riacquistato i diritti civili, come se fosse incensurato, e intende esercitarli: "Voglio partecipare alle elezioni del 13 aprile. Voterò per il blocco della sinistra, io non ho cambiato bandiera".

Dal telefono della sua abitazione di Brno esce una voce forte, ancora impastata di accenti lombardi. "Ero rientrato in Italia per votare già alle ultime amministrative, ma il sindaco di Segrate me l'ha impedito. Per questo ho chiesto la riabilitazione". Aveva appena 17 anni, Finardi, quando entrò nella Volante Rossa, il gruppo armato comunista che tra il 1945 e il '49 firmò decine di attentati rivendicando l'eredità della Resistenza anche dopo che la guerra era finita. I fondatori erano ex partigiani della Brigata Garibaldi, delusi dal mancato avverarsi dei loro sogni di rivoluzione. Erano tutti giovanissimi - il loro 'comandante', Giulio Paggio detto 'Alvaro', era un ventenne - e agivano su un doppio binario: la militanza pubblica (con propri tesserini e divise: giubbotti in pelle dell'aviazione americana) culminata nel ruolo di servizio d'ordine al sesto congresso del Pci nel gennaio 1948 a Milano; e il livello clandestino, con pestaggi, ferimenti e omicidi di avversari politici, soprattutto ex repubblichini. Il 27 gennaio 1949 'Pastecca' partecipò personalmente ai due omicidi in un giorno dopo i quali la polizia arrestò quasi tutti gli associati: 23 furono condannati nel 1951 a Verona, ma i capi, tra cui Paggio e Finardi, sfuggirono all'ergastolo rifugiandosi nell'allora blocco sovietico. 'Pastecca', che non ha scontato neppure un giorno di carcere, non si è mai pentito e rifiuta ancor oggi di definirli omicidi: "Abbiamo giustiziato il fascista che capitanò il plotone d'esecuzione del partigiano Curiel e l'agente dell'Ovra che fece fucilare sette compagni all'Ortica. Abbiamo eseguito solo le sentenze che lo Stato italiano rioccupato dagli uomini del regime non voleva più fare".

Questo concetto di giustizia proletaria che può condannare a morte senza processo e senza prove ha fatto entrare la Volante Rossa nella mitologia costitutiva di tutte le bande di terroristi rossi che hanno insanguinato l'Italia dagli anni '70. Finardi però rifiuta qualsiasi accostamento con le Brigate rosse: "Per me erano provocatori. Le loro velleità di lotta armata sono servite solo a spostare l'Italia a destra. Qualche imbecille ha scritto che li avremmo addestrati o protetti noi. Sono tutte balle. Io non ho mai conosciuto un brigatista. Anzi, ho sempre pensato che fossero manovrati dagli americani. E il caso Moro lo dimostra". Dopo quasi 50 anni, Finardi accetta di svelare il segreto della sua fuga: "È vero, a scortarci in Cecoslovacchia fu una staffetta del Pci. Ma non abbiamo mai avuto contatti al vertice del partito". Finardi non dimentica che Togliatti nel febbraio '49 denunciò su 'l'Unità' gli "atti di terrore" della "presunta Volante Rossa".

Alla richiesta di riabilitazione, accolta sette mesi fa dal tribunale di sorveglianza, il suo avvocato Sandro Clementi ha allegato l'intero curriculum di Finardi, certificato dall'ente pensionistico di Praga: 35 anni di lavoro, senza alcun problema con la legge, prima nei campi (mietitore di grano), poi nell'industria pesante (operaio saldatore e tornitore), quindi come tecnico del rame (anche a Cuba) e infine, dopo il 1989, capo-settore di un'azienda di trasporti. Come tutti i suoi "amici e compagni di Praga", anche Finardi ha avuto paura dell'invasione sovietica: "Dopo la primavera del '68, noi comunisti italiani siamo stati isolati e distanziati. Anch'io ho temuto il peggio. Mi ha salvato il mio caposquadra: era del partito, ma era in gamba".