sabato 10 agosto 2019


La Stampa 10.9.2019
Crisi di governo, Grillo contro il voto: “Cambiamenti subito, salviamo l’Italia dai nuovi barbari”


ROMA. «Dobbiamo fare dei cambiamenti? Facciamoli subito, altro che elezioni, salviamo il Paese dal restyling in grigioverde dell'establishment, che lo sta avvolgendo! Come un serpente che cambia la pelle». Lo scrivo Beppe Grillo a conclusione di un suo post sul blog, il primo da quando Matteo Salvini ha aperto la crisi di governo.
In questo modo – come confermano fonti governative pentastellate – Grillo tiene aperti tutti gli scenari e ricompatta il movimento per dichiarare «guerra» al tradimento di Salvini. «Io non vorrei - scrive Grillo - che la gente abbia confuso la biodegradabilità con l'essere dei kamikaze. Noi ci muoviamo sinuosi nel mondo e i nostri nemici pregano che la coerenza, solo la nostra, sia una sorta di colonna vertebrale di cristallo: “Non vi preoccupate sono talmente coerenti che si spezzano piuttosto che sopravvivere!”.
Questo pensano, pure molti sprovveduti al nostro interno. Le lavatrici buttate nei fiumi cosa sono nella loro essenza? Coerentemente in attesa di arruginirsi? Ed è così che pregano e sperano che sia il M5s. C'è Matteo Salvini che immagina il Movimento come qualcosa che vive solo grazie a lui! Ma siamo diventati scemi?».
Anna Maria Bernini, presidente dei senatori di Forza Italia, commenta: «Grillo chiede ai suoi di fare i cambiamenti subito. Altro che elezioni, scrive. I suoi proclami diventano sempre più oscuri, ma il cambiamento purtroppo c'è già stato e ha fatto tragicamente rima con fallimento. Il fallimento suo, del suo Movimento e del governo guidato dai suoi alfieri. Il vero cambiamento potrà arrivare solo dalle elezioni, perché in democrazia funziona così: sarà un vaffa day al contrario, questa volta, e stia certo Grillo, l'estate lo illuminerà già da stanotte, quando appariranno in cielo Cinque stelle cadenti».
Luigi Di Maio, su Facebook, ha postato l'articolo di Grillo, commentando: «Beppe è con noi ed è sempre stato con noi! Il vero cambiamento è il taglio dei parlamentari. Le vere elezioni si fanno con 345 poltrone in meno. Serve cambiare. E subito!».

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venerdì 9 agosto 2019

il manifesto 9.8.19
Rino Formica: «È l’ultima chiamata prima della guerra civile. Ora il Presidente parli»
L'intervista . L’ex ministro socialista: «Assistiamo alla decomposizione delle istituzioni, nel decreto sicurezza si accetta la fine del ruolo di Palazzo Chigi. I leader politici sono screditati. Solo un’autorità morale e politica può mobilitare la calma forza democratica dell’opinione pubblica. Lo strumento c’è, è il messaggio del Colle alle camere»
intervista di Daniela Preziosi


«Quando si rompono gli equilibri istituzionali o c’è la soluzione democratica, o decide la forza. Se non ci sono soluzioni democratiche c’è la guerra civile». Con Rino Formica – classe 1927, socialista, più volte ministro, da più di mezzo secolo le sue definizioni della politica e dei politici sono sentenze affilate, arcinote e definitive – il viaggio per approdare all’oggi, un oggi drammatico, inizia da lontano. Con il Pietro Nenni «di quei dieci giorni lunghi quanto un secolo fra il 2 e il 12 giugno del ’46», racconta, «fra il referendum e la proclamazione della Repubblica c’è il tentativo del re di bloccare la proclamazione della Repubblica. Umberto resisteva al Quirinale. I tre grandi protagonisti, De Gasperi Togliatti e Nenni, presero la decisione di convocare il Consiglio dei Ministri e di dare i poteri di capo dello stato a De Gasperi, che era presidente del consiglio. De Gasperi andò al Quirinale sfrattò Umberto. In quei giorni noi, dalle federazioni del partito socialista, chiedemmo che fare. C’era il rischio reale che si bloccasse il processo democratico. Nenni appunto diramò la disposizione: quando si rompono gli equilibri istituzionali o c’è la soluzione democratica o la parola passa alla forza». Questa è la «questione», sostiene Formica.
Stiamo assistendo a una rottura istituzionale?
Questa rottura è antica, maturava già dagli anni 70, ma il tema viene strozzato. Il contesto internazionale è bloccato, un paese di frontiera come l’Italia deve fronteggiare equilibri interni ed internazionali. Nell’89 questo blocco salta, ma le classi dirigenti non affrontano il tema della desovranizzazione degli stati che diventavano affluenti dell’Europa unitaria. I grandi partiti entrano in crisi. Il Pci è in crisi logistica e di orientamento; il Psi perde la rendita di posizione; la Dc è alla fine della sua funzione storica.
Torniamo alla nostra crisi istituzionale.
Da allora abbiamo due documenti importanti. Il primo è del ’91, il messaggio alle camere di Cossiga che spiega che l’equilibro politico e sociale è superato. Poi, nel 2013, il discorso del secondo mandato di Napolitano. Due uomini diversi, con due approcci diversi, con coraggio pongono al parlamento il tema del perdurare della crisi. E i parlamentari, fino ad oggi, continuano a far finta che tutto va bene, che è solo un temporale, passerà. Oggi siamo alla decomposizione istituzionale del paese.
Quali sono i segnali della «decomposizione»?
Innanzitutto il governo: non c’è. Oggi ci sono tribù che occupano posizioni che una volta erano del governo. Il presidente del consiglio convoca le parti sociali, ma il giorno dopo le convoca il ministro degli interni. E i sindacati vanno. Quando il sindacato non ha un interlocutore istituzionale ma va da chi lo chiama si autodeclassa a corporazione: vado ovunque si discuta dei miei interessi. Allora: non c’è un governo, perché la sua attività è stata espunta; non ci sono i partiti né i sindacati. È la crisi dei corpi dello stato. Si assiste a un deperimento anche delle ultime sentinelle, l’informazione, la magistratura.
Sta dicendo che non c’è alternativa alla guerra civile?
C’è. Oggi siamo in condizione di mobilitare la calma forza democratica dell’opinione pubblica? Chi può animarla? I leader politici sono deboli o screditati. Serve l’autorità morale e politica che può creare un nuovo pathos nel paese. Uno strumento democratico c’è, sta nella Carta. È il messaggio del presidente della Repubblica alle camere. Nell’81 la camera pubblicò un volume sui messaggi dei presidenti. Nella prefazione il costituzionalista Paolo Ungari spiega che il messaggio alle camere ha una grande importanza. Il presidente ha due modi per dialogare con il parlamento. Il primo è quando interviene nel processo legislativo. Quando rinvia alle camere un disegno di legge per incostituzionalità. È vero che non ha il diritto di veto ma – dice Ungari – porta il dissenso dinanzi al parlamento e anche all’opinione pubblica, «un terzo e non silenzioso protagonista».
Dovrebbe succedere con il decreto sicurezza bis?
Leggo che Mattarella ha dubbi. Forse ha dubbi su di sé: le norme incostituzionali stavano già nel testo che ha firmato e inviato alle camere. Lì si accettava il superamento della funzione del presidente del consiglio: non c’è più, viene informato dal ministro degli interni. È la negazione della norma costituzionale. Ma è vero che se oggi lo rimandasse alle camere la maggioranza potrebbe ben dire: abbiamo votato quello che tu hai già firmato.
Allora cosa può fare?
La situazione di oggi è figlia dell’errore del 2018. Il presidente dà l’incarico esplorativo a Cottarelli e questo incarico viene sospeso dall’esterno da due signori che notificano al Quirinale di non procedere perché stanno stilando un «contratto» di cui indicano l’arbitro, il presidente del consiglio. È il declassamento dall’accordo politico a contratto di natura civilistica, uno stravolgimento costituzionale. L’accordo di governo è altra cosa: stabilisce una cornice politica generale. L’errore è dei contraenti, ma chi lo ha avallato poteva fare diversamente? Se il presidente del consiglio è arbitro si accetta il fatto che la crisi istituzionale si supera attraverso una extrademocrazia aperta a tutti i venti.
Un punto di non ritorno?
Il problema ora è mettere uno stop. Il presidente della Repubblica dovrebbe fare un messaggio sullo stato di salute delle istituzioni. Il presidente del consiglio non c’è più, il governo neanche, la funzione della maggioranza è mutata fra decretazione e voto di fiducia. Ormai, di fatto, una camera discute, l’altra solo vota. Si sta consumando un mutamento dell’equilibrio istituzionale. Il presidente ci deve dire se questa Costituzione è diventata impraticabile.
Intanto il Viminale allarga i suoi poteri.
Salvini crea una novità nel nostro tessuto democratico. All’interno di un sistema di sicurezza crea una fazione istituzionale di partito: spezza un corpo dello stato in fazioni politiche. Il rischio è che nasca una polizia salviniana. Che avrebbe come conseguenza la nascita della Rosa bianca, come sotto Hitler. E non solo. Ormai Salvini fa in continuazione dichiarazioni di politica estera che si pongono al di fuori dei trattati a cui aderisce l’Italia.
Mattarella ha gli strumenti per fermarlo?
Mattarella viene da una educazione morotea, quella della inclusione di tutte le forze che emergono, anche le più incompatibili. Ma ne dà un’interpretazione scolastica. Moro spiega la sua visione nell’ultimo discorso ai gruppi parlamentari Dc, prima del sequestro. Convince i suoi all’inclusione del Pci nel governo ma, aggiunge, se dovessimo accorgerci che fra gli inclusi e gli includenti c’è conflitto sul terreno dei valori, noi passeremo all’opposizione. L’inclusione insomma non può prescindere dai valori. Altrimenti porta alla distruzione dei valori anche di quelli che li hanno. Infatti il contratto non è un’intesa fra i valori ma tra gli interessi.
Insomma questo governo è un cavallo di troia nelle istituzioni?
È la mela marcia che infetta il cesto.
Mattarella può ancora intervenire?
Non c’è tempo da perdere, deve rivolgersi al parlamento. L’opinione pubblica deve essere rimotivata, deve sapere che ha una guida morale, politica e istituzionale. Si sta creando il clima degli anni 30 intorno a Mussolini.
I consensi di Salvini crescono, l’opinione pubblica ormai si forma al Papeete beach.
Ma no, Salvini cresce perché non c’è un’alternativa. Un messaggio del presidente darebbe forza a quelle tendenze maggioritarie nell’Ue che hanno bisogno di sapere se in Italia c’è qualcuno che denuncia il deperimento democratico. Anche perché, non dimentichiamolo, l’Unione ha l’arma della procedura di infrazione per deperimento democratico, già usata per la Polonia.
In questo suo ragionamento l’opposizione non ha ruolo?
Il paese è stanco, il Pd non è in condizioni di rimotivarlo. Nessuno ne ha la forza. La stampa è sotto attacco, si difende, ma per quanto ancora? Hanno aggredito Radio radicale, i giornali, dal manifesto all’Avvenire, intimidiscono anche la stampa più robusta. Solo una forte drammatizzazione istituzionale può riuscire. All’incontro con i cronisti parlamentari Mattarella ha fatto un discorso importante. Ecco, tutti insieme dovrebbero chiedergli di ripeterlo ma in forma di messaggio alle camere. Per dare un rilievo ufficiale agli attacchi alla libera stampa. La signora Van der Leyen non potrebbe non intervenire.
Anche perché resta il dubbio che la Lega sia strumento della Russia contro l’Ue.
I rapporti fra Salvini e la Russia di Putin sono servili. La Russia ha un forte interesse a un’Italia destabilizzata per destabilizzare l’Europa. Il disegno non è di Salvini, lui è solo un servo assatanato di potere.
Ministro, con Salvini sono tornate le ballerine, stavolta in spiaggia?
Quando parlai di «nani e ballerine» intendevo che non si allarga alla società civile mettendo in un organo politico i professionisti del balletto. Qui siamo alla versione pezzente del Rubigate. Quello di Berlusconi era un populismo di transizione ma non si può negare che intercettasse sentimenti popolari. Salvini invece eccita i risentimenti plebei.
Chiede al Colle di agire un conflitto inedito nella storia repubblicana?
Ma se questa situazione va avanti, fra due anni Salvini si eleggerà il suo presidente della Repubblica, la sua Consulta, il suo Csm e il suo governo. Siamo al limite. Lo dico con Nenni: siamo all’ultima chiamata prima della guerra civile nazionalsovranista.



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domenica 4 agosto 2019

il manifesto 4.8.19
Alias Domenica   
Becker a Heidegger, distrutti gli assunti della coscienza
Lettere inedite. A metà degli anni Venti, molto precocemente interessato alla psicoanalisi, Oskar Becker non solo riconosce il genio di Freud, ma indica a Heidegger la necessità di applicare le dinamiche psichiche alla «psicogenesi» di ogni filosofare
di Oskar Becker e Romano Mádera


Al momento sono immerso negli scritti freudiani. Ne sono ancora profondamente colpito. È stupefacente vedere come ogni volta Freud riesca a dire cose nuove per mezzo di concetti apparentemente già molto sfruttati, che provengono dal milieu medico-scientifico degli anni Novanta del secolo scorso o, perlomeno, come riesca a elevare al rango della conoscenza scientifica certi aperçus psicologici tipo quelli che si trovano in Schopenhauer e Nietzsche o anche in altri «psicognostici» più antichi. Lo sfondo filosofico, il sistema delle sue «anticipazioni concettuali» dipende fortemente da Schopenhauer, benché Freud non sembri esserne consapevole (…) nel bene e nel male. Nel «bene» l’emergere del momento emozionale, della tendenza e del motivo, il pensiero di una dinamica psichica (qui non scevro di pensieri fuorvianti sul modello di quelli delle scienze della natura, soprattutto, quello della libido come «energia psichica», concepita in modo del tutto simile a quello della fisica) – l’idea che la conoscenza non è il motivo primario della vita, e così via. «Nel male» negli ultimi scritti di Freud (in particolare in Al di là del principio di piacere) il ruolo giocato da concezioni biologico-fisiologiche. Anche Freud non è del tutto sfuggito alla tentazione tipica della vecchiaia di costruire alla fine un sistema. Qui c’è qualche analogia con la concezione schopenhaueriana della conoscenza come funzione del cervello, con la sua teoria del «genio della specie». Ma oltre a questo, Schopenhauer (e ancora più direttamente Nietzsche) è , in molti temi particolari, un precursore della psicoanalisi: nelle sue osservazioni sul sogno, sulla follia, sull’associazione di idee («l’intuizione»), la teoria del ridicolo, la metafisica dell’amore sessuale. Ma c’è anche una certa parentela con la psicologia descrittiva e delle distinzioni di Dilthey (…)A me interessano, oltre al problema al quale ho accennato, due ulteriori questioni da porre alla psicoanalisi: le premesse delle scienze della natura sono per Freud il fondamento che sostiene il suo pensiero e nel quale, per così dire, egli finisce per trovare la soluzione di tutto. Infatti, la sua teoria delle pulsioni si dimostra, sottoposto a critica, dogmaticamente vincolata alla determinazione di processi e scopi molto specifici delle pulsioni stesse (tra l’altro proprio come accade in Schopenhauer e in Nietzsche, fatte salve le differenze che caratterizzano la fisiologia e la biologia delle diverse epoche nelle quali hanno vissuto).Se dunque le cose stanno così, se alla teoria freudiana (la psicoanalisi non è una teoria in senso proprio, piuttosto una tecnica medica, un fenomeno fattuale sui generis) viene meno il terreno su cui poggia – cosa ne prende dunque il posto? (..) Siamo a un passo dal cercare un surrogato nella relazione con il mito, via già intrapresa da Jung. Al posto di un dogma se ne mette un altro, ancora più difficilmente comprensibile, e in questo modo si sacrifica molto della psicoanalisi. Se essa mostra come la vita psichica cosciente è «determinata» (o forse meglio «motivata») dall’inconscio, non si potrebbe dire lo stesso per la genesi fattuale di una filosofia? Non ci possiamo più permettere oggi di distinguere in modo sommario «psicogenesi» e fondazione «logica o trascendentale», o «dialettica».Il filosofare non pertiene soltanto a una determinata situazione della storia dello spirito , ma a «ognuno» con tutte le sue particolari preferenze e avversioni, i suoi punti ciechi e gli spostamenti e le altre attitudini della cui profondità normalmente non è consapevole. Non dovrebbe appartenere, questa specie di auto-psicoanalisi, ai requisiti necessari al filosofare «critico», proprio come distruzione di ciò che appare come un mero dato della storia della spirito?

il manifesto 4.8.19
Da Oskar Becker, Vier Briefe an Martin Heidegger, in A. Gethmann- Siefert, J. Mittelstrass ( a cura di ), Die Philosophie und die Wissenschaften. Zum Werk Oskar Beckers, München, 2002. Pubblicata in tedesco in nota a Antonello Giugliano, Décadent e inizio al tempo stesso I, in Massimo Mezzanzanica (a cura di), Autobiografia Autobiografie Ricostruzione di Sé, Franco Angeli, Milano, 2007.Traduzione di Romano Mádera
di Romano Mádera


La lettera di Becker è datata 1923, dunque tre anni dopo l’uscita di quell’opera capitale di Freud che è Al di là del principio di piacere, e quattro anni prima della pubblicazione di Essere e tempo di Heidegger, con il quale Becker, che frequenta i suoi primi corsi a Friburgo, insieme a Löwith e ad altri, ha scambi intellettuali così intensi da lasciarne indovinare le influenze. Nel frattempo, legge e rilegge Freud. A quel tempo assistente di Husserl, Heidegger cerca di dare un impronta più decisamente esistenziale alla sua ricerca: filosofia e vita sono un tutt’uno, la filosofia è una scelta di vita e questa va compresa nella sua concretezza, nella sua storicità fattuale.Nella prima parte della lettera Becker traccia una sorta di genealogia filosofica della psicoanalisi – da Schopenhauer a Nietzsche con un accenno a Dilthey: se oggi è scontato che un professore di filosofia si interessi anche di psicoanalisi, nel 1923, la critica alle pretese di Freud, che voleva far rientrare le sue scoperte nella «concezione scientifica del mondo», sono tutt’altro che ovvie.Per Becker, manca alla psicoanalisi la struttura logico-formale capace di reggere un nuovo orientamento conoscitivo. Tuttavia, egli riconosce come il pensiero di Freud porti a scoprire quanto la nostra vita cosciente sia influenzata dall’inconscio e – qui sta la sorpresa e il pungolo per Heidegger, destinatario delle sue riflessioni – sostiene che si dovrebbero riprendere queste dinamiche psichiche anche per la «psicogenesi» di ogni filosofare, per la determinazione «biografica» di ogni attività di pensiero, approfondendo i condizionamenti della storia della cultura fino ad arrivare all’individualità che pensa.Di questa «fatticità» che è la vita concreta del filosofo e dei suoi moti psichici profondi, non ci si può liberare rifugiandosi frettolosamente nei fondamenti logici, trascendentali o dialettici. Anzi, Becker ipotizza che una sorta di psicoanalisi filosofica possa aiutare a distruggere le assunzioni date per scontate dalla sola coscienza circa la «storia dello spirito».Molti anni dopo, nei testi su Nietzsche del 1961, Heidegger dichiarerà il suo categorico disprezzo per la «fatticità» biografica in filosofia: e lo farà proprio parlando di Nietzsche, che potrebbe passare per antesignano di una filosofia della biografia e dell’autobiografia. Scrive Heidegger: «la condizione preliminare sta nel prescindere dall’ “uomo”, nel fare astrazione dall’ “opera” nella misura in cui essa viene vista come espressione dell’umanità, cioè alla luce dell’uomo… Né la persona di Nietzsche né la sua opera ci interessano fintanto che facciamo di entrambe, nella loro coappartenenza, l’oggetto di un resoconto storiografico e psicologico».Dunque, rispetto a quel che la lettera pubblicata in questa pagina sembrerebbe prefigurare, Heidegger avrebbe preso, poi, una direzione esattamente opposta. Quanto a Becker, egli avrebbe cercato di applicare suggestioni heideggeriane nei suoi lavori «esistenziali», abbandonando però l’ermeneutica per una sorta di «mantica», di divinazione fenomenologica, che porterebbe a intuire, nelle esistenze individuali, così come in estetica, la presenza di forme ideali. In questa direzione così brutalmente antistorica e antibiografica, si potrebbe comunque cogliere un contro-movimento alla «filosofia critica» che da Fuerbach, a Marx, a Stirner, a Nietzsche (e anche alla psicoanalisi), sebbene in forme molto diverse, cercava di trovare il terreno ideale sul quale far poggiare le astrazioni del pensiero, alla ricerca di pratiche, collettive e individuali, capaci di provarne la consistenza.In questa prospettiva, Heidegger incarna l’acme di una gigantesca «regressione»: di una «reazione» che, dietro la nebulosa del suo linguaggio gonfio di enfasi destinali, lascia trasparire la cancellazione dei conflitti storicamente determinati, interni alla società e ai singoli individui.

il manifesto 4.8.19
Zamjatin soccombe alle ambizioni letterarie di Stalin, redattore maximo
Lettere inedite. Documento unico, la missiva inviata da Evgenij Zamjatin è l’ultimo caso in cui uno scrittore si appellò direttamente a quello che Mandel’štam definì «il montanaro del Cremlino»
di Evgenij Zamjatin e Valentina Parisi


Evgenij Ivanovic Zamjatin
a Iosif V. Džugašvili (Stalin)
Mosca, Cremlino
giugno 1931
Egregio Iosif Vissarionovic, un condannato alla pena capitale – l’autore di queste righe – si rivolge a Lei, chiedendoLe di revocare questa punizione e di sostituirla con un’altra.
Il mio nome, con tutta probabilità, Le è noto. In quanto scrittore essere privato della possibilità di scrivere equivale per me a una condanna a morte e le circostanze hanno assunto una piega tale per cui mi è impossibile proseguire il mio lavoro. Qualsiasi forma di creazione è infatti inconcepibile in un clima di sistematica vessazione come quello attuale, che va peggiorando di giorno in giorno.
Non intendo assolutamente dipingermi come un povero innocente offeso. So benissimo che alcuni miei scritti risalenti ai tre-quattro anni immediatamente successivi alla Rivoluzione potevano fornire il destro ad attacchi. So di avere l’abitudine, alquanto scomoda, di dire non ciò che converrebbe in un dato frangente, bensì quella che mi sembra la verità. In particolare, non ho mai dissimulato il mio giudizio riguardo al servilismo, all’adulazione e all’abbellimento della realtà da parte dei letterati, poiché ritenevo – e lo ritengo ancora – che tutto ciò offenda in pari grado tanto loro, quanto la rivoluzione. E, a suo tempo, è stata proprio questa mia presa di posizione (formulata in termini netti, al punto da dispiacere evidentemente a molti) a scatenare la campagna di stampa indirizzata contro di me dopo la pubblicazione del mio articolo sul n. 1 del 1920 della rivista «Dom iskusstv» (La casa delle arti).
Da allora gli attacchi sono proseguiti sotto vari pretesti, dando infine origine a quella che tenderei a definire una forma di feticizzazione: come gli antichi cristiani si erano inventati a fini pratici la figura del demonio affinché incarnasse ogni possibile male, così i critici mi hanno trasformato nel diavolo della letteratura sovietica. Sputare sul diavolo è considerata una buona azione e ciascuno l’ha fatto come meglio poteva. Non c’era opera che avessi pubblicato in cui la critica non scorgesse invariabilmente chissà quale intento diabolico. E, pur di smascherarlo, non esitavano ad attribuirmi perfino un certo dono profetico: per esempio, nella mia favola Dio, uscita nel lontano 1916 sulla rivista «Letopis’», un critico si ingegnò a vedere una «presa in giro della rivoluzione a seguito del passaggio alla NEP», mentre nel racconto Il monaco Erazm, datato 1920, un altro critico, Mashbic-Verov, ravvisò «una parabola sulle autorità ravvedutesi con la NEP».
Indipendentemente dal contenuto, la mia firma bastava per definire criminali questa o quell’altra mia opera. Di recente, nel marzo di quest’anno un provvedimento dell’Oblit di Leningrado ha fatto sì che non mi restassero più dubbi in proposito. Per la casa editrice Akadenija avevo infatti curato la commedia di Sheridan La scuola della maldicenza, scrivendo un saggio sulla biografia e sulle opere dell’autore; beninteso, di maldicenze da parte mia lo scritto non ne conteneva affatto, né avrebbe potuto contenerne, eppure l’Orblit non solo ne ha proibito la pubblicazione, ma ha anche vietato all’editore di menzionare il mio nome come redattore. E solo dopo essermi rivolto a Mosca, solo dopo che il Glavlit, evidentemente, ebbe fatto presente che, a ogni modo, non si poteva agire in modo così manifestamente ingenuo, soltanto allora giunse il permesso di stampare il mio saggio e, finanche, il mio nome delittuoso.
Riporto questi fatti solo perché riflettono l’atteggiamento nei miei confronti in modo assolutamente limpido, privo, per così dire, di impurità chimiche. Dall’ampia collezione di esempi di cui ormai dispongo ne riferisco unicamente un altro, riguardante non un articolo qualunque, bensì un testo teatrale di una certa ampiezza costatomi tre anni di lavoro. Ero sicuro che questa mia pièce – la tragedia Attila – avrebbe finalmente messo a tacere chi vuole trasformarmi a tutti i costi in un reazionario. Questa mia certezza era fondata su solide basi. Il testo era stato letto alla riunione della Direzione artistica del Grande Teatro Drammatico, alla presenza di diciotto delegati delle fabbriche di Leningrado e accettato per la messinscena con tanto di benestare del Glavrepertkom, dopodiché… Lo spettatore operaio che tanto si era profuso in lodi ha forse potuto assistere alla rappresentazione? No, perché l’Oblit di Leningrado l’ha vietata quando la pièce era ormai annunciata sui cartelloni e gli attori l’avevano già provata a metà.
La morte della mia tragedia Attila si risolse per me in una autentica tragedia: compresi con assoluta chiarezza che qualsiasi tentativo di influire sulla mia posizione si sarebbe rivelato vano, tanto più che di lì a breve scoppiò il celebre scandalo intorno a Albero rosso di Pil’njak e al mio romanzo Noi. Si capisce: pur di annientare il diavolo, è ammissibile barare e quindi un testo scritto nove anni prima, nel 1920, è stato presentato insieme ad Albero rosso come la mia ultima opera. E da qui è partita una campagna diffamatoria di proporzioni inaudite che ha attirato perfino l’attenzione della stampa estera: si è fatto di tutto per precludermi ogni possibilità di andare avanti col mio lavoro. I compagni di ieri, le case editrici, i teatri hanno cominciato a temermi. I miei libri sono stati ritirati dalla circolazione nelle biblioteche. La mia pièce La pulce, messa in scena per due stagioni di fila dal MChAT (Teatro delle Arti di Mosca) con invariato successo è sparita dal repertorio. La casa editrice Federacija ha sospeso la pubblicazione delle mie opere complete. Tutti gli editori che hanno cercato di far uscire lo stesso i miei libri sono stati immediatamente attaccati, e mi riferisco a Federacija e a Zemlja i fabrika, ma soprattutto a Izdatel’stvo Pisatelej v Leningrade. Quest’ultima casa editrice si è arrischiata ancora per un anno a ospitarmi nel suo direttivo e a valersi della mia esperienza, commissionandomi la revisione stilistica di testi di giovani autori, anche comunisti.
Nella primavera di quest’anno la sezione leningradese della RAPP (Associazione Russa Scrittori Proletari) è riuscita a ottenere la mia espulsione dal direttivo e, di conseguenza, la fine di questa collaborazione.
La «Literaturnaja gazeta» (Giornale letterario) ne ha dato trionfalmente notizia, aggiungendo in termini del tutto inequivocabili: «La casa editrice va conservata, ma non per i tipi come Zamjatin». E così Zamjatin si vide chiudere in faccia l’unica porta ancora aperta: la sua sorte di letterato era ormai segnata.
Nel codice penale sovietico, subito dopo la condanna a morte, viene la deportazione del colpevole oltre i confini del paese. Pur ammettendo che io sia colpevole e che meriti una punizione, credo tuttavia che il castigo adeguato debba essere più lieve della morte letteraria; perciò chiedo che tale condanna sia revocata e sostituita con l’espulsione dall’Urss.
Traduzione di Valentina Parisi


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