sabato 25 febbraio 2012

l’Unità 25.2.12
Dopo quasi 50 anni il quotidiano «espulso» dalla fabbrica bolognese della Magneti Marelli
Via “l’Unità” dalla bacheca
La protesta de l’Unità


La solidarietà del centrosinistra

«È sconcertante la decisione della Magneti Marelli di Bologna di impedire l’affissione dell’Unità all’interno della fabbrica», commenta Claudio Sardo, direttore de l’Unità. «Si tratta di uno strappo grave: si avverte una spinta ideologica a tagliare le radici che rischia di colpire la libertà di espressione e la coesione sociale».
Dalle forze del centrosinistra arrivano numerose dichiarazioni di solidarietà al nostro giornale, dalla Federazione della Sinistra all’Italia dei Valori. Di scelta «semplicemente grottesca» parla l’ex ministro del Lavoro Cesare Damiano. «Se con questa iniziativa si vuole impedire ai lavoratori di aver libero accesso all’informazione, nel tempo di Internet, il caso non può che far sorridere. Se si tratta di dare un segnale di nuovo corso nelle relazioni sindacali, restrittivo e dispotico, dobbiamo preoccuparci molto». Per il segretario Fiom Maurizio Landini si tratta dell’ennesima conferma: «Negli stabilimenti Fiat la democrazia è negata». Matteo Orfini, Responsabile cultura e informazione del Pd, dichiara: «È molto grave che un’azienda del gruppo Fiat limiti gli spazi di libertà e il diritto di informazione dei lavoratori assumendo atteggiamenti illiberali. Ci auguriamo che rimedi all’incredibile errore».
Di decisione «inquietante» parla Pier Paolo Baretta, deputato Pd ed ex dirigente della Cisl. «È una prova di debolezza e di arroganza insieme, un brutto gesto di censura che non può essere giustificato dalla difficoltà delle relazioni sindacali». Il segretario dei Giovani democratici Fausto Raciti accusa l’azienda di una «furia ideologica di cui nessuno ha bisogno». E pensare, osserva il senatore del Pd Roberto Di Giovan Paolo, che l’Unità «la comprano quelli che hanno votato no e quelli che hanno votato sì al referendum sul contratto».




l’Unità 24.2.12
Comunicato dell’assemblea di redazione


Il Comitato di redazione e l’assemblea dei redattori de l’Unità denunciano la perdurante mancanza di certezze sul futuro del giornale.
In assenza di un quadro certo di ricapitalizzazione il Cdr manterrà una linea ferma in difesa dello sviluppo della testate e dei livelli occupazionali, delle sue caratteristiche e del suo insediamento.
Il sindacato ricorda che non sarebbero accettabili, tanto più in questo quadro di incertezza, atti unilaterali da parte dell’azienda.
Quello di cui oggi l’Unità ha bisogno è un segnale di netta discontinuità rispetto al passato. Si ricorda che si è ancora in attesa di quel piano di rilancio che doveva seguire lo stato di crisi conclusosi lo scorso maggio e costato alla redazione sacrifici pesanti.
Abbiamo ben chiare le difficoltà che tutto il settore dell’editoria attraversa in questo momento. Ma è con una vera strategia di rilancio che valorizzi tutte le professionalità presenti in redazione che sarà possibile farvi fronte e assicurare un futuro a l’Unità.
Auspichiamo per questo che le procedure per l’aumento di capitale e la messa in sicurezza del giornale siano tempestive e adeguate e che in questa fase particolarmente delicata della vita del giornale, ciascuno faccia la propria parte con senso di responsabilità.
Proprio con questo spirito costruttivo la redazione chiede al direttore un incontro urgente sul prodotto che favorisca la strategia di rilancio.
L’ASSEMBLEA DELLE REDATTRICI E DEI REDATTORI DE L’UNITÀ

il Fatto 25.2.12
Miracolo! La Chiesa paga l'Ici
Ci ha costretti l’Europa, ma ci voleva un sobrio liberale come Mario Monti per cancellare i regali di B. e Bersani al Vaticano. Gettito previsto: da 600 milioni a un miliardo. Ma niente arretrati. Salta il fondo per abbassare le tasse
Abolita dal 1° gennaio 2013 l’esenzione sugli immobili commerciali degli enti ecclesiastici. Malumori nel Pdl, il no dei salesiani e il silenzio della Cei
Bene, ma non basta
di Marco Politi

La Chiesa pagherà finalmente l’Ici anche per gliimmobilidovesvolgeattivitàcommerciali, in toto o in parte. Ci voleva un sobrio signore liberale come Monti, cattolico senza etichette, per rimediare ai favoritismi spudorati del governo Berlusconi e alle pasticciate soluzioni di un centrosinistra (anno 2006) sempre tallonato all’interno – ieri come oggi – dai reggicoda vaticani, travestiti da pensosi difensori della fede.
Va ricordato, però, che senza la minaccia delle sanzioni europee, su input dei Radicali, nessuno sarebbe intervenuto. Ancora una volta l’Italia si è rivelata non adulta nei rapporti tra Stato e Chiesa, dovendo ricorrere all’aiuto di Bruxelles.
Sebbene il governo escluda ogni sanatoria, ci sarà un’amnistia di fatto per l’enorme pregresso evaso. Con le elezioni in vista i comuni di centrodestra e di centrosinistra tenderanno a chiudere entrambi gli occhi su accertamenti riguardanti il passato. È la contropartita offerta ai vertici ecclesiasticioltreall’abbuono(unpo’ bizzarro) per l’anno fiscale 2012. Ma sarebbe un errore considerare già chiusa la vicenda. Il bello deve ancora venire. Perché toccherà al ministero delle Finanze stabilire le direttive sul “rapporto proporzionale tra attività commerciali e non commerciali” all’interno di uno stesso immobile. In Italia, dove la maggioranza dell’attuale Parlamento ha sancito che Ruby è nipote di Mubarak, si apre la strada – nelle prossime settimane – a infinite proposte di azzeccagarbugli. Furbeschi suggerimenti per calcolare migliaia di metri quadrati “esenti”, in quanto necessari per accedere alla celebre cappellina.
Un assaggio delle manovre ecclesiastiche, già in corso per determinare il testo delle direttive ministeriali, si coglie nel documento vaticano del 2011, pubblicato recentemente dal Fatto, dove si dava per scontato un accordo con l’allora ministro Tremonti per valutare la natura commerciale della quota tassabile di immobile secondo “superficie, tempo di utilizzo e ricavo”. Tassabile solo dalle 8 alle 17? Un’idea degna di un Ghedini. Perciò da cassare.
Se il ministro delle Finanze (Monti) vuole facilitare la strategia di trasparenza del premier (Monti) sarà bene esigere anche la pubblicazione dei bilanci delle diocesi. Meglio abbondare in europeismo.

Corriere della Sera 25.2.12
Vince l'asse tra il premier e l'Europa
di Massimo Franco


P iù che con vescovi e Vaticano, l'asse è stato col vicepresidente della Commissione Ue, Joaquin Almunia. Un ferreo, impenetrabile «asse del silenzio» che ha permesso a Mario Monti di impedire fughe di notizie su un testo preparato da una decina di giorni; e condiviso esclusivamente con i vertici europei che stavano verificando se l'Italia avesse infranto qualche norma. L'obiettivo era di inserire al momento opportuno le modifiche che mettono fine all'esenzione dell'Ici (ora si chiama Imu) per gli edifici commerciali della Chiesa cattolica dal 1° gennaio 2013; e in un provvedimento come quello sulle liberalizzazioni che contiene una parte sul fisco e una sull'Europa.
La nota con la quale ieri sera il presidente del Senato, Renato Schifani, spiega perché ha ammesso l'emendamento smonta le polemiche di alcuni esponenti del Pdl col Quirinale: la loro tesi è che la modifica contraddice l'invito di Giorgio Napolitano a non inserirne troppe nei decreti per non snaturarli. Monti non solo l'ha presentata ma la rivendica, firmandola. Nel doppio ruolo di presidente del Consiglio e di ministro dell'Economia, vuole farsi garante davanti all'Ue dell'approvazione del documento entro marzo. Si tratta di una sorta di scudo protettivo, per scoraggiare strumentalizzazioni clericali e anticlericali.
Ma soprattutto, l'intento è di rendere chiaro agli interlocutori internazionali che un tema così incandescente non viene affidato ad un qualunque decreto, ma a quello sul quale il governo scommette una fetta della propria credibilità. Forse, è stata proprio la capacità di tenere tutto riservato la cosa che colpisce di più. I tentativi di avere anticipazioni sono stati frustrati: al punto che qualcuno aveva cominciato a ipotizzare che i «veti vaticani» avessero bloccato la decisione. In realtà, un'intesa di massima era stata raggiunta da tempo attraverso contatti tanto informali quanto segreti.
E le gerarchie cattoliche, sebbene poco entusiaste, avevano capito che il governo stava per compiere una scelta inevitabile per scongiurare conflitti e multe salate da parte dell'Europa. Il dossier in mano ad Almunia, che è anche commissario per la concorrenza, andava chiuso prima della sentenza prevista come massimo a maggio: un responso destinato ad aprire un contenzioso con la Cei. D'altronde, c'era la presa d'atto della necessità di abrogare le norme «che prevedono l'esenzione per immobili dove l'attività commerciale non sia esclusiva, ma prevalente», nella prosa di Palazzo Chigi; anche se giustamente, gli edifici destinati solo all'assistenza e ad attività caritatevoli, continueranno a non pagare l'Ici.
Rimane da capire quali effetti avrà l'iniziativa di Monti sui rapporti fra la classe politica e il mondo cattolico. Nella Seconda Repubblica, Cei e Vaticano sono stati usati spesso dai partiti per sottolineare vicinanze o distanze politiche e sul piano dei valori. Un provvedimento gestito direttamente da Palazzo Chigi, senza mediazioni improprie, tende invece a cambiare il terreno di gioco e a offrire un altro modello di riferimento. Ma il problema non riguarda soltanto gli esponenti politici, alcuni dei quali ieri hanno reagito con i riflessi condizionati dal passato. In qualche misura, obbliga ad un ripensamento anche oltre Tevere.

Corriere della Sera 25.2.12
Una paginetta a firma Monti per la svolta
di Lorenzo Salvia


ROMA — Un paginetta appena, in fondo la firma di Mario Monti, il titolo scritto a penna con una grafia piccola piccola: «Norme sull'esenzione dell'imposta comunale sugli immobili degli enti non commerciali». Per far pagare la nuova Ici, l'Imu, alla Chiesa ma anche ai circoli privati, ai partiti e alle associazioni il governo ha scelto la strada di un emendamento al decreto legge sulle liberalizzazioni. Quella pagina si aggiunge al volumone ora all'esame del Senato che poi passerà alla Camera dove deve essere approvato entro il 24 marzo. L'articolo è il 91 bis, subito dopo quello che riscrive le norme per chi trasferisce all'estero la residenza fiscale. La proposta è stata subito dichiarata ammissibile dal presidente del Senato Renato Schifani. Massimo Corsaro — vicepresidente del Pdl alla Camera — si chiede se «Monti non esibisca una bolla di dispensa dal richiamo di Napolitano» che due giorni fa aveva chiesto di fermare gli emendamenti fuori tema. Ma la norma sull'Imu, dicono sia dalla presidenza di Palazzo Madama sia da Palazzo Chigi, non contrasta affatto con il messaggio del capo dello Stato. Perché, spiegano, riguarda sia l'armonizzazione con la normativa europea sia la concorrenza con la distinzione fra attività commerciali e non.
Chi paga?
La vecchia Ici non si pagava sugli immobili e sulle case usate per attività «assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive». Non solo il bed and breakfast nel vecchio convento o la scuola dalle suore ma anche la palestra gestita dall'associazione o il circolo dove si ascolta musica diventando soci. L'emendamento del governo precisa che in tutti questi casi l'esenzione resta solo se ci sono «modalità non commerciali». Se non si paga insomma, che poi sia un'iscrizione o una tessera sociale non fa differenza.
E gli immobili misti?
Il caso classico è quello dell'albergo con una piccola cappella. Prima poteva bastare questo per far scattare l'esenzione su tutto il palazzo. Adesso non più. «Qualora l'unità immobiliare abbia un'utilizzazione mista — si legge nell'emendamento — l'esenzione si applica solo alla frazione nella quale si svolge l'attività non commerciale». Niente Imu ma solo sulla cappella, non su tutto l'albergo. Sulla «restante parte dell'unità immobiliare, in quanto dotato di autonomia funzionale e reddituale» non solo si pagherà la nuova imposta ma sarà aggiornata anche la rendita catastale, ferma a vari decenni fa. Se la divisione tra parte commerciale e non dovesse essere tecnicamente complessa si procederà con una dichiarazione. I dettagli saranno chiariti in un successivo decreto ma la stessa dichiarazione «potrà essere puntualmente riscontrata e sanzionata nel caso di attestazioni false o mendaci».
Quando parte, quanto vale
Se i cittadini normali pagheranno l'Imu già a partire da quest'anno, l'abolizione dell'esenzione per gli enti non commerciali scatterà dal primo gennaio del 2013. Nelle ultime settimane erano circolate diverse stime sul possibile gettito delle nuove regole. L'Anci, l'associazione dei Comuni, aveva parlato di 500-700 milioni di euro, l'Ares, Associazione ricerca e sviluppo economico, addirittura di 2 miliardi abbondanti. Ma la cifra reale potrebbe essere molto più bassa, intorno ai 100 milioni. Il governo non indica una somma precisa: «In coerenza con il comportamento tenuto in casi analoghi, si tiene opportuno non procedere ad una quantificazione preventiva delle maggiori entrate». Ma assicura che, quando ci saranno, le risorse aggiuntive «potranno essere destinate, per la quota di spettanza statale, all'alleggerimento della pressione fiscale».
Nessuna sanatoria
Il decreto non passa un colpo di spugna sugli eventuali abusi del passato. «Tale intervento normativo — si legge ancora nella relazione — non pregiudica gli attuali accertamenti in corso e l'irrogazione di eventuali sanzioni da parte delle autorità italiane. Tale assunto comporta l'esclusione in radice di ogni forma diretta o indiretta di sanatoria».
I dubbi
Dalla Chiesa non c'è alcuna reazione ufficiale. Ma qualche dubbio riguarda l'istruzione: «Il governo dica subito se la norma riguarda anche le scuole parificate e gli asili nido» chiede Maurizio Lupi del Pdl, poiché gli istituti statali non pagano. Aggiunge Osvaldo Napoli, sempre Pdl: «Educare i ragazzi e istruirli sarà considerata un'attività commerciale prevalente oppure l'affermazione di un diritto costituzionale garantito?». Anche i salesiani intervengono sostenendo che «l'Ici sulle scuole paritarie non sarebbe né giusta né equa». La relazione si limita a dire che tutte le attività che adesso pagheranno l'Imu sono «tanto più meritevoli di considerazione nell'attuale difficile congiuntura economica».

Repubblica 25.2.12
Un lavoro fatto a metà
di Massimo Riva


Più che l´amor proprio per l´equità fiscale domestica ha contato la minaccia dell´Unione europea di una formale procedura d´infrazione per le esenzioni concesse finora ai beni ecclesiastici. In ogni caso il nodo increscioso è stato finalmente sciolto e anche in fretta. Senza nemmeno aspettare l´entrata in vigore del provvedimento sulle semplificazioni fiscali, infatti, il governo Monti ha deciso di inserire la soluzione del problema in un emendamento al decreto sulle liberalizzazioni già in corso d´esame in Parlamento.
L´applicazione dell´Imu agli edifici della Chiesa non è una vittoria dello spirito laico su quello confessionale Si attua un ovvio principio di equità fiscale troppo a lungo dimenticato
 Anticipazione assai opportuna anche perché a Bruxelles un comportamento nei fatti dilatorio da parte dell´Italia avrebbe inesorabilmente provocato a breve la notifica di una multa il cui onere sarebbe ricaduto su tutti coloro che pagano le tasse sulle loro case.
Non era e non sarebbe stato accettabile che si ripetesse la tragica farsa per cui i cittadini onesti sono stati chiamati a caricarsi l´onere della contravvenzione comunitaria per il manipolo di furbastri che hanno fatto il comodo loro con le quote latte. D´ora in poi, quindi, anche le gerarchie ecclesiastiche saranno tenute a pagare l´imposta dovuta su tutti i loro beni commerciali esattamente come fanno gli altri cittadini. Certo, saranno esclusi dal tributo tutti quegli immobili dove si svolgono attività di culto o di pura beneficenza. Ma non sarà più possibile ricorrere agli obliqui trucchi di rendere esente da tasse una clinica o un albergo (e si deve sperare anche una scuola privata a retta magari elevata) accampando che nell´edificio è presente una cappella o comunque un luogo di culto. Si andrà a distinguere per metri quadri di competenza la parte che riguarda le funzioni religiose da quella dove si esercitano attività con fine di lucro.
Al riguardo sarà comunque bene precisare che non si tratta di una vittoria di chissà quale "spirito laico" contro un altro chissà quale "spirito confessionale". Molto più banalmente si attua un ovvio principio di equità fiscale troppo a lungo dimenticato da una classe politica tremebonda su ogni tipo di rapporto con la Chiesa vaticana. Resta poco esaltante che per trovare un poco di coraggio in materia sia stato risolutivo un intervento esterno da parte dell´Unione europea ma, come s´usa dire, tutto è bene quel che finisce bene. E così pare proprio che sia destinato ad accadere in una giornata che, in tema di tasse, ha sì riservato qualche buona notizia ma anche una sorpresa indigesta.
Con il decreto sulle semplificazioni tributarie approvato ieri sera dal Consiglio dei ministri, infatti, sono stati presi provvedimenti che renderanno la vita più facile tanto ai contribuenti quanto agli uffici dell´Erario. Con benefici conseguenti anche sul fronte della lotta all´evasione perché più si moltiplicano gli adempimenti burocratici e più si offre ai ladri di tasse l´opportunità di manovre di aggiramento dell´obbligo fiscale. Viceversa è saltata la novità più attesa: quella della costituzione di un Fondo apposito per ridurre il prelievo sugli scaglioni di reddito più bassi utilizzando i proventi di cassa che deriveranno da una guerra contro l´evasione finalmente condotta con le necessarie continuità e determinazione.
I tempi dell´operazione, a quanto si capisce, diventano più lunghi. Naturalmente nessuno si poteva aspettare un taglio delle imposte a breve perché saggiamente il governo Monti intende avvalersi dei soldi recuperati agli evasori solo quando questi saranno moneta sonante nelle casse dello Stato: dunque, ben difficilmente già nell´anno in corso. Ma per rendere più credibile un simile impegno sarebbe opportuno costituire fin d´ora un apposito Fondo destinato per legge a sostenere i futuri sgravi fiscali. In ciò seguendo il modello del Fondo voluto da Carlo Azeglio Ciampi al tempo delle privatizzazioni delle aziende pubbliche al fine di destinare gli introiti delle cessioni all´esclusivo impegno di riduzione del debito pubblico. Non è chiaro perché il Consiglio di ieri abbia accantonato la questione: forse si è glissato per non esibire un tesoretto che alimentasse appetiti malsani tra le forze sociali e politiche. Ma è un peccato perché una mossa del genere, oltre a consolidare la promessa di Mario Monti agli occhi dei contribuenti, avrebbe anche il non trascurabile vantaggio di legare le mani in materia ai futuri governi. Non va dimenticato, infatti, che il primo anno in cui ragionevolmente si potrà attuare questo trasferimento di risorse dagli evasori ai cittadini meno abbienti potrebbe essere il 2014. Dopo, quindi, le elezioni politiche del 2013 dagli esiti oggi imperscrutabili. C´è solo da augurarsi che il prossimo Consiglio ponga rimedio.

Repubblica 25.2.12
"Lo Ior collabori", Severino preme sul Vaticano
Rogatorie sul riciclaggio, il ministero annuncia un intervento. La procura insiste: finora ci hanno ignorato
di Fabio Tonacci


ROMA - «Il Vaticano deve rispondere alle rogatorie sul riciclaggio». Il ministro della Giustizia Paola Severino a sorpresa interviene nello scontro, che va avanti da anni, tra procura di Roma e l´Istituto Opere di Religione. Attraverso il capo del dipartimento per gli Affari di giustizia Eugenio Selvaggi ha assicurato alla magistratura romana che metterà in atto «tutte le condotte possibili per spingere lo Ior a collaborare nelle indagini sulla morte del presidente del Banco Ambrosiano Roberto Calvi e sui soldi della mafia transitati in passato nell´istituto vaticano». Una mossa inedita da parte del governo italiano che rischia di diventare un clamoroso caso diplomatico. Anche perché proprio ieri sono arrivate alla Severino e al ministero dell´Economia due lettere, firmate dal procuratore reggente di Roma Giancarlo Capaldo, che smentirebbero la versione della Santa Sede, la quale sostiene di «aver fornito regolare riscontro alle richieste dei pm italiani».
A questo punto, bisogna fare un passo indietro. La procura romana ha inviato, nel 2002, nel 2004 e nel 2008, tre diverse rogatorie internazionali all´autorità giudiziaria vaticana. Servono a ricostruire il flusso di denaro di Cosa Nostra transitato in passato su alcuni conti. «La mafia impiegava il Banco Ambrosiano e lo Ior come tramite per massicce operazioni di riciclaggio - scrive la Corte d´Appello di Roma nella sentenza sul caso Calvi il 7 maggio 2010 - il fatto nuovo emerso è che avvenivano anche a opera di Vito Ciancimino e di Giuseppe Calò».
Non solo. Le rogatorie, se evase, permetterebbero di definire la ragnatela di finanziamenti esteri dell´Istituto e di accertare alcuni fatti legati alla morte di Calvi, trovato impiccato a Londra nel giugno del 1982. Secondo il pm titolare dell´inchiesta, Luca Tescaroli, lo Ior non ha mai risposto, ostacolando di fatto le indagini. Tanto che il magistrato il 16 dicembre 2011 ha scritto alla Severino informandola della situazione e chiedendole di intervenire. Diversa la versione della Santa Sede, ribadita con un comunicato il 9 febbraio scorso: «La rogatoria del 2002 (quella più "sostanziosa", nella quale si chiede conto dei flussi finanziari nel periodo 1976-1982, ndr) non è mai arrivata, alle altre due è stato dato regolare riscontro, indirizzato all´Ambasciata d´Italia. Le autorità del Vaticano hanno doverosamente cooperato con la magistratura italiana».
Da quanto apprende "Repubblica" da qualificate fonti governative, il procuratore di Roma Capaldo, nella nota riservata giunta ieri ai ministeri della Giustizia e dell´Economia, sostiene esattamente il contrario: le rogatorie sono state tutte inviate al Vaticano seguendo la regolare procedura, finora nessuna risposta. E Selvaggi ha telefonato in procura per annunciare l´impegno della Severino il 13 febbraio, il giorno in cui si è insediato alla direzione del dipartimento Affari di Giustizia.
La pressione diplomatica da parte del governo italiano, dunque, piomba in un momento delicatissimo per il Vaticano. Tra pochi mesi, a giugno, sarà presentato al "Moneyval Committee" del Consiglio d´Europa un rapporto su come si è adeguato al sistema antiriciclaggio dell´Unione. Si valuterà cioè se lo stato della Città del Vaticano ha i requisiti per poter essere iscritto nella "white list" dei Paesi virtuosi in materia di transazioni finanziarie, che darebbe allo Ior lo status di istituto sicuro. Una questione cara a Papa Ratzinger, tanto da averne investito il suo braccio destro, il segretario di Stato Tarcisio Bertone. «Ci siamo messi al passo aderendo alla convenzione finanziaria europea», ha detto Bertone ieri in un´intervista andata in onda su Tv7. Ma a quanto pare, finora solo a parole.

l’Unità 25.2.12
Il segretario democratico è più ottimista sull’articolo 18. Casini: «Non è il problema centrale»
Su Monti: «Bene i primi 100 giorni». Oltre il 2013? «Non credo, ci sarà un bipolarismo civilizzato»
Bersani: «Pd diviso? Siamo i soli a discutere»
Pier Luigi Bersani, il giorno dopo l’incontro con Monti, è «più ottimista» sull’articolo 18. E a Bologna respinge le descrizioni del Pd come un partito diviso: «Siamo gli unici che discutiamo».
di Adriana Comaschi


Lo spettro che troppo spesso, ancora, agita i democratici lo liquida così: «È diventato uno straccio da brandire, chiediamoci perché». Pier Luigi Bersani ieri a Bologna torna a tracciare quelli che per lui sono i confini di un confronto sull’articolo 18: «Cancellarlo non esiste, si può aggiustare qualcosa nella sua applicazione, per un reintegro ci vogliono anche sei anni». Il tema però «non è centrale», sottolinea il leader, e allora basta parlare di «un Pd diviso: sembra che abbiamo dei problemi perché siamo solo noi a discuterne».
Il leader Pd arriva sotto le due torri per una lunga giornata tutta centrata sui temi dell’occupazione e trova il ferro già caldo: da giorni le cronache registrano le polemiche seguite all’“outing” del presidente di Legacoop Bologna, Gianpiero Calzolari, sulla cooperazione che «non ha parlato abbastanza dell’articolo 18, non possiamo fare finta che la crisi non ci sia». Uscita subito stoppata dal numero uno nazionale Giuliano Poletti, ma il dibattito è aperto: il senatore Pd Gian Carlo Sangalli sposa la linea Calzolari argomentando, «l’articolo 18 è stato introdotto in  un’altra era, in Italia c’è troppa resistenza al cambiamento».
Facile capire perché Bersani tradisca l’impazienza a chi gli chiede conto di questo nuovo sommovimento dentro il partito e in un’area del mondo del lavoro tradizionalmente considerata “vicina”. Specie in terra emiliana. Di certi temi «discutiamo solo noi», ecco perché passa il messaggio di un Pd dalle mille anime sulla riforma del mondo del lavoro. Invece la direzione è tracciata, e il confronto in aula renderà giustizia ai democratici: «Nel Pd c’è libertà di parola, ma siamo gli unici ad aver presentato proposte precise in Parlamento». Ovvero «lotta alla precarietà e ammortizzatori sociali, incentivi all’occupazione femminile», ecco cosa c’è nero su bianco, «condiviso negli organismi dirigenti, nelle assemblee».
C’è poi chi già declina sul territorio: i democratici bolognesi, forti di un’indagine Ires-Cgil presentata ieri con Bersani, lanciano una campagna contro «la precarietà, male assoluto». Anche senza aspettare interventi nazionali: agli amministratori locali verrà proposto di concedere agevolazioni sulla fiscalità locali alle aziende che assumono in pianta stabile. Il primo cittadino di Bologna Virginio Merola ci sta, «potremmo differenziare le tarifffe Imu». Esempi concreti di come aggiustare il tiro, insomma, di un confronto difficile sul mercato del lavoro. Perchè, riassume il segretario Pd, «la flexsecurity non si fa con i fichi secchi». Intanto saluta come un passo avanti il faccia con il premier Monti: «Oggi sono più ottimista ammette qualche giorno fa mi sembrava ci fosse un’aria da “liberi tutti”, ognuno fa quel che vuole». E alla tavola rotonda in casa delle cooperative, a cui partecipa con Pier Ferdinando Casini, Bersani trova la sponda del leader Udc: «L’articolo 18 non è un problema centrale detta Casini -, si può discutere sui suoi effetti negativi che sono però acuiti dalla lungaggine del contenzioso giudiziario». Rilancio anche su un altro capitolo difficile: «Se si stabiliscono nuovi ammortizzatori sociali sono totalmente d'accordo con Bersani, serve il contributo del Governo».
IL RAPPORTO CON IL GOVERNO
Al premier, Bersani aveva presentato anche un ragionamento più ampio, che torna a commento dei risultati della ricerca bolognese. I questionari disegnano il ritratto di lavoratori poco pagati, insicuri, insoddisfatti anche per la scarsa possibilità di incidere sull’organizzazione del lavoro. Invece «la gente non lavora solo per mangiare, c’è un diritto a condizioni soddisfacenti, sono gli stessi concetti che ho sottoposto a Monti». Le liberalizzazioni? «Amerei che il governo si mettesse con chi vuole rafforzarle». Allo scadere dei primi 100 giorni dell’esecutivo Monti, Bersani comunque lo promuove, «ne penso bene, ci ha evitato il baratro del rischio Grecia. Noi sosteniamo questo governo: ma con le nostre idee torna a puntualizzare -. E mi capita di alzare la voce, quando vengono fuori cose pericolose». Monti resisterà oltre il 2013? «No, penso che ci sarà un bipolarismo più civilizzato». Ora però c’è altro di cui preoccuparsi. In Parlamento «non c’è una maggioranza politica, va cercata tutte le volte, ogni provvedimento va discusso un po’». E «abbiamo davanti mesi non semplici, specie per la gente comune. Questo governo può darci solo alcune cose, non tutte. Ora comincio un viaggio in Italia perché bisogna guardare con i propri occhi».

il Riformista 25.2.12
Paletti e ottimismo del leader Pd
Grande coalizione ultimatum di Bersani
Dopo aver parlato con il presidente del Consiglio Mario Monti,
Pier Luigi Bersani s’è convinto di avere in tasca il primo punto del match
contro la fronda ipermontiana del suo stesso partito
«Vedrete», ha spiegato ai suoi, «sul lavoro andrà a finire bene»
di Tommaso Labate


Difficile pronosticare che tipo di riforma soprattutto sul tema dell’articolo 18 verrà fuori dal cilindro del tandem Monti-Fornero. Di certo c’è che Bersani, dopo essere stato rassicurato dal presidente del Consiglio in persona («Puntiamo all’accordo con tutte le parti sociali»), è molto più disteso. Al punto da concedersi una piccola difesa sul presidente del Consiglio, con cui aveva duellato negli ultimi giorni, anche sul terreno delle liberalizzazioni, lo stesso su cui il governo si trova costretto a difendersi financo dal Terzo Polo. Casini parla di «passo del gambero»? Il segretario del Pd replica: «Ci sono tantissime frenate ma ci sono anche tantissime accelerate. Quindi, non si può mettere tutto nel mucchio». E i cento giorni del governo? «Ne penso bene, siamo venuti via dal baratro, dal rischio Grecia».
È un rapporto altalenante, quello tra Monti e Bersani. Il segretario del Pd sa che Super
Mario rappresenta il jolly che un pezzo del suo stesso partito (da Veltroni a Letta, passando per Franceschini e Marini) è pronto a giocare tra qualche mese, proponendolo per un bis a Palazzo Chigi nell’ottica di una Grande Coalizione. Ma, allo stesso tempo, «Pier Luigi» s’è andato convincendo che col Professore si può trattare in maniera franca.
Certo, Monti non prese affatto bene il veto che il segretario del Pd pose a novembre sull’ingresso dei politici (i nomi erano quelli di Letta e Amato) nell’esecutivo. Ma, un mese dopo, successe un cosa che riportò il sereno tra i due. Era una domenica di metà dicembre, il giorno in cui Elsa Fornero aveva rilasciato al Corriere della Sera l’intervista in cui per la prima volta apriva alle modifiche sull’articolo 18. Fu proprio quel giorno che, all’ora di pranzo, il presidente del Consiglio telefonò a Bersani per dirgli che «quelle parole non rappresentano l’orientamento dell’esecutivo». Scenario poi confermato dalla retromarcia che il ministro del Welfare mise nero su bianco nel giro all’inizio della settimana successiva.
Da allora sono passati più di due mesi. Ieri, all’indomani del faccia a faccia con Monti, Bersani ha lasciato intravedere alcune delle carte finite sul tavolo durante il suo incontro col Professore. «Si può parlare di manutenzione dell’applicazione del concetto dell’articolo 18», ha spiegato il leader del Pd parlando a Bologna. «Ma al momento», ha aggiunto, «non è in discussione la sua cancellazione». Manutenzione sì, cancellazione no, insomma. E comunque, oggi «sono più ottimista», perché «c’è una consapevolezza che il paese è nei guai e dobbiamo cercare un progetto comune».
Se la partita sulla riforma del welfare finisse con una spaccatura, il segretario dovrebbe far fronte a non poche difficoltà. Anche perché, come ha argomentato il direttore di Europa Stefano Menichini nel suo editoriale di ieri, il Pd finirebbe comunque per «stare su Monti». Ma la truppa dei giovani bersaniani che sta nella segreteria nazionale, adesso, conta su un nuovo “alleato”: Sergio Marchionne. «Dopo l’intervista rilasciata ieri al Corriere della sera, la manifestazione della Fiom del 9 marzo si trasformerà in un successo insperato», sussurra un esponente dell’esecutivo. «Dall’intervista a Marchionne arrivano notizie preoccupanti», si limita a dire il segretario.
Nella pattuglia dei montiani doc c’è chi ha intravisto il rischio che la posizione dell’amministratore delegato della Fiat possa complicare la strada per la modifica dell’articolo 18, facendo tra l’altro risalire le quotazioni della sinistra di Vendola e Di Pietro. Non a caso è stato Francesco Boccia, il deputato-economista dell’area di Enrico Letta, a intervenire sul dossier con un interpellanza urgente. «Cosa pensa il governo dello stato delle relazioni fra i vertici del Gruppo Fiat ed i sindacati?». E ancora: «Non ritenga di riferire in tempi rapidi in Parlamento dopo gli ultimi episodi di negoziazioni contrattuali, al fine di scongiurare il protrarsi di un clima controproducente ed il proliferare del contenzioso giudiziario?». Perché, spiega Boccia, «da incontri diretti con i lavoratori Fiat di Pomigliano e dopo le notizie diffuse dagli organi di comunicazione, si è appreso che tra gli assunti presso lo stabilimento napoletano per la produzione della nuova Fiat Panda nessuno sarebbe iscritto alla Cgil».

l’Unità 25.2.12
Il Manifesto di Parigi
Il 16 e 17 marzo a Parigi i leader dei maggiori partiti progressisti dell’Ue François Hollande (Ps), Pier Luigi Bersani e Sigmar Gabriel (Spd) firmeranno una dichiarazione comune sulla politica europea
L’unità dei progressisti ecco l’Europa politica
Per contrastare l’asse conservatore Merkel-Sarkozy si è costruita attorno al candidato socialista all’Eliseo una piattaforma comune innovativa
La battaglia decisiva è quella per una maggiore integrazione dell’Europa Ma dobbiamo anche essere capaci di tenere insieme solidarietà e libertà
di Roberto Gualtieri


Il ciclo di iniziative pubbliche promosse dalla Fondazione di studi progressisti europei (Feps) nelle principali capitali dell’Ue, che avrà il suo primo appuntamento in Francia il 16 e 17 marzo, dove i maggiori leader delle forze socialiste e democratiche continentali sottoscriveranno la «Dichiarazione di Parigi», costituisce un fatto politico di grande importanza. Un fatto che segnala un mutamento profondo nelle dinamiche politiche dell’Ue.
Non si tratta solo della presenza sullo stesso palco pure in sé assai rilevante di Hollande, Bersani, Gabriel, Di Rupo, Schulz, D’Alema, Swoboda, Aubry, Stanishev. Ciò che rappresenta la maggiore novità è che l’evento costituirà uno dei momenti centrali della campagna presidenziale francese. Non quindi un omaggio di rito alla retorica dell’integrazione né una semplice iniziativa tematica, ma uno degli appuntamenti qualificanti della proposta politica di Hollande.
Se si considerano gli sviluppi tumultuosi ancorché contraddittori che il processo di integrazione ha conosciuto dopo l’esplosione della crisi dei debiti sovrani, tutto ciò non dovrebbe stupire. La crisi ha scosso le fondamenta della costruzione europea ma al tempo stesso ha enfatizzato la natura comune delle sfide e la necessità di definire soluzioni a livello Ue. Sia pure sulla base di un impianto politico-economico pericolosamente inadeguato, perché incentrato sulla linea dell’austerità e sul primato del metodo intergovernativo, il processo di integrazione ha compiuto dei balzi in avanti inconcepibili solo pochi anni fa, con la costituzione dei fondi salva-stati e con una revisione del patto di stabilità che ha limitato in misura sostanziale la sovranità degli stati membri sulle politiche di bilancio. La conseguenza è che l’Europa è entrata prepotentemente nelle politiche nazionali (così come le questioni interne ai principali Paesi hanno condizionato notevolmente la politica europea).
Ciò che è di enorme importanza è che, come testimonia l’evento del 16 e 17 marzo e come emergerà dalla «Dichiarazione di Parigi», Hollande ha scelto di non limitarsi a criticare l’Europa conservatrice di “Merkozy”, magari solleticando l’orgoglio nazionale dei francesi contro l’Ue. Al contrario, si è impegnato nella definizione di una piattaforma comune dei progressisti dall’impianto fortemente europeistico. Una piattaforma snella ma concreta e innovativa, che coniuga la necessità di garantire la responsabilità delle politiche di bilancio con la definizione a livello Ue di strumenti e politiche per la crescita e per la gestione comune della crisi dei debiti sovrani, e che si caratterizza per la decisa opzione a favore del metodo comunitario e per l’impegno al rafforzamento della democrazia europea.
Il ciclo di eventi promossi dalla Feps e la «Dichiarazione di Parigi» sono particolarmente importanti anche per il Pd. Dopo la positiva esperienza del gruppo dei Socialisti e Democratici al Parlamento europeo, che ha contribuito non poco a de-ideologizzare il tema della collocazione internazionale, il Partito democratico è impegnato in prima fila nel processo di concreta costruzione di una grande alleanza progressista dei socialisti e dei democratici sul terreno di un inequivoco e ambizioso europeismo.
D’altronde, forse non è casuale che un’iniziativa di questo tipo sia partita proprio dalla Feps, che si definisce progressista nel nome e che è presieduta da un esponente del Partito democratico, piuttosto che dal Pse (che pure è coinvolto e parteciperà con il suo Presidente). È segno che la peculiare identità del Pd e il costitutivo pluralismo dei filoni politico-culturali che, in ragione delle particolarità della storia d’Italia, ne compongono il Dna, rappresentano un valore aggiunto e un lievito prezioso nella fondazione di quel nuovo «europeismo progressista» la cui affermazione costituisce ormai una necessità storica e una condizione per la salvezza dell’Europa.

l’Unità 25.2.12
Democratici e socialisti possono fare di più
di Pierluigi Castagnetti


Le interviste a David Sassoli e Donald Sassoon hanno impostato in modo totalmente condivisibile il dibattito sul «Manifesto di Parigi» (che suggerirei di chiamare «Dichiarazione»: in questi casi la sobrietà non è mai eccessiva).
Se si vuole dare un senso a un’alleanza di forze progressiste il tema non può che essere l’Europa. Che Europa hanno in mente i partiti di sinistra, quale importanza ha per la loro identità il tema Europa, quale Europa poi pensano di declinare in termini tali da segnare una demarcazione rispetto ad altre forze politiche? Non conosciamo ancora il testo del documento che ci auguriamo non sia generico e reticente, perché i cittadini hanno una certa “fame” di identità e identificazione con forze e iniziative che guardano avanti. Gli Eurobond e la Tobin tax sono sicuramente importanti, ma non sufficienti a dare identità politica. È vero che la Merkel oggi si oppone soprattutto agli Eurobond, ma non si costruisce la propria identità contro la posizione momentaneamente assunta da un avversario. Ho detto «momentaneamente» sia perché la Merkel potrebbe auspicabilmente uscire di scena, sia perché la Germania democristiana potrebbe riprendere posizioni che l’hanno connotata sino a pochi anni fa.
Ricordo di avere assistito a un colloquio tra Kohl e Mino Martinazzoli nei primi anni 90 a Bonn in cui il Cancelliere tedesco fece più o meno questo ragionamento: «Non so se tornerò a vincere le elezioni perché ho chiesto molto al mio Paese, gli ho chiesto di rinunciare ai suoi punti di forza per favorire l’unità dell’Europa. Al momento dell’unificazione fra le due Germanie ho imposto, contro il parere della Bundesbank, la parità fra il marco delle due Germanie, a Maastricht abbiamo deciso di dar vita a una nuova moneta mettendo in un unico paniere il marco, cioè la moneta più forte, assieme alle altre più deboli, ho deciso poi di aumentare di cinque punti il prelievo fiscale e di destinare l’intero gettito all’ex Germania Est perché so che se la Germania non è in pace al proprio interno rischia di non essere in pace neppure l’Europa. Ho fatto queste cose senza calcoli elettorali, sapendo che era ciò che dovevo fare e basta, per la pace del mio Paese e per la pace del continente».
La Germania dunque ha un passato europeista a cui nessun altro Paese europeo può paragonarsi, e non mi sorprenderei se ad un certo punto, di fronte agli sviluppi della crisi, anche la rigidità odierna della Merkel fosse costretta a ripiegare. Dunque è importante che oggi i socialisti e i democratici europei assumano una posizione netta su questo tema, ma deve essere una posizione convinta, organica, se possibile declinata in termini sistemici, consapevole del fatto che nel mondo globalizzato solo un’Europa integrata da istituzioni forti di governance potrà assicurare un qualche futuro.
La Dichiarazione di Parigi dovrà dunque rompere nettamente con gli errori, le titubanze e le pigrizie del passato e dovrà indicare la strada di un moderno europeismo: a questo fine per le tradizioni della sinistra sarà più utile recuperare Spinelli che Gramsci. L’altro «mito» (uso intenzionalmente questa parola, utilizzata da De Gasperi in un famoso discorso al Senato del 1949 a proposito dell’Europa, rivendicando per la classe politica la responsabilità di indicare alle nuove generazioni dei «miti» come l’Europa) che si deve recuperare senza imbarazzi è quello della «libertà».
Questa parola è stata colpevolmente lasciata usurpare e manomettere alla destra, ma è una parola che è alla base dei diritti fondamentali dell’uomo e delle comunità. Il presidente della Bce Mario Draghi ha detto due giorni fa che il modello di sviluppo europeo è in crisi, e a me pare difficile contestarlo. Capire dove e perché è andato in crisi e capire come e perché in un mondo globalizzato sia possibile tenere al centro della proposta politica i diritti dell’uomo a partire da quelli del lavoro, della giustizia e dell’uguaglianza, questa è la missione delle forze progressiste oggi. Quando sosteniamo che il tema della libertà ha a che fare con quello della giustizia e della solidarietà vogliamo parlare dell’obiettivo concreto di liberare i cittadini dal peso di soglie di ingresso in primo luogo ai posti di lavoro, di liberarli dagli ingombri che ostruiscono i canali della comunicazione fra Stati e all’interno degli Stati, di liberarli dai rischi della vulnerabilità che ormai affliggono tutti i ceti sociali tranne quelli superprivilegiati.
In questo senso mi augurerei che chi è incaricato della stesura definitiva della Dichiarazione di Parigi si misurasse con le indicazioni per un «Piano per la crescita» contenute nella lettera congiunta di dodici leader europei del 20 febbraio scorso. In quella lettera ci sono contenuti meno vaghi di quanto si pensi per innalzare gli standard di attuazione di una vera governance europea; per creare entro il 2015 un mercato unico realmente digitale; per creare entro il 2014 il Terzo Pacchetto sull’Energia; per creare un’Area Europea della Ricerca; per costruire mercati globali aperti; per ridurre il peso della normativa europea; per favorire l’accesso al lavoro dei giovani, delle donne e dei lavoratori in rientro occupazionale, oltreché per combattere la vulnerabilità; infine per creare posti di lavoro nel terziario e ridurre le garanzie implicite che consentono di salvare sempre le banche distruggendo il mercato unico. È un documento di sollecitazioni piuttosto forti alla Commissione e al Consiglio europeo e, se vogliamo essere più espliciti, a Germania e Francia che non a caso non hanno firmato. Ma in quel documento c’è tanto di messaggio europeista e di impegno per rendere più concreti e fruibili i valori della libertà e della solidarietà.
Il nostro è un tempo chiamato a tenere fermi i principi irrinunciabili che riguardano la centralità della persona umana e a inventare forme nuove di declinazione storica di quei principi. È un tempo che rischia di dividere chi ha paura da chi accetta la sfida del cambiamento. Noi non potremo che esser fra questi ultimi.

l’Unità 25.2.12
Noi e l’Italia dopo Monti
di Alfredo Reichlin

Questa discussione sul “dopo Monti” è veramente surreale. Cosa c’è di incerto nel nostro sostegno a questo governo? Lo abbiamo voluto noi, anche se dopo il crollo della destra il Pd (in forte crescita) poteva chiedere le elezioni e vincerle. E si sa benissimo perché abbiamo agito così: per fronteggiare la drammatica emergenza che assillava l’Italia.
Un’emergenza che spingeva il Paese verso una situazione di tipo greco. Cosa che stiamo evitando anche per merito del governo Monti, e infatti Bersani gli rinnova ogni giorno il nostro appoggio. E allora? Su che cosa ci dobbiamo dividere? Sul “dopo Monti”?
Vorrei dire su questo poche cose. Possibilmente chiare. Che cos’è il “dopo Monti” per un partito come il Partito democratico, degno del suo nome e consapevole delle sue responsabilità? È la solita bega tra capi, capetti e correnti e sottocorrenti? Mi dispiace, dopotutto né Bersani, né Veltroni, né Letta, né altri sono così importanti. Il “dopo Monti” consiste nell’impedire che la politica italiana torni ai vecchi giochi politici e personali, e invece nella necessità di mettere il Paese in grado di affrontare le grandi decisioni che devono essere prese. Le quali (c’è tra noi chi non lo capisce?) sono grandi davvero: e sono inedite, e sociali, e perfino morali, e riguardano il problema dei problemi: il posto dell’Italia nel mondo. Tutto qui. Evviva i tecnici e spero anche che molti di loro restino in politica.
Ma chi pensa che l’Italia per andare avanti abbia bisogno di nuovi governi tecnici non solo sbaglia i suoi calcoli ma è un poveretto. Non capisce che il “dopo Monti”, se vogliamo che esista, non può essere l’eterno ritorno a una politica «senza popolo» ma deve consistere nel riemergere di quella Cosa, quella capacità di combinare in modo nuovo visioni, interessi, poteri, speranze, nonché capacità di suscitare nuovi schieramenti e nuovi protagonismi da parte delle forze profonde della società italiana. Quella cosa che si chiama «la politica».
Il Pd può fare questo? Io penso di si. Penso che con tutti i suoi limiti e i suoi difetti siamo noi la forza che (non da sola, certo) può guidare il Paese e metterlo nelle migliori condizioni per affrontare le straordinarie sfide che incombono. E non perché siamo belli, oppure perché «ci buttiamo più a destra o più a sinistra». Ma perché siamo una forza larga, inclusiva, nazionale ed europea che non si fa sballottare tra le foto di Vasto e i moderati, che non si fa ricattare da amici interni ed esterni che fanno «casino» perché si avvicina la formazione delle liste. Quello che voglio dire è questo. È che o noi siamo i garanti di un nuovo asse unitario della nazione, senza di che l’Italia si divide, oppure (Monti o non Monti) non conteremo niente. Insomma il nostro programma non è buono per le (troppe) cose che elenca. È realistico ed è anche molto avanzato perché si riassume nell’impegno a lavorare per un nuovo grande patto, per un nuovo grande compromesso democratico tra «ricchi e poveri, tra capitale e lavoro, tra borghesi e proletari», come si diceva ai miei tempi.
Il paragone giusto è con Roosevelt, è con la svolta negli anni 30 del New deal, è la riorganizzazione delle forze socialiste e democratiche (sia laiche che cattoliche) europee. Perché è il modello sociale ed economico dell’Europa che va ripensato. E anche questo, soprattutto questo, non è un problema da delegare ai tecnici. Nè bastano gli accordi tra gli Stati.
Apriamo gli occhi. Con la globalizzazione e la finanziarizzazione dell’economia l’oligarchia dominante ha costruito un potere immenso che è molto più grande della potenza dei singoli Stati europei. E ciò è talmente evidente che anche i Capi di Stato europei attendono ansiosi ogni giorno di vedere quale sarà lo spread, cioè quale sarà la «libbra di carne» che questi nuovi Mercanti di Venezia chiedono alle nostre imprese, ai nostri salari, alle nostre pensioni per pagare le loro rendite. A un certo punto qualcuno dovrà pur dire che questi sono davvero strani mercati non sottoposti come tutti i mercati a regole certe e aperti a tutti. Sono giganteschi poteri con nome e cognome che non a caso il nostro premier è andato a trovare a New York o alla City per pregarli di prestarci un po’ di soldi (e, nelle condizioni date, ha fatto benissimo).
Ma allora dovrebbe essere chiaro perché è così importante fare dell’Europa una grande potenza politica globale, capace di proporre una nuova Bretton Woods. E per fare questo che occorre impegnare la sinistra su tutti i fronti sui quali si promuove lo sviluppo umano. Lo sviluppo dell’essere piuttosto che la crescita dell’avere, dice Giorgio Ruffolo. E quindi abbiamo bisogno di una sinistra impegnata in qualcosa che non è l’abbattimento del capitalismo, né la fine dell’economia di mercato, ma non è nemmeno l’acquiescenza ai poteri dominanti. Fatevene una ragione. Noi siamo una forza che fa della lotta per una società più giusta e più democratica la sua bandiera.
Il passaggio politico attuale è veramente cruciale. Non mi stupisco affatto se viene avanti a questo punto una spinta potente a imporre per il “dopo Monti” un regime politico diverso da una democrazia parlamentare. Cioè un regime senza i partiti, ormai bollati dal Corriere della Sera e da gran parte dei “media” come la Casta. Tutti uguali. Io continuo invece a pensare che solo i partiti possono garantire (alla condizione che si rinnovino molto evidentemente) quella conquista grandissima che è il pluralismo, cioè una democrazia basata sulla sovranità popolare, e quindi sulla partecipazione alla vita statale anche della gente che nella società di oggi non conta nulla. Forse bisognerebbe cominciare a reagire più decisamente. In nome della verità. Perché la verità è che la “casta” sta proprio in quel nucleo di banche e di poteri forti che possiedono anche quasi tutte le tv e gran parte dei giornali. Confesso che il fatto che il Pd è tutti i giorni sotto il tiro di questi signori suscita in me un certo orgoglio.

il Fatto 25.2.12
Fassina: il governo Monti? Ha sbagliato tutto
In un libro il responsabile economico del Pd critica senza appello il decreto Salva Italia
di Wanda Marra


Il decreto Salva Italia? “Non è spiegato da ragioni economiche”. Anzi, “acuisce la contrazione dell’economia e, conseguentemente, l’ulteriore innalzamento del nostro debito pubblico”. Insomma, Monti fino ad ora ha sbagliato praticamente tutto. Non è l’analisi di un economista più o meno neutrale (ammesso che ce ne siano), nè lo sbobinato di un comizio del comunista Paolo Ferrero. No, è una delle tesi di fondo del libro di Stefano Fassina (“Il lavoro prima di tutto”).
Nella vita, responsabile Economia del Pd, figura chiave della segretaria, fedelissimo di Bersani. Nei primi giorni dell’esecutivo del Professore, il “giovane” Fassina (di formazione bocconiano) si era fatto notare per attaccare un giorno sì e l’altro pure il governo che il suo partito appoggiava. Malumori nel partito alle stelle, tanto che qualcuno aveva chiesto le sue dimissioni. Lui allora si è dato una regolata. Apparente, evidentemente: tutto quello che i “montiani” del partito lo costringevano a ricacciare indietro è finito in questo libro, che esce in libreria il 29 febbraio.
GIUSTO A RIDOSSO della riforma del lavoro, che promette di essere una buona occasione per spaccare il Pd. Proposte come la cancellazione dell’articolo 18 “sono sbagliate”, ribadisce Fassina. Che chiarisce: “I riferimenti economici e sociali dell’alternativa progressista dovrebbero essere ancorati innanzitutto al lavoro subordinato”. Monti è avvertito. Se Bersani media, il suo uomo di fiducia non le manda a dire. Inquadrando il tutto in una riflessione economica generale: la causa di fondo della rottura dell'equilibrio neo liberista “non è la finanza è la regressione del lavoro”, il “debito pubblico” non si riduce “senza attenzione all’economia reale”. E a forza di manovre, il Pil scende. E qui casca Monti: “Data la scia di recessione – stagnazione – recessione alle nostre spalle, e lo scenario triste davanti a noi, il decreto Monti acuisce la contrazione dell’economia e, conseguentemente, l’ulteriore innalzamento del nostro debito pubblico”. Una condanna senza appello. Che Fassina, dati e tabelle alla mano, circostanzia senza dubbi: Persistere sulla rotta della deflazione? “È autolesionismo”. Invocare riforme strutturali? “Non è credibile”. Perchè la “verità amara è che, data la linea di politica di bilancio imposta all’area euro dai conservatori tedeschi, la crescita è impossibile”. E con questo, ecco sistemata anche l’Europa. Non mancano critiche sui singoli punti: si chiede Fassina se sia equo cancellare le pensioni di anzianità a un operaio con 40 anni di lavoro, o se la liberalizzazione degli edicolanti non li strozzi. Mentre avverte chi insiste sui tagli nella Pa: “Deve sapere che propongono, consapevolmente o meno, di aggravare le disuguaglianze sociali”. In fondo, in fondo, per Mr Fassina evidentemente Berlusconi non era molto peggio (il quale, peraltro, come si legge nello stesso libro, secondo lui per quanto in maniera sbagliata a conti fatti aveva già fatto quello che ha fatto Monti: ridurre la spesa pubblica). No, il Salva Italia era “necessario”. Ma perchè? “Per rispondere alle domande del paese leader, per riconquistare un qualche potere negoziale a Bruxelles”. Insomma, la “missione europea è la ragione fondativa del governo Monti”. Dunque, Fassina non ha paura di definire “strumentale” il sostegno del Pd. Quando l’obiettivo è costruire uno schieramento insieme a Sel e Idv. Peccato che buona parte del suo partito sia orientata su tutt’altre posizioni. parola d’ordine: “non possiamo lasciare Monti alla destra”.
QUANDO SEMPRE lui, Fassina, ha annunciato di voler andare alla manifestazione della Fiom qualche giorno fa si è visto stoppare: non si può andare a una manifestazione contraria al governo che si appoggia. Lui nel libro, cita come una sorta di man-tra, Bersani e la frase con cui accompagnò la nascita dell’esecutivo : “Vi sosterremo lealmente, ma con la bussola delle nostre idee”. Nel frattempo, il gradimento del Professore è altissimo, soprattutto tra gli elettori del Pd, e Bersani si trova a dover fare i conti con un’operazione di cui probabilmente sarà la sua leadership a fare i conti, spiazzata dai tempi e dai fatti. Tanto è vero che anche sull’articolo 18 è pieno di distinguo. Fassina intanto definisce quella attuale un’ “emergenziale maggioranza parlamentare”. Mentre tutti ormai parlano di “maggioranza”. Resterebbe da chiedere all’autore del saggio: come fa a restare responsabile economico di un partito che appoggia un governo la cui azione giudica fallimentare? O il suo partito è pronto a tirare le somme di ciò che il suo responsabile economico dice e mettere davvero alle corde Monti?

Repubblica 25.2.12
"I partiti devono rinnovarsi altrimenti non c’è democrazia non possiamo fermarci a Monti"
Zagrebelsky: rinunciare alla politica è un pericolo
Atteggiamenti acritici, Monti o non Monti, non sono consoni alla democrazia che è un regime critico
Il Parlamento è delegittimato. Sarebbe buona cosa avere comunque un voto popolare per la riforma
di Goffredo De Marchis


ROMA - Il professor Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte Costituzionale, firma, a nome di tutta l´associazione Libertà e Giustizia, il primo manifesto del dopo-Berlusconi. Un modo per celebrare i dieci anni di vita di L&g e «per progettare l´avvenire».
Nel suo documento, professore, lei sembra non accodarsi alla Monti-mania. Perché?
«Perché l´atteggiamento acritico è in ogni caso, Monti e non Monti, non consono alla democrazia che è un regime per definizione critico, dove tutti pensano con la propria testa ed è escluso il culto della personalità. Tempo fa in un librettino, trattando del processo di Gesù - uno scandalo della democrazia - si è contrapposta la democrazia dogmatica e la democrazia populista alla democrazia critica. Quest´ultima è la versione liberale della democrazia. Quindi, con tutto il rispetto per le fatiche del governo tecnico e con la speranza che si ripone nell´operazione Monti, la rinuncia alla politica, alla lunga, mi pare un pericolo».
Siamo alla democrazia sospesa?
«Il governo tecnico di Mario Monti è probabilmente il meglio che il tempo presente ci può offrire. Ma occorre riportare in onore la politica. Certo, i partiti attuali offrono un pessimo spettacolo. L´esecutivo deve fronteggiare altri interlocutori: lobby, associazioni, sindacati. Le forze politiche sono ridotte al mugugno o al mugolio. La ripresa della democrazia e della politica però ha bisogno di partiti rinnovati. Sono l´unico strumento che conosciamo per unificare la società e tenerla insieme».
Sbaglia allora chi a destra e a sinistra invoca Monti a Palazzo Chigi anche dopo le elezioni del 2013?
«Assistiamo a due fenomeni contemporaneamente. Da una parte al tentativo di impadronirsi del fenomeno Monti; dall´altra al desiderio di nascondere dietro ai tecnici la propria impotenza politica. Ma questo è un problema. In generale, siamo di fronte ad eventi che devono farci riflettere. Le istituzioni europee, mesi fa, hanno imposto alla Grecia di non fare un referendum e ora sembra che vogliano imporre a quel paese di non votare ad aprile. In Italia sento ipotesi di rinvio delle elezioni amministrative. E nessuno osa dire che a qualcuno piacerebbe rinviare pure le politiche del 2013. Siamo tutti impazziti?».
Vede per noi un rischio Grecia non solo economico ma anche democratico?
«Non vedo, ma temo. Consideriamo che l´articolo 11 della Costituzione, su cui si basa la nostra adesione alla Ue, consente rinunce alla nostra sovranità solo in condizioni di parità con gli altri Stati e solo a favore di istituzioni sovranazionali che operino per la giustizia tra le nazioni, non per favorire le operazioni di investitori - spesso speculatori - che operano sui mercati finanziari. Limitazioni della sovranità sì ma non a occhi chiusi. L´arduo doppio compito del governo è salvarci dalla bancarotta e salvare la sovranità nazionale. Per questa seconda parte la tecnica non basta: occorre la politica».
Perché Leg non vuole che questo Parlamento faccia le riforme costituzionali? La riduzione del numero dei parlamentari come si realizza?
«Prima si deve andare a votare, poi si mette mano alle riforme istituzionali con un Parlamento nuovo. Quella per la riduzione del numero dei parlamentari è una battaglia giusta ma tutto sommato marginale. Come si diceva una volta? I problemi sono ben altri. Aggiungo: la revisione della Costituzione, quando è autoriforma della politica, risulta molto difficile. Un antico testo anonimo firmato "il vecchio oligarca" - "La costituzione degli ateniesi" - sosteneva che la democrazia degenera senza avere le energie per autoriformarsi. È come il barone di Munchausen che cade nelle sabbie mobili e vuole tirarsi fuori aggrappandosi ai codini della parrucca. Tragicamente quel testo dice che alla fine la democrazia può solo essere abbattuta. Ho ritegno a dirlo. Allora diciamo così: la sfida della nostra classe politica è dimostrare che il vecchio oligarca aveva torto».
E il Porcellum con quale formula va spazzato via?
«Esistono tante idee di giustizia elettorale, come la chiamo io. È giusto il proporzionale, lo è il sistema uninominale dove si elegge il migliore, lo è anche il maggioritario che premia il più forte per permettergli di governare. Sono tutti sistemi che hanno una logica chiara. L´elettore sa come viene usato il suo voto. L´unica cosa che i partiti non dovrebbero fare sono i pasticci cioè mescolare sistemi eterogenei solo per soddisfare il loro interesse».
Voi proponete di sottoporre comunque a referendum eventuali riforme istituzionali. Anche se il Parlamento le approva con la maggioranza di due terzi. Ma è contro la Costituzione.
«La nostra richiesta nasce in un contesto di democrazia rappresentativa debole e delegittimata. All´assemblea costituente si disse: se c´è una maggioranza tanto ampia non c´è bisogno di interpellare i cittadini. Ma la premessa qual era? Che quei partiti rappresentassero davvero il popolo italiano. Oggi viviamo una crisi della rappresentanza. Quel presupposto è diventato fragile. Sarebbe buona cosa avere comunque un voto popolare. Che o tolga di mezzo la riforma o la legittimi in maniera solenne».
Come se la caverà Libertà e giustizia senza Berlusconi?
«Possiamo riempire due armadi con l´attività svolta in dieci anni. L´armadio di Berlusconi resta aperto per quel che si dice essere il "berlusconismo", qualcosa di più pervasivo del suo fondatore. Ci sono decine di leggi ad personam che andrebbero riviste. E non solo: la condanna della Corte di Strasburgo per la politica anti-immigrati non dice niente? Il secondo armadio è il futuro della politica. Ci dicono: cosa proponete oltre a manifestare esigenze e bisogni? Ma, diciamo noi, la risposta tocca alla classe dirigente proporre, è lì per questo. Noi manifestiamo esigenze. Una proposta che ci pare fondamentale, però l´abbiamo: la politica si apra alla società civile. Che non è il salotto buono, ma sono cittadini di ogni età, ceto sociale, professione che dedicano tempo, competenza, denaro ad attività d´interesse pubblico per pura dedizione al bene comune. Abbiamo bisogno di altre facce, d´altre energie, d´altri carismi. Soprattutto, di parole nuove. Non vede che quelle di oggi sono solo ripetizioni?»

l’Unità 25.2.12
A Ponte Galeria nel maggiore centro di identificazione ed espulsione d’Italia
Ore vuote Molti escono col foglio di via, e se ne perdono le tracce. Altri fuggono
Il fallimento dei Cie «È peggio del carcere» Solo il 18% è espulso
Dopo la condanna sui respingimenti, viaggio fra chi in Italia è arrivato, per ritrovarsi dentro questi centri simili a carceri, magari dopo dieci anni di lavoro, o solo perché il marito italiano è morto
di Gioia Salvatori


Cemento e acciaio. Gabbie, una dietro l’altra. Dietro, attaccati alle sbarre come a una speranza, uomini spenti, giovani col volto segnato, i denti guasti, le cicatrici sulla pelle e dentro il sogno di essere liberi. Volevano una casa in Italia, hanno trovato lavori in nero e pregiudizi. Spesso il mondo del crimine o un datore di lavoro bugiardo li ha accolti prima delle istituzioni, così la metà di loro ha conosciuto il carcere poi di nuovo la strada da immigrato irregolare e infine il Cie: il centro di identificazione ed espulsione. Quello di Ponte Galeria è il più grande del Paese, nella zona industriale a sud di Roma, accoglie il 20 per cento dei trattenuti nei 13 Cie d’Italia: 225 su 1050, i numeri variano ogni giorno.
IL POSTO VUOTO
L’edificio è speculare, ramo maschile e femminile, ogni sezione una mensa, un campo da gioco e spazi all’aperto davanti ai dormitori, delimitati da sbarre alte quattro metri. Le hanno rialzate e chiuse col plexiglas la scorsa estate, quando i giovani scappati dai paesi delle primavere arabe non ne volevano sapere di stare nei Cie, li hanno messi a ferro e fuoco e facevano piramidi umane per scavalcare le recinzioni. Felpe, pantaloni di tuta stesi ad asciugare, sono le uniche macchie di colore attaccate all’acciaio delle sbarre. Gli immigrati qua dentro abbandonano pure il sogno di restare in Italia, vogliono tornare al loro paese d’origine: «Qui non abbiamo il fornello, non c’è verde, non ci sono spazi attrezzati. C’è solo il pranzo, la medicina alle 4 del pomeriggio e alle 6 e mezzo la cena. Qua è 50 volte peggio del carcere, ma non abbiamo commesso reati per meritarcelo», dicono tre magrebini che sono in Italia da dieci anni almeno e sono entrati e usciti dalle galere più volte senza che lo Stato li identificasse. «Se il ministero della giustizia e quello degli interni da cui dipendono questi ex Cpt si parlassero un po’ di più», dice il direttore del Cie di ponte galeria Giuseppe di Sangiuliano, «il lavoro per noi sarebbe dimezzato». E lo sarebbe anche la sofferenza dei trattenuti che lo Stato reclude invano prima di certificare il suo fallimento: solo il 18 per cento degli immigrati del Cie viene riaccompagnato in patria, ha detto il responsabile dell’ufficio immigrazione della questura di Roma Maurizio Improta, la scorsa estate. Degli altri, spesso per scarsa collaborazione dei consolati, non si arriva all’identità, così dopo cinque-sei mesi i giudici si arrendono e non rinnovano il fermo amministrativo. Nessuno resta nei Cie fino a un anno e mezzo ma dietro queste sbarre dove il tempo non passa mai, anche un mese è un’eternità.
A Ponte Galeria ci sono tutti: 60 tra poliziotti e carabinieri, un vicequestore e un viceprefetto. C’è l’esercito all’ingresso e la cooperativa Auxilium, che gestisce il centro in appalto dalla prefettura. Per ogni trattenuto la spesa è di 41 euro al giorno, più un buono di 3.50 euro giornaliero. All’ora di pranzo, per scortare i maschi dal camerone alla mensa, arrivano sei uomini in divisa e due cani poliziotto. I ragazzi si lamentano della perquisizione che subiscono prima di uscire dalle stanze, ma qui basta poco a farsi male e infatti in un attimo scoppia una rissa per la pole position nella fila della mensa. Sono spinte, grida, calci e clangore di cancelli ma per fortuna nessuno si fa male. Eppure il cibo c’è, dicono gli stessi reclusi. Semmai si dorme male nel reparto uomini: nell’anticamera del dormitorio da otto brande ci sono i materassi a terra, «chiamarle stanze è un eufemismo», dice un funzionario.
«È immorale che in strutture pensate per la permanenza temporanea vivano uomini per tempi così lunghi.
Sono frequenti i tentativi di fuga e gli atti di autolesionismo», denuncia il garante per i detenuti del Lazio Angiolo Marroni, e c’è anche chi si finge malato per tentare la fuga lungo la via dell’ospedale. Meccanismi kafkiani, per persone troppo sole davanti a leggi troppo difficili. Sono esemplari le storie delle donne del Cie, al 50 per cento nigeriane vittime di sfruttatori, le restanti rom con precedenti, ex badanti che pensavano di essere in regola, vittime di datori di lavoro bugiardi che avevano loro detto di aver pensato a tutto. «Una delle maggiori difficoltà è far capire ai trattenuti perché sono qui», spiega il direttore del Cie.
Osa, nome di fantasia di una nigeriana vedova di un italiano, mai avrebbe creduto di finire a Ponte Galeria dopo il regolare matrimonio. Ci è entrata dopo le scadenze di una licenza commerciale e di un permesso di soggiorno, e precedenti penali che richiedono lunghi tempi di riabilitazione. Ci provano, gli operatori del Cie, mentre tra le sbarre del ramo maschile si organizza con poca convinzione una partita di calcetto. Il campo è nuovo di zecca e mancano le porte, sono state usate come testa d’ariete verso la libertà durante una rivolta.

l’Unità 25.2.12
Per «omicidio volontario» indagati anche a Roma i due marò fermati in India
Indagati per omicidio volontario anche in Italia i due marò pugliesi Massimiliano La Torre e Salvatore Girone già in stato di fermo in India per l’uccisione di due pescatori. Il fascicolo è dei pm di Roma Ceniccola e Scavo.
di Angela Camuso


Sono indagati in Italia per «omicidio volontario» i due marò pugliesi Massimiliano La Torre e Salvatore Girone aver ucciso i due pescatori indiani a bordo del peschereccio «St. Antony» a loro avviso scambiati per pirati.
La decisione di iscrivere i due militari italiani nel fascicolo attualmente aperto nella procura di piazza Clodio a Roma per lo stesso reato su cui indaga la magistratura indiana dello Stato del Kerala è stata presa dai pm Elisabetta Ceniccola e Francesco Scavo ieri sera. La procura romana parla di «atto dovuto». Ma la speranza è che iscrivendo nel registro degli indagati in Italia i due militari attualmente in stato di fermo nella guesthouse sulla laguna di Kochi, le autorità indiane siano più propense ad avviare una collaborazione nelle indagini e sia presa in considerazione la possibilità di celebrare il processo nel nostro Paese.
SOTTOSEGRETARIO IN MISSIONE
Non che le autorità indiane non stiano collaborando, tutt’altro. Gli investigatori hanno dovuto rimandare di un altro giorno la perizia balistica a bordo della petroliera Enrica Lexie in attesa di due esperti in arrivo oggi da Roma. La prova sui fucili in dotazione ai marò, che si trovano ancora a bordo della petroliera che scortavano, è «fondamentale», come ha ribadito il sottosegretario agli Esteri Staffan de Mistura, tornato nella capitale indiana per fare un resoconto alla sua controparte, la signora M.G Anapathi, sulla missione-lampo in Kerala. «La perizia dovrà dirci se l’errore è stato da parte delle autorità indiane che hanno accusato di omicidio i nostri militari o dei legali degli italiani che hanno sostenuto che gli spari sono stati di avvertimento», ha detto il sottosegretario all’uscita dell’incontro.
In mattinata ieri il team investigativo speciale del commissario Ajit Kumar ha accettato di non procedere immediatamente alla raccolta del reperti balistici a bordo della Lexie, attraccata al terminal petrolifero nella rada di Kochi, e di aspettare gli esperti per garantire l’efficacia della supervisione da parte italiana. Saranno due ufficiali dell’Arma dei carabinieri a osservare quindi la regolarità dell’operazione che consisterà nel reperire il materiale bellico, sigillarlo in un contenitore e portarlo dal giudice competente perché disponga la perizia. «Abbiamo accettato questa ulteriore richiesta ha detto il commissario Kumar all’Ansa proprio perchè vogliamo che non ci siano ombre di dubbio sull’assoluta trasparenza delle indagini».
Intanto nuovi dubbi arrivano dai quattro mercantili interpellati dalle autorità indiane la sera in cui è avvenuta l’uccisione dei pescatori perché si sarebbero tutte trovate nella stessa tratta marina: il Kamome Vittoria, il Giovanni (italiano), l’Ocean Breeze. Non c’era dunque il mercantile greco Olympic Flair che sembrava fosse stato attaccato per primo dai pirati, secondo le prime ricostruzioni, cosa poi smentita dalla Marina mercantile ellenica. A tutti e quattro i comandanti è stato chiesto se avessero subito attacchi da parte dei pirati, dunque solo dall’Enrica Lexie hanno risposto di sì.
La nave italiana, come si sa, è stata poi indotta a recarsi nel porto di Kochi, mentre le altre hanno proseguito la navigazione. L’Ocean Breeze ha fatto sosta a Singapore prima di proseguire per il porto di destinazione, quello di Hong Kong.

Repubblica 25.2.12
Da Pechino a Canton, troppi gabinetti riservati ai soli uomini e l´altra metà del cielo protesta invadendo le toilette maschili
"Vogliamo più bagni pubblici per le donne" la rivolta di Occupy wc spaventa il regime cinese
Il movimento nato nelle metropoli sta scatenando un dibattito online da record
"Siamo il doppio degli uomini, perché lo Stato continua a pensare solo a loro?"
di Giampaolo Visetti


PECHINO - Ogni dinastia cinese, come insegna la rivoluzione di Mao, è sempre bruciata da scintille accese nelle campagne. L´obiettivo oggi appare meno impegnativo, ma per scuotere il potere Li Tingting ha scelto di partire da un water. Con una ventina di compagne dell´università di Guangzhou, nota in Europa con il nome di Canton, ha espugnato un gabinetto e ha lanciato il suo slogan: «Occupy Wc». Passa per una frivolezza, occupare una toilette può sembrare meno decisivo che impossessarsi di Wall Street. Ma i leader di Pechino hanno un senso speciale per le minacce: e già sospettano che, da uno sciacquone, il passo verso diritti più essenziali sia meno lungo di quanto appaia in Occidente.
«Occupy Wc», dalla costa meridionale, è dilagata ieri anche nella capitale e le sue rivendicazioni approderanno al prossimo congresso nazionale del popolo. Con l´icona della catenella unisce infatti milioni di donne umiliate e nasce da una doppia tragedia nazionale: la selezione delle nascite, causata dall´obbligo di figlio unico, e lo spostamento forzato di milioni di cinesi dai villaggi nelle città. Risultato: Canton, come Pechino, scoppia di donne, contese come operaie e come spose. Problema: tutti i servizi pubblici restano pensati come se nella popolazione i sessi fossero in equilibrio. A partire dalle toilette. Guangzhou è così diventata la prima città al mondo dove una campagna di massa pretende che venga approvata una legge di un solo articolo: i bagni pubblici per le donne devono superare del 50% quelli riservati agli uomini.
Un corteo di sole femmine ha paralizzato il centro di Canton e ha infine preso d´assalto le latrine del parco Yuexiu. Gridando «occupiamo i bagni dei maschi», le militanti hanno invitato tutte le signore della città a servirsi dei wc maschili impedendo l´accesso ai signori, anche se gravati da stimoli non rinviabili. Una sovversione preoccupante, al punto che il movimento «occupare i bagni dei maschi» sta scatenando un dibattito on-line da record. «In città siamo il doppio dei maschi - ha detto la ventiduenne Li Maizi, studentessa di giurisprudenza - ma lo Stato pensa solo a loro. I bisogni fisici sono la punta dell´iceberg: perché se nelle metropoli gli uomini sono la metà delle donne, si continuano a costruire toilette divise esattamente in due?». Secondo le insorte del wc, ammesso che le statistiche confermino, il problema non è marginale. In uffici, centri commerciali e cinema, ma pure nelle stazioni del metrò e per strada, davanti ai servizi dei maschi non c´è mai nessuno, mentre fuori da quelli delle femmine la coda è da incubo. Disagi da non sottovalutare: migliaia di donne, oppresse dalla fretta, costrette ogni giorno ad arrangiarsi dietro le siepi, nei parchi e nei cortili, o tra le auto parcheggiate». Umiliante e pericoloso, secondo «Occupy Wc», che preso atto del successo sta inserendo in agenda lunghe liste di storici torti. Un mini-comitato di soli maschi ha osato obbiettare carte alla mano: secondo una ricerca le donne cinesi trascorrano in bagno 2,3 volte più tempo rispetto agli uomini. Usano la ritirata, ma poi si piantano davanti allo specchio e via di spazzola e rossetto. «Truccatevi sulle panchine - obbiettano i maschi - e lasciateci andare di corpo liberamente». Sindaco e segretario di partito hanno ammesso che a Canton le toilette per le donne effettivamente scoppiano. D´ora in poi, assicurano, i bagni rifletteranno proporzione tra i sessi e tempi medi della sosta. L´inattesa vittoria di «Occupy Wc», da Guangzhou e Pechino, rischia però di dilagare al resto della Cina, innescando un´onda non solo di acque nere. Ignorare offende, insegna l´Oriente, ma cedere accende. Il raddoppio dei bagni delle femmine imbarazza così i prossimi leader. Ricordano bene che Mao definiva le donne «l´altra metà del cielo». Non aveva previsto i guai che possono nascere quando, per scelta politica, diventano il doppio.

Repubblica 25.2.12
Gerusalemme
Scontri sulla Spianata delle moschee pietre contro la polizia, dieci feriti


GERUSALEMME - Al termine delle preghiere islamiche del venerdì, la Spianata delle Moschee a Gerusalemme si è trasformata in un campo di battaglia con scontri tra gruppi di palestinesi e forze di polizia israeliane. Centinaia di palestinesi hanno lanciato pietre davanti alla moschea Al Aqsa in direzione di una vicina stazione di polizia e dell´accesso alla piazza riservato ai non musulmani, gli agenti hanno risposto con gas lacrimogeni e granate assordanti per disperdere la folla. Il bilancio degli scontri è di una decina di feriti e di almeno quattro arresti. Il capo della polizia di Gerusalemme Nisso Shaham ha attribuito la responsabilità delle tensioni degli ultimi giorni sia a estremisti ebrei, sia a islamici legati ad Hamas. La Spianata delle Moschee, luogo sacro tanto per gli ebrei quanto per i musulmani, è motivo di continue frizioni tra le due comunità nel cuore della città.

Corriere della Sera 25.2.12
Legge sull’aborto e medici obiettori in corsia, ormai arriva il magistrato
di Mario Pappagallo


Obiettori di coscienza in crescita. Ginecologi e personale sanitario che rifiutano di prestare la loro opera a donne che richiedono di poter abortire. Così una legge dello Stato, approvata dopo lunghe battaglie, rischia un'attuazione parziale. Incompleta. Fino alla possibilità che le Regioni con i servizi inadempienti debbano rimborsare interventi effettuati altrove o all'estero. È il quadro dipinto dalla «Relazione sull'attuazione della 194 del 1978»: i ginecologi obiettori sono passati, a livello nazionale, dal 58,7% nel 2005 al 69,2% nel 2006, al 71,5% nel 2008 (ultimi dati disponibili). E gli anestesisti, parallelamente, dal 45,7% al 52,6%. Il personale non medico dal 38,6% al 43,3%.
Le percentuali di obiettori, tra personale medico e non, sono più marcate al Sud rispetto alla media nazionale. Tra i ginecologi l'obiezione raggiunge l'85,2% in Basilicata, l'83,9 in Campania, l'82,8 in Molise e l'81,7 in Sicilia. Tra gli anestesisti, il 77,8% in Molise, il 77,1 in Campania e il 75,7 in Sicilia. Tra il personale non medico arriva all'87% in Sicilia e all'82 in Molise. Addirittura in alcune realtà esistono aziende ospedaliere prive dei reparti per l'interruzione della gravidanza visto che l'obiezione è scelta dalla totalità del personale. E questo nonostante la legge preveda che l'ente ospedaliero si faccia comunque carico di provvedere alla richiesta della donna che intende abortire. Il rischio illegalità è dietro l'angolo.
La relazione non poteva passare inosservata e chiede un chiarimento urgente. Come ha fatto Maria Antonietta Farina Coscioni, deputata radicale, che ha presentato un'interrogazione urgente al ministro della Salute. Sottolineando che, andando avanti così, si arriverà (ma è già accaduto) all'intervento della magistratura. Come a Messina, dove è stato chiesto il rinvio a giudizio per un medico di guardia del reparto di Ostetricia e ginecologia del Policlinico che si sarebbe rifiutato di assistere una donna che aveva richiesto un aborto terapeutico programmato per le gravi malformazioni del feto. Al momento delle contrazioni, nessuno sarebbe intervenuto a prestarle soccorso. Tutti obiettori. E la donna abortì nel bagno della sua stanza in ospedale.

Repubblica 25.2.12
Quell’articolo del codice che lo rimise in libertà e gli strani "amici" tedeschi
Il “ravvedimento” di Gramsci
Un saggio su "Nuova Storia Contemporanea", di cui pubblichiamo una sintesi, riflette su alcuni passaggi della biografia del dirigente comunista
"Il prigioniero si premurò perché non venisse attivata alcuna campagna internazionale"
"Il villino nel quartiere borghese gli garantiva tranquillità e cure mediche"
di Dario Biocca


Da molti anni si scrive e si discute appassionatamente di Antonio Gramsci. L´interesse in Italia e nel mondo sembra inesauribile eppure rimane evanescente ancora ciò che, a settanta anni dalla morte, dovrebbe costituire l´oggetto primo di ogni riflessione biografica: il carattere, l´esperienza umana, la sofferenza, la percezione dell´amore e della morte. Temi difficili, certo, ma i soli che consentano oggi di rileggere e comprendere molti testi gramsciani (e non solo). Invece della vita di Gramsci conosciamo poco e ogni elemento risulta filtrato negli anni da una storiografia a volte troppo politicizzata.
Basta citare un esempio – ma si tratta di un elemento che riveste una evidente e persino dirompente rilevanza interpretativa. Nel settembre del 1934 Antonio Gramsci, ricoverato in una clinica di Formia in stato di detenzione, inviò una lettera manoscritta a Mussolini e chiese la concessione della libertà condizionale. La richiesta fu accolta e poco dopo Gramsci fu prelevato dal Professor Vittorio Puccinelli, luminare della chirurgia italiana nonché medico personale di Mussolini, e trasferito nella più accogliente delle cliniche romane, la Quisisana. Per Gramsci fu una svolta a cui da tempo e minuziosamente si era preparato. Alla Quisisana, nella sua nuova condizione, avrebbe potuto curarsi, incontrare ogni giorno i familiari e la cognata Tat´jana Šucht, informarsi del mondo "grande e terribile", finalmente scrivere senza censure, forse rivedere anche Julija e i suoi due figli.
Nel prendere atto della misura accordata in favore di Gramsci le biografie osservano che "vi fu un indulto" e "venne promulgata un´amnistia" a causa della "forte pressione esercitata dall´opinione pubblica internazionale" preoccupata per le condizioni di salute del prigioniero. Eppure i documenti raccontano una vicenda diversa e ben più complessa. Gramsci si appellò a un articolo del Codice penale (il n. 176) che prevedeva la concessione della libertà condizionale in caso di ravvedimento del detenuto, una procedura analoga alla domanda di grazia. Nel testo era scritto a chiare lettere: «Il condannato a pena detentiva che, durante il tempo di esecuzione della pena, abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento, può essere ammesso alla libertà condizionale». Gramsci non chiese invece l´applicazione degli articoli che prevedevano la sospensione della pena per ragioni di salute. La documentazione indica inoltre che dal carcere Gramsci si adoperò (scongiurando Tat´jana di seguire le sue indicazioni) affinché non fosse avviata alcuna campagna per la sua liberazione e i vertici del Pcd´I non fossero informati delle sue iniziative. Del resto, poco prima da Parigi i comunisti avevano lanciato una campagna in suo favore e Gramsci comprese che ogni speranza era stata così compromessa; Mussolini non avrebbe ceduto a pressioni politiche o di piazza. Il percorso giudiziario (e non solo) del detenuto Gramsci fu dunque diverso da quello che la storiografia ha fino a oggi indicato.
Viene da chiedersi se con il "ravvedimento" e la richiesta inoltrata a Mussolini Gramsci tradì la fiducia dei compagni (in primo luogo quelli detenuti) e i suoi stessi principii. Ma il concetto di "tradimento" è in questo caso, come in mille altre analoghe circostanze, nemico della ragione, della pietas e del semplice buon senso. Gramsci stesso aveva scritto: «In Italia dicono che uno diventa vecchio quando incomincia a pensare alla morte; mi pare una osservazione molto assennata. In carcere questa svolta psicologica si verifica appena il carcerato sente di essere preso nella morsa e di non poterle più sfuggire». Era, lo ricordiamo, il 1934 e nessun dirigente comunista aveva (né avrebbe) ottenuto la libertà condizionale senza fornire prova di "sottomissione". Il percorso seguito da Gramsci era stato particolarmente sofferto. Nel carcere di Turi aveva parlato a lungo, fra gli altri, con Francesco Lo Sardo, un deputato arrestato, come Gramsci, nel novembre del 1926. Lo Sardo era cardiopatico e, dietro insistenza della moglie si era risolto infine ad associarsi alla domanda di grazia per potersi curare in una clinica. Anche i Carabinieri si espressero a favore di un atto di clemenza ma sul fascicolo è scritto: «È uno dei più temibili nemici del Fascismo». La domanda fu respinta e Lo Sardo morì in carcere dopo una straziante agonia.
Anche Gramsci era malato. I farmaci antipsicotici che assumeva, i dolori alla schiena, alle mani, alle gengive, le nevralgie che lo assillavano, già da anni lo avevano indotto a vivere lontano dai compagni e celare elementi intimi e privati della sua vita. È singolare, di nuovo, che le biografie abbiano qualificato i padroni di casa di Gramsci a Roma tra il 1924 e il 1926, i coniugi tedeschi Clara e George Philipp Passarge, come ignari "affittacamere". Non lo erano. Passarge era tra i più noti farmacisti della capitale, in relazione con i migliori medici e scienziati, da Raffaele Bastianelli a Giovanni Battista Grassi. Il figlio dei Passarge, Mario, era il corrispondente del Vossische Zeitung e ben introdotto negli ambienti politici e parlamentari della capitale; era anche intimo amico di Carmine Senise, il futuro Capo della polizia. Senise tenne a battesimo la figlia di Passarge, Dagmar, proprio nei mesi in cui Gramsci viveva nel villino in Via Morgagni. La sola, plausibile spiegazione alla sorprendente convivenza è che Gramsci intendesse proteggere la propria riservatezza e la propria salute. Nell´accogliente appartamento dei Passarge, nel più borghese e "tranquillo" dei quartieri di Roma, avrebbe proseguito le cure intraprese in Russia e in Austria; avrebbe ottenuto i farmaci di cui aveva bisogno e richiesto, quando necessaria, l´assistenza di sanitari in un ambiente familiare che, con ogni evidenza, Gramsci apprezzava. Stupisce che Mario Passarge, dopo l´avvento del nazismo, si trasferì a Berlino per guidare l´ufficio stampa dell´NW7, il temibile servizio di spionaggio della I.G. Farben, e che per questo fu chiamato a testimoniare al processo di Norimberga per crimini di guerra. Ma questa, certamente, è un’altra storia.
Gramsci si spense a Roma nell´aprile del 1937. Aveva 46 anni. Le ricerche fin qui condotte dagli storici non spiegano neppure chi, al termine della degenza, estinse il debito con la clinica Quisisana e saldò le parcelle dei medici. Sappiamo tuttavia che Gramsci avrebbe preferito la più sobria casa di cura "Diaconesse germaniche" dove, alcuni anni prima, si era spenta la Signora Clara Passarge. Nel 1938, alla vigilia del suo ritorno in Russia, Tat´jana Šucht depose l´urna con le ceneri nel cimitero protestante di Roma in un luogo appartato lungo le mura aureliane. Poco lontano erano la tomba della Signora Clara e il monumento in marmo bianco dedicato alla figlia Elsbeth, scomparsa a soli quindici giorni dal matrimonio. Nel corso degli anni il monumento alla ventenne tedesca divenne meta di un singolare pellegrinaggio. I visitatori del cimitero, ancora oggi, depongono fiori tra le mani della sposa dal viso triste perché, a cento anni dalla sua morte, ancora Elsbeth Passarge "dona fortuna" a chi la ricorda. Nel dopoguerra, invece, la tomba di Gramsci fu trasferita presso i cancelli di ingresso al cimitero affinché i visitatori, sempre più numerosi alle commemorazioni del Partito, non affollassero i sentieri che separano le tombe austere e silenziose degli acattolici. Un altro, sottile filo della memoria venne reciso in nome della condivisione del mito.

La Stampa TuttoLibri 25.2.12
Narrami, o diva, le gesta degli eroi
di Claudio Franzoni


Giulio Guidorizzi (a cura di) IL MITO GRECO. II. GLI EROI Mondadori, pp. 1759, 60

Quante volte abbiamo sentito, anche di recente, che un tale «si è comportato da eroe», per poi scoprire che niente altro aveva fatto se non compiere ciò che gli imponeva il ruolo o la carica ricoperta. Come altri termini del discorso quotidiano anche questo si è sbiadito, diventando buono per tutte le occasioni; e se l’eroismo può essere dappertutto, ecco che devono entrare in scena anche dei «supereroi», per ora confinati al cinema o nei fumetti.
In Grecia - è qui infatti che essa nacque - la parola «eroe» non serviva per qualificare un’azione, ma per indicare persone ben precise, vissute in un tempo non così remoto come quello degli dèi, ma immediatamente precedente l’inizio della storia degli uomini. Gli eroi , a cura di Giulio Guidorizzi - secondo dei Meridiani dedicati al mito greco dopo quello sugli dèi - offre ora una vasta raccolta di racconti incentrati su queste figure, favolose e concrete al tempo stesso. Omicidi, suicidi, avvelenamenti e accecamenti, uccisioni in serie, stupri; fanciulli chiusi in casse e gettati in mare oppure abbandonati sui monti; ma anche viaggi, incontri e separazioni, sogni e innamoramenti. Tutto si può dire tranne che le peripezie di eroi ed eroine antichi lascino annoiati; anche per questo, per orientarsi nel labirintico dedalo di racconti, Marzia Mortarino ha approntato un corposo indice che traccia per ogni personaggio mitico una sorta di «biografia».
Ciò che più colpisce è che eroi e uomini comuni condividono gli stessi spazi e a volte, le stesse attività: alcuni di essi sono stati artisti, medici e sciamani, inventori, civilizzatori, fondatori di città, atleti, caduti per la patria. Che cosa li identifica allora come eroi? Sono tutti segnati da un destino straordinario che li porta a compiere cose fuori dal comune. Si direbbe che il temperamento sia un indice della loro diversità: in qualsiasi impresa si siano avventurati si comportano impulsivamente, con una folle vitalità, in modo eccessivo; sembrano spinti da una volontà di autoaffermazione che rasenta talora la pazzia e li spinge ad essere temerari, spietati, a violare ogni limite. Non è allora necessario che quelle che compiono siano «buone azioni», anzi, a volte le loro gesta consistono in delitti orrendi.
Persino quando muoiono lo fanno in modo eccezionale: i guerrieri dell’uno e dell’altro campo sotto le mura di Troia cadono nella polvere dopo aver pronunciato parole solenni, dopo aver lanciato occhiate tremende e dopo aver disposto le proprie bellissime membra in posture memorabili. Ma c’è anche chi, come Glauco, figlio di Minosse e Pasifae, da bambino «inseguendo un topo, cadde in un grande orcio pieno di miele e morì»; il padre interroga gli indovini e uno di questi, Poliido, riesce addirittura a restituire la vita a Glauco, meritandosi i doni di Minosse.
A volte, proprio a proposito della morte, il racconto mitico perde il tono divagante e fantastico, concretizzandosi in cose e luoghi ben precisi; i Greci infatti erano certi che alcune tombe monumentali (in realtà di epoca micenea) fossero sepolture di eroi; in certi casi questi sepolcri divennero il centro simbolico in cui si identificava una comunità e attorno a cui ruotava la vita cittadina. Ancora nel II secolo dopo Cristo, Pausania descrive minuziosamente i culti che continuavano a essere tributati alle tombe di eroi, rituali che variavano da luogo a luogo e che, in generale, erano praticati di sera o di notte, a differenza di quelli diurni riservati agli dèi olimpici. I racconti che localmente si tramandavano su questi personaggi vennero poi raccolti da poeti e scrittori, che diedero ad essi una forma artisticamente elevata, a loro volta contribuendo a preservarne la memoria e a consegnarla alla storia della letteratura occidentale.
In questi canti gli eroi greci non appaiono affatto come figure eteree; anzi, è sul loro corpo che si imperniano molte storie che li riguardano. Al piccolo Edipo, il cui nome voleva proprio dire «Piedi gonfi», vengono traforati i piedi. Il piede di Acrisio, re di Argo, viene colpito dal disco lanciato da Perseo durante una gara, si infetta e lo porta alla morte. I piedi hanno a che fare anche con la storia di Giasone, ripresa anche da Pindaro: come accadrà poi nella fiaba a Cenerentola, Giasone perde una scarpa e si presenta così, con un piede scalzo, a Pelia, re di Iolco; quando questi lo vede viene preso dalla paura, perché un oracolo lo aveva avvertito che un uomo con un solo calzare gli avrebbe preso il trono. Anche la vita di Telefo è segnata dalla ferita inguaribile che Achille gli ha inferto a una gamba. Invece a Filottete, durante il viaggio dei Greci verso Troia, capita di essere morso da un serpente e il cattivo odore che la ferita sprigiona convince i compagni ad abbandonarlo da solo sull’isola di Lemno. Eroi ed eroine, ma sempre vicende umane, troppo umane.
"Figure segnate da un destino straordinario che le porta a compiere cose fuori dal comune I loro sepolcri divennero il centro simbolico in cui si identificava una comunità: intorno ruotava la vita cittadina"

Repubblica 25.2.12
Tintoretto
L’arte veloce del maestro della luce

di Cesare De Seta

Alle Scuderie del Quirinale di Roma l´esposizione dedicata a uno dei più grandi talenti della pittura veneta del Cinquecento
Pietro Aretino ebbe rapporti difficili con lui. Scrisse della sua "tristizia e follia"
L´eco di Tiziano risalta nella "Susanna" con l´artificio dello specchio
L´imprimitura scura diviene parte della stessa cromia delle tele

ROMA Pietro Aretino, insigne scrittore e amico di pittori, ebbe rapporti difficili con Tintoretto e scrisse della "tristizia e follia" di Jacopo Robusti (1518-1594): nato a Venezia aveva preso nome dal padre tintore, nella cui bottega imparò a maneggiare tessuti preziosi, a valutare i pigmenti dei velluti, carezzando sotto la luce la tessitura marezzata delle sete. E in quella bottega cominciò a disegnare sulle pareti col carboncino. Il padre lo mandò da Tiziano e per qualche tempo ci rimase. A soli diciotto anni fu ammesso nella Fraglia dei pittori.
Così la leggenda nasce e Tintoretto, passo dopo passo, diviene, alla morte di Tiziano nel 1567, il più celebre pittore di Venezia. Ne prese il posto con il piglio, il talento, l´anticonformismo plastico e illusionistico che ne segnarono l´opera: ebbe per committenti la chiesa, la Serenissima, il patriziato veneto, i Gonzaga, i Fugger, l´imperatore Rodolfo II e Filippo II di Spagna, ma fu anche devoto delle confraternite a cominciare da quella di San Rocco di cui fu membro, e per la quale dipinse uno spettacoloso ciclo di teleri.
La mostra Tintoretto alle Scuderie del Quirinale fino al 10 giugno, (a cura di Vittorio Sgarbi, commissario Giovanni Morello, coordinamento del catalogo Skira G. C. F. Villa, testi in mostra di Melania Mazzucco, autrice di una monumentale biografia dedicata al pittore e allestimento di M. De Lucchi), offre una rassegna in cui suonano tutti i tasti di un prodigioso talento: pittura di storia e mitologica, religiosa e profana, ritratti. Fanno corona tele di Tiziano, Schiavone, Parmigianino, Sustris, El Greco, i Veronese, i Bassano e lo scultore Vittoria.
«Il disegno di Michelangelo e il colorito di Tiziano», scrisse Carlo Ridolfi suo primo biografo, e, nella sua icasticità, l´immagine è felice: perché a Tintoretto riuscì di coniugare le scuola tosco-romana con quella veneziana. Il Miracolo dello schiavo (1547-8) che ci accoglie al primo piano, con le sue monumentali dimensioni, 4 metri per oltre 5, squaderna teatralità e drammaticità: il telero è il primo che dipinse per la Scuola Grande di San Marco. Il santo, circonfuso di luce, piomba dal cielo sullo schiavo destinato al martirio, circondato dai carnefici e da una folla di astanti in abiti sfarzosi o nudi. Le brusche torsioni dei corpi, gli avvitamenti e gli scorci sono come amalgamati nella scena in unità plastica, dove la luce gioca un ruolo essenziale nel modellare la scena, e in cui la "maniera" convive con un accentuato michelangiolismo ben evidente nel nudo in primo piano sulla destra. "La prestezza del fatto", cioè la velocità del suo pennello, stigmatizzata da Aretino, qui diventa qualità stilistica.
In Susanna e i vecchioni (1555 c.) l´eco tizianesco rintocca, l´artificio dello specchio dilata lo spazio, mentre la luce carezza le morbide forme della bionda fanciulla immersa in un paesaggio incantato: la storia, tratta dall´Antico Testamento, assume sapore profano per l´insistita sensualità della scena disseminata di mirabili dettagli in primo piano: altro che "prestezza del fatto". Un tono felicemente favolistico ha la Creazione degli animali (1550-3). Assai più numerose le storie della vita di Cristo: Jacopo, concluso il Concilio di Trento, riuscì a mediare nel suo programma iconografico tra Riforma e Controriforma, fu accorto e non incappò nell´Inquisizione, che non risparmiò invece colleghi come Paolo Veronese. In San Giorgio e il drago (1553-5) il paesaggio assume un rilievo particolare, così in Santa Maria egiziaca e Santa Maria leggente (1582-83), tele verticali.
Jacopo compone avvalendosi di maquette da scena teatrale, con le figure modellate in cera o creta. In studio si serve di modelli maschili e femminili e li mette in posa, poi li veste perché assumano le forme desiderate che gli consentano d´approdare al suo "realismo" plastico. A volte viene di pensare quanto Delacroix abbia attinto a lui e Jean-Paul Sartre, la cui monografia sul nostro è stata edita da Marinotti, l´aveva intuito.
L´influenza che Jacopo Sansovino scultore e architetto eserciterà sulle sue composizioni, è evidente nel Trafugamento del corpo di San Marco (1562-6) in cui la scena architettonica ha una valenza essenziale, e contiene il gruppo che regge il corpo inanimato del santo, ma vigoroso nelle membra michelangiolesche. A Sansovino rese omaggio nel ritratto (1565) che qui si vede. Altre volte attinge liberamente e senza inibizioni alle incisioni del trattato di Serlio, testo che faceva parte della sua biblioteca. L´Ultima cena proveniente dalla chiesa di San Polo (1574-5) restaurata, e la successiva di un decennio, di San Trovaso, sono un momento altamente significativo della mostra, per la straordinaria dinamicità delle composizioni e per il diretto confronto. È assente, hélas, quella di San Giorgio Maggiore: così come bello sarebbe stato avere accanto all´Annunciazione (1558) di Tiziano, così composta, quella di Tintoretto così drammatica, in cui l´angelo irrompe con una schiera di angeli su Maria ed essa ne è spaventata.
Tintoretto dipinse direttamente sulla tela, di qui molti pentimenti, e usa un´imprimitura scura che diviene parte della cromia della tele. Fu sommo ritrattista: malgrado il grande veggente Roberto Longhi lo sbeffeggi – anche Omero sonnecchia – i suoi autoritratti da giovane (1547) e da vecchio (1587), quello a figura intera del Venier, quelli di tre quarti di numerosi membri del patriziato veneto lo confermano. A chi gli chiedeva quali fossero i più bei colori disse: «Il bianco e il nero, perché l´uno dava forza alle figure profondando le ombre, l´altro il rilievo» (Ridolfi). Un risposta alla Malevic.

Repubblica 25.2.12
Era odiato dai rivali per i metodi con cui otteneva le commissioni
Pronto a tutto per dipingere un quadro in più
di Melania Mazzocco


Non finì mai in prigione, come Cellini; né uccise un uomo in una rissa, come Caravaggio. Non morì in miseria né suicida. La sua vita non fu inquieta come la sua opera. Eppure Tintoretto si è meritato nella storia dell´arte una leggenda duratura di simpatica canaglia. Un aggressivo, incendiario grano di pepe. Un pazzo e un mascalzone – un "tristo", per usare le parole di Pietro Aretino (il quale doveva intendersene, essendo la massima canaglia del momento). Ma cosa aveva fatto Tintoretto per guadagnarsi questa fama? Qual´era il suo crimine? Non sapremo mai quanti quadri ha dipinto. Chi dice 468, chi 420, chi 260. Per ogni Tintoretto che viene espunto dal catalogo e declassato a prodotto di bottega, di copista o imitatore, ne spunta un altro, che riemerge con grande clamore mediatico da un castello inglese, dal mercato antiquario o da chissà dove.
Ma anche senza addentrarsi nel ginepraio delle attribuzioni, Tintoretto dipinse più di tutti gli altri pittori del suo tempo, e più di quanto sembra umanamente possibile. "Certo che egli abbraccia troppo", lamentava un conoscente già nel 1556, quando la sua bulimia creativa non si era ancora scatenata. Giorgio Vasari deprecava i ghiribizzi dell´intelletto che lo spingevano a dipingere "fuori dall´uso degli altri pittori" e a non rifinire i quadri; Federico Zuccari lo accusava di avere fatto decadere la pittura con la sua frenesia e il suo furore.
Ma la tecnica pittorica di Tintoretto non li scandalizzava meno dei metodi coi quali si procurava il lavoro. Perché non rispettava precedenze né gerarchie. Era refrattario alle regole in un´epoca in cui parole e comportamenti erano rigidamente codificati. I suoi faticosi primi quindici anni di attività gli avevano insegnato che i concorsi non si vincono col progetto migliore. Ma con quello meglio appoggiato. Così Tintoretto s´ingegna. E´ disposto a manipolare il concorso, a farlo annullare. A lavorare gratis. A contraffare lo stile altrui, a essere se stesso e i suoi rivali, a dipingere in ogni maniera – a essere ognuno. La sua ubiqua inafferrabilità aizza il malumore dei colleghi e le ironie dei critici. Ma che cosa vuole veramente Tintoretto? Denaro? Riscatto sociale? Rispettabilità? Primato sugli altri pittori? Gloria? Forse. In sessant´anni di lavoro si costruisce una posizione, sposa una borghese, schianta la concorrenza, crea una fiorente bottega-azienda, si compra una casa con vista sul canale, diventa celebre. Ma in realtà non gli importa nulla di tutto questo. Ciò che solo vuole, e i suoi contemporanei non lo capiscono, è dipingere. E´ coi quadri che parla e pensa, la pittura l´unica lingua in cui si esprime e si rivela. A quel tempo un pittore non dipingeva per sé. Era inconcepibile. Dipingeva solo su commissione. Dunque Tintoretto ha bisogno di commissioni. E se le procura, a qualunque costo e in qualunque modo. Alla fine, possiamo pensare che fosse dominato e posseduto da una magnifica ossessione: dipingere tutto. Far sì che in ogni contrada di Venezia, chiesa, cappella, palazzo, soffitto, facciata, sala di riunioni, altare, tribunale, restasse traccia di sé. Nascondersi nell´opera, e in essa essere in salvo. Era forse una temeraria, folle sfida alla morte. E Tintoretto l´ha vinta.

Corriere della Sera 25.2.12
Le tre vie al Vero Così Raffaello sconfigge il tempo
«Parnaso», «Scuola di Atene», «Disputa»: è il ruolo eterno di arte, filosofia e religione
di Giovanni Reale


Nel 1511 Raffaello terminava i suoi grandiosi capolavori nella Stanza della Segnatura, studio del Pontefice, i quali esprimevano un vero e proprio programma ideale del pensiero della Chiesa rinascimentale. I tre grandi affreschi, che hanno assunto i titoli Il Parnaso, La Scuola di Atene e La Disputa, rappresentano, infatti, quelle che sono state considerate le tre grandi vie che l'uomo percorre nella sua ricerca del Vero e dell'Assoluto: l'arte, la filosofia e la religione.
L'arte ricerca l'Assoluto mediante la poesia (espressa in varie forme), la filosofia mediante la ragione, e la religione mediante la fede. Raffaello rappresenta tali concetti in forme immaginifiche pressoché perfette e come paradigmi che si impongono nella dimensione del classico.
Robert von Zimmermann nel suo trattato di estetica (1865) scriveva: «Shakespeare non è meno classico di Omero; anche Raffaello sta accanto a Fidia». E precisava: «La pura forma estetica del classico non include alcuna determinazione di tempo; il classico sta nel tempo, la classicità sta fuori dal tempo». E in effetti, quegli affreschi di Raffaello rimangono vivi oggi come cinquecento anni fa, e incantano chi li guarda, come incantavano il pontefice Giulio II che li aveva commissionati.
Il Parnaso è l'affresco meno studiato e meno gustato, anche perché è tagliato in basso al centro dalla parte alta di una porta che risulta disturbante. Alcuni rimangono perplessi per l'Apollo che sta al centro, e che si differenzia nettamente dalle raffigurazioni greche classiche. Ma esso rappresenta l'immagine tipicamente rinascimentale del dio, e rispecchia il concetto platonico dell'«ispirazione poetica», come viene presentato nel Fedro: «L'invasamento e la mania che provengono dalle Muse, impossessatesi di un'anima tenera e pura, la destano e la traggono fuori di sé nella ispirazione bacchica in canti e in altre poesie…». Incantevoli sono poi le Muse, raffigurate in molti casi con gli strumenti che le caratterizzano. I quattro gruppi di poeti sono suddivisi in lirici, epici, bucolici e tragici, secondo una formula esemplare; e alcuni di essi sono raffigurati in modo assai efficace, come per esempio Saffo, Omero, Dante e i tre grandi tragici greci Eschilo, Sofocle e Euripide.
La Scuola di Atene è certamente l'affresco di Raffaello più noto e più studiato a livello internazionale. Friedrich Adolf Trendelenburg scriveva che in esso i personaggi non rappresentano «un passato», bensì «la permanente attualità della storia» del pensiero, e quindi una storia contratta in un eterno presente. Edgar Morin, in Pensare l'Europa, scrive che nel Medioevo la «Scuola di Atene» era morta, la sua porta fu riaperta nel Rinascimento, e la sua perennità fu consacrata proprio in questo affresco nella Stanza della Segnatura in Vaticano. E conclude: «La riattivazione dell'eredità greca, merito originale del Rinascimento, diventa permanente. Da questo momento il pensiero, la poesia e l'arte europea rimangono ancorati a questa fonte».
Raffaello rappresenta il pensiero greco dalle origini alla fine in ottica platonica, con le precise indicazioni dategli da Fedro Inghirami, straordinario conoscitore e amante dell'antichità. Inizia dalla raffigurazione del messaggio degli orfici (alla sinistra per chi guarda) con un sacerdote (raffigurato con il volto dello stesso Inghirami) che sta leggendo, da un libro appoggiato sulla base di una colonna, la grande rivelazione secondo la quale l'anima dell'uomo era un demone divino, che per un peccato commesso era stato rinchiuso nel carcere di un corpo, ma che attraverso una serie di reincarnazioni ritornerà a essere un dio fra gli dèi. La base su cui è appoggiato il libro orfico costituisce un simbolo del pensiero greco, che si svilupperà proprio come una colonna spirituale appoggiata su quella base. A fianco sono rappresentati i pitagorici e i filosofi presocratici che si sono ispirati all'orfismo, e in particolare Empedocle ed Eraclito (con le fattezze di Michelangelo). Nella parte destra è raffigurato lo splendido gruppo dei geometri con Euclide (nelle sembianze di Bramante), con accanto due personaggi simboleggianti la geometria e l'astronomia. Al centro, seduto sulla scalinata, è raffigurato Diogene il Cinico. In alto a sinistra sono rappresentati tre sofisti, Prodico, Protagora e Gorgia. Uno dei socratici vorrebbe scacciarli dal consesso dei filosofi, mentre Gorgia gli sta rispondendo: eppure ci siamo anche noi! Il gruppo dei socratici è splendido. Sono ben riconoscibili, fra i vari personaggi, Alcibiade e Senofonte. Al centro spiccano le due figure più belle: Platone (con il viso di Leonardo da Vinci) e Aristotele, con accanto gruppi di loro discepoli rappresentati in maniera superba. Dopo un gruppo che rappresenta un maestro con discepoli, è raffigurato da solo Plotino, che nel Rinascimento venne rivalutato e ammirato (nel 1492 Ficino pubblicava la traduzione delle Enneadi che ebbe importanza epocale). Viene raffigurato isolato, in quanto sosteneva che il vertice della vita perfetta consisteva in una eliminazione di tutto, e in una fuga verso Dio «da solo a Solo».
L'affresco intitolato La Disputa è ispirato soprattutto al tredicesimo libro delle Confessioni (come ha dimostrato Heinrich Pfeiffer). In effetti Agostino, in quanto platonico, nel Rinascimento era stato rivalutato rispetto a Tommaso. Raffaello lo rappresenta a destra in modo imponente, mentre sta dettando a uno scrivano, mentre San Tommaso è raffigurato alle sue spalle a mezzo busto.
«Disputa», sulla base del testo agostiniano, non significa una discussione, ma una «rivelazione» che viene data all'uomo dall'alto, e non (come molti hanno pensato) sul sacramento dell'Eucaristia, che nel grande affresco rappresenta solo un piccolo particolare, ma sulla realtà in generale, ossia Dio, la Trinità, le vite angeliche, gli evangelisti, i santi e gli uomini che cercano e discutono di Dio, rappresentati su tre livelli: quello sopraceleste, quello celeste e quello terrestre. La Trinità è poi rappresentata come un cuneo verticale, con al vertice Dio Padre, sotto di lui Cristo, cui segue la colomba simbolo dello Spirito Santo, con al di sotto di tutti l'ostia consacrata, simbolo di Cristo incarnato (e quindi della Trinità).
La composizione di questo affresco è stata probabilmente la più impegnativa per Raffaello, come dimostrano le numerose prove e i bozzetti che ci ha lasciato. Alcuni lo considerano come il vertice artistico di Raffaello. Johann Friedrich Overbeck scriveva: «Giammai forse nella pittura è stato creato alcunché di più sublime di questa gloria della Disputa. Si vede il cielo aperto, e si resta rapiti come Stefano». E qualcuno lo ritiene superiore alla stessa Scuola di Atene.
Questi tre capolavori danno veramente il meglio di Raffaello, e fanno capire quanto sia vero ciò che Friedrich Nietzsche diceva di lui, considerandolo un vulcano e una straordinaria forza creativa naturale senza pari e irripetibile, quando scriveva: «Solo perché non sapete che cosa sia una natura naturans come quella di Raffaello, non vi fa né caldo né freddo apprendere che essa fu, e che non sarà più».

Corriere della Sera 25.2.12
Ecco i segreti vaticani con l'abiura di Galileo e il caso di Enrico VIII
di Lauretta Colonnelli


Nell'immaginario collettivo è il più segreto e inaccessibile degli archivi, mai visitato se non da studiosi che abbiano ottenuto particolari permessi dalla Santa Sede. Ora per la prima volta l'Archivio segreto vaticano, creato nel 1612 da Paolo V nel Palazzo Apostolico e oggetto per secoli di fantasie alla Dan Brown, apre i battenti e lascia uscire un centinaio di documenti leggendari. Il 29 febbraio, alle 15, codici e pergamene, registri e manoscritti, tutti originali, saranno presentati ai Musei Capitolini, dove resteranno visibili al pubblico fino al 9 settembre.
Lo scopo è raccontare che cos'è e come funziona l'archivio dei Papi e rendere possibile la conoscenza di alcune tra le meraviglie custodite da 400 anni in oltre 85 chilometri lineari di scaffali situati in un bunker sotto il cortile della Pigna, nel cuore dello Stato vaticano. Intitolata «Lux in Arcana», la mostra vuole sottolineare la luce che filtra nei recessi dell'archivio. La scelta dei Musei Capitolini, voluti da Sisto IV nel 1471, intende ricordare il legame tra Roma e papato fin dall'epoca medievale.
Tra i documenti che più emozionano, il testo dell'abiura fatta firmare a Galileo il 22 giugno del 1633. Le parole si conoscevano: «Io Galileo Galilei sodetto ho abiurato…». Ma vedere quella «I» di «Io» che si allunga tremolante sui fogli ingialliti, tracciata alla fine degli interrogatori del Sant'Uffizio da una mano stremata, fa rivivere la sofferenza dello scienziato. Tra i tesori più singolari, la pergamena firmata nel 1530 da 83 Lord della Camera dei Comuni di Londra con la petizione a Clemente VII perché annullasse il matrimonio tra Enrico VIII e Caterina d'Aragona. Oppure la lettera su seta scritta a Innocenzo X dall'imperatrice cinese Wang che nel 1650 si era convertita al Cristianesimo assumendo il nome di Elena e battezzando il figlio Yongli con il nome di Costantino. E quella incisa su una corteccia di betulla che gli indiani d'America della tribù Ojibwe avevano inviato nel 1887 come omaggio a Leone XIII, «Grande Maestro della Preghiera, colui che fa le veci di Gesù». Ancora, la lettera inviata il 10 giugno 1494 da Lucrezia Borgia a suo padre, papa Alessandro VI. Lucrezia, una delle più note e controverse figure del Rinascimento, usata spesso dal padre come strumento politico, all'epoca aveva 14 anni ed era stata appena data in sposa a Giovanni Sforza, che aveva raggiunto a Pesaro. Nella lettera racconta della festosa accoglienza ricevuta, ma avverte anche il Papa che gli Sforza si sono schierati con Carlo VIII contro di lui e lo prega teneramente di stare in guardia e lasciare Roma.