sabato 29 marzo 2014

il Fatto 29.3.14
Gaetano Azzariti Con Libertà e Giustizia
“Ma come si fa a stravolgere così la Carta?”
di Luca De Carolis


Renzi procede con irruenza, senza scorgere la direzione verso cui procede. Una buona riforma costituzionale non si fa velocemente, e i maggiori poteri andrebbero dati al Parlamento, non certo all’esecutivo”. Gaetano Azzariti, professore di Diritto costituzionale all’università La Sapienza di Roma, è uno dei firmatari dell’appello di Libertà e Giustizia “contro il progetto di stravolgere la Costituzione”. Ieri si sono aggiunte altre firme: Rosetta Loy, Corrado Stajano, Giovanna Borgese, Alessandro Bruni, Sergio Materia, Nando dalla Chiesa, Adriano Prosperi e Fabio Evangelisti.
Professore, l’appello lancia l’allarme sul rischio di
una “svolta autoritaria”. Perché?
La storia italiana ci ha insegnato quanto sia pericoloso l’effetto slavina: si inizia da una piccola frana, ovvero da una piccola riforma costituzionale, e poi si arriva a una valanga che travolge l’intero sistema. Lo conferma il fatto che siamo passati rapidamente dall’ipotesi di una nuova legge elettorale alla riforma del Senato e del Titolo V. E in questi ultimi giorni abbiamo letto di proposte che toccano anche la forma di governo, come quella sul premierato forte.
Il ministro per le Riforme Boschi ora smentisce. Pare invece che nella bozza di riforma ci sia la ghigliottina sui provvedimenti, cioè l’imposizione di un termine 60 giorni per varare i ddl del governo, pena la loro votazione senza modifiche...
Anche questo è un tentativo di limitare ulteriormente la voce del Parlamento. Se abbiamo un problema di crisi costituzionale è che negli ultimi 20 anni le Camere hanno contato sempre meno. Una buona riforma dovrebbe estendere i poteri del Parlamento, il contrario di quello che si tende a fare. La ghigliottina non è solo una metafora: è un modo di tagliare la testa al dibattito, una fiducia rafforzata, in un Paese dove il ricorso al voto di fiducia è assolutamente eccessivo.
Nella Direzione del Pd, Renzi ha sostenuto: “I cittadini non amano questo eccesso di livelli di governo. E poi mille parlamentari sono troppi”.
Si vuole scaricare sulla Carta la profondissima crisi della politica e del sistema dei partiti, della classe dirigente. Le Costituzioni hanno l’ambizione di limitare i poteri: capisco che questo ad alcuni poteri dia fastidio.
Il taglio della Province non è utile?
Il vizio principale di questo testo di riforma nasce dal fatto che l’unica logica è quella di tagliare le teste ai senatori e ai consiglieri provinciali. Ma la Carta pretende che innanzitutto si ragioni di funzioni: nessuno mi ha spiegato a chi andrebbero date quelle delle Province. E poi c’è il tema del Senato: vorrei sapere cosa se ne vuole fare.
Renzi però insiste e va di corsa. Le pare un uomo
forte, o un uomo che prova a diventarlo?
Io spero che sia più attento alla Costituzione. Questa sua irruenza, questa sua volontà di velocità nel cambiamento, gli impedisce di vedere la direzione in cui procede. Per fare una riforma costituzionale di qualità non bisogna essere rapidi. E questo lo dimostra anche il continuo mutare della bozze, segno evidente della debolezza di questo progetto.
La Costituzione ha bisogno di aggiustamenti?
Come spiegava Leopoldo Elia, un costituzionalista raffinato, il vero tema è sempre quello dell’equilibrio dei poteri. Negli ultimi anni c’è stato un forte squilibrio a favore del governo, a colpi di voti di fiducia e maxiemendamenti, che va compensato. Bisogna ripartire dalla razionalizzazione della forma di governo, come sosteneva già il giurista Perassi nell’Assemblea costituente.

il Fatto 29.3.14
Il pifferaio magico
di Antonio Padellaro


Siamo consapevoli che, se passano le “riforme” di Renzi, l’Italia avrà un uomo solo al comando, cioè lui? Abbiamo capito bene che, con la trasformazione del Senato in un ente inutile (lunedì in Consiglio dei ministri), le leggi saranno approvate esclusivamente dalla Camera, senza più la garanzia di una seconda lettura che spesso, nella storia repubblicana, ha evitato pericolosi colpi di mano di questo o quel governo? È chiaro a tutti che, con la nuova legge elettorale (il cosiddetto Italicum) frutto dell’inciucio tra l’ex sindaco e l’ex Caimano ,il partito che vince anche per un solo voto avrà un premio di maggioranza da dittatura parlamentare? Stando a tuttii sondaggi, quella super maggioranza sarà appannaggio del PR, il Partito di Renzi che avrà nel frattempo trasformato il Pd nel proprio scendiletto (già qualcosa si è visto nel voto bulgaro della Direzione di ieri). Il turbo premier, a quel punto, potrà far votare dalla Camera qualsiasi cosa desideri: dallo stravolgimento della Costituzione alla “creazione di un sistema autoritario che dà al presidente del Consiglio poteri padronali”. Parole contenute nel documento di Libertà e Giustizia sottoscritto da un gruppo di giuristi e intellettuali tra i più autorevoli e indipendenti (da Zagrebelsky a Urbinati, da Rodotà a Carlassare, Pace, Azzariti, Settis, De Monticelli, Bonsanti) che ha trovato spazio solo sulla prima pagina del nostro giornale. Un silenzio che non può certo sorprendere. Con furbizia fiorentina Renzi sta infatti propinando agli italiani la favola di un taglio netto alla casta dei politici inetti e forchettoni, come se sacrificando gli emolumenti di 315 senatori (mantenendo però le monumentali spese dei relativi uffici) qualcosa potesse cambiare nella voragine dei conti pubblici. Ma gli italiani, ormai troppo esasperati dalla mala politica, preferiscono credere al pifferaio magico, indifferenti o rassegnati. È difficile andare contro vento e pur tutta via bisogna provarci, perché sono in gioco i fondamenti della nostra democrazia. Possibile che nel Pd e nella sinistra abbiano tutti portato il cervello all’ammasso? Come disse il presidente Scalfaro nel 2006 guidando il fronte del No al referendum che cancellò la controriforma di Berlusconi: “Meglio perdere in piedi che vincere in ginocchio”.

Repubblica 29.3.14
Renzi su La7
“Nel 2018 punto al 40%”

ROMA. «Il Pd alle prossime politiche del 2018 deve puntare al 40%» con l’Italicum. Lo ha detto il premier Matteo Renzi a “Il bersaglio mobile” su La7. Poi il presidente del Consiglio ha aggiunto: «C’è un elemento di natura politica molto importante. Quando vai agli eventi internazionali, rappresenti l’Italia. C’è un esercito di gufi e di rosiconi che spera che l’Italia vada male. Io invece spero che le cose cambino».

il Fatto 29.3.14
Firenze, appalti e finanziamenti
Indagini sugli amici di Renzi
Dalle guide affidate a Carrai ai lavori alla Dotmedia del fedelissimo Spanò
di Davide Vecchi


Firenze. Cinque milioni di euro in tre anni. Un flusso continuo e in costante crescita di denaro che dal Comune finisce nelle casse di una società controllata e da qui arriva anche ad aziende private di amici e soci riconducibili all'entourage del sindaco e alla sua stessa famiglia. Tra cui la CrossMedia controllata da Marco Carrai, l’amico che ha pagato l’affitto al premier.
Accade dal 2011 nella Firenze di Matteo Renzi. La controllata si chiama Museo dei Ragazzi, le aziende private sono numerose in particolare CrossMedia e Dotmedia. Dal 2012 a oggi la società ha ricevuto da Palazzo Vecchio una cifra complessiva di circa 5 milioni di euro. Su questo flusso di denaro la Procura ha aperto un fascicolo più di un anno fa, grazie al lavoro svolto dal nucleo di polizia tributaria di Firenze della Guardia di Finanza (sezione accertamento danni erariali) su delega del procuratore capo Giuseppe Quattrocchi. Il magistrato è andato in pensione da ormai sei mesi e il fascicolo è ancora lì. Nel frattempo il denaro ha proseguito ad arrivare. Nel solo 2014 il Comune ha già stanziato 1 milione 240 mila euro al Museo dei Ragazzi e la controllata ha avanzato richiesta di altri 700 mila euro. Nei primi dieci anni di vita (2001-2011) la controllata riceveva cifre medie annue di mezzo milione. Le necessità sono cambiate con l'arrivo dei nuovi vertici: Lucia De Siervo direttore generale e di Matteo Spanò alla presidenza. Entrambi fedelissimi di Renzi. La prima, figlia del presidente della Corte Costituzionale Ugo De Siervo e sorella del direttore di Rai Trade Luigi, è stata capo di gabinetto poi assessore nella giunta Renzi, infine direttore della cultura di Palazzo Vecchio e figura già nel 2007 tra i fondatore dell’associazione Noi Link creata per finanziare l'attività politica dell’attuale premier su idea di Marco Carrai. Matteo Spanò, invece, era già direttore di Florence Multimedia (società creata da Renzi quando guidava la Provincia) e su cui la Corte dei Conti ha contestato sprechi per 9 milioni di euro proprio nel periodo in cui era guidata da Spanò, dal 2006 al 2009. Oggi presidente della Banca di Credito Cooperativo di Pontassieve, comune di Renzi, Spanò è anche socio della società privata Dotmedia.
COSÌ COME ACCADEVA quando era alla guida della Florence Multimedia, anche dal Museo dei Ragazzi assegna direttamente alla sua società delle iniziative dell'amministrazione. Nel 2011 la comunicazione della Notte Tricolore. “A costo zero” ha poi spiegato in Consiglio Comunale rispondendo a Tommaso Grassi, consigliere di Sel ora candidato sindaco alle prossime amministrative. Ma a Dotmedia sono arrivati altri incarichi dal Comune, questa volta pagati: la campagna per la Riduzione dei rifiuti, quella del Natale in San Lorenzo, le Mappe dell'Oltrarno. E ancora oggi nell'elenco dei committenti figura Palazzo Vecchio. Socio di Spanò nella DotMedia è Alessandro Conticini, fratello del cognato di Renzi: Andrea Conticini, marito di Matilde, sorella del presidente del Consiglio. “A noi è sempre sembrato assurdo – spiega Grassi – è evidente che il Museo dei Ragazzi sia la nuova Florence Multimedia”. Nella volontà di Renzi c'è l'intenzione di trasformarla in Fondazione per affidarle l'intero comparto culturale e stanziarle i fondi della tassa di soggiorno. “Siamo riusciti a fermarlo in Consiglio, per ora. Si tratta di 23 milioni di euro all'anno che verrebbero sottratti dalla gestione diretta del Comune e affidati a una società privata travestita da pubblica”. Il Museo dei Ragazzi guidato da Spanò nel 2011 affida a un'altra società dell'universo renziano l'appalto per i tablet nel polo museale: la C&T CrossMedia controllata da Marco Carrai attraverso la D&C. Oggi gestisce le guide di Palazzo Vecchio, del Brancaccio e di Santa Maria Novella. L'appalto, assegnato senza gara, scadrà il 28 dicembre 2016. Secondo la delibera il Museo dei Ragazzi tiene nelle proprie casse l'80% degli introiti dei musei e il 20% viene versato al Comune. Dai resoconti che il Fatto ha potuto visionare risulta che quel-l'80% è poi diviso a metà con CrossMedia: una cifra che al momento raggiunge il mezzo milione di euro complessivo. Nonostante le richieste avanzate anche da alcuni consiglieri comunali, Palazzo Vecchio ha negato l'accesso ad alcuni atti del Museo dei Ragazzi. I cinque milioni complessivi servono anche a gestire la struttura, precisano dalla società. Ma la controllata paga esclusivamente i dipendenti perché le altre spese ordinarie (telefoni, sedi e altro) sono interamente a carico del Comune. Ma perché la struttura che fino al 2011 costava massimo 500 mila euro appena tre anni dopo ha quadruplicato le uscite di bilancio? Il fascicolo è in Procura in attesa di un pm.

il Fatto 29.3.14
Obama e i premier italiani “promossi” a ripetizione
La stampa italiana celebra, quella mondiale (e la Casa Bianca) ignorano

di Giampiero Gramaglia

Non appena s’avvicina alla scaletta dell’Air Force One per lasciare Roma con destinazione Riad, Barack Obama torna a parlare di politica internazionale, dopo 36 ore di ‘vacanza romana’: ingiunge a Vladimir Putin di ritirare le truppe lungo il confine ucraino - 50 mila uomini, per il Pentagono; 80 mila per Kiev, che le spara sempre grosse - e, nel contempo, rassicura il leader russo, gli Usa “non hanno alcun interesse ad accerchiare la Russia” (se davvero lo teme, il leader del Cremlino “travisa la politica estera” americana).
LA PARENTESI ITALIANA nella missione europea del presidente Obama lascia ben poca traccia nei media americani e internazionali. La Cbs vuol sapere di Papa Francesco, “un uomo meraviglioso, che ha un grandissimo senso dell'umorismo. La sua semplicità e la sua fede nel prevalere della spiritualità sulle cose materiali si riflette in ogni atto”, dice il presidente, che racconta di averne colto momenti d’imbarazzo per tutti gli orpelli del cerimoniale pontificio.
Un po’ la crisi, un po’ il valzer dei premier, un po’ la novità di Francesco, Roma, di questi tempi, è, per i leader del Mondo, la porta d’accesso al Vaticano: la prossima settimana, toccherà alla regina d’Inghilterra Elisabetta. Nelle cronache americane, gli incontri di Obama con Napolitano e Renzi quasi non compaiono: un’agenzia sul Chicago Tribune. Il resto è tanto Papa e un po’ di Colosseo. Sollecitato dal più introdotto dei corrispondenti italiani dagli Stati Uniti, Mario Platero, il portavoce della Casa Bianca Jay Carney torna sul colloquio con Renzi, “ricco di energia - dice a Radio24 -, una ventata di aria nuova”: il presidente “è rimasto colpito da come il premier ha usato la frase ‘yes we can’, possiamo farcela. Non sarà facile, forse il percorso sarà lento. Ma potete farcela...”. Allora, è vero, anche se i giornali americani non se ne sono accorti: Obama ha finalmente trovato l’alter ego italiano, a parte il rispetto e l’amicizia per ‘zio’ Napolitano.
INVECE, SI STA SOLO ripetendo l’equivoco, non innocente, dell’incontro con Angela Merkel a Berlino il 17 marzo: la cancelliera fu “impressionata” dal premier italiano, esattamente, però, come lo era stata da Mario Monti nel 2012 e da Enrico Letta nel 2013 (e un po’ meno di quanto lo sarebbe stata, il giorno dopo, dal portoghese Pedro Passos Coelho). Ecco ciò che disse lo stesso Obama dopo avere incontrato a Washington Monti, il 9 febbraio 2012: manifestò “piena fiducia” nel Professore, vista la sua “poderosa partenza” segnata da “riforme efficaci”. E i media internazionali, che avevano un pregiudizio favorevole verso Monti che non hanno per Renzi, gli andarono dietro: “Ora Obama ha un alleato in Europa” - e c'era ancora Sarkozy in Francia, scrisse The Economist. E il 17 ottobre 2013, quando a Washington arrivò Letta, Obama fu “impressionato” dal lavoro fatto dal nuovo premier, giudicò l’Italia “un partner eccezionale”; e il suo portavoce disse che il rapporto tra i due era stato “subito stretto”.
C’è la tendenza italiana a prendere per oro colato le aperture di credito diplomatiche. E a ipotizzare che le altrui posizioni possano essere funzione dei posizionamenti politici italiani. C’è persino chi vede un nesso tra la grazia non concessa agli agenti Cia condannati per il rapimento di Abu Omar e quella a Berlusconi. E Grillo racconta che il presidente americano è venuto in Italia a venderci gas e a impedirci di tagliare gli F-35. Lontano da Roma, Obama pensa a Putin e alle grane con l’Arabia Saudita, che mal accetta il dialogo con l’Iran. Il sindaco Marino, andato a salutarlo all’imbarco a Fiumicino, non vede l’ora che torni, forse per il 70° anniversario della liberazione della Città Eterna: il 4 giugno, fra 10 settimane appena. Un miraggio. O un sogno.


il Fatto 29.3.14
Il Pd dice sì alle riforme alla cieca
Rissa in direzione, poi voto bulgaro (con polemiche)
Il premier decide che Guerini e Serracchiani lo sostituiranno
di Wanda Marra


Neanche c’erano 93 persone: ma dove li hanno visti tutti questi voti favorevoli? All’inizio eravamo 129, ma molti sono andati via. Cose strane”. La direzione del Pd è appena finita e la protesta nata al momento del voto (“Contate, contate bene”) si sostanzia in un’accusa precisa, per quanto buttata lì a mezza bocca. La relazione del segretario è passata ufficialmente con 93 voti a favore, 12 contrari (Civati e i civatiani), 8 astenuti (Gianni Cuperlo, Nico Stumpo, Davide Zoggia, Alfredo D’Attorre, Guglielmo Epifani, Francesco Verducci, Micaela Campana, Barbara Pollastrini). Dopo una serie di interventi a raffica contro il segretario-premier, Matteo Renzi, che ieri “per titoli” chiedeva il via su una serie di tematiche vaste ed eterogenee: lavoro, riforme costituzionali, le misure economiche, con gli 80 euro in più in busta paga, la nomina (sostanziale, ma non ancora formale, visto che serve un sì dell’Assemblea) di Lorenzo Guerini e Deborah Serracchiani a vice segretari. “È stata una discussione così pasticciata e confusa, che non c’è stato neanche il tempo di contare”, chiosa D’Attorre. Mentre Stumpo spiega: “Mi sono astenuto perché non aveva senso votare su quella relazione: non si capiva su cosa ci stava chiedendo di esprimerci”. Pure per Civati, “una relazione invotabile”. Fassina, al voto non partecipa. E chiarisce: “Sul lavoro, la battaglia va avanti in Parlamento. Voteremo lì”.
C’È UN CLIMA sfilacciato, decisamente moscio alla direzione che Renzi ha convocato per un passaggio formale sulla sua attività a Palazzo Chigi. Ma nella relazione introduttiva parla per titoli. Camicia bianca, atteggiamento più sulla difensiva del solito, informa: “Lunedì il governo approverà il disegno di legge su Senato e Titolo V”. La notizia è che si tratterà di un’iniziativa governativa e non parlamentare (come molti soprattutto senatori avrebbero voluto). Il premier non dice quale sarà il testo finale. D’altra parte, il ministro per le Riforme, Maria Elena Boschi, ci sta ancora lavorando. È in corso la trattativa con Forza Italia. Per quel che riguarda il taglio dell’Irpef Renzi rivendica: “Daremo una quattordicesima ai lavoratori”. Sulla riorganizzazione del partito, tutto rimandato a dopo le europee. Se non la proposta di Guerini e Serracchiani. Fino a ieri si era parlato del primo coordinatore unico e della seconda come speaker ufficiale. Poi, evidentemente, qualcosa è cambiato. “È un modo per rendere tutto più efficiente”, spiegano i renziani. Che però ammettono: “Le minoranze probabilmente non entreranno”. E addio gestione unitaria che Renzi aveva dichiarato di volere. Le minoranze prendono atto della scelta del segretario e si preparano a cuocerlo a fuoco lento nella miglior tradizione democratica. Le parole più chiare di Renzi sono sul lavoro: “Leggo discussioni e toni da ultimatum che capisco poco sui temi del mondo del lavoro”. Ma “non c’è una parte a piacere che si può portare o no. Contratti a termine e apprendistato non si toccano”. La minoranza ha annunciato battaglia: il decreto Poletti così com’è non lo vota, chiede almeno che sia inserito il contratto minimo di inserimento, oltre a contestare i 36 mesi di contratti rinnovabili senza causale. E in Commissione alla Camera è in netta maggioranza. Ma Renzi blinda il provvedimento, pronto a forzare e a prendere i voti di tutti. Intanto mercoledì prossimo i parlamentari incontreranno Poletti.
IL DIBATTITO è una sfilza di critiche. Per la prima volta da quando Renzi è segretario piuttosto imponenti. Fassina: “La proposta sul lavoro è quella di Sacconi e FI”. Serracchiani vice? “È un messaggio sbagliato, è presidente di Regione”. Cuperlo: “Il decreto sul mercato del lavoro va migliorato sui contratti a termine e sull’apprendistato” e “ l’indicazione di due vicesegretari può apparire una soluzione affrettata”. Casson: “Sulle riforme costituzionali vedo uno stravolgimento”. Francesco Boccia: “Mi auguro che faremo un confronto prima del Def”. E contro varie parti dell’intervento di Renzi intervengono anche Enza Bruno Bossio, Zoggia, Andrea Ranieri, Pollastrini, Verducci. Nella replica, Matteo si mette un maglioncino blu, e non cede di un millimetro. Sulla questione lavoro neanche replica. “Ricordate la pubblicità che diceva ‘potevamo stupirvi con effetti speciali’? Oggi il ruolo del Pd non è stupire con effetti normali”. Poi, promette un incontro con i ministri e alcuni parlamentari del Pd per discutere del Def. “Comunque votiamo”, dice. La maggioranza è sua, assenze o no, è schiacciante, ed è un modo sicuro per farsi blindare la linea. Obiettivo raggiunto.

La Stampa 29.3.14
Spunta l’asse Matteo-Verdini
di Ugo Magri


Così com’è, la riforma renziana del Senato a Forza Italia proprio non va giù. C’è un folto gruppo di parlamentari berlusconiani sul piede di guerra. Il più risoluto di tutti è Minzolini, il quale anticipa un no secco alla proposta del governo, casomai dovesse restare la stessa.
L’ex direttore del Tg1 è sicuro che gli oppositori sarebbero quanti ne bastano a far saltare in Senato la maggioranza qualificata dei due terzi, necessaria per evitare un referendum confermativo. È un fatto che nel centrodestra il nervosismo si taglia a fette. Lo stesso Gasparri, figura di peso nel mondo forzista, annuncia che «sulle riforme costituzionali non faremo i passacarte del premier». E se è vero quanto scrive su «Panorama» una fonte che si cela dietro lo pseudonimo di Keyser Söze, pure il Cavaliere prevede tempesta: «Come la vuole Renzi, la riforma del Senato certo non passa...».
Se poi si scava più a fondo, salta fuori che Forza Italia non ha una tesi ben definita sull’argomento. Anzi, regna la confusione. Perché Minzolini (e i tanti che la pensano come lui) rifiuta alla radice che Palazzo Madama si occupi solo di autonomie locali, in pratica una brutta copia della Conferenza Stato-regioni, «un inutile carrozzone del quale fare a meno». Altri «azzurri» invece sposano la filosofia di Renzi, proponendo semmai di eleggere i membri del Senato anziché mandarci a turno e gratis i rappresentanti degli enti locali. Il compito di cercare una sintesi spetta, tanto per cambiare, all’ambasciatore berlusconiano presso l’ex sindaco di Firenze, vale a dire Verdini. Il quale si è messo in moto proprio come già fece per il cosiddetto «Italicum», attraverso contatti diretti con il presidente del Consiglio. Potrebbe sembrare strano che Renzi, tra una puntata in Europa e una visita di Obama, abbia trovato il tempo per scambiarsi sms a pioggia con Verdini. Eppure così pare stiano le cose. Anzi, risulta che tra i due abbiano cominciato a circolare carte e bozze più dettagliate, in vista del Consiglio dei ministri annunciato per lunedì. E a riprova del forte legame operativo tuttora in piedi tra Matteo e il suo amico Denis, nei palazzi romani si cita il rinvio dell’esame in aula alla Camera della legge sul voto di scambio: frutto, si sussurra, proprio di questi contatti riservati.

La Stampa 29.3.14
“Le spese militari non vanno ridotte”. Pressing di Obama
Ma gli americani insistono anche sulle fonti energetiche
di Francesco Grignetti


Al solito, la schiettezza degli americani è una straordinaria occasione per capire come davvero è andata la visita di Barack Obama in Italia. «Il presidente - ha detto ieri il vice consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, Ben Rhodes - è rimasto colpito dal piano di riforme del premier italiano Matteo Renzi e dal suo impegno verso l’Europa e l’Alleanza Atlantica».
Era questo, infatti, il rovello con cui Obama è atterrato a Roma: il nuovo corso della politica italiana nasconde forse un disimpegno dagli accordi? Vogliamo mollare tutto? Assolutamente no. Il presidente Obama è stato tranquillizzato sia nei colloqui al Quirinale, sia in quelli a Palazzo Chigi. L’Italia garantisce che continuerà a fare la sua parte pur in presenza della spending review.
Ovviamente in incontri di tale portata non si entra nei dettagli. Il tema dell’F35, per dire, non è mai stato neppure lontanamente evocato. Piuttosto si è parlato di come rispondere alla crisi ucraina. Si è ragionato a lungo sulla dipendenza europea dal gas russo e di come gli americani spingeranno per l’esportazione del loro gas naturale. Hanno già concesso otto licenze di esportazione verso l’Europa in grado di soddisfare tutto il nostro fabbisogno, ma agli americani sta anche a cuore la possibilità di diversificare ulteriormente, rispetto alla Russia, le nostre forniture aumentando produzione e import dal Nord Africa. Quindi si sono scambiate impressioni sulle Primavere arabe e si è parlato di Balcani, tema che non cessa di preoccupare le cancellerie occidentali.
Sul punto della spesa militare, però, il presidente Obama nei colloqui ha declinato il tema più analiticamente che in conferenza stampa. Ha ricordato che gli Usa spendono il 4% del loro Pil. Ovviamente non pretende che gli europei spendano altrettanto, ma che almeno non scendano dai livelli attuali. Ci ha richiamati, ma parlando sempre in generale di un’Europa «che deve pensare di più a se stessa». I discorsi hanno toccato di sfuggita la guerra in Libia: come si ricorderà, dopo poche giornate di campagna aerea gli arsenali degli europei erano già vuoti e furono gli americani a inviarci missili e bombe per alimentare la capacità di fuoco. E qui Giorgio Napolitano, ascoltato sempre con deferenza dall’interlocutore statunitense, ha avuto modo di spiegare che il tema è appunto questo, di come l’Europa possa spendere meglio quel che già spende, evitando doppioni e sovrapposizioni. Ci ha pensato poi Matteo Renzi a raccontare come l’Italia pensa di rendere produttivo il Semestre europeo con alcuni progetti-pilota nel campo della cooperazione militare. Come si potrebbero mettere in comune sanità, logistica, trasporti, o ancora le capacità di polizia militare. Il dettaglio della spesa militare è rinviato agli incontri della Nato che si tengono a Bruxelles. Ma appunto ai militari i il ministro della Difesa Roberta Pinotti ieri ha dato una plateale rassicurazione: «Dell’aeronautica si parla per via di un certo sistema d’arma. Io vi dico: state sereni perché il governo, e lo ha detto Renzi anche al presidente Obama, quando parla delle forze armate e della necessità che l’Italia continui a svolgere nel mondo il ruolo che ha svolto, non può fare nessun passo indietro».
Fuor di gergo, significa che faremo la nostra parte nelle missioni internazionali e che porteremo avanti il programma F35, sia pure rimodulato. Da Grillo a Sel sino al Pd il mal di pancia però è forte. Si veda Edoardo Patriarca, pacifista democrat: «Basta una visita di Obama per farci cambiare opinione sugli F35? Avevamo capito che Pinotti avesse altre intenzioni». Alla Difesa ribattono: probabilmente aveva capito male lui. E il capogruppo del Pd alla Camera, Roberto Speranza, taglia corto: «Gli F35 non sono inutili».

il Fatto 29.3.14
“Generale, stai sereno” Il cacciabombardiere arriva
Dopo la visita di Obama a Roma e la richiesta di maggiori investimenti militari
Il ministro della Difesa Pinotti rasscura le truppe: “Non faremo marcia indietro”
di Daniele Martini


Tra Obama e Renzi sugli F 35 c’è un gigantesco gioco delle parti. Quando il presidente americano alla conferenza stampa con il capo del governo italiano dice “niente tagli alla difesa” è evidente che si riferisce all’Italia. Ma quelle parole non significano automaticamente “niente tagli ai cacciabombardieri della statunitense Lockheed Martin” che anche il nostro paese sta comprando. L’equivalenza non è così diretta, per tre ordini di motivi almeno. Primo e più importante: Obama sa che non può chiedere
ai partner, Italia compresa, di non tagliare gli F 35 quando lui stesso lo sta facendo. Gli Stati Uniti hanno ridotto del 20 per cento circa l’impegno per i cacciabombardieri nel prossimo anno fiscale federale. Mentre prevedono altre riduzioni per il prossimo quinquennio. Secondo motivo: richiamare gli alleati ai livelli di spesa previsti dalla Nato è quasi un’ovvietà dal punto di vista del presidente americano, considerando il divario tra la spesa statunitense per l’alleanza (il 4 per cento circa del Pil) e quella degli europei, Italia in particolare (meno dell’1 per cento). Questo richiamo appare ancor più scontato considerando gli scenari da Guerra fredda ai confini dell’Europa con i militari russi ammassati alle frontiere ucraine. Terzo motivo: ritenere che Obama si faccia piazzista della Lockheed Martin è forse eccessivo . Prima di tutto non è Bush e poi la lobby bellica non è in prima fila tra i suoi grandi elettori.
È EVIDENTE, però, che gli Stati Uniti, e quindi Obama, abbiano tutto l’interesse che l’Italia al pari degli altri 9 partner del gigantesco e costosissimo programma degli F 35 non si sfili del tutto. Perché se lo facesse sarebbe un bel guaio dal punto di vista del tornaconto americano. Una volta accertato che l’elaborazione e la produzione dell’avveniristico cacciabombardiere comportava costi che
neanche loro statunitensi erano in grado di affrontare da soli, hanno fatto di tutto per coinvolgere una serie di paesi alleati in modo da diluire la spesa e impegnare meno risorse. E sarebbe del tutto illogico se oggi facessero marcia indietro riguardo a questa impostazione ed è probabile Obama lo abbia fatto presente a Renzi. A questa pressante esigenza americana il governo italiano, il Pd e Renzi del resto non avevano e non hanno l’intenzione, la forza e il coraggio di sottrarsi . Esponendosi così alle inevitabili critiche di chi a sinistra è del tutto contrario all’acquisto dei cacciabombardieri considerandoli inutili, costosi e difettosi. E di Beppe Grillo e del Movimento cinque stelle che rimproverano a Renzi di essersi messo sull’attenti agli ordini del presidente americano.
L’OBIETTIVO DI RENZI appare sia quello di non scontentare il potente alleato americano sia di scongiurare rovinose spaccature all'interno del suo partito salvando capra e cavoli: non rinnegando per intero l’acquisto dei cacciabombardieri, forse anche in omaggio agli impegni assunti a suo tempo con gli Stati Uniti dai governi precedenti, a cominciare da quelli di centrosinistra della fine anni Novanta di cui fu esponente l’attuale presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, il politico che più di altri nel suo partito aveva buoni rapporti con la Casa Bianca. Ma riservandosi uno spazietto di manovra per operare qualche taglio, se non proprio incisivo almeno di bandiera, di immagine.
Anche l’ambiguissima dichiarazione della ministra Roberta Pinotti alla festa dell'Aeronautica può essere interpretata come una specie di “non aderire del tutto e non sabotare completamente”. Ai generali Pi-notti ha raccomandato di “stare sereni” perché “l’Italia non può fare marcia indietro”. Senza specificare su che cosa non indietreggerà: nell’impegno militare o proprio sugli F 35? A visita di Obama conclusa e a riprova delle tensioni e della confusione nel Pd, il gruppo della Camera ha confermato che approverà il “libro bianco” preparato dal responsabile in commissione, Gian Piero Scanu, che prevede meno F 35 rispetto ai 90 che avrebbe voluto l’ex ministro Mario Mauro e più Eurofighter, il caccia europeo alla cui costruzione partecipa anche l’Italia.

Repubblica 29.3.14
Il retroscena
Ignorate le “moratorie” gli acquisti dei caccia non si sono mai fermati
di Giampaolo Cadalanu



MACCHÉ rinvii, tagli o sacrifici: il programma di acquisto degli F-35, i cacciabombardieri più costosi della storia, in realtà non si è mai fermato. E questo nonostante il Parlamento abbia due volte, a giugno e luglio dello scorso anno, rilevato che il programma Joint Strike Fighter è sproporzionato per la politica di difesa e soprattutto per i bilanci del Paese. I contratti parziali per i diversi lotti di produzione, con l’ordine definitivo delle componenti, sono andati avanti in automatismo.
IN UN modo che per il momento sembra ignorare l’impegno a una “moratoria” nei pagamenti indicato dal neo ministro della Difesa Roberta Pinotti immediatamente dopo l’incarico di governo.
L’accusa che tutto continua senza ripensamenti viene dagli attivisti della campagna “Tagliamo le ali alle armi”, che riportano i dati del Pentagono per sottolineare come i contratti di acquisto riferiti ai “lotti” 8 e 9 mostrino date posteriori alle mozioni parlamentari di giugno e luglio. L’apparato della Difesa sarebbe andato avanti nel programma del caccia, ignorando le raccomandazioni delle Camere, perché dall’allora ministro Mario Mauro non era mai arrivata alcuna correzione di rotta. Il Segretariato della Difesa, che segue le acquisizioni, ha semplicemente fatto seguito a ordini già ricevuti. La Difesa smentisce la ricostruzione: secondo i responsabili delle acquisizioni, l’impegno dell’Italia in sede di Joint Program Office era stato preso in precedenza. I documenti però, contrariamente a quelli del Pentagono, non sono pubblici. Secondo i pacifisti, invece, non basta un generico impegno non contrattuale: l’unico documento vincolante è quello firmato dal Dipartimento della Difesa su richiesta italiana con l’azienda produttrice Lockheed-Martin.
Le esigenze di riduzione del programma Joint Strike Fighter dividono e suscitano incertezze anche all’interno del Pd: c’è voluta una espressa decisione di Matteo Renzi per confermare che nei prossimi giorni i deputati discuteranno il documento uscito dalla commissione Difesa, fortemente voluto dal capogruppo in commissione Gian Piero Scanu, in cui si indicano come necessari tagli molto robusti alle spese militari e al programma JSF in particolare. Più scettici e dunque “possibilisti” nei confronti del controverso cacciabombardiere sarebbero il capogruppo in commissione Difesa al Senato, Nicola Latorre, il sottosegretario Marco Minniti e lo stesso ministro Pinotti, che hanno fatto proprie le raccomandazioni del Quirinale sulla tutela degli accordi atlantici.
Senza una sforbiciata ai sistemi d’arma richiesti dalle Forze Armate, i novanta F-35 ma anche l’informatizzazione completa dell’Esercito, le fregate volute dalla Marina e diversi armamenti antiaerei, la cura dimagrante rischia di essere solo una razionalizzazione dello strumento militare, nel quadro della riforma avviata dall’ammiraglio Giampaolo Di Paola. Il concetto base è stato riproposto anche ieri dai vertici delle Forze Armate. I risparmi richiesti sono stati definiti «una riduzione epocale di 50 mila posti di lavoro in 10 anni, tra militari e civili» dal capo di Stato maggiore della Difesa Luigi Binelli Mantelli. È un taglio robusto che però, come ha già denunciato nei mesi scorsi la Ragioneria di Stato, non corrisponde a risparmi reali perché si affianca a stanziamenti enormi per i sistemi d’arma.
Paradossalmente, insomma, i fondi risparmiati in stipendi per militari italiani -in qualche caso persino togliendo il posto di lavoro ai soldati più giovani con esperienza di missioni all’estero -verrebbero spesi per acquistare armi, e una parte robusta finirebbe all’estero. Al cammino travagliato del caccia si sono aggiunti nei giorni scorsi gli enne- simi guai tecnici. Sono arrivati in un momento apparentemente positivo: la Lockheed Martin stava festeggiando un nuovo corposo contratto con la Corea del sud, che ha deciso di comprare quaranta F-35 per un valore attorno ai 6,8 miliardi di dollari. E gli stati maggiori statunitensi celebravano la prima uscita notturna dalla base di Eglin (perché fino a pochi giorni fa le differenze nella strumentazione di bordo fra i jet destinati alla Marina, al corpo dei Marines e all’Aeronautica confondeva i piloti durante il volo notturno) e si apprestavano a far volare il caccia nel primo volo transoceanico.
Ci hanno pensato gli ingegneri a rovinare la festa, quando hanno scoperto che il complicatissimo software di gestione delle macchine è ancora difettoso: i perfezionamenti richiederanno più tempo del previsto (sono previsti fino a 13 mesi di ritardi). Le messe a punto sono necessarie soprattutto per gli aspetti informatici della versione Stovl, a decollo corto e atterraggio verticale, voluta anche dalla Marina italiana per equipaggiare la portaerei Cavour al posto degli obsoleti Harrier.
La soluzione, ancora una volta, è ricorrere a nuovi finanziamenti. Nel caso dello sfortunato jet, gli esborsi sempre ritoccati verso l’alto e sempre insufficienti hanno spinto persino a queste considerazioni: «Finanziamenti di questa grandezza pongono chiaramente dei problemi di sostenibilità a lungo termine». A parlare non è il commissario italiano delegato ai tagli, ma gli esperti del Pentagono.

l’Unità 29.3.14
I sindacati non ci stanno: parole a vanvera, ricette fallite
La leader Cgil replica al governatore: «Nessun beneficio dalla stagione dei “lacci e lacciuoli”»
Bonanni (Cisl) duro con il premier: «È nauseante mettere sempre in discussione il nostro ruolo»
di Andrea Bonzi


Non l’hanno presa bene, i sindacati. In un periodo in cui si sentono già sotto attacco, le accuse di essere - insieme a Confindustria - «un freno allo sviluppo» lanciate dal governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, sono apparse un po’ come l’ultima goccia. E il vaso è straripato.
«UNARICETTAFALLIMENTARE» «Visco ripropone ricette che hanno già mostrato il loro fallimento - replica dura Susanna Camusso, leader della Cgil -, rispolverando il vecchio concetto dei “lacci e lacciuoli” che, se non erro, risale a una stagione in cui gli investimenti sono calati, i salari si sono abbassati e il lavoro si è precarizzato. Non mi pare che questo abbia prodotto una qualità dello sviluppo nel nostro paese, se no non avremmo una crisi italiana dentro a quella mondiale». Il riferimento di Visco è all’economista Guido Carli («Lacci e lacciuoli» è anche il titolo di un suo libro), di cui proprio ieri alla Luiss di Roma si è celebrato il centenario dalla nascita.
Camusso, ieri a Genova per chiudere il congresso ligure del sindacato, torna poi sul rapporto con il governo Renzi, e in particolare sul Jobs act, che sarà in commissione la prossima settimana, e sul decreto voluto dal ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, che contiene il nuovo contratto a termine (su cui ci sono divergenze anche in maggioranza). «A nostro parere, il decreto rischia di determinare una condizione che precarizzerebbe e svaluterebbe ulteriormente il lavoro, senza aiutare la crescita - continua la leader Cgil -. Noi continuiamo a credere che ci siano cambiamenti da fare: a fronte di un annuncio di maggiori tutele, si è scelta una strada di precarizzazione ». In serata, Camusso ha parlato anche del premier Matteo Renzi che, alla direzione nazionale del Pd, ha ribadito il suo scetticismo sulle ricette «vidimate dai sindacati: ci hanno detto che erano tutte cose bellissime, ma la disoccupazione è salita dal 25% al 42%». Per la segretaria Cgil, il sindaco di Firenze «non è il nuovo Berlusconi, perché viene da una cultura diversa e si è proposto in modo diverso. Con lui non c`è alcun braccio di ferro: verrà giudicato positivamente o negativamente in base a ciò che farà». CISL:
«DAVISCOLUOGHICOMUNI» Durissimo il commento di Raffaele Bonanni, segretario della Cisl, che si è detto «dispiaciuto» per le parole di Visco, e poi ha replicato: «È la dimostrazione che buona parte della classe dirigente, anziché dedicarsi al proprio lavoro, preferisce i luoghi comuni, e anche falsi». Al contrario, «le massime autorità dovrebbero stare più attente quando parlano - affonda Bonanni, a margine di una iniziativa di Eni Corporate University -, stanno diventando loro un problema di esaltazione dell’antipolitica. Talvolta, anche alcuni rappresentanti del governo fanno questo: giocano allo sfascio, e spesso sono proprio loro gli untori del populismo italiano, parlano a vanvera e fanno di tutta un’erba un fascio». Le critiche sono dirette anche al premier Renzi: «Non si capisce francamente come una persona, si presume avveduta come lui, continui ad alimentare questa telenovela, un po’ nauseante, sul ruolo del sindacato nel nostro Paese - insiste Bonanni -. Dica a quali accordi si riferisce, faccia nomi e cognomi, senza sparare nel mucchio. E sappia che, se la disoccupazione è aumentata, è per effetto del costante tentativo di tutti i governi di sostituirsi al ruolo delle parti sociali, introducendo nuove norme di legge sul mercato del lavoro». Da qui, dunque, la sfida a discutere nel merito dei provvedimenti.
Luigi Angeletti, numero uno della Uil, porta la critica a Visco su un altro terreno, e sostiene che la Banca d’Italia, azionista della Bce, non abbia gestito nel modo migliore la crisi, come dimostra il numero di disoccupati in Europa, decisamente superiore a quello degli Stati Uniti. «Hanno fatto delle politiche per le quali metà dei giovani non hanno lavoro - insiste Angeletti all’assemblea della Uil Tucs -, una qualche forma di autocritica ci piacerebbe sentirla». Infine, Cesare Damiano, presidente Pd della Commissione Lavoro alla Camera, è convinto che Visco «abbia parlato un po’ a vanvera. Ma lo fanno in tanti, vanno di moda gli slogan spot, si danno giudizi su tutto e tutti». Secondo l’ex ministro del Lavoro del governo Prodi II, «in Italia abbiamo parti sociali molto dialoganti e consapevoli, purtroppo sulla concertazione il governo ha detto parole chiare: intende farne a meno. Penso sia un errore».

Repubblica 29.3.14
La liberalizzazione che non libera
di Tito Boeri



IL DECRETO sul lavoro varato dal governo Renzi non è né di destra (l’espressione usata ieri da Stefano Fassina), né di sinistra. Semplicemente si muove in direzione antitetica rispetto al disegno di legge delega che lo stesso governo sostiene di voler tradurre in misure operative in tempi rapidi. La legge delega si propone di stabilizzare i lavoratori temporanei e di unificare il mercato del lavoro, superando la segregazione fra i lavoratori duali e gli altri lavoratori, occupati e disoccupati (unificando gli ammortizzatori con il sussidio di disoccupazione).
IL DECRETO liberalizza, invece, i contratti a tempo determinato, rendendoli ancora più convenienti per il datore di lavoro rispetto a quelli a tempo indeterminato e allo stesso contratto di apprendistato. Certo, giusto, togliere una serie di oneri burocratici, introdotti dalla riforma Fornero, che hanno ostacolato le assunzioni, ma qui si va ben oltre quanto richiesto dalle stesse associazioni di categoria. Si permettono fino a 8 proroghe dello stesso contratto con lo stesso datore di lavoro anche per prestazioni che non hanno affatto natura temporanea. Al termine di ciascuna di queste proroghe, il datore di lavoro potrà di fatto licenziare il lavoratore senza preavviso e senza riconoscere alcuna indennità. Nulla impedisce che una lavoratrice venga lasciata a casa perché entrata in maternità al termine di uno dei suoi tanti microcontratti. E dopo tre anni di prova, il datore di lavoro ha l’alternativa fra convertire il micro-contratto in un contratto a tempo indeterminato (col rischio di pagare fino a 36 mensilità nel caso di licenziamento senza giusta causa) oppure sostituire il malcapitato con un altro lavoratore temporaneo a costo zero. Facile intuire che il tasso di conversione si ridurrà ancora di più rispetto ai già bassi livelli attuali e le imprese continueranno ad offrire quasi unicamente contratti a tempo determinato. Tanto più che ora il decreto permette che questi siano utilizzati per il 20% dei lavoratori di un’impresa, e anche oltre, se specificato dal contratto di categoria. Ad esempio, il contratto per il settore “legno lapidei”, siglato col decreto in Gazzetta Ufficiale, permette alle aziende del settore di avere fino alla metà dei lavoratori a tempo determinato.
Crediamo che Renzi abbia scelto questa strada perché voleva dare una spinta alla creazione di posti di lavoro. Nobile intento. Ma bene che non si illuda. Può esserci un effetto immediato sulle assunzioni, ma prima o poi, forse anche prima delle elezioni di maggio, ci sarà un forte effetto anche sulle cessazioni di rapporti di lavoro. L’esperienza trentennale della Spagna, raccontata con alcuni grafici su la voce. info, è molto informativa a riguardo. Liberalizzando i contratti a tempo determinato in presenza di contratti a tempo indeterminato con alti costi di licenziamento, si hanno più contratti temporanei, ciascuno più breve, più passaggi da un’impresa all’altra, più periodi di disoccupazione, meno ore lavorate e salari più bassi (anche a parità di ore lavorate). Non è un’avventurosa e impegnata vita spericolata. È semplicemente una deprimente vita lavorativa segregata, da lavoratore di serie B, spesso a vita, condannato a non poter pianificare in alcun modo il proprio futuro.
Se si vogliono togliere freni alla creazione di posti di lavoro senza rendere ancora più duale il nostro mercato, meglio concentrare tutte le energie su di un disegno di riforma coerente. Si può, ad esempio, tagliare il cuneo fiscale nel modo più diretto e meno distorsivo, vale a dire riducendo i contributi sociali. Dato che le risorse sono limitate, questa riduzione del cuneo fiscale può limitarsi ai soli contratti a tempo indeterminato. È un modo di incoraggiare le conversioni e corrisponde ad un principio assicurativo: sono posti di lavoro a minor rischio di venir interrotti dei contratti a tempo determinato. Si può, al contempo, introdurre il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti nel decreto, al posto di proroghe ed estensioni ad libitum dei contratti a tempo determinato. Anche questo serve a incentivare i datori di lavoro ad assumere fin da subito con contratti a tempo indeterminato. Essendo una riforma strutturale, potrebbe essere utilizzata nel negoziato a Bruxelles per ottenere quella maggiore flessibilità auspicata anche ieri dal ministro Padoan, dunque per rendere ancora più forte e incisiva la riduzione delle tasse sul lavoro. Pagaiando in modo disordinato si rischia di continuare a girare su se stessi. L’illusione è quella di muoversi, ma è solo tanta fatica sprecata. Meglio decidere dove si vuole andare e, a quel punto, vogare spingendo entrambi i remi verso prua oppure sciare a dritta, spingendoli con altrettanta determinazione verso poppa.

Il Sole 29.3.14
Renzi: il decreto lavoro non si tocca
«Sì a miglioramenti del testo ma apprendistato e contratti a termine sono intoccabili»
di Emilia Patta


ROMA «Leggo discussioni e ultimatum che capisco poco. Il lavoro non è una materia a piacere, che si può portare o non portare. È un pacchetto che sta insieme. Apprendistato e contratto a termine sono due punti intoccabili, si possono migliorare, discutere, ma non sono due argomenti a piacere. Questo dev'essere chiaro». Il premier e leader del Pd Matteo Renzi parla alla direzione del suo partito e, di fronte alle molte perplessità espresse dalla sinistra interna a cominciare dall'ex viceministro Stefano Fassina, blinda di fatto il decreto Poletti che semplifica l'apprendistato e allunga da uno a tre anni il tempo in cui si può stipulare un contratto a termine senza causale. Di fronte alle richieste giunte dalla minoranza di evitare il voto proprio per lasciare aperte le porte del dialogo in Parlamento su apprendistato e contratto a termine, Renzi risponde mettendo appunto al voto la sua relazione – che spazia dai temi del lavoro a quelli delle riforme costituzionali alla nomina dei due vicesegretari Debora Serracchiani e Lorenzo Guerini (si veda l'articolo a pagina 9) –: 93 favorevoli, 8 astenuti, 12 contrari. «Se si è scelto di fare un decreto – precisa Renzi – è perché abbiamo immaginato l'urgenza della risposta rispetto alla credibilità e alla coerenza complessiva della manovra. Non dimentichiamo che con le regole attuali, vidimate dai sindacati, siamo passati da 25% al 40% di disoccupazione giovanile. Non si risolve il problema lavoro rendendo più difficile l'accesso al lavoro dei nostri giovani».
Il "piano Renzi" va dunque preso tutto intero. Anche perché se da una parte il premier è andato incontro alle richieste degli industriali in tema di flessibilità, dall'altra ha restituito ai meno abbienti una sorta di quattordicesima con il taglio dell'Irpef per chi percepisce un netto mensile sotto i 1.300 euro, come Renzi ha detto ieri confermando indirettamente che la platea dei beneficiari sarà probabilmente per quest'anno più ristretta di quanto pensato all'inizio con l'intervento al di sotto dei 1.500 euro (si veda quanto anticipato dal Sole 24 Ore di ieri). «Il taglio dell'Irpef è una quattordicesima – rivendica Renzi –. Non è mai successo prima». È grazie al bonus di 80 eruo in busta paga, spiega poi il premier in serata su La7 a Enrico Mentana, che il governo spera di spingere il Pil all'1% nel 2014, superando quello «0,8-0,9% che sarà indicato nel Def». Il punto è che il decreto Poletti è ora in commissione Lavoro della Camera, presidente il "bersaniano" Cesare Damiano. E, come non perde tempo a ricordare Fassina, i parlamentari sono espressione di un'altra dirigenza del partito. Insomma, in Parlamento Renzi non può stare così come tranquillo in direzione. «Noi siamo stati eletti in Parlamento su una proposta di politica economica alternativa a questa. La proposta sul mercato del lavoro del governo è quella di Sacconi», replica con una certa foga Fassina.
Per Fassina, così come per tutta la minoranza interna compreso l'ex segretario Guglielmo Epifani, i punti da rivedere del decreto sono la durata del contratto a termine e il numero di proroghe ammesse: «Per quanto mi riguarda i contratti a termine non potranno durare più di due anni, non tre come ora previsto, e le proroghe ammesse dovranno essere tre e non otto». La minoranza contesta anche che, intervenendo con decreto sui contratti a termine e lasciando il contratto a tutele crescenti nel Jobs act come Ddl delega si sono invertite le priorità. «Dobbiamo partire dalla porta principale e non da quelle secondarie – ricorda Epifani –. La porta principale è quella di un contratto di inserimento a tempo indeterminato rispetto al quale possiamo immaginare un periodo di prova più lungo rispetto a quanto previsto oggi. Esattamente quello che Renzi ha sempre detto». La battaglia è appena cominciata, dunque. E non a caso mercoledì prossimo il ministro del Lavoro Giuliano Poletti incontrerà i deputati per tastarne il polso.

Corriere 29.3.14
Il Jobs Act? Per ora un topolino e il Pd si divide
di Maurizio Ferrara


Le riforme del mercato del lavoro creano tensioni politiche in tutti i Paesi europei. In Italia il livello di conflitto su questi temi (e in particolare sulle regole contrattuali) registra però livelli patologici. Va bene che siamo una Repubblica fondata sul lavoro. Ma ormai da tempo l’ossessione per le regole ha fatto perdere di vista un punto essenziale: senza crescita (e dunque investimenti, innovazione, dinamismo imprenditoriale, capitale umano, flessibilità e «distruzione creatrice», come diceva Schumpeter) un’economia di mercato non produce occupazione.
I colli di bottiglia che ostacolano la crescita italiana sono tanti, intestardirsi sulle norme contrattuali è una strategia miope e può diventare dannosa se (come è puntualmente successo negli ultimi anni) genera conflitto senza vero cambiamento.
Sul decreto legge che liberalizza i contratti a termine e alleggerisce l’apprendistato è scoppiata l’ennesima tenzone all’interno del Pd. Sinistra e «giovani turchi» sono molto critici: le nuove regole aumenterebbero la precarietà. È quello che pensano anche i sindacati, i quali da più di un quindicennio fanno muro a difesa di uno status quo che impone rigidità senza pari ai contratti di assunzione a tempo indeterminato. Renzi e Poletti difendono ovviamente il contenuto del decreto e, se sarà indispensabile, sembrano pronti a porre la questione di fiducia. La sinistra del partito ribatte dicendo che potrebbe votare contro. Vi immaginate che cosa succederebbe se il nuovo governo perdesse la maggioranza nelle prossime settimane sul tema dei contratti a termine? Quali sarebbero le conseguenze sull’economia, sulla credibilità internazionale dell’Italia, su quel poco di fiducia che l’opinione pubblica sta recuperando nei confronti di politica e istituzioni?
Il Jobs Act era stato annunciato come un piano organico di misure volte a ricreare un circolo virtuoso fra crescita e lavoro. Aspettavamo un documento di ampio respiro, che facesse il punto sui risultati della riforma Fornero e da lì ripartisse, raccordandosi con i temi del fisco, della pubblica amministrazione, delle semplificazioni, della scuola. Invece è arrivato il decreto sui contratti a termine, accompagnato da una bozza di legge delega. Pur con la sua vaghezza, quest’ultima andava nella giusta direzione ed è perciò stata accolta con favore. Ora però l’ambiziosa montagna del Jobs Act sta partorendo un topolino. Il disegno di legge delega non è ancora pronto, non c’è chiarezza sulla sua logica complessiva e sulle coperture. Sul tavolo c’è solo un decreto dagli obiettivi modesti, e che per giunta si sta rivelando così controverso da richiedere forse la fiducia per essere convertito in legge. Curiosamente, ciò che sta accadendo ricorda la vicenda del Jobs Act originale: quello di Obama. Rispetto agli ambiziosi obiettivi indicati dal Presidente Usa nell’autunno del 2011, il provvedimento finale della primavera successiva è stato anche lì un «topolino»: un insieme di misure volte a promuovere la creazione di piccole imprese. Forse è il nome che porta sfortuna?
Dal vicolo cieco in cui rischia di impantanarsi il governo ha due possibili vie d’uscita. La prima è una via «alta», capace di cogliere le recenti aperture di Susanna Camusso sulla ridefinizione del contratto a tempo indeterminato e di arrivare a un compromesso: contratti a termine meno liberi di quanto prevede ora il decreto in cambio di contratti a tempo indeterminato con possibilità di licenziamento, almeno in una prima fase. La seconda è una via d’uscita «bassa»: qualche modifica (oggettivamente opportuna, almeno sul numero dei rinnovi) al testo del decreto e ricompattamento del partito e della maggioranza in Parlamento, così da arrivare al voto senza strappi. In entrambi i casi, il premier farà bene ad evitare una spirale di politicizzazione sul tema delle regole contrattuali. Sprecheremmo tempo prezioso, senza ottenere neppure un posto di lavoro in più.

La Stampa 29.3.14
Il primo ministro non arretra dinanzi alla minoranza
di Marcello Sorgi


Matteo Renzi non arretra neppure di un centimetro rispetto al dissenso della minoranza interna del Pd. La direzione di ieri al Largo del Nazareno ha visto un confronto duro tra il segretario-premier e i principali esponenti delle diverse anime della minoranza (Fassina, Civati, Cuperlo, Pollastrini), ma s’è conclusa con l’approvazione a larghissima maggioranza della relazione del leader (93 si, 8 astenuti, 12 no) e con la nomina, sempre su proposta di Renzi, di due vicesegretari, Guerini e Serracchiani, entrambi molto vicini a lui.
Lo scontro più acceso è stato sul decreto Poletti sul lavoro e sul tema dei rapporti con i sindacati. Renzi ha dovuto confrontarsi con Fassina, che ha sostenuto che il decreto ha un impianto di destra (non a caso Forza Italia lo voterà), e con Pollastrini. Ma ha tenuto il punto, annunciando anche per lunedì il disegno di legge sulla riforma del Senato e del Titolo V, e sollecitando il Parlamento a procedere alla discussione e all’approvazione in tempi stretti.
Al di là dei singoli contenuti dei provvedimenti, la ragione per cui Renzi procede con le sue solite maniere spicce non è né caratteriale, né esclusivamente legata ai risultati positivi di questa prima fase del suo governo, o ai riconoscimenti ricevuti sul piano internazionale nelle ultime settimane (la direzione si svolgeva all’indomani della visita a Roma di Obama e all’apprezzamento manifestato dal presidente americano nei confronti del Capo dello Stato e del presidente del consiglio).
Dati alla mano, i sondaggi di quest’avvio di campagna elettorale per le europee rivelano infatti che il tasso di fiducia in Renzi dell’opinione pubblica cresce o si mantiene alto, ma non si riverbera egualmente sul Pd, che aumenta, ma non allo stesso modo. Ce n’è abbastanza, per dirla con Gentiloni, per evitare di «rompere i c...» al premier, o anche di dar la sensazione di mettergli i bastoni tra le ruote, come ad esempio sta accadendo alla Camera in commissione proprio sul decreto lavoro. Ma è esattamente il punto su cui la minoranza interna non vuol cedere e continua a rivendicare il diritto, per il Pd, di un’elaborazione autonoma e in qualche caso dialettica rispetto ai programmi del governo. Ciò che Renzi, non solo non può permettersi, visti gli impegni sulle riforme presi in Europa, ma neppure vuole, convinto com’è che il Pd, con le sue resistenze, possa rappresentare un peso davanti all’opinione pubblica. E che prendere le distanze dai dubbi e dai rallentamenti che emergono nel dibattito interno, come ha fatto di nuovo ieri in direzione, in questa fase per lui sia diventato perfino strategico.

La Stampa 29.3.14
Opposizione Pd: la strategia del pan per focaccia
di Federico Geremicca


Preceduta da segnali di fumo e da un cupo rullar di tamburi di guerra - sul decreto lavoro, sull’abolizione del Senato e delle Province, e perfino sugli assetti interni al partito - la Direzione del Pd si è conclusa ieri col tradizionale voto sulla relazione del segretario che ha dato questo esito: 93 sì, 12 contrari, 8 astenuti. La dimensione del consenso ottenuto da Renzi, lascerebbe ipotizzare concessioni alle minoranze interne su questo o su quel punto in discussione. Invece, nulla di tutto ciò è accaduto.
«Matteo» - come direbbe Obama... - ha infatti tirato dritto (come al solito) per la sua strada, convinto che correzioni, incertezze e addirittura marce indietro sarebbero esiziali a meno di 60 giorni dal voto europeo di maggio. Esiziali per lui stesso ed il suo governo: ma esiziali anche per il Pd, naturalmente. Ed è appunto alla luce di questa considerazione che la linea, il ruolo e perfino gli obiettivi delle opposizioni interne al segretario-presidente appaiono sempre più oscuri e di difficile comprensione.
La prima sensazione che il tipo di opposizione delle minoranze Pd trasmette all’esterno, infatti, è che intendano praticare il famoso «pan per focaccia»; e cioè riservare a Matteo Renzi lo stesso trattamento - diciamo così - del quale il sindaco di Firenze ha gratificato Enrico Letta e il suo governo: un continuo lavoro ai fianchi fino allo sfinimento dell’«avversario». Può essere, naturalmente. Ma mentre l’obiettivo di Matteo Renzi - criticabile finché si vuole - apparve chiaro fin da subito (sostituire l’«amico» Enrico a Palazzo Chigi) assai più difficile è capire a cosa puntino le opposizioni interne.
Bersani, Cuperlo, Fassina e gli altri leader delle minoranze, vogliono forse la crisi di questo governo per andare al voto in autunno? Oppure puntano alla caduta di Renzi per sostituirlo con un altro leader democratico? O più modestamente, infine, vogliono maggior «concertazione» col segretario, sia sulla gestione del partito che sulla rotta dell’esecutivo? Un esame realistico della situazione, porterebbe a pensare che l’obiettivo - del tutto legittimo nelle dinamiche interne a un partito - sia quest’ultimo: limitare (o addirittura ridurre) il «potere» del segretario-presidente.
Ed è infatti soprattutto questo quel che si percepisce all’esterno: un continuo lavoro di interdizione, un ripetuto tirare il premier «per la giacchetta» semplicemente per frenarlo, rallentarlo, condizionarne le mosse. È una strategia - intendiamoci - che non può scandalizzare nessuno: ma che potrebbe, sui tempi medio-lunghi, rivelarsi davvero un pessimo affare, tanto per le minoranze interne al Pd, quanto - in vista del voto ormai vicino - per il partito nel suo complesso.
L’elettorato di centrosinistra è purtroppo abituato alla dinamica per cui gli «sconfitti» provano - sistematicamente - a vendicarsi dei «vincitori» (semplifichiamo per chiarezza). La storia di questa parte politica, infatti, da oltre vent’anni è sanguinosamente segnata (chiedere a Prodi oppure a Veltroni...) da regolamenti di conti originati appunto da uno spirito di rivalsa - spesso personale - del quale iscritti ed elettori ripetono come possono di non poterne più (e il fulmineo e clamoroso avvento di Renzi ne è, in fondo, la prova).
Inoltre, la popolarità che continua ad accompagnare il cammino di Renzi - e dalla quale tutto il Pd dovrebbe trarre soddisfazione - sconsiglierebbe di trasmettere all’elettorato l’idea che (come al solito) capi o aspiranti tali, si siano messi al lavoro per indebolire il nuovo leader, provando a ricacciarlo nella «palude». Saggezza (e perfino spirito di conservazione) consiglierebbero, al contrario, di sfruttare e perfino enfatizzare - finché possibile - l’energia e la popolarità del nuovo giovane leader, che ha ridato linfa al Pd e continua ad esser in testa ad ogni sondaggio.
Sfruttare la popolarità di Renzi a vantaggio dell’intero partito, insomma. Una strategia che dovrebbe esser considerata valida sempre, naturalmente: ma valida ancor di più quando al primo test elettorale del «nuovo Pd» manca appena una manciata di settimane. E invece, alla luce delle storie passate, si può supporre che il lavorio ai fianchi continuerà: con quali successi e con quali risultati (per il Paese e per il Pd) lo si vedrà ad urne europee aperte e scrutinate...

La Stampa 29.3.14
E la minoranza Pd si spacca. Nasce “Area riformista”
Bersaniani e “turchi” si separano. Tensioni sulle nomine
di Carlo Bertini


Passi per Lorenzo Guerini, la sua nomina a vicesegretario non sorprende nessuno, ma quella di Debora Serracchiani, governatrice del Friuli e figura vicina a Franceschini, è il segnale dello «strappo», insomma dietro le quinte non la digeriscono in molti nella minoranza. «Una forzatura inutile», dicono i bersaniani. Peggio, è il segnale di «una blindatura del partito, una scelta miope che rende più impervia una gestione collegiale del Pd che ci aspettavamo venisse rilanciata oggi», sospira uno dei leader dei «giovani turchi». Anche se in realtà l’ala più collaborazionista non ha affatto perso le speranze che dopo questo primo round la partita possa riaprirsi con la proposta di ingressi in ruoli non secondari per la segreteria, come l’organizzazione o gli enti locali, che dia il segno tangibile di una «task force unitaria che affronti compatta le non poche sfide di questa fase».
Insomma, pure scontando magari qualche tensione in più sui fronti delicati del lavoro e delle riforme, come al solito Renzi è andato dritto come un treno non curandosi dei possibili effetti che la sua scelta potrebbe avere sulla tenuta dei gruppi. E spiazzando tutti, anche quei renziani che non credevano che avrebbe dato un ruolo di primissimo piano alla governatrice del Friuli. Ma a chiedergli di soprassedere ci hanno pensato Fassina e poi Cuperlo: «Lo dico sommessamente, due vicesegretari possono apparire una soluzione affrettata se si intende discutere su una gestione più condivisa dopo il confronto sul modello di partito che faremo passate le europee». Tradotto, se il ticket Serracchiani-Guerini fosse stato investito di ruoli meno impegnativi, come quello di speaker e coordinatore della segreteria, sarebbe stato più facile un rimpasto dell’organo di governo del partito. Anche in vista della partita sulle candidature alle europee che provoca non poche fibrillazioni.
Ma ad una minoranza frantumata, che fino all’ultimo non ha sciolto le sue riserve, il leader ha concesso solo un secondo tempo: fino al 7 aprile Guerini sonderà le diverse anime per verificare la possibilità di costruire una segreteria unitaria e in ogni caso il dibattito sulla «forma partito» è rinviato a dopo la sentenza delle urne del 25 maggio. Una minoranza che per altro sta per subire una separazione consensuale. Lo sfarinamento della «mozione Cuperlo», quella che al congresso ottenne il 18%, andrà in scena plasticamente martedì prossimo: mentre al partito si riuniranno tutti i parlamentari della corrente dei «turchi», in un incontro alla Camera verrà di fatto battezzata una nuova componente. Per ora definita dai suoi promotori «Area riformista», ma alle prese con la scelta di un nome con più appeal e anche questa con un collante generazionale, tanto che il loro punto di riferimento sarà il giovane capogruppo Roberto Speranza. Un travaglio che va avanti da settimane, con contatti riservati e senza clamore per non indispettire Cuperlo che vede ridimensionarsi il suo ruolo. La nuova Area metterà insieme bersaniani, dalemiani, lettiani, ex popolari, ma senza il patrocinio visibile dei big, che non a caso non saranno presenti all’incontro di martedì. «Ma Gianni lo abbiamo invitato, speriamo che venga e che stia nel gruppo di testa di questa componente politico-culturale che si propone di lavorare sul territorio per rafforzare il partito senza connotarsi come anti-renziana», spiega uno dei promotori, il bersaniano Nico Stumpo.
Il quale, senza voler fare troppe polemiche con i rivali «turchi», mette le cose bene in chiaro: «Dopo le europee discuteremo che tipo di partito vogliamo e solo lì verificheremo se ci sono le condizioni per entrare in segreteria».

Repubblica 29.3.14
Epifani guida la rivolta “La legge non passerà” Ma il premier è pronto a fare delle concessioni
di Goffredo De Marchis


ROMA. «Così com’è il decreto lavoro non passa. Poco ma sicuro. Perché la minoranza del Pd, nei gruppi parlamentari, è la maggioranza del Pd. E in commissione è ancora più forte». Il tono di Guglielmo Epifani non è quello dell’ultimatum, ma la sostanza sì. L’ex segretario del Pd (e della Cgil) vede nel testo che Matteo Renzi giudica «intoccabile» i rischi di «una deriva spagnola: un mercato del lavoro frantumato, contratti cortissimi e un disastro nella lotta alla disoccupazione ». Dunque, «poco o tanto che sia, andrà modificato».
Ecco il banco di prova per il premier e per la tenuta del Partito democratico. Renzi, come al solito, lo affronta a mo’ di sfida, bypassando le liturgie e parlando ai cittadini. Lo ha fatto anche ieri nel discorso alla direzione. Questa almeno è l’impressione. In realtà, la tattica c’è, eccome, nelle mosse dell’ex sindaco di Firenze. Una tattica giocata tutta dentro al Pd, all’interno degli equilibri diversi che esistono tra il Pd uscito dalle primarie e quello emerso nelle elezioni politiche del 2013. «Adesso voglio proprio vedere come faranno i gruppi ad andare contro una decisione assunta dalla direzione con un voto», dice Renzi ai suoi fedelissimi. Il pacchetto lavoro, ovvero il Jobs act, è stato approvato a larga maggioranza a Largo del Nazareno. «C’è quindi una premessa politica chiara spiega Paolo Gentiloni -. E non ho mai visto i parlamentari che votano contro il loro partito. Non li vedrò neanche stavolta, ne sono certo». Per questo ieri Renzi ha chiesto che si concludesse la riunione con un voto palese. Per questo bersaniani, cuperliani e giovani turchi avrebbero invece preferito evitare la votazione che ora in qualche modo li inchioda a una responsabilità maggiore. «Le modifiche ci saranno - dice ancora Gentiloni - ma la scelta della direziomento: ne colloca tutta la discussione in una luce diversa». Ossia, nessuno potrà chiedere di fermarsi, di stravolgere il testo o di cominciare prima dalla legge delega sul contratto unico. Che era il vero obiettivo della minoranza.
Com’è successo per l’Italicum la faccia feroce di Renzi si rilasserà nei prossimi giorni. Arriveranno le aperture, il premier si confronterà con le critiche e con le proposte di un miglioramento. Però ha creato le condizioni per difendere l’impianto “ideologico” del decreto ed evitare slittamenti sui tempi. Nell’incontro con il capogruppo del Pd alla Camera Roberto Speranza, Giuliano Poletti ha già immaginato interventi sui due punti più contestati del suo provvedimarea la durata del contratto a tempo determinato prima della stabilizzazione che oggi è di 36 mesi con 8 rinnovi possibili e l’apprendistato. «Si può studiare una formula per ridurre di un anno il periodo di prova», ha detto il ministro del Lavoro a Speranza, lunedì. Ma il capogruppo gli ha chiesto di vedere i deputati, di convincerli, di affrontare la di protesta che si sono levate a Montecitorio. E mercoledì parlerà all’assemblea dei parlamentari. Sapendo, come dice Epifani, che «la minoranza ha tanti voti alla Camera e alla fine contano quelli...».
L’ex segretario del Pd avrebbe preferito un percorso completamente diverso. «Davvero non capisco perché non sia privilegiato il contratto d’inserimento. Ha un periodo di prova allungato, permette alle imprese di valutare il dipendente e gli offre la flessibilità di cui hanno bisogno. Con i rinnovi continui invece tante categorie saranno senza rete. Penso alle donne, penso ai lavoratori di aziende non sindacalizzate». Ma un ritorno al punto zero è ormai impossibile. Renzi ha dimostrato ieri voler fare una bandiera del decreto lavoro o meglio del pacchetto completo che prevede anche la legge delega sul contratto unico. Proprio per evitare di rimettere tutto in discussione e mandare un messaggio all’Italia di un vero spirito riformatore. Le elezioni europee del resto sono tra meno di due mesi e inevitabilmente si trasformeranno in un referendum sul governo. «Ma così - avverte Epifani - lascia scoperto il versante di sinistra dell’elettorato. Il tema della precarietà è un tema sentito, più dell’antipolitica. Ed è un tema che sale nella società».
Renzi incassa il via libera della direzione ma si prepara a migliorare il testo. Già mercoledì qualche segnale può arrivare dal ministro Poletti. In fondo, l’astensione di bersaniani, giovani turchi e cuperliani (Pippo Civati) significa disponibilità a un dialogo. Così com’è la segreteria aperta alle minoranze è, da parte del premier-segretario, un messaggio di pace. Però su tutto il dibattito del Pd peserà nei prossimi giorni, fino al momento in cui il decreto arriverà in aula (metà aprile) la posizione della Cgil. I suoi voti, soprattutto, in proiezione del 25 maggio. Con Nichi Vendola e la lista Tsipras pronti ad approfittare di un’emorragia a sinistra.

il Fatto 29.3.14
Mafia e politica
Basta bizantinismi, la legge sul voto di scambio va approvata
di Gian Carlo Caselli


La storia infinita della disciplina legislativa del “voto di scambio politico-mafioso” continua. Eppure sarebbe ora di concluderla. La norma attualmente vigente è una burla. Non esiste infatti in natura che il mafioso scambi favori elettorali con denaro contante. Vuole ben altro: ad esempio, concessioni, appalti, assunzioni, “entrature” nei salotti buoni... Sembrava che questa vergogna (una legge approvata con lo scopo dichiarato di combattere la mafia e i politici collusi, in realtà scritta in modo da non fare neppure un po’ solletico) potesse – sia pure con anni e anni di ritardo – essere cancellata quando, nel luglio scorso, la Camera approvò un nuovo testo praticamente all’unanimità. Merce rara di questi tempi, eppure non sufficiente perché la riforma andasse in porto.
Con le migliori intenzioni del mondo, ma senza preoccuparsi troppo delle conseguenze pratiche (ritardare ancora un’accettabile soluzione del problema) si scatenò una bagarre per alcuni profili artificiosa. Col risultato che per lungo tempo tutto rimase bloccato, finché il Senato non riuscì a licenziare un altro testo, oggi all’esame della Camera. Mi sembra un buon testo e se dipendesse da me lo approverei definitivamente.
L’avverbio “consapevolmente” – che a mio avviso non era un problema potendosi ritenere pleonastico – oggi, caricato invece di rilevanza assolutamente decisiva da corposi emendamenti pregiudiziali, rischia poi di orientare la giurisprudenza (si sa che i lavori parlamentari hanno un loro ruolo nell’interpretazione delle norme) in un senso che di fatto potrebbe svuotare la legge realizzando l’ennesima presa in giro.
GLI ALTRI dubbi che si sentono sollevare mi sembrano tutti superabili. Si sostiene che la nuova norma potrebbe interferire (indebolendolo) con il “concorso esterno”, arma decisiva per colpire la nevralgica “zona grigia”. Ma la Cassazione ha già riconosciuto la possibilità del concorso materiale di reati fra il voto di scambio ed il concorso esterno in associazione mafiosa. Ed è questa – a mio avviso – la giurisprudenza più solida, mentre convincono molto meno le pronunce che talvolta qualificano i fatti di scambio elettorale come esclusivamente riconducibili all’ambito del 416 bis.
Quanto al fatto che all’erogazione o promessa di denaro o altra utilità è stata aggiunta la formula “ovvero in cambio della disponibilità a soddisfare gli interessi e le esigenze dell’associazione mafiosa”, alle perplessità che essa ha suscitato in taluno, in quanto – si dice – caratterizzata da un approccio generico e poco tecnico, si può facilmente obiettare che in materia di mafia è utile – se non necessario – non restare vincolati ad uno stretto tecnicismo per attingere ad un linguaggio sociologicamente più pertinente, meglio capace di fotografare la realtà vera di un fenomeno sulla base dell’esperienza concreta (che è poi la tecnica con cui venne redatto, nel 1982, il fondamentale art. 416 bis: col quale – sia pure con un paio di secoli di ritardo – lo strato finalmente si accorge che la mafia esiste e per la prima volta la vieta).
IN OGNI CASO la stessa formula, sostanzialmente, si ritrova in varie sentenze della Cassazione (ad esempio la n. 4893 del 16 marzo 2000, dove si legge che il candidato in cerca di voti mafiosi, non aderente all’associazione, si caratterizza in quanto “disponibile al soddisfacimento delle esigenze della stessa”), per cui del presunto ridotto “tecnicismo” della formula in esame non sembra, in definitiva, che si possa farne un problema più di tanto.
Dunque, è possibile – e sarebbe bene – approvare la norma varata dal Senato così com’è: altrimenti si rischia di ritornare in alto mare e di ritrovarsi con un pugno di mosche in mano.

Corriere 29.3.14
Al Csm il caso del voto di scambio
«Indipendenza delle toghe a rischio»
«Si indaga sulle intenzioni, aumenteranno i conflitti con la politica»
di Giovanni Bianconi


ROMA — L’allarme è arrivato fino al Consiglio superiore della magistratura, dove cinque esponenti togati della «sinistra giudiziaria» chiedono la pronuncia di un parere sulla riforma del reato di «voto di scambio politico-mafioso». Denunciando il pericolo che il disegno di legge in discussione alla Camera, nel passaggio in cui punisce anche «la disponibilità a soddisfare gli interessi o le esigenze dell’associazione mafiosa» da parte di chi accetta la promessa di voti, metta a rischio addirittura «l’indipendenza esterna della magistratura». La richiesta avanzata ieri a palazzo dei Marescialli, sede del Csm, è firmata dal consigliere Franco Cassano, anche a nome dei colleghi Borraccetti, Carfì, Vigorito e Rossi. Tutti appartenenti ad Area, il cartello che riunisce le correnti di «progressiste» di Magistratura democratica e Movimento per la giustizia.
«Pur perseguendo il commendevole intento di intensificare il contrasto al voto di scambio», scrivono i consiglieri, la proposta di punire anche la «disponibilità» risulta troppo indeterminata. Con la conseguenza di «rilevanti ripercussioni sul principio di garanzia costituito dalla necessaria tipizzazione delle norme». Ma soprattutto di una «alta probabilità che la magistratura sia chiamata a interloquire in conflitti squisitamente politici, con evidenti possibilità di accentuazione del tasso di conflittualità con la politica». Di qui il rischio per l’indipendenza delle toghe, sottoposte a sicure polemiche e possibili ritorsioni da parte del legislatore, sull’esempio di quello che in passato gli stessi magistrati hanno denunciato più volte.
Spiega il consigliere Cassano: «La disponibilità alla scambio politico-mafioso è un elemento psicologico troppo evanescente e labile per essere investigato e giudicato. Se venisse approvata questa formulazione, basterebbe una lettera anonima un po’ circostanziata per obbligare ad aprire indagini sul candidato oggetto delle indiscrezioni, offrendo il fianco a inevitabili strumentalizzazioni. La magistratura sarebbe infatti costretta a intervenire su dati pressoché impalpabili, intenzioni e non fatti, per fini che potrebbero rivelarsi strumentali».
L’organo di autogoverno delle toghe deciderà nei prossimi giorni se formulare il proprio parere sulla riforma; in questo caso non richiesto, com’è accaduto per alcune leggi proposte dai governi Berlusconi o dalle maggioranze che li sostenevano. Nel frattempo critiche e perplessità sollevate dai pm antimafia e dal presidente dell’Anm Sabelli hanno aperto una riflessione anche all’interno del Pd, principale sostenitore della riforma. Ma resta l’esigenza di approvarla prima delle prossime elezioni europee e amministrative, per introdurre modifiche ritenute utili da tutti, magistrati compresi: soprattutto l’aggiunta di «qualunque altra utilità», oltre al denaro, come merce di scambio del patto politico-mafioso. Se però la Camera rimettesse mano al testo approvato dal Senato, anche solo per intervenire sulla «disponibilità», la legge tornerebbe a palazzo Madama, con relativo allungamento dei tempi e quasi certa inapplicabilità delle nuove norme alle consultazioni di maggio.
Ecco perché il capogruppo pd in commissione Giustizia a Montecitorio, Walter Verini, sostiene che «lo strumento per riuscire a correggere quel che va cambiato e insieme rendere operativo immediatamente questo provvedimento è la presentazione di un decreto legge da parte del governo. Se invece questa strada fosse impraticabile, la riforma va approvata subito, così com’è. Altrimenti si rischierebbe di finire su un binario morto». Dello stesso avviso è Rosy Bindi, presidente della commissione antimafia: «So bene che il testo si può migliorare, ma dobbiamo evitare che la ricerca della norma perfetta ci porti in un vicolo cieco, impedendo che la riforma entri in vigore prima delle prossime elezioni. C’è bisogno di un messaggio forte che faccia sentire la politica al fianco dei cittadini e degli amministratori onesti, di quanti resistono e fanno argine ai metodi e ai poteri mafiosi».

La Stampa 29.3.14
Zagrebelsky
«Disparità nella legge elettorale»


La Lista Tsipras penalizzata dalla legge elettorale per la raccolta delle firme per candidarsi alle europee? Queste regole riguardano solo le formazioni non presenti in parlamento, come appunto Tsipras, e la protesta dei firmatari riguarda soprattutto la dis-proporzionalità della raccolta delle firme, che prevede numero uguale di firme in regioni con numero di abitanti diversissimo; pena l’esclusione. «La Lombardia - sostiene il giurista Gustavo Zagrebelsky - ha una popolazione di circa 10 milioni di abitanti (ed elettori in proporzione), mentre la popolazione della Valle d’Aosta supera di poco le 100mila unità (ed elettori in proporzione). Stante questa disparità di condizioni di base è evidentemente irragionevole richiedere lo stesso numero di sottoscrizioni delle liste, in condizioni non comparabili. In Valle d’Aosta si dovrebbero raccogliere almeno 3.000 firma, esattamente come in Lombardia». Il che,spiega Zagrebelsky, «significa rendere la posizione degli elettori-presentatori nella prima regione deteriore rispetto a quella degli elettori-presentatori della seconda, senza che esista alcuna giustificazione». La legge elettorale violerebbe il principio generale d’uguaglianza di fronte alla legge (art. 3 Cost.), e del «voto libero e uguale» (art. 48.). Il che metterebbe anche questa legge a rischio di procedure per la dichiarazione d’incostituzionalità.

Corriere 29.3.14
Lista Tsipras, l’ultimo paradosso: i legalitari contro le regole
A contatto con la politica reale, gli intellettuali diventano più flessibili
di Pierluigi Battista


Il «partito delle regole» chiede al presidente della Camera Boldrini di cambiare d’autorità le regole. La risposta, seppur addolcita da parole di sentita comprensione, non può che essere negativa. E la «Lista Tsipras», che si era mossa con la speranza di modificare le norme per la raccolta di firme necessarie alla presentazione del simbolo nelle elezioni europee, deve rassegnarsi all’ennesimo ostacolo che ne rende amara la ancora breve ma movimentatissima vita.
L’ingiustizia delle regole contestate dalla «Lista Tsipras» si poteva scoprire già da molto tempo, visto che risalgono al 1979. E sicuramente è una condizione micidiale quella che impone di accumulare per le liste nuove un numero di firme elevatissimo per ogni regione d’Italia, pena la scomparsa da un’intera circoscrizione. E infatti sono fioccate da oltre trent’anni proteste appassionate e indignate. Ma finora nessuno aveva pensato che fosse possibile appellarsi alle massime autorità istituzionali per cambiare quelle norme in piena corsa. Eppure gli intellettuali che hanno dato vita alla lista sono stati sino a qui molto chiari: le regole devono essere rispettate sempre; la loro violazione deve essere sanzionata nel modo più inflessibile. Non si possono cambiare in modo arbitrario, con provvedimenti ad hoc. E invece? E invece al primo contatto con la brutale concretezza della politica, l’intransigenza degli intellettuali si edulcora, la draconiana inflessibilità si fa un po’ flessibile. E persino la presidente Boldrini, che pure non è lontana ideologicamente dal profilo della lista, è costretta a non dare ascolto al pressante appello. Ha detto che solo una nuova legge permetterebbe di evitare l’ingiustizia suprema delle firme in eccesso. Ma che fino a che è vigente quella legge ingiusta, non si può che inchinarsi alla maestà della legge, senza eluderla e senza cercare sotterfugi per aggirarla in un modo che certo non sarebbe in linea con la purezza di chi ha proposto la formazione del raggruppamento in vista delle elezioni europee.
E così, il nome di Tsipras, il leader della sinistra greca critica nei confronti dell’austerità europea, che in Grecia ha mietuto tantissimi successi a scapito della sinistra tradizionale del Pasok, sembra non aver messo le ali a chi in Italia vorrebbe seguire le sue gesta. Prima gli scontri sulla formazione delle liste e in particolare quello che ha calamitato una parte dello scontento dopo l’adesione di Luca Casarini, poi la defezione di Andrea Camilleri, poi lo sgocciolio di rinunce che hanno molto indebolito l’immagine di compattezza della nuova lista. Ora la fatica a raccogliere le firme. Che, è vero, sono tante da raccogliere e mal distribuite, ma per un movimento che aspira a incassare un grande successo elettorale, e non certo un piccolo risultato con cifre inconsistenti, non dovrebbero essere un problema insuperabile. Resta invece la contraddizione tra una predicazione tutta centrata sul rispetto delle regole e la tentazione pratica di disfarsene, o anche solo di mostrare insofferenza per il loro carattere vincolante. Già la presentazione ufficiale al Teatro Valle, abusivamente occupato in barba alla legge, avrebbe dovuto essere sentita come una manifestazione di incoerenza tra i «giustizialisti» che esigono il rispetto assoluto e incondizionato della legge. Ma adesso, con l’appello addirittura a modificare con atto d’imperio le regole per la formazione delle liste, quella contraddizione assume addirittura un connotato macroscopico. Una contraddizione che è il frutto di una mancata fusione tra le due anime che hanno dato vita alla versione italiana della «Lista Tsipras». L’anima più «sociale» (e più tradizionalmente di sinistra classica), che si batte per la riduzione del disagio sociale conseguente a un’applicazione cieca delle politiche di austerità, e l’anima «giustizialista» di Moni Ovadia e Barbara Spinelli che ha fatto della sacralizzazione della «legalità» la sua stessa ragion d’essere. Anche per la formazione delle liste, la devozione alle «regole» ( e quindi una certa contrarietà alla presenza di Casarini, in passato non proprio indisponibile a civettare con l’«illegalità» dei «movimenti») ha creato dissapori e spaccature. Ma ora con la richiesta di cambiare le regole fuori tempo massimo, la contraddizione si fa più stridente. E neanche Laura Boldrini potrebbe essere in grado di sanarla.

il Fatto 29.3.14
Pedofilia, la Cei contro il Papa: “I vescovi non denuncino”
La Conferenza episcopale rivede le linee anti-abusi emanata nel 2012
di Marco Politi


Costretta a rielaborare le Linee guida anti-abusi, perché quelle del 2012 erano insufficienti, la Cei presenta la versione 2014 e si attesta su una linea di assoluta retroguardia rispetto ad altri episcopati d’Europa o degli Stati Uniti. Alla luce del passo compiuto da papa Francesco, istituendo una commissione internazionale, a maggioranza di laici, composta per metà da donne e per metà da uomini e comprendente una vittima di violenze, il nuovo documento della Cei risulta imbarazzante.
LA CEI RIFIUTA di assumersi ogni responsabilità nel contrastare il fenomeno - lo proclama ad alta voce in conclusione del testo: “Nessuna responsabilità, diretta o indiretta, per gli eventuali abusi sussiste in capo alla Conferenza episcopale italiana” - e fugge da un impegno nazionale nel monitorare il fenomeno, nell’istituire strutture di ascolto e di denuncia, nel verificare se i singoli vescovi si attengono alle istruzioni vaticane. Zero di zero. Facendosi scudo di codice e concordato, la Cei inculca ai vescovi che “nell’ordinamento italiano il vescovo, non rivestendo la qualifica di pubblico ufficiale né di incaricato di pubblico servizio, non ha l’obbligo giuridico di denunciare all’autorità giudiziaria statuale le notizie che abbia ricevuto in merito ai fatti illeciti”. In realtà codice di procedura penale e concordato non c’entrano niente con il silenzio sulle violenze: qui la questione era - ed è - se autonomamente la Cei ritiene obbligo di un vescovo denunciare un criminale. La risposta delle Linee guida è no: la Cei non invita i vescovi a denunciare chi violenta minori. E’ esattamente l’opposto di ciò che pensa Marie Collins, la credente cattolica abusata, chiamata a far parte della commissione voluta da papa Francesco. “Che si arrivi, se i casi di abuso sono accertati e la vittima consente, alla denuncia alle autorità civili. Questo passo è decisivo”, ha dichiarato a “Repubblica” appena nominata.
IL PICCOLO PASSO in avanti, rispetto alle Linee guida del 2014, è costituito da un inciso dove si specifica che il vescovo non ha l’obbligo di denuncia “salvo il dovere morale di contribuire al bene comune”. Frase talmente generica che ogni vescovo la interpreterà a modo suo. Negli ambienti ecclesiastici si considera comunque positivo questo invito a una buona collaborazione con le autorità civili. Ma un conto è collaborare a un’indagine statale già avviata, un conto è non dare l’indicazione di portare in tribunale il sospetto di un crimine. La Cei si premura anche - attivissima nel creare pregiudiziali - di avvertire i vescovi d’Italia che, in base al concordato e al codice di procedura penale, “sono esonerati dall’obbligo di deporre o di esibire documenti in merito a quanto conosciuto o detenuto per ragioni del proprio ministero”. In altre parole, si vuole impedire che, come negli Stati Uniti, l’autorità giudiziaria possa scoprire (grazie all’acquisizione della documentazione interna di una diocesi) le manovre di insabbiamento o colpevole disattenzione di un vescovo. Non c’è niente da immaginare, è tutto già successo e la documentazione è vastissima.
A ROMA , sotto gli occhi di due papi, il vescovo Gino Reali (diocesi suburbicaria Porto-Santa Rufina, pochi chilometri dal Vaticano) non ha mosso un dito nemmeno per avviare l’indagine canonica - raccomandata dalla Santa Sede - in merito al prete Ruggero Conti, accusato di avere abusato di sette minori. Conti è stato condannato in appello nel maggio scorso a quattordici anni. Per tre casi è scattata la prescrizione, ora l’attesa indecente è che il ricorso in Cassazione prescriva il resto. La Cei se ne lava le mani. Non è sua competenza - ribadiscono le Linee guida - se un vescovo non osserva nemmeno le leggi della Chiesa, che intimano rapide indagini e sanzioni tranne in caso di “manifesta infondatezza” delle accuse. Notazione finale. Se si prende il testo della Cei e si clicca la parola “risarcimento”, il risultato è nullo.
PREOCCUPATA di una tendenza auto assolutoria nella gerarchia cattolica – all’ombra di Francesco – la redazione del National Catholic Reporter (il periodico americano che dal 1985 ha riportato gli scandali negli Usa) ha invitato il papa a lavare i piedi il prossimo Giovedì Santo alle vittime di abusi. Per decenni – ricorda il NCR – dei vescovi hanno “negato, mentito, impedito la rivelazione” del dramma. “Nessuno di loro è stato mai chiamato a rendere conto”.

il Fatto 29.3.14
Torino, le schede anti-omofobia secondo i cattolici
di A. G.



PIERO FASSINO china il capo ai cattolici e “corregge” le schede anti-omofobia pubblicate sul sito del Comune di Torino, ritenute ispirate dall’“ideologia gender”. È il risultato di un’azione intrapresa dopo un’interrogazione del consigliere Silvio Magliano (Ncd) vicino a Comunione e liberazione. Secondo Magliano il materiale, destinato alla lotta al bullismo nelle scuole medie, “distorce in modo inaccettabile le questioni legate alla fede e alla dottrina cattolica, presentando interpretazioni dubbie e palesi travisamenti delle Sacre Scritture”. I cattolici erano soprattutto indispettiti dall’immagine di un San Paolo omofobo e intollerante. Dopo la discussione in consiglio comunale le schede sono state tolte dal sito “per approfondimenti”, suscitando le polemiche delle associazioni Lgbt, come l’Arcigay e lo storico circolo “Maurice”, che ha definito il sindaco “revisionista”. Ieri i materiali sono tornati online “corretti”, fanno sapere Magliano e il quotidiano Avvenire, quotidiano della Cei. Fassino e la sua giunta si beccano gli applausi dei cattolici, mentre l’Arcigay lo bolla come “censore”.

La Stampa 29.3.14
Abusò dei detenuti, quattro anni all’ex cappellano di San Vittore
I pm avevano chiesto una condanna a 14 anni e 8 mesi per 12 casi di abusi

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Corriere 29.3.14
Camilliani, a giudizio il superiore e i complici


ROMA — L’inchiesta sulla gestione dell’ordine religioso dei Camilliani si chiude con il rinvio a giudizio del superiore generale Renato Salvatore e dei suoi presunti complici. Si procede con il rito immediato, il processo comincerà il 2 luglio. E sul banco degli imputati saliranno, oltre al prelato, il fiscalista Renato Oliverio e i marescialli della Guardia di Finanza Alessandro Di Marco e Mario Norgini, che si erano messi a disposizione per organizzare un finto arresto dei sacerdoti don Rosario Messina e don Antonio Puca che si opponevano alla riconferma di Salvatore. Il giudice ha accolto la richiesta del pubblico ministero Giuseppe Cascini e Oliverio sta valutando insieme al suo legale Gianluca Tognozzi se chiedere il giudizio abbreviato. La vicenda risale al 13 maggio scorso. Sono stati gli investigatori del Nucleo Tributario di Roma guidati dal colonnello Cosimo Di Gesù a ricostruirla grazie alle intercettazioni telefoniche e alle verifiche sull’attività dei loro colleghi. E nell’ordinanza di arresto il giudice ha scritto: «Puca e Messina sono stati indotti con l’inganno a ritenere di essere stati convocati dalla procura di Napoli per rendere interrogatorio e sono stati condotti presso il Comando di Roma ove hanno subito indebite escussioni con la convinzione di poter alleggerire, grazie a un provvidenziale interessamento di Oliverio, la vicenda giudiziaria partenopea falsamente loro attribuita». I finanzieri, difesi dall’avvocato Davide De Caprio, sono agli arresti domiciliari. Il fiscalista, ex collaboratore dei Servizi Segreti e titolare di un archivio con decine e decine di dossier, rimane invece in carcere.

La Stampa Vatican Insider 29.3.14
Ior, Gotti Tedeschi al contrattacco
di Andrea Tornielli

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il Fatto 29.3.14
“Equitalia grazia i maxi-evasori”
Landini (Fiom): “Il fisco rinuncia ai 130 miliardi dei pesci grossi, affrontare i ricorsi non conviene”
di Salvatore Cannavò


La denuncia è arrivata secca durante la puntata di giovedì di Servizio Pubblico. A lanciarla, il segretario della Fiom, Maurizio Landini che ha puntato il dito contro le modalità di riscossione adottate da Equitalia: “Dai dati in mio possesso è chiaro che non si colpiscono i grandi evasori, ma si punta a quelli più piccoli perché è più conveniente”. L’accusa è di quelle già riscontrabili nel comune sentire. Ma, in questo caso, il segretario dei metalmeccanici è molto più circostanziato: “Dal 2007 al 2012 - spiega al Fatto - il Fisco ha accertato l’esistenza di 220 miliardi di evasione fiscale”. “Ma, prosegue Landini, il 60% di questa cifra (132 miliardi, ndr) è riferibile solo al 10% degli evasori mentre il restante 40% (88 miliardi, ndr) si spalma sul 90% di chi evade”. La proporzione è essenziale per cogliere il senso della denuncia: “Il problema - aggiunge il segretario Fiom - è che per far quadrare i bilanci Equitalia punta a riscuotere i piccoli importi perché sono quelli più agevoli mentre i grandi importi, i cui titolari possono avvalersi di importanti studi legali o di commercialisti adeguati, vengono lasciati da parte”. Insomma, se hai uno studio come quello di Ghedini, hai più opportunità e capacità di rispondere a una contestazione del Fisco, di fare ricorso in tribunale, di tirarla per le lunghe e, quindi, di farla franca. Se, invece, sei un pesce piccolo soccombi.
EQUITALIA , da parte sua, dispone di dati diversi e mostra di non condividere l’accusa. La società, infatti, fa sapere di non essere una azienda privata ma di appartenere all’Agenzia delle entrate (51%) e all’Inps (49). Il suo compito, poi, non è quello di “scovare” gli evasori, perché la fase di accertamento compete ad altri soggetti e solo dopo che i tributi sono iscritti a ruolo passano a Equitalia. Il suo amministratore delegato, Benedetto Mi-neo, ha tenuto la scorsa settimana un’audizione alla commissione Finanze del Senato in cui ha snocciolato diversi dati. In particolare, ha rivelato che l’accertato, dal 2000 al 2014, è stato di 894 miliardi di euro ma che di questi, circa la metà si sono dimostrati o “errati” (il 25%) oppure riferibili a fallimenti, cessazioni, morti e quindi non riscuotibili.
Nei 14 anni presi in esame, invece, il riscosso ammonta a poco più di 60 miliardi, il 7,7% del totale mentre un altro 7,8% è “da lavorare”. Equitalia dice di garantire una riscossione di 8 miliardi all’anno, mentre i gestori precedenti “garantivano 2,9 miliardi”. L’azienda fa anche sapere che oltre il 60% del riscosso riguarda persone con debiti superiori a 50 mila euro.
Di fronte a questi numeri, però, Landini tiene il punto. “Non mi sembra che sia messa in discussione la sostanza della nostra affermazione : gli importi rilevanti, quelli in cui c’è il grosso dell’evasione, non vengono toccati”. Perché? “Perché dovendo fare utili, Equitalia non si può permettere di perdere troppo tempo”. In effetti Equitalia, pur essendo di proprietà pubblica, non ha contribuzioni e deve basare i propri bilanci sull’aggio, una percentuale sulle somme riscosse che dal 1 gennaio 2013 è pari all’8% degli importi (entro i 60 giorni dalla notifica della cartella, è ripartito tra il contribuente, 4,65%, e l’ente creditore, 4,35%). I bilanci, poi, vengono appesantiti dal contestuale calo delle riscossioni: dagli 8,9 miliardi del 2010 si è passati a 7,1 miliardi nel 2013. La Corte dei Conti ha sottolineato che la flessione è dovuta alla crisi ma anche a una legislazione divenuta via via più blanda. Che si ripercuote, negativamente, anche sui bilanci della società presieduta da Attilio Befera. L’accusa, quindi, sembra reggere anche perché fondata, a quanto risulta al Fatto, su una più ampia indagine della magistratura che indaga sulle vere cause dell’evasione. Un’indagine di cui il governo dovrebbe essere a conoscenza.

il Fatto 29.3.14
“Non tutelati i diritti dei viaggiatori”
La Ue deferisce l’Italia per le Ferrovie
di Da. Mil.


La Commissione europea ieri ha deferito l’Italia alla Corte di giustizia Ue “per non aver rispettato pienamente le norme comunitarie in materia di diritti dei passeggeri ferroviari”. Severissimo il contenuto della nota, secondo la quale al regolamento europeo sui diritti dei passeggeri ferroviari, che stabilisce diversi obblighi giuridicamente vincolanti per gli Stati membri, doveva essere data piena applicazione entro il 3 dicembre 2009. L’Italia, invece, “non ha ancora istituito un organo per l’applicazione del regolamento, né ha istituito norme per sanzionare le violazioni della legislazione nell’ambito dei diritti dei passeggeri ferroviari”.
SENZA QUESTE DUE AZIONI, ragionano i commissari europei, “i passeggeri che viaggiano in treno in Italia o dall’Italia verso altri Paesi dell’Unione, non potranno rivendicare i diritti loro spettanti”. Inoltre, in considerazione della mancanza di sanzioni “efficaci, proporzionate e dissuasive” per le violazioni del regolamento Ue, “non vi è alcun incentivo per l’industria ferroviaria di adempiere ai propri obblighi. Attualmente - sottolinea Bruxelles - l’Italia ha istituito solo un organismo temporaneo” senza “la competenza né l’autorità per applicare pienamente le norme europee sui diritti dei passeggeri”.
LA COMMISSIONE UE ha inviato all’Italia una lettera di messa in mora, relativa al rispetto del regolamento, già nel giugno 2013. Un parere motivato è seguito nel novembre 2013. E “nonostante questo procedimento”, il pieno rispetto del regolamento da parte dell’Italia è ancora in alto mare. Dopo le cattive notizie, qualcosa di buono per le ferrovie. Sempre di ieri, infatti , la notizia che il Tar ha annullato le multe per un totale di 300 mila euro, inflitte dall’Antitrust per abuso di posizione dominante per aver impedito l’ingresso di Arenaways nel mercato del trasporto ferroviario passeggeri.
NEL 2012 L’AUTORITÀ per la vigilanza aveva intimato loro di astenersi in futuro dal realizzare comportamenti analoghi e sanzionando in solido Ferrovie dello Stato e Rete Ferroviaria Italiana per 100 mila euro e Ferrovie dello Stato e Trenitalia per 200 mila euro. Per il Tribunale amministrativo del Lazio, invece, “risultano convincenti le linee argomentative con le quali si attacca la logicità dei passaggi fondanti dell’accertamento dell’abuso”. Ritenute fondate le censure con le quali le ricorrenti lamentavano “che l’Autorità si sia di fatto sostituita all’Ufficio per la regolazione dei servizi ferroviari (Ursf), deputato a vigilare sulla concorrenza nel mercato del trasporto ferroviario e alla risoluzione del contenzioso, nell’analisi delle questioni”.

l’Unità 29.3.14
Né tetto né legge
Dormire negli androni di Roma
di Jolanda Bufalini


Roma. I quartieri dell’Ardeatina, Tor Marancia, Sette Chiese, Caravaggio. Quartieri dormitorio, medio-alti e popolari. Marciapiedi stretti e nessun bar aperto, non c’è anima viva in giro di notte, se si fa eccezione per i fiorai e le disinibite trans di piazza dei Navigatori. Si intuisce un calore confortevole nelle palazzine ma, in strada, non si vedono senzatetto e, persino le chiese, qui, sono inospitali, rese irraggiungibili da cancellate che chiudono sagrato e giardini.
Tutta un’altra storia fra Capitan Bavastro e Giovanni da Verrazzano, vicino a Eataly, dove un tempo stavano gli afghani, nel buco delle fondamenta di un palazzo (che ora è stato edificato), come nel film Buffalo Bill e gli indiani. Contiamo due roulottes, poi, girato l’angolo di via Prospero Alpino, proprio vicino al centro della Acli, stanno accucciati sui cartoni, i ballatoi del palazzo comunale riparano dalla pioggia, prima due poi tre giovani uomini.
Piazzale dei Partigiani. È il Far West. Nei racconti dei senza casa gli episodi di violenza, aggressioni, prepotenze, furti, hanno come teatro la stazione Ostiense: L. romeno, 46 anni, è stato derubato dello zainetto in cui aveva i documenti, M. romeno, 58 anni, che gira in bicicletta, è stato aggredito e derubato nel piazzale. A. italiano, 67 anni, mette il sacchetto con le sue poche cose sotto la testa ma «anche così non sto tranquillo ».
San Pietro. Via della Conciliazione, Ospedale Santo Spirito, Porta Angelica, via della Grazia, piazza Risorgimento, ore 22 circa. La densità abitativa sotto i propilei della Conciliazione, nei vani dei portoni, a ridosso delle mura, sulle panchine di pietra, è una vera scoperta, mai avrei immaginato quanta gente trova rifugio all’ombra del Vaticano.
Il 17,18, 19 marzo ho partecipato come volontaria al primo censimento dei senza dimora a Roma e ho appreso una nuova topografia della città e anche una topografia dei sentimenti. Il censimento è stato organizzato dalla fondazione di ricerca Rodolfo De Benedetti con il patrocinio del comune di Roma(assessorato al sostegno sociale) e dalla università Bocconi, il proposito è quello di «scattare una fotografia», fornendo elementi utili agli amministratori e alle associazioni di volontariato. L’esperimento è già stato fatto a Milano e a Torino, dovrebbe essere ripetuto periodicamente per fornire un quadro affidabile e indirizzare politiche e servizi. A Roma 1200 cittadini si sono trasformati - dopo un breve corso di formazione - in contatori/rilevatori sulla base di un questionario di 30 pagine, coordinati Protezione civile e da altre associazioni che già assistono gli homeless in strada. Tra i volontari molte ragazze e ragazzi G2, la seconda generazione immigrata, che parlano perfettamente l’italiano e la lingua d’origine, arabo, romeno, spagnolo. Oppure giovani padri di famiglia come Massimo, spinto da un misto di solidarietà e preoccupazione: «Qualche volta penso che basta niente, perdi il lavoro e ti ritrovi per strada, potrebbe succedere anche a me». Disoccupazione, malattia, soprattutto separazione. La rottura con i familiari o la perdita di contatto, per una lite, per vergogna, per insofferenza, per non essere giudicati, per amore della libertà, per orgoglio, per lontananza, è la concausa che si ripete a ogni storia, anche se le storie dei senza tetto sono una diversa dall’altra. Ma un velo copre quel dramma originario. La moglie di P. (romeno) vive vicino a Roma, a Rocca di Papa, con i figli, la moglie di V. (polacco) vive a Fara Sabina, con la bambina, la ex compagna di D. (romeno) vive nel suo paese dove si trova anche il loro figlio, ormai grande. Il velo nasconde le ragioni di quell’essersi bruciati i ponti alle spalle. V. è da molti anni in Italia, parla benissimo e spiega così quello che gli è accaduto: dopo tanti anni di lavoro pesante ero stanco, volevo un po’ di tempo per me. Sono nove mesi che dorme in strada, ora aspetta la cerimonia di santificazione di Karol Woityla, poi deciderà sul da farsi. In questi mesi ha avuto un paio di lavori (è edile) ma non è stato ancora pagato. Anche nella vicenda del romeno P. c’è una lite con i connazionali datori di lavoro che non lo hanno pagato, ogni mattina va allo smorzo sperando in un ingaggio, ma ormai è malato, ha la tosse, dolore ai piedi. Beve molto. Non lo prendono. Al corso di formazione una ragazza ossessionata dai Tso, pensa che i senza dimora vengano ricoverati in modo coatto. La mia esperienza di cronista dice il contrario, con gli ospedali che riducono letti e ricoveri, il rischio è che non ci si accorga che l’homeless che tutte le sere trova rifugio al pronto soccorso, in quella determinata sera sta veramente male. Però le istituzioni totali, i manicomi prima della rivoluzione di Basaglia, hanno una parte nella nostra storia: Antonio (nome di fantasia) è napoletano e, tecnicamente, non è un senzatetto, ha una pensione e una casa a Napoli. Eppure da decenni vive per lo più in strada, si lava sui treni, mangia frugando negli avanzi dei supermercati: «Buttano una gran quantità di roba buona». Alla fine degli anni Sessanta era un ragazzo ribelle che amava solo la musica, non voleva studiare, non accettava la disciplina del lavoro. Il papà, infermiere al manicomio, ritenne che andava curato, lo acchiappava con l’aiuto dei colleghi e lo rinchiudeva. Così sono iniziate le sue fughe, così è diventato vagabondo.
Non ho incontrato volontari provenienti dall’Asia Centrale, eppure, fra chi dorme in strada, afghani, bangladeshi, pakistani, sembrano i più fragili, l’ostacolo della lingua li rende i più solitari e difficilmente raggiungibili. A Borgo c’è un ragazzo dalla pelle olivastra che si è preparato il giaciglio, sui gradini che portano a un sottoscala, un ombrello rosso lo ripara dalla pioggia sottile e fa da paravento agli sguardi estranei. Rifiuta con il sorriso di rispondere al questionario, forse prevale la paura o la difficoltà della lingua.
C’è una parte del questionario elaborato dalla fondazione de Benedetti molto interessante, anche se imbarazzante per l’intervistatore. È quella relativa alla felicità e al grado di soddisfazione per la propria vita. È stata una sorpresa scoprire che gli intervistati rispondevano volentieri a quelle domande così personali e che le risposte erano molto diverse. L’operaio polacco, per esempio, ha dato un punteggio alto a felicità e soddisfazione, guardando alla propria vita passata e presente. Si è detto infelice e non realizzato, invece, l’anziano romeno che ha lasciato la sua ex in patria e che non sente mai il figlio. Tutti, nessuno escluso, gli intervistati respingono l’idea del dormitorio: una caserma, orari impossibili, «ti devi presentare alle 6 del pomeriggio», «appena entri ti obbligano a fare la doccia».
È molto tardi quando Francesco, un commerciante di Borgo, esce dal negozio e, prima di inforcare la moto con cui torna a casa dal lavoro, ci segnala una vecchina italiana di 83 anni che vive a ridosso delle Mura. Questa vecchina dalla faccia allegra ma gonfia di freddo avrebbe la sua pensione ma sembra che il nipote se ne sia appropriato. Colle Oppio, via Marsala, via Dandolo, Sant’Egidio, Dono di Maria. La rete del volontariato risolve i problemi dell’igiene personale, della mensa, del vestiario. Molto più difficile è la cura della salute, soprattutto se si tratta di patologie che richiedono uno specialista. Ed è praticamente impossibile possedere delle cose, non solo a causa delle rapine: devi portare tutto sulle spalle, come la lumaca con la sua chiocciola, oppure rischi che la nettezza urbana butti tutto. Chi cerca lavoro ha il problema dei trasporti: i senzacasa sono stanziali nelle zone centrali, dove c’è più luce e più sicurezza. Ma per lavorare devono spostarsi, anche di molti chilometri.

La Stampa 29.3.14
Marino a caccia di fondi tra gli emiri per salvare la Grande Bellezza
Il sindaco di Roma cerca mecenati per nove monumenti eccezionali
di Flavia Amabile


Finiti i tempi in cui i sindaci si limitavano a tagliare nastri e partecipare a conferenze stampa, oggi il primo cittadino di una città come Roma, di grande bellezza ma di altrettanto enorme dissesto finanziario e archeologico-monumentale, deve andare in giro a cercare mecenati, sponsor e privati disposti a pagare.
Ignazio Marino infatti volerà stamattina in Arabia Saudita con una cartellina sotto il braccio, 32 pagine, un dossier-catalogo sui monumenti di Roma che hanno bisogno di sponsor. E potrebbe tornare a Roma domenica sera già con un’offerta formale: sembra che il principe Sultan bin Salman bin Abdulaziz sia interessato soprattutto ai restauri sul Campidoglio.
Le grandi bellezze antiche in avanzato stato di decadenza che Marino sta cercando di recuperare piazzandole al miglior offerente sono nove. Chi metterà i soldi necessari sul piatto riceverà in cambio visibilità durante il restauro. La prima scelta avviene così, sfogliando il dossier-catalogo sufficientemente accattivante e completo da poter dare informazioni esaurienti sulle rovine di Roma che attendono qualcuno che se ne occupi. Per ognuno dei monumenti c’è una scheda con il costo, dell’operazione, la descrizione dell’opera, le foto.
È la formula-Colosseo, il primo monumento di Roma a trovare uno sponsor. Dopo il primo annuncio dell’intervento di Della Valle sono arrivati gli altri, le sorelle Fendi a Fontana di Trevi, Bulgari a Trinità dei Monti, il giapponese Yuzo Yagi alla Piramide Cestia, la Coca Cola che sta riflettendo ma che qualcosa sponsorizzerà. E così l’assessorato alla Cultura e la Sovrintendenza Capitolina hanno messo a punto il dossier che a dicembre è stato già consegnato negli Stati Uniti a diversi investitori interessati. Oggi Marino sarà a Riad «per ricevere un dono per la città». I sauditi potranno scegliere di finanziare con un milione e mezzo il recupero delle Terme di Traiano, fatte costruire dall’imperatore Traiano senza risparmio di mezzi. All’epoca erano il più grande edificio termale esistente al mondo. Oggi è uno dei resti romani più trascurati. Oppure il Mausoleo di Augusto che, nonostante le promesse e l’impegno del governo Letta che ha stanziato due milioni di euro, è ancora nel degrado più totale nell’anno del bimillenario della morte del grande imperatore. Il recupero più costoso è quello della Cisterna delle Sette Sale che raccoglieva le acque che facevano funzionare le Terme di Traiano. Con 6 milioni si può riempire le camere interne di acqua e creare delle passerelle sospese per permettere ai visitatori di visitare questo capolavoro di ingegneria romana. «Si tratta di un edificio spettacolare - spiega l’assessore alla Cultura Flavia Barca - a cui è legato un progetto culturale specifico perché vogliamo che i futuri visitatori vivano un’esperienza che li reimmerga nella storia».

l’Unità 29.3.14
Carlo Smuraglia: «Antieuropeismo, collante di nuovi fascismi»
di Rachele Gonnelli


Una marea nera che si espande, si ramifica, si struttura in collegamenti e derivazioni. Per il professor Carlo Smuraglia, presidente nazionale dell’Anpi, partigiano, giuslavorista, il diffondersi di movimenti di estrema destra in Europa deve far innalzare il livello di allerta, culturale e istituzionale, anche in Italia. «Vediamo processi di possibile saldatura tra formazioni di derivazione dichiaratamente neonazista, neofascista e altre forze e movimenti con connotazioni più o meno razziste e xenofobe, basate sull’odio del diverso. Questa possibile saldatura attraverso un collante potenzialmente unificante che è l’antieuropeismo può essere detonante e deve imporre una risposta articolata, anche di tipo normativo», denuncia citando lo storico francese Pierre Milza secondo il quale la storia anche se non si ripete uguale a sé stessa è bene ricordarne le varianti precedenti, per evitare esiti similmente disastrosi, come la fine della Repubblica di Weimar e la resistibile ascesa di fascismo e nazismo.
Professore, però le bande di Pravyi Sektor a Kiev non sono certo uguali a i sostenitori del Front National in Francia. E il successo referendario anti-immigrati in Svizzera non può essere paragonato al razzismo di Alba Dorata in Grecia o di Jobbikin Ungheria.
«Certo, però si intravede una tendenza, che del resto segnaliamo da diverso tempo e che ora sembra approfondirsi. La destra tradizionalmente liberale e conservatrice assume connotati nuovi, populistici, razzisti e autoritari. È un andare più in là che coinvolge persino la Norvegia dove una nuova destra in ascesa, pur non assumendo connotati dichiaratamente neofascisti, assume elementi che colorano gli orientamenti in senso populista, omofobo e razzista mai visti finora nei Paesi scandinavi. E ci sono segnali allarmanti di un tentativo di coordinamento a livello europeo che vengono anche dall’Italia. Ci sono stati recenti raduni a Milano e nel Veneto ».
Sta dicendo che ci sarebbe un tentativo di creare una internazionale nera?
«Questa internazionale nera di cui si parla ancora non c’è ma si sta formando. C’è il rischio di una saldatura con fenomeni più estesi e caratteristiche che anche se non sono le stesse, si somigliano. Bisogna sempre ricordare che il fascismo e il razzismo sono due cose diverse, ma il fascismo è anche razzismo. L’affermazione di Marine Le Pen ha connotati particolari, raccoglie anche un diffuso malcontento popolare, un voto di protesta e di disagio. Infatti non ha portato via voti alla destra repubblicana dell’Ump, ha pescato nelle banlieue e in ceti popolari in difficoltà che possono essere strumentalizzati o possono capire male, cercare un’uscita a destra dalla crisi. Certo che Alba Dorata, che porta simboli nazisti ed entra al Parlamento di Atene col passo dell’oca, è altra cosa. Però è l’unificazione di tutte queste forze centrifughe per l’Europa che deve preoccupare».
Alba Dorata, cambiando solo nome in Alba Nazionale intende ripresentarsi anche alle prossime elezioni europee. Non ci sono norme a livello europeo che possano bloccare la presentazione di liste neonaziste e neofasciste?
«Gli strumenti di questo tipo sono sempre abbastanza modesti. Inoltre spesso queste forze quando si presentano alle elezioni tendono a presentarsi non con l’aspetto peggiore, perché, tra l’altro, cercano di prendere i voti anche di persone che non hanno un orientamento così definito. Perciò risulta difficile controllare le liste. Anche da noi liste razziste e fasciste, anche se non si presentano in camicia nera, sono state ammesse. In un caso di ricorso fu presentata un’interrogazione parlamentare e il governo dichiarò la sua impossibilità a intervenire di fronte a una decisione della commissione elettorale. Mancano strumenti normativi ed è rischioso, non tanto per le percentuali spesso irrisorie che ottengono queste liste, ma perché in questo modo cercano di accreditarsi, acquisire una credibilità, psicologica prima che politica, che fa danni. Anche quando siamo intervenuti per impedire raduni e cortei, l’unico strumento è la legge Scelba che vieta la ricostituzione del partito fascista. Secondo la nostra interpretazione non è così. Non c’è solo quella legge ma è tutta la Costituzione che è imperniata sull’antifascismo. Non c’è solo la XII disposizione transitoria che esclude la ricostituzione del partito fascista, ma qualunque articolo della Carta, a partire dall'articolo 3 che ne è il fulcro, serve a tutelare le libertà, contro ogni discriminazione e autoritarismo. In ogni caso, proprio per fare il punto sugli strumenti giuridici e politici e rafforzare una cultura dello Stato contro queste manifestazioni da non tollerare, perché estranee al corpo della Costituzione, come Anpi e Istituto Alcide Cervi organizziamo per il 31 marzo una approfondita riflessione a Roma, all’hotel Nazionale in piazza Montecitorio ».
La Lega Nord raccoglie le firme per abolire con un referendum la Legge Mancino. Mentre l’ex ministra Cécile Kyenge intendeva rafforzarla all’interno del suo piano di lotta alle discriminazioni e al razzismo. Che fine farà?
«Per ora la Legge Mancino c’è e si tratta di applicarla. Non so fino a che punto sia entrata nella cultura giuridica. Si fa ancora poco riferimento a questa legge, si dice che riguarda solo il razzismo e non il fascismo ma, ripeto, per noi i connotati dei due fenomeni sono simili. Va un po’ corretta, vanno precisati alcuni punti ma solo per renderla più efficace, ad esempio contro inquietanti manifestazioni di razzismo in tv e sul web. Se si dice che si deve sparare contro gli immigrati, è un affermazione grave, è razzismo. C’è molta indifferenza tanto nelle istituzioni quanto nella scuola, dove è sparita l'educazione civica, dove non si insegna la Costituzione e non si insegna la cultura democratica ».
Tra gli adolescenti serpeggia una banalizzazione dei simboli e degli slogan nazisti e fascisti. Forse perché usati allo stadio o perché fanno riferimento ad eventi considerarti troppo lontani nel tempo?
«La Legge Scelba all’articolo 9 dice che il governo favorisce nelle scuole l’insegnamento di ciò che è stato il fascismo, anche se questa norma non è stata mai applicata e la scuola finora ha fatto poco per la formazione dei cittadini e l’insegnamento della nostra storia recente con fredda oggettività. La scuola è il primo agente formativo, subito dopo viene la famiglia. C’è da dire che con l’ex ministro della Pubblica istruzione Maria Chiara Carrozza avevamo raggiunto un’intesa, che stava per essere formalizzata, per impostare un lavoro di diffusione della conoscenza storica e di educazione alla cittadinanza. Un progetto al quale collaboravamo come Anpi insieme all’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione nazionale in Italia, che coordina istituti e centri di studio storici avvalendosi anche degli strumenti più moderni. Poi è cambiato governo e ora non si sa più se questo progetto andrà avanti. Proprio in questo quadro abbiamo realizzato, anche con contributi pubblici,un numero speciale della nostra rivista, “Patria”, per il 70esimo della Resistenza. Abbiamo in stampa un gran numero di copie di questo materiale che sarà distribuito il mese prossimo a titolo gratuito e speriamo di legarlo a progetti di insegnamento nelle scuole. Sarà un tassello importante per combattere i tentativi di fascinazione dei giovani che i vari movimenti neofascisti adoperano, anche tramite lo sport e le canzoni».

l’Unità 29.3.14
Municipali, Hollande rischia oltre 100 città
Ballottaggio da brivido tra Ps e Ump
La sfida di Marine Le Pen: «Noi né di destra né di sinistra»
di Gabriel Bertinetto


Se al primo turno era stato l’exploit del Fronte Nazionale (Fn) a catturare l’attenzione generale, il ballottaggio delle amministrative francesi in programma domani regalerà probabilmente agli osservatori l’immagine di un Paese sommerso da una gigantesca «onda blu», il color della destra tradizionale.
Benché ufficialmente lo neghino, i leader socialisti non sembrano più illudersi in una rimonta che possa attenuare le dimensioni della débacle subita sei giorni fa. Su questo concorda la maggior parte dei media nazionali, che in maniera più o meno dettagliata già illustrano il successo dell’Ump e dei suoi alleati nei comuni in cui l’esito incerto nel voto di 23 marzo ha reso necessario richiamare i cittadini alle urne. Quanto ai protagonisti del primo turno, l’estrema destra dell’Fn potrebbe aggiudicarsi altre 7 città, oltre alle 2 in cui la poltrona di sindaco è già stata occupata dai loro rappresentanti. Il più preciso nel quantificare preventivamente la Waterloo della sinistra francese è il quotidiano Le Monde. Il giornale concentra l’analisi sulle 953 città con popolazione superiore ai diecimila abitanti. Ricorda che la gara è già terminata domenica sera in 395 centri, e il centrodestra se ne è aggiudicato 254, mentre socialisti e alleati hanno prevalso solo in 139.
Stando ai risultati del primo turno e ai sondaggi la gara rimarrebbe incerta in gran parte delle 558 città in cui domani si riaprono i seggi, ma il dato che emerge è la probabile sconfitta della sinistra in 110 città dove attualmente governa. Il movimento inverso riguarderebbe solo 4 città.
La stragrande maggioranza dei comuni perduti da socialisti e alleati finiranno ai blu della destra tradizionale, ma qualcuno potrebbe passare ai Blu Marine del Fn.
Da quando ha rimpiazzato il padre alla guida del Fronte Nazionale, Marine Le Pen si è sforzata di rimuovere dall’organizzazione un marchio neofascista e antidemocratico che pareva indelebile. E ora ambisce a dipingere il Fn come l’alternativa a un blocco indistinto di cui sarebbero parte il Ps del presidente Francois Hollande e l’Ump del suo predecessore Nicolas Sarkozy. Una forzatura propagandistica non molto diversa dall’identificazione grillina fra Pd e Pdl.
Al giornalista che le chiede se la sua linea ufficiale che colloca il Fn «né a destra né a sinistra» non rischia di precluderle ogni alleanza e quindi ogni prospettiva di arrivare un giorno al governo, Marine Le Pen risponde di no. «Nel nostro elettorato ci sono delusi dell’Ump e del Ps. Siamo all’anno zero di un grande movimento patriottico, che non è né di destra né di sinistra». «La logica delle istituzioni della Quinta Repubblica-prosegue la leader del Fn impone una bipolarizzazione. E questo avverrà fra Ump-Ps da un lato e Fronte Nazionale-Rassemblement Blu Marine dall’altro».
VERSO UN RIMPASTO Marine Le Pen è riuscita a «sdemonizzare » il Fronte Nazionale. Se dieci anni fa quel partito veniva percepito come una minaccia alla democrazia da tre francesi su quattro, ora quel timore è condiviso solo da uno su due.
Non è stato solo merito suo. Una mano gliel’ha data la destra tradizionale, che si è ritirata dall’ideale argine anti- eversivo che sino a poco tempo fa era solita erigere assieme alla sinistra per fermare il passo ai nemici della Repubblica e della democrazia. Nei cinque anni in cui è stato al potere Nicolas Sarkozy, secondo alcuni commentatori, ha favorito una sorta di «le penizzazione degli spiriti», facendo sue alcune idee della destra estrema e soprattutto appropriandosi di parte del suo armamentario retorico e ideologico. Nel 2011 il leader dell’Ump, Jean Francois Copé, è andato oltre lungo quel cammino formulando la teoria dell’equidistanza verso la sinistra e l’estrema destra. È la linea del «né Fn né Ps». La sinistra democratica e i lepenisti vengono equiparati gli uni agli altri.
Questa linea è stata riconfermata la sera stessa del primo turno, quando i leader socialisti hanno invano fatto appello al centrodestra per rinnovare l’antico patto delle emergenze anti- fascista, quello che nel 2002 spinse gli elettori di sinistra a turarsi il naso e votare per Chirac pur di impedire a Le Pen padre di mettere piede all’Eliseo. Jean Francois Copé ha immediatamente replicato riproponendo il «ni-ni».
In casa socialista intanto già si pensa alle conseguenze della prevista batosta di domani. Hollande, la cui impopolarità è fra le cause del calo elettorale, si appresta a rimpastare l’esecutivo, sostituendo alcuni ministri. Fra le teste destinate a cadere quella del primo ministro Jean Marc Ayrault. Fra i nomi dei possibili sostituti, spicca quello dell’attuale ministro degli Interni Manuel Valls.

l’Unità 29.3.14
Cosa ci dice il voto populista in Francia
di Moni Ovadia


LA TRAVOLGENTE VITTORIA DELLE DESTRE ESTREME NELLA FRANCIA REPUBBLICANA È L’ENNESIMA severa conferma della presenza di una voglia reazionaria nel cuore dell’Europa comunitaria. Non si tratta più solo dei Paesi dell’ex blocco del socialismo reale, in cui possono essere comprensibili - anche se inaccettabili - dei rigurgiti fascistoidi in tempi di crisi.
In fondo si tratta di Paesi che non hanno avuto i necessari tempi metabolici per interiorizzare il senso profondo di una autentica democrazia con il suo bagaglio di diritti inalienabili.
Ma se si tratta della Francia che ha conosciuto l’infamia e la vergogna del governo di Vichy alle quali ha risposto non solo con il maquis dei partiti della sinistra, ma anche e soprattutto con il ruolo di de Gaulle e il suo orgoglio nazionale, c’è francamente di che preoccuparsi. Del degrado di civiltà incontro al quale rischiamo di andare con il riaffiorare di vecchie ideologie nazionaliste, xenofobe e razziste, pur se aggiornate con un maquillage adatto ai tempi del terzo millennio, sono responsabili tutte le forze politiche che rimangono, se non altro per non aver saputo contrastare, con azioni mirate e progetti forti e lungimiranti, la marea nera.
L’Europa democratica, recidivamente pavida, non ha saputo essere ferma con le derive neofasciste, non ha posto un argine a ideologie e pratiche che richiamano il passato dell’odio e delle discriminazioni che hanno insanguinato il Vecchio Continente dichiarandole incompatibili tout court con l’appartenenza alla Ue.
Quanto agli schieramenti, i conservatori confermano la loro programmatica ambiguità nei confronti delle sottoculture reazionarie, i socialdemocratici tendono all’omologazione sostanziale con i conservatori rendendosi disponibili alla legittimazione di un pensiero unico, le sinistre non hanno saputo parlare la lingua del presente e del futuro e si sono specializzate in litigiosità. Solo i verdi talora, in alcune limitate circostanze, hanno saputo distinguersi. Troppo poco.
L’Italia, notorio Paese di «brava gente» che si distingue per essere uno dei laboratori del degrado, non solo politico, ma anche antropologico, ci offre un esempio paradigmatico di negazione omologata dell’integrità umana. Nel nostro operoso Veneto, tre sindaci di centro-sinistra, si sono alleati per dichiarare guerra ai mendicanti, con schedatura e foglio di via. Sono certo che non lo facciano per propri risentimenti personali, ma solo per fare contenti i bravi cittadini che prediligono la trista morale della pubblica decenza a quella dell’inviolabilità della dignità di ogni singolo essere umano, mendicanti compresi. E l’Europa dirà qualcosa o farà orecchie da mercante?

Repubblica 29.3.14
La sfida di Marine Le Pen “La Francia che guiderò né fascista né di sinistra”
di Abel Mestre e Caroline Monnot


PARIGI. PORTARE a compimento la strategia di «superamento della demonizzazione » del suo movimento. Dare una tabella di marcia ai futuri sindaci e consiglieri municipali del suo movimento, fissando l’asticella molto in alto: dovranno essere virtuosi, rispettare l’opposizione e «mantenere le loro promesse ». A due giorni dal secondo turno delle amministrative in Francia, parla Marine Le Pen, la leader del Front National, il partito dell’ultradestra che è andato al ballottaggio in ben 229 comuni del Paese. La Le Pen auspica la nascita di un «grande movimento patriottico, né di destra né di sinistra», un «partito di governo» contrapposto a un altro blocco politico, che sarebbe costituito dall’Ump e dal Partito socialista. Una sorta di «peronismo alla francese», definizione che l’eurodeputata non respinge.
Come valuta l’esito del primo turno delle municipali?
«Molto positivamente. Abbiamo raggiunto i nostri obiettivi: più di 500 liste. E il secondo turno ci darà oltre 1000 consiglieri municipali. Il nostro obiettivo era conquistare più di quindici città; e in effetti quelle che abbiamo sono una quindicina. C’è una grossa lezione da trarre da questo voto: la necessità del radicamento. Tanto più che il territorio si conquista per cerchi concentrici, come si è potuto vedere nel bacino minerario. Partendo da una città in cui il movimento ha preso piede, la volta successiva potremo avere candidati in altre quindici o venti».
Ma la vostra scelta di non essere «né di destra né di sinistra » non rischia di impedire ogni alleanza, portandovi in un vicolo cieco?
«Nient’affatto. E’ questo che i francesi si aspettano. Nel nostro elettorato abbiamo sia i delusi dell’Ump che i delusi del Ps. Siamo all’anno zero di un grande movimento patriottico, né di destra né di sinistra, che fonda la sua opposizione all’attuale classe politica sulla difesa della nazione, sul rifiuto dell’ultraliberismo e dell’europeismo, capace di trascendere le antiche barriere per porre i problemi veri: la prospettiva è nazionale o post-nazionale? Spero questo possa apparire chiara al momento delle elezioni europee».
Ma il Front National non fa parte del blocco della destra?
«No, assolutamente. Lo schieramento di destra non corrisponde più alla realtà. Non si possono catalogare gli elettori in due campi contrapposti, destra e sinistra; la realtà è assai più complessa».
Eppure, è con l’Ump che siete in concorrenza, e vi fondete con liste di destra… «Mi scusi, ma dove emergiamo noi il Partito socialista scompare ».
Secondo lei, il Fn può prendere il potere da solo?
«Stiamo passando per una tripolarizzazione della vita politica francese. La Quinta Repubblica -a meno che non si passi alla Sesta -imporrà nuovamente il bipolarismo, com’è nella logica delle istituzioni. E il confronto sarà tra l’Ump da un lato e il Fronte Nazionale -Rassemblement Bleu Marine dall’altro ».
Ma nel frattempo ricorrete a fusioni con liste di destra, e neanche molte… «È una scelta. Ho sempre detto che reggeremo dovunque, tranne qualche rarissima eccezione. I progetti sono a portata di mano, la prospettiva di vincere esiste. Le fusioni non hanno alcun senso se non si vince».
Il logo del Fn, o sono le vostre idee a impedire ai militanti dell’Ump di affiancarsi a voi?
«No, c’è ancora un solo soffitto di vetro, che però salterà presto: non avere la possibilità di far vedere ciò che siamo capaci di fare. In altri termini un bilancio. È questo che ci manca. Ed è importante. Non intendo rifuggire da questo ostacolo. Sarà grazie al bilancio di cui parlo che faremo un salto di qualità » Con queste alleanze non temete di deludere gli elettori che votano per il vostro programma nazionale?
«Non è del tutto vero. Il rifiuto di sovvenzionare le associazioni politicizzate o comunitariste è un atto politico, come lo è la difesa dei piccoli commercianti, o la lotta contro l’insicurezza. I francesi sanno distinguere perfettamente le competenze comunali da quelle nazionali».
Quali sono le associazioni politicizzate?
«Quelle che si schierano nelle elezioni. Se la Lega dei diritti umani diffonde un volantino per far votare pro o contro qualcuno, vuol dire che è politicizzata. Perché allora non si costituisce in partito politico? Le associazioni possono assumere posizioni politiche; ma nel momento in cui chiedono sovvenzioni pubbliche hanno l’obbligo di rispettare certi paletti » Un sindaco del Fn «deideologizzato » sarà diverso da un sindaco dell’Ump o del Partito socialista?
«Credo di sì. Penso soprattutto a farla finita con il fan- tasma delirante che consiste nel dire “sarà la guerra, sarà il Fascismo”. Il pericolo fascista è una favola per bambini e per qualche intellettuale di sinistra parigino. La vera questione è sapere se gli eletti del Fn saranno trattati come gli altri o come dei paria. In quest’ultimo caso, fra sei anni ce ne saranno cento volte di più».
Temete di essere trattati come dei paria?
«Lo abbiamo già visto. Nel 1995, i sindaci del Fn hanno dovuto amministrare le città come dei paria, con l’interruzione delle sovvenzioni e così via. Questo genere di cose non funziona più. Non fa più presa sull’elettorato ».
A proposito del Festival di Avignone, i sindaci del Fn nel 1995 erano intervenuti sulle biblioteche, su certe programmazioni. Sarà così anche stavolta?
«Non sono mai stata per queste cose. La situazione è più tranquilla. L’obiettivo non è fare dei laboratori ideologici. Nel 1995 il Front National non era allo stadio a cui è arrivato oggi. I sindaci dell’epoca volevano lasciare il segno sugli spiriti, c’era l’impostazione molto ideologica di Bruno Mégret. Io non sono su questa linea, non è il mio stato d’animo. È un altro periodo che si apre».
È il Fn che è cambiato o è la società?
«Tutti e due. Il Fn è cambiato perché è un grande partito, e quando si è grandi si cambia: non si vedono più le cose allo stesso modo di quando si è un partito di opposizione, di contestazione, che vive in un’ostilità brutale. Ora abbiamo una visione più tranquilla. Siamo diventati un partito di governo, che ha la struttura e la base elettorale per arrivare al potere».
La carta municipale del Rassemblemet Bleu Marine sarà il programma di tutti i sindaci del Front National?
«Sì».
È molto generica. Da dove verrà la rottura?
«Non solo la rottura si vedrà, ma i sindaci saranno rieletti. Vedrete. Alle promesse devono seguire i fatti. La prima prova che dobbiamo dare è dimostrare che siamo capaci di rispettare le promesse. E questa è una rottura enorme con la classe politica tradizionale».
Darete istruzioni agli eletti del Fn nei consigli comunali per affrontare certi temi?
«Naturalmente. organizzeremo un ciclo di formazione. Porteremo delle idee nei consigli comunali. Per esempio la costituzione di centrali d’acquisto comunali per la nafta, per le forniture scolastiche» I vostri eletti nei consigli comunali porteranno avanti una guerriglia permanente?
«No, non è questo l’obiettivo. saremo un’opposizione reale. La faremo con durezza se la giunta comunale non vorrà stare a sentire. Oppure in modo sereno se la giunta sarà disponibile. Ma la vigilanza sull’operato della giunta ci sarà, perché è essenziale » Al di là delle città conquistate, qual è per voi lo scenario ideale? Un trionfo dell’Ump? Un Partito socialista che limita i danni?
«È quello che dimostrerà che il Fn ha riserve di voti a destra come a sinistra. Questo farà comprendere ai nostri elettori che possiamo vincere domani, in qualsiasi elezione».
Giocate per il 2017 (le prossime elezioni presidenziali, ndr) nel 2014?
«Non soltanto. Le regionali, le cantonali, le presidenziali, le legislative… Dimostrare che siamo una grande forza che può vincere le elezioni, che bisogna piazzarsi al primo turno, che abbiamo delle riserve a cui attingere per il secondo, ancora una volta sia a destra che a sinistra».

La Stampa 29.3.14
Prigioniera di Mitterrand, la vera storia di Anne Pingeot
La mamma di Mazarine, la figlia segreta, per oltre 30 anni ha ispirato le scelte del presidente, tra umiliazioni e rinunce
di Aline Arlettaz

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Repubblica 29.3.14
Ken Loach scende in campo “Il Labour ha tradito gli operai adesso fondo il mio partito”
di Enrico Franceschini


La destra difende la logica del mercato, la sinistra pure e allora non rimane che affidarsi a un nuovo movimento politico. Ken Loach, il regista figlio di operai, vincitore della Palma d’Oro a Cannes e del Leone alla carriera a Venezia, è tra i fondatori di Left Unity (Unità di Sinistra), un partito che si propone di unire lavoratori, sindacati, ambientalisti per creare una società egualitaria, democratica e socialista.
La neonata formazione si riunisce domani a Manchester per il suo primo congresso. E lui spiega le ragioni dell’iniziativa in un articolo sul Guardian, il quotidiano dei progressisti britannici. Partendo da una domanda: cosa significa oggi essere di sinistra? Poco, risponde Loach: «La retorica del Labour è più soffice di quella dei conservatori, ma difende lo stesso principio, l’idea che il profitto viene prima di tutto».
I laburisti erano di sinistra nel lontano 1945, afferma il regista, quando si dichiaravano «un partito socialista e orgoglioso di esserlo», ma sono diventati «parte del problema, non della soluzione». Il governo guidato dal conservatore David Cameron predica tagli alla spesa pubblica e privatizzazione, e il Labour di Ed Miliband, che sta all’opposizione, sostiene gli stessi programmi, accusa: «Se l’anno prossimo Miliband vincesse le elezioni, non cambierebbe niente». La leadership laburista, incalza Loach senza nemmeno nominare Tony Blair, «si è sposata con un’economia capitalista che crea divisioni di classe». E il risultato, ammonisce, è una società in cui il gap ricchi-poveri è cresciuto a livelli insostenibili, Londra è una città per ricchi dagli impossibili prezzi delle case, scuole e ospedali pubblici funzionano sempre peggio, perché tanto i ricchi si servono di istruzione e sanità private.
Ma non tutti si sono arresi, secondo lui: «Facciamo tante campagne di successo, contro l’inquinamento, per le libertà civili, per i senzatetto. I sindacati rappresentano ancora milioni di persone. Immaginate cosa potremmo realizzare se agissimo tutti insieme».
Dunque Left Unity, il nuovo partito, si propone di offrire il veicolo per un cambiamento radicale: una politica industriale che crei lavori ecologici, un salario minimo che permetta di vivere dignitosamente, case popolari per tutti e fine delle privatizzazioni. Un programma rivoluzionario. Forse illusorio nell’attuale mondo globalizzato. Ma a 78 anni il leone Ken Loach non si è ancora stancato di sognare e lottare per un mondo migliore.

Repubblica 29.3.14
Merkel e Xi, affari per 140 miliardi all’anno
di A. T.


BERLINO. «Caro presidente, comincia la nostra partnership strategica». Come spesso sa fare benissimo, Angela Merkel ha colto il senso della giornata in una frase. Il suo vertice di ieri con il capo di Stato cinese Xi Jinping segna una svolta. In mezzo alla crisi tra Russia e mondo libero, Pechino resta neutrale sull’Ucraina e l’annessione della Crimea. Però il segnale di Xi ad “Angie” è chiaro: la Cina ignora le critiche sui diritti umani, ma vuole esportare e importare, costruire insieme prosperità e crescita, mandare oltre confine manufatti e computer. «I nostri rapporti vanno gestiti come guidare un’auto: guardando lontano, non solo pochi metri oltre il muso della vettura», ha detto il presidente.
Sul piatto della bilancia c’è il volo economico della partnership strategica, come le due potenze chiamano l’intesa conclusa ieri. Diciotto accordi per aumentare ancora un interscambio di oltre 140 miliardi annui, contratto di un miliardo per Daimler (Mercedes) per impianti in Cina, intese simili per nuove fabbriche Volkswagen e Bmw, lavoro insieme sulle auto elettriche. Mega ordinazioni a Germania e Francia per Airbus, per Siemens gigante di elettronica, nucleare civile e treni, e per il colosso chimico-farmaceutico Bayer. Infine l’accordo di Deutsche Börse e della Bundesbank con la Bank of China per fare di Francoforte la principale piazza mondiale fuori dalla Cina per le contrattazioni in yuan.

La Stampa 29.3.14
Ragazze con il velo e minigonne Le due Istanbul divise da Erdogan
Viaggio nei quartieri simbolo dove la borghesia laica sfida gli islamici al potere
di Marta Ottaviani


Due mondi in una città. Alla vigilia di un voto amministrativo che potrebbe decidere il futuro della Turchia, i quartieri di Istanbul mostrano tutte le contraddizioni e le tensioni del Paese. Per capire di essere a Fatih, uno dei distretti più popolosi e conservatori, basta guardare in alto. Le decorazioni elettorali portano i colori dell’Akp, il partito di Recep Tayyip Erdogan.
«Qui i repubblicani del Chp non vengono a fare campagna, sanno che li ricacciamo indietro subito», scherza Mehmet, un anziano che si gode il primo tepore primaverile nei giardinetti vicino all’acquedotto di Valente. Fatih è come un feudo. Qui Maometto II il Conquistatore fece erigere la moschea che porta il suo nome e alla quale Erdogan, negli ultimi anni, ha dato un’enfasi tutta nuova. La zona è stata sottoposta a un poderoso intervento di restauro. Per volere del primo ministro, qui si sono svolti i funerali di Necmettin Erbakan, padre politico del premier e leader indiscusso della destra islamica turca più oltranzista. Qui sono state celebrate anche le esequie di Tenzile, madre di Erdogan, trattata come un Capo di Stato. Oggi il quartiere sembra girare attorno al complesso monumentale. Dalle donne (velate) che passeggiano per i cortili, agli uomini che siedono alle fontane per le abluzioni, pronti per la preghiera. Dai negozi che vendono abiti da sposa fatti apposta per i più religiosi (quindi con il velo che copre interamente la testa), ai ristoranti dove trovare una birra è impresa ardua. Qui il premier Erdogan è ancora visto come un salvatore. «Penso che vincerà anche questa volta - spiega Fatma, 22 anni, studentessa universitaria che volantina per l’Akp -. In questo quartiere sono cresciuta. Una volta eravamo considerati una zona povera. Adesso, si guardi intorno. Hanno rifatto tutto. La pavimentazione stradale, i giardini, le facciate dei palazzi storici. Fatih ha cambiato volto, gli elettori se lo ricorderanno alle urne». Rischiano però anche di ricordarsi che il candidato sindaco per il quartiere è niente meno che Mustafa Demir, arrestato e poi rilasciato lo scorso 17 dicembre nell’ambito della Tangentopoli turca con l’accusa di corruzione.
Per arrivare a Nisantasi bastano appena 5 fermate di metropolitana (la fermata di partenza, Vezneciler, è stata inaugurata proprio dal premier Erdogan due settimane fa). Una volta fuori si imbocca Rumeli Caddesi e ci si trova catapultati in un altro mondo, fatto di ritmi frenetici, ragazze vestite alla moda, vetrine delle più note griffes internazionali e ristoranti dai prezzi proibitivi. È la Istanbul dell’intellighenzia laica, la «Repubblica di Nisantasi», come la chiama orgogliosamente chi ci abita. Qui ha casa il premio Nobel Orhan Pamuk, qui le gran dame dell’alta borghesia turca fanno a gara per farsi fotografare e finire sui rotocalchi. Qui al posto di articoli religiosi si trovano negozi che vendono abiti da sera e chirurghi estetici, pronti a donare a più e meno giovani un soffio di eternità. C’è persino la moschea di Tesvikiye, quella descritta da Pamuk nei suoi libri, ma i funerali che vi si celebrano sono quelli della figlia di Ataturk e dei maggiori intellettuali del Paese.
I venditori di dvd contraffatti sono i più ottimisti sul futuro. «Finché il titolo più venduto è Nymphomaniac (il film di Lars Von Trier, proibito a causa delle scene di sesso, ndr) allora la gente ha voglia di resistere», spiega Can, che ha il suo banchetto vicino all’Abdi Ipekci, una delle strade più esclusive di Istanbul. A proposito di resistenza, poco lontano da Nisantasi, si trova la redazione di «Penguen», il settimanale satirico più diffuso nel Paese, letteralmente un incubo per Erdogan. «Il premier - dice M.K. Perker, il vignettista di punta del periodico - ci ha denunciati decine di volte, ma qui siamo tranquilli, perché sappiamo che una fetta della popolazione turca non tollererebbe la nostra chiusura: Gezi Park ha segnato un punto di non ritorno. Certo è difficile dire cosa succederà. Per la prima volta nella storia recente abbiamo un leader che non si tira indietro davanti a nulla».
Si trattiene il fiato a Nisantasi, in vista del voto di domenica. Sui tavoli l’alcol, sempre più caro a causa delle tasse governative, scorre a fiumi, ma non basta a far stare tranquilli. La gente si divide fra chi crede che la Turchia si salverà dalla deriva conservatrice e chi si sente come l’orchestra sul Titanic. Quelle vie, piene di ragazze sui tacchi 12 e perfettamente truccate, rischiano di trasformarsi in una riserva indiana. 

La Stampa 29.3.14
I palestinesi del campo profughi di Gerusalemme: “Dateci l’acqua!”
di Maurizio Molinari

qui

Corriere 29.3.14
Vienna, sorpasso nelle scuole: più islamici che cattolici
di Paolo Lepri


Poco meno di due anni fa, l’Austria ha celebrato il centenario della legge che attribuisce all’Islam gli stessi diritti delle altre religioni, approvata nel 1912, quando l’imperatore asburgico era Francesco Giuseppe, dopo l’annessione della Bosnia Erzegovina. Il clima di tolleranza e di apertura ha quindi radici storiche profonde. Ma nonostante questo, perché spesso le notizie hanno un valore simbolico, sono stati accolti con una certa preoccupazione i dati secondo cui gli studenti musulmani sono diventati maggioranza nelle scuole medie viennesi. È la fine di un’epoca, o, se non altro, il simbolo di una rivoluzione inarrestabile.
Le cifre, riportate per prime dalla Kathpress , l’agenzia di stampa della conferenza episcopale austriaca, parlano chiaro. Nelle scuole medie i ragazzi di religione islamica sono 10.734, mentre i cattolici sono circa duemila di meno, 8.632, seguiti da 4.259 serbi ortodossi e da 3.219 privi di «convinzioni religiose». Più in generale, secondo alcuni dati della Bbc, sono in tutto 60.000 i ragazzi che frequentano corsi di educazione religiosa islamica in tutto il Paese. È un po’ il segno, questo, di un Paese che sta cambiando (i musulmani in Austria sono circa il sei per cento sul totale della popolazione, ma il calo demografico non colpisce la comunità che ha radici nell’immigrazione), della grossa sfida che deve essere affrontata dal mondo della scuola, del declino di una chiesa cattolica che si è riunita pochi giorni fa nel monastero benedettino di Admont, nella Stiria, proprio per discutere i grandi temi della sua presenza nella società.
Sia in Austria che nella vicina Germania la Chiesa deve affrontare quindi una realtà nuova, ed è spesso divisa tra una sorta di richiamo all’ordine, imposto dalle difficili circostanze in cui si trova ad operare, ed un’esigenza di agire attivamente per colmare le fratture e di sviluppare la comprensione reciproca. È di poche settimane fa il caso dell’arcivescovo di Colonia,il cardinale Joachim Meisner, che ha pronunciato commenti molto discussi sui musulmani in Germania. Incontrando il mese scorso una delegazione di neocatecumeni, Meisner ha detto: «È chiaro che ognuna delle vostre famiglie per me vale tre famiglie islamiche». La reazione alle sue parole è stata molto forte, sia nei gruppi attivi per il dialogo, sia in una parte del mondo politico tedesco.
La crescente presenza islamica in Austria e in Germania pone invece alle autorità statali due sfide altrettanto decisive. In primo luogo si tratta di contrastare le tendenze alla radicalizzazione della comunità, soprattutto nelle fasce più giovani. La penetrazione dell’estremismo è un fenomeno che preoccupa molto, sia a Vienna che a Berlino, e lo ha dimostrato recentemente il crescere della propaganda aggressiva e il numero consistente di giovani che hanno scelto di recarsi in Afghanistan o in Siria per unirsi alla galassia della Jihad. In secondo luogo, si è registrato un boom dell’islamofobia, che, di contro, è diventata l’arma principale di proselitismo, anche attraverso il web, delle formazioni di estrema destra e nazionaliste.
Un dibattito si è aperto sui modi più efficienti per arginare questo fenomeno. Qualche settimana fa, il Consiglio d’Europa ha criticato il governo tedesco per non aver fatto ancora niente per inserire l’aggravante delle motivazioni razziste nella valutazione dei reati, al contrario di quanto avviene, per esempio, in Gran Bretagna o negli Stati Uniti. È una lotta, insomma, che si combatte su due fronti.

Repubblica 29.3.14
I palazzi della politica si riprendano il potere
di Zygmunt Bauman



NOI europei del Ventesimo secolo ci troviamo sospesi tra un passato pieno di orrori e un futuro distante pieno di rischi. Non possiamo sapere cosa ci aspetterà in futuro. A oggi ogni soluzione che concordiamo di fronte al succedersi di sfide e dissensi emana un’aria di temporaneità. Sembra essere, e il più delle volte dimostra infatti di essere, valida «sino a nuova comunicazione», con una clausola ad hoc che ne rende possibile la revoca, così come ad hoc sono le nostre divisioni e coalizioni, fragili e incerte. Su Le Monde del due febbraio scorso Nicolas Truong, riferendosi ai concetti espressi ripetutamente da Daniel Cohn-Bendit e Alain Finkielkraut, ha delineato due opposti scenari per il futuro della nostra convivenza, di noi europei. Cohn-Bendit ha pubblicato con Guy Verhofstadt il manifesto Per l’Europa!, nel quale promuove una via rapida per eludere e superare il mito della sovranità territoriale dello Stato- nazione per costruire una Federazione europea basata con forza sull’”identità europea”, la quale deve ancora essere costruita, pazientemente e uniformemente. Finkielkraut invece è convinto altrettanto fermamente del fatto che il futuro dell’Europa risieda nella sua unità, ma ritiene che questa debba corrispondere a un’unità (convivenza? cooperazione? solidarietà?) di identità nazionali. Finkielkraut ricorda l’insistenza con cui Milan Kundera affermava che l’Europa è rappresentata dalle sue conquiste, i suoi paesaggi, le sue città e i suoi monumenti; Cohn-Bendit invoca invece l’autorevolezza di Jürgen Habermas, Hannah Arendt e Ulrich Beck, uniti nella loro opposizione al nazionalismo. A rigor di logica, queste sono le due strade che si presentano ai nostri occhi nel luogo in cui ci siamo collettivamente raccolti alla vigilia delle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo. Senza dubbio l’attuale, incoerente struttura istituzionale dell’Unione Europea -nella quale le regole senza politica promosse da Bruxelles contrastano con la politica senza regole per cui il Consiglio europeo è famoso, mentre il Parlamento è tutto chiacchiere e poco potere -alimenta simultaneamente entrambe queste tendenze. Ottant’anni fa Edmund Husserl ammoniva: «Il pericolo più grave che minaccia l’Europa è la sua stanchezza».
Nel corso degli ultimi cinquant’anni i processi di deregolamentazione originati, promossi e controllati dai governi statali che si sono uniti volontariamente (o sono stati indotti a farlo) alla cosiddetta “rivoluzione neo-liberale” hanno prodotto una separazione sempre più acuta e crescenti probabilità di separazione tra il potere (ovvero, la capacità di fare) e la politica (ovvero, l’abilità di decidere cosa deve essere fatto). I poteri un tempo racchiusi nella cornice dello Stato-nazione sono per lo più evaporati e sono finiti in una terra di nessuno, quella dello “spazio dei flussi” (secondo la definizione data da Manuel Castells), mentre la politica resta, come in passato, ancorata e confinata al territorio. Tale processo tende a essere sempre più intenso e autoindotto. I governi nazionali, ormai privi di potere e sempre più deboli, sono obbligati a cedere una ad una le funzioni un tempo considerate monopolio naturale e inalienabile degli organi politici dello Stato, per affidarle alle cure di forze di mercato già “deregolamentate”, sottraendole così all’ambito della responsabilità e del controllo da parte della politica. Ciò provoca il rapido dissolversi della fiducia popolare nei confronti dell’abilità dei governi di fronteggiare con efficacia le minacce alle condizioni di vita dei loro cittadini. Questi credono sempre meno che i governi siano capaci di tener fede alle loro promesse. Per dirla in breve: la nostra crisi attuale è innanzitutto e soprattutto dovuta a una crisi dell’azione di governo -benché in definitiva sia una crisi di sovranità territoriale.
Gli europei, così come la maggior parte degli altri abitanti del pianeta, stanno attualmente attraversando una crisi della “politica così come la conosciamo” e al tempo stesso sono costretti a trovare o inventare soluzioni locali a sfide globali. Gli europei, come la maggior parte degli abitanti del pianeta, ritengono che le modalità attualmente impiegate per “fare le cose” non funzionino a dovere, mentre all’orizzonte ancora non si vedono modalità alternative ed efficaci (una situazione che il grande filosofo italiano Antonio Gramsci definì come stato di “interregno” - ovvero una situazione nella quale il vecchio è già morto o sul punto di morire, ma il nuovo non è ancora nato). I loro governi, come tanti altri al di fuori dell’Europa, si trovano di fronte a un dilemma irrisolvibile. Tuttavia, a differenza della maggioranza degli abitanti del Pianeta, il mondo degli europei è un edificio a tre -non a due -piani. Tra i poteri globali e le politiche nazionali c’è infatti l’Unione Europea.
L’intrusione di un anello intermedio nella catena di dipendenza confonde la divisione, altrimenti palese, tra “noi” e “loro”. Da quale parte sta l’Unione europea? Da quella della “nostra” politica (autonoma), o del “loro” potere (eteronimo)? Da un lato, l’Unione è considerata uno scudo protettivo che difende l’aggregato dei singoli Stati. Dall’altro, appare come una sorta di quinta colonna dei poteri globali, un satrapo degli invasori stranieri, un “nemico interno” e un avamposto di forze che cospirano per erodere e in definitiva annullare la possibilità che nazione e Stato mantengano la propria sovranità. Una percezione, questa, che viene spregiudicatamente e slealmente sfruttata dalle sirene dei neonazionalisti, che a poche settimane dalle elezioni europee stanno guadagnando sempre più consensi, come abbiamo visto alle ultime elezioni locali in Francia, dove ha trionfato il Front National. I neonazionalisti presentano il sogno della sovranità nazionale/ territoriale come cura di tutti i mali causati, secondo loro, dalla realtà odierna.
Proprio come il resto del Pianeta, l’Europa oggi è una discarica dei problemi e delle sfide generate a livello globale. Tuttavia, a differenza del resto del Pianeta, l’Unione europea è anche un laboratorio, forse unico, nel quale ogni giorno si progettano, discutono e collaudano nuove proposte per far fronte a quelle sfide e a quei problemi. Mi spingerei sino a suggerire che questo è un fattore (forse l’unico) che rende l’Europa, il suo retaggio e il suo contributo al mondo straordinariamente significativi per il futuro di un pianeta oggi di fronte a una seconda e cruciale trasformazione della convivenza umana nella storia moderna -e cioè del passaggio incredibilmente faticoso dalle “totalità immaginate” degli Stati-nazione alla “totalità immaginata” dell’umanità. Questo processo, che è ancora agli inizi e che, se il pianeta e i suoi abitanti sopravvivranno, è destinato a proseguire, l’Unione europea incarna un’opportunità molto concreta. Tuttavia, l’obiettivo non è facile da raggiungere. Non c’è alcuna garanzia di successo e sottoporrà la maggior parte degli europei, hoi polloi, e dei loro leader eletti, a una forte frizione tra priorità contrastanti e scelte difficili.
L’idea dell’Europa forse era e rimane un’utopia. Ma è stata e rimane un’ utopia attiva, che si sforza di fondere e consolidare azioni altrimenti disconnesse e multidirezionali. Un’utopia la cui attività dipenderà, in definitiva, dai suoi attori.

Corriere 29.3.14
Platone e la Germania di Tacito precursori illustri dell’eugenetica
Il filosofo parlò di «razza pura», lo storico ispirò Himmler
di Luciano Canfora


Francesco Paolo Casavola, il cui efficace compendio intitolato Bioetica (Salerno editrice, pagine 88, e 7,90) è da qualche tempo in libreria, oltre a racchiudere in sé tutta la necessaria preparazione filosofico-giuridica, è anche dal 2006 presidente del comitato nazionale per la bioetica. È un umanista che sa investirsi delle ragioni degli scienziati. Non trascurabile palestra in tal senso è stata per lui la presidenza dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana, dove da sempre si saldano e dialogano forze intellettuali facenti capo a tutti i rami del sapere.
Forse in nessun altro ambito come nella ricerca bioetica appare evidente che il confine tra progresso e conservatorismo non è di immediata né automatica evidenza. Né i comportamenti di movimenti politici connotati come progressisti producono ipso facto risultati conformi. Si pensi alla campagna per l’eliminazione dei disabili progettata dalla gloriosa e sempre osannata socialdemocrazia svedese negli anni Trenta e Quaranta. Luce è venuta, a questo proposito, dalla ricerca di Piero Colla, pubblicata quasi 15 anni or sono presso Carocci: Per la nazione e per la razza .
Mentre la cura dell’infanzia e della maternità era al centro dello Stato sociale svedese, partiva contemporaneamente un programma per la sterilizzazione di individui giudicati «portatori di un patrimonio genetico difettoso», o anche solo sospettati di essere inadatti a darsi cura della propria prole. La sorpresa fu che tali normative erano ancora in vigore, nella patria di elezione del socialismo «umano», ancora alla metà degli anni Settanta. Anche Winston Churchill aveva concepito in gioventù visioni eugenetiche siffatte, ma si può ben dire che il solo paragone possibile è con il dodicennio nazionalsocialista in Germania, dove il tentativo di creare davvero una «razza pura» portò ad esperimenti devastanti come il programma Lebensborn .
Eugenetica e pregiudizio intorno ad una ipotetica purezza razziale avevano, come è ben noto, in Germania un testo di riferimento, che divenne per Himmler, propugnatore di Lebensborn , il peso di un vangelo: il quarto capitolo della Germania di Tacito, là dove si parla dei Germani come «non contaminati da connubii con altre stirpi» e perciò «tra loro molto simili fisicamente». Scrive Tacito: «Il tipo fisico è uguale in tutti, nonostante si tratti di una popolazione così numerosa». Libro pericoloso, che innescò, tra Otto e Novecento, anche una aberrante disputa tra studiosi dell’Europa del Nord intorno alla maggior purezza degli svedesi ovvero dei popoli germanici del continente.
Né va dimenticato che pulsioni verso l’ingegneria genetica affiorarono da molto presto nei più diversi programmi di «riordino a progetto» della società (le cosiddette utopie): nella Città del sole di Campanella non meno che nelle isole del sole di Giambulo, di cui narra Diodoro Siculo nella Biblioteca storica . Ma l’archetipo è già nel V libro della Repubblica di Platone, dove il progetto dettagliato, comprese le norme sull’allattamento, riguardante la formazione di un ceto di «guardiani» è finalizzato al costituirsi di una «razza pura» (katharon genos ). Ginnastica e razzismo si son dati la mano negli esperimenti fascisti del Novecento.
È dunque l’eugenetica davvero agli antipodi della bioetica? Ma può lo sviluppo della ricerca scientifica venir frenato da presupposti etico-filosofici? Sorge la domanda: chi garantirà del valore assoluto di tali presupposti? Plausibilmente un accordo largamente accettato intorno al cosiddetto «diritto naturale». Anche in questo ambito i Greci avevano cercato di venire a capo dell’aporia, escogitando la nozione di «leggi non scritte la cui violazione provoca vergogna universalmente riconosciuta» (così Pericle nell’epitafio). Ma essi stessi sapevano che la legge non scritta poteva essere o diventare un’arma temibile in mano ad un ceto o ad un gruppo, magari protetto da un’aura sacrale, capace di imporsi come unico interprete di tale legge. Anche qui l’intuizione platonica, che ravvisa nella legge non scritta il «legame» tra norma vigente e norma che si affermerà in un prosieguo di tempo, è precorritrice. Precorre la moderna scoperta della storicità della legge e il fenomeno, oggi sotto gli occhi di tutti, della consapevolezza di nuovi diritti, prima non percepiti come tali. La polis — per usare una formula cara al Casavola — è la storicità della legge. Ma questa visione mette in crisi l’idea della oggettiva esistenza, e dunque della fissità dei diritti naturali.
Resta in piedi, e non è questione di facile soluzione, la domanda se non sia una violazione dell’etica frenare per motivi etici una ricerca potenzialmente capace di salvare in futuro molte vite. Come ognun vede, le domande che si affollano intorno alla bioetica hanno a che fare con una parola difficile e abusata, cioè con la nozione stessa di libertà: nozione controversa, tranne che per i banalizzatori. I quali (beati loro) hanno sempre le idee chiare!

Corriere 29.3.14
Kandinsky. Tamburi d’Oriente
Quel magico viaggio siberiano che ha offerto la spiritualità al padre dell’astrattismo lirico

di Melisa Garzonio

C’è modo e modo di amare un pittore. Dei quadri incendiari di Kandinsky ci si innamora di solito perdutamente. E come chiamarlo, se non amour-passion , quel sentimento che trasforma i collezionisti del maestro russo in avidi dissipatori (Kandinsky vanta strepitosi record d’asta) e mette in fila schiere di fan galvanizzati ovunque ci sia una mostra dove campeggia il magico «K»?
I suoi quadri, nei soggetti più sensibili, possono causare uno stato alterato di coscienza pari a quello provocato dal ritmo danzante di uno sciamano. Sembra facile da capire, con quella pioggia di colori che sembrano brani musicali e hanno corrispondenze con le tue emozioni, le pennellate che ricordano le sinfonie di Schönberg, le composizioni facili facili con i colori primari, il rosso, il giallo e il blu. Le nuvole, i castelli e le fate, i cerchi e i quadrati. Invece no: Kandinsky è imprendibile, insondabile, un mistero. «Come fu che all’alba del secondo decennio del Novecento il pittore russo giunse alla convinzione che per trasporre sulla tela sentimenti e pensieri non fosse necessario raffigurare oggetti, paesaggi, i volti della vita quotidiana? Per rispondere a questa domanda abbiamo voluto andare alla fonte»: raccontare la svolta che farà di Wassily Kandinsky (1866-1944) il padre dell’astrattismo lirico, focalizzandosi sulle atmosfere fiabesche e romantiche della sua infanzia, è la scelta di Eugenia Petrova, direttrice aggiunta del Museo di Stato di San Pietroburgo e curatrice (in collaborazione con Francesco Paolo Campione e Claudia Beltramo Ceppi Zevi) della mostra all’Arca di Vercelli: «Kandinsky. L’artista come sciamano».
Dopo il ciclo, durato cinque anni, realizzato in collaborazione con la Fondazione Guggenheim, che ha portato a Vercelli i grandi delle avanguardie europee e americane, lo spazio trecentesco dell’Arca si apre ai tesori russi del Novecento, di cui è scrigno il Museo Nazionale di San Pietroburgo. Un posto magico per un artista che sulla magia ha costruito la sua impresa artistica, dai primi dipinti «primitivi» dove la figurazione è sognante come nelle fiabe raccontate dalla zia materna Elizaveta, che si occupò dell’artista bambino dopo il divorzio dei genitori, fino alle grandi tele dove i colori trasportano emozioni e prendono il sopravvento sulle forme per diventare purissima espressione. Lo spiegava già, il pittore, nel 1911, dieci anni dopo aver abbandonato una brillante carriera di avvocato, nel suo saggio Lo spirituale nell’arte , che bastava una certa combinazione di colore, forma e ritmo della composizione, per comunicare le parole del cuore.
«Vercelli ha ospitato Kandinsky in altri due eventi espositivi, ma quest’anno ne fa il protagonista assoluto di una mostra non convenzionale, con capolavori mai esposti e finora sconosciuti al di fuori dei patri confini», spiega l’assessore alla Cultura Pier Giorgio Fossale. Oltre a ventidue opere di Kandinsky e a un nucleo di maestri dell’avanguardia arrivati dai musei russi, la mostra espone una raccolta di rari oggetti rituali delle tradizioni polari e sciamaniche in uso nelle remote terre della Siberia, prestito della Fondazione Sergio Poggianella, proprietaria di una delle collezioni più ricche sull’argomento. Interessante è scoprire come la parabola creativa del pittore sia profondamente radicata nel folklore e nella tradizione. Kandinsky partecipò a una spedizione nella Russia settentrionale, dove approfondì la conoscenza dei sirieni e studiò la mistica dello sciamano, dall’antico termine altaico «saman», colui che presiedeva alle cerimonie religiose e ai riti di guarigione, mediatore fra realtà sensibile e mondo ultraterreno. Conta forse aver avuto un padre di origini siberiane, conta l’essere cresciuto, prima ancora che a Odessa, a Mosca, a Monaco, al Bauhaus di Weimar, Dessau, Berlino e a Parigi, nell’universo favoloso del mondo contadino, fatto sta che nella breve autobiografia del 1913, Sguardo al passato , riferendosi a questi anni, il pittore scrive: «Per fortuna la politica non mi assorbì completamente, mi aiutarono a sviluppare il pensiero astratto: il diritto romano (...), il diritto criminale, il diritto russo, il diritto contadino e infine la scienza affine dell’etnologia». I sirieni credevano alle divinità dei boschi e delle acque e a una sorta di spirito o anima divinizzata, orth, che si manifestava nella metamorfosi, nell’empatia con la natura e nella sinestesia.
Per lo «sciamano» Kandinsky era facile ottenerlo con l’energia cinetica dei colori.

Corriere 29.3.14
In cerca dell’«orth». Che poi trasformò in implosione
di Roberta Scorranese


In Testo d’autore (1918) Wassily Kandinsky confessa: «Da ragazzo volevo fare il pittore ma, per un russo, mi pareva un lusso illecito. Così studiai economia politica».
Fu dunque da economista che, nel 1889, partecipò a una spedizione nel nord della Russia, nel governatorato di Vologda, per studiare le tradizioni di popolazioni come i sirieni, etnia ugro-finnica del gruppo dei Komi. Era quello un momento particolare per l’artista: gli studi scientifici non lo avevano allontanato dalla sua ricerca estetica, anzi, avevano rinvigorito questo aspetto. Ma non bastava. Kandinsky cercava una chiave per uscire dalla gabbia naturalistica, voleva dare una fisionomia a quell’inquietudine che lo spingeva ad allargare le prospettive. Per esempio, in quegli anni lesse il Kalevala , poema epico della Finlandia e annotò: «Mi inchino». Non era il solo. Anche Konstantin Korovin, celebre paesaggista coevo, si recò in Siberia, cercando chissà che cosa. Non potevano saperlo, ma stavano vivendo un’età particolare per la Russia, che poi è stata definita (specie dagli emigré degli anni Trenta) «dell’argento», contrapposta a quella aurea di Puškin e Ciaikovsky: un’epoca in cui l’arte rompe i confini tra i generi e mescola le discipline; in cui la musica non si affianca alla pittura, ma la compenetra (Korovin scrive: «Il paesaggio deve entrarti dentro come un suono»); la poesia simbolista di Aleksandr Blok rompe gli schemi e alla parola accosta la potenza del colore; registi come Mejerchol’d unirono teatro e politica. Ecco perché le ricerche etnoantropologiche di Kandinsky non si limitano al valore documentale, ma penetrano nei quadri, si mescolano ai colori.
Innanzitutto, a colpirlo è un popolo che «ha cancellato la sua memoria»: la cristianizzazione ha infatti raso al suolo un patrimonio di riti pagani che l’artista cerca di recuperare osservando attentamente le izbe (case), le vecchie che parlano al vento («c’è la credenza che il vento sappia ascoltare»), i proverbi («Non rovinare» è uno dei detti più frequenti tra le donne siriene). Leggendo lo studio (presente in mostra) è come se si ricomponesse un quadro nitido: il pittore cercava una dimensione interiore insondabile, uno spirito come l’orth (l’anima della casa secondo i sirieni) quella volontà non di dipingere una tela ma di «rivoltarmici dentro» come scriverà più tardi. Kandinsky aveva capito che l’arte doveva implodere in un infinito scandaglio dello spirito, della memoria, di quello sciamanesimo perduto che, nei sirieni, sopravviveva solo in alcune abitudini popolane. Implosione. Non è un caso che molti artisti dell’età dell’argento decisero di implodere in se stessi con un colpo di pistola (vedi Majakovskij). Kandinsky osserva un tamburo sciamanico e immediatamente nel suo sguardo compare la macchia nera che tornerà in alcune sue Composizioni; guarda la curva di un arco rituale e se lo vede già linea pura, astrazione, spirito assoluto, a-materico. L’orth .
Il supporto materiale perde consistenza: le poesie di un altro grande esponente dell’età dell’argento, Osip Mandel’stam, sono sopravvissute fino a noi perché la moglie Nadežda le imparò a memoria, mettendole al riparo dalla furia sovietica; il poeta Velimir Chlebnikov si lasciò morire di inedia. Kandinsky fonderà «Il cavaliere azzurro»: la sua implosione.

Corriere 29.3.14
L’origine divina dell’arte più forte di ogni laicismo
Dal culto delle reliquie ai pellegrinaggi nei musei
di Francesca Bonazzoli


Nel suo viaggio dentro il cuore primitivo della grande madre Russia, Kandinsky non s’innamorò solamente di forme e colori, ma scoprì soprattutto «lo spirituale nell’arte», quella forma di comunicazione emotiva che l’uomo intrattiene con il mistero proprio per mezzo delle immagini. A cavallo fra Otto e Novecento erano diversi gli artisti che partecipavano a viaggi di studio etnografici pubblicando le loro ricerche come Alexandr Borisov (1866-1934) il quale, studiando la vita dei samoiedi, aveva visto che tenevano dentro gli armadi statuine di lupi e di orsi. Lo sciamano le aveva chiuse lì dopo aver pronunciato parole di rito affinché i due animali non andassero in giro nella tundra. Il sacerdote era anche l’artista che, attraverso segni e consacrazioni, rendeva possibile il contatto fra i due regni del visibile e dell’invisibile.
Era la scoperta di un mondo esoterico, agli antipodi di quello razionalista europeo e che rivelava inedite prospettive di analisi anche sull’arte occidentale. Nel 1934 Ernst Kris e Otto Kurz, due studiosi dall’erudizione enciclopedica, misero insieme le conoscenze della scuola di Vienna, massima fucina di storici dell’arte di cui Julius von Schlosser era l’ultimo patriarca, con le nuove ricerche di Sigmund Freud. Questo per indagare la frontiera mobile tra arte e magia in un saggio rimasto seminale: La leggenda dell’artista . Dietro la laicizzazione della produzione artistica occidentale scoprirono le tracce indelebili di un’origine religiosa delle immagini, trasversale a tutti i Paesi e le culture a cominciare dalla Grecia, dove le statue del leggendario Dedalo venivano legate durante la notte per impedire loro di fuggire.
E proprio come il lupo e l’orso chiusi dallo sciamano russo, anche l’imperatore Costantino ordinò di mettere la scultura della Fortuna sotto chiave perché non abbandonasse la nuova città sul Bosforo. Del resto, che in una statua potesse albergare lo spirito divino era stato rivelato anche nella Bibbia dove si narra che l’uomo fu creato da Dio plasmandolo con la terra. La furia iconoclasta, dunque, va compresa come il rovescio di questo contesto magico: il pazzo che alla National Gallery di Londra sparò un colpo di fucile contro la Madonna con Bambino e sant’Anna di Leonardo pensava infatti che la Madonna lo guardasse di traverso procurandogli il malocchio.
Anche gli studi di André Grabar sull’arte paleocristiana hanno confermato come il culto delle reliquie sia all’origine della venerazione delle immagini cristiane che, a partire dal VI secolo, vengono consacrate e investite della divinità stessa da parte del sacerdote attraverso una formula rituale o l’aspersione con olio santo o incenso. Ma in Occidente questa equivalenza ontologica fra il corpo vivente e il suo simulacro, resa possibile dall’«artista/sacerdote», s’interrompe quando la produzione artistica subisce una laicizzazione che la rende indipendente dagli scopi religiosi.
In particolare, quando la storiografia comincia a nominare l’autore di un’opera, allora vuol dire che il pregio di tale opera non è più solo relativo alla sua funzione magica, ma a un autonomo valore creativo.
Tuttavia, come vediamo nelle biografie degli artisti raccolte da Plinio a Vasari, il magico continua a sopravvivere nei topoi che raccontano il ruolo del fato e l’origine divina del talento artistico. Di solito il futuro artista è un pastorello notato per caso mentre disegna per terra o attorno al quale si condensano segni premonitori: lo stesso mito biografico usato per Giotto o nei Vangeli apocrifi per il piccolo Gesù che impastava uccellini con la terra dandogli vita. Non solo.
Il magico sopravvive anche nelle pratiche che riguardano il culto di certe «immagini miracolose» conservate nei nuovi templi di oggi, i musei. I fedeli partono in pellegrinaggio per il Louvre o gli Uffizi, sfilano in processione davanti alla Gioconda o alla Venere di Botticelli per ricevere la grazia emanata dall’immagine sacralizzata dalla nuova religione. È la religione dell’arte che, come scrive Régis Debray, «Si presenta come la prima religione planetaria».

Corriere 29.3.14
Io e le parole soffiate dalle sciamane
Grida, insulti nella tenda kazaka. Ma dopo le pazienti erano serene
di Viviano Domenici


L’immagine dello sciamano è legata a culture esotiche, a popoli tribali, e agli studi degli antropologi; tutte cose piuttosto distanti dal nostro quotidiano, poco frequentato da spiriti totemici e forze soprannaturali. Ma viaggiando spesso tra piramidi e tribù mi sono confrontato più volte col variegato universo dello sciamanesimo; spesso con risultati mediocri. Sulle Ande boliviane lo sciamano con cui avevo un appuntamento socchiuse la porta della sua baracca, mi dette un’occhiata e decise che avevo una faccia da gringo e non valeva la pena di perdere tempo con un miscredente.
In Amazzonia uno sciamano seminudo e dipinto di rosso mi chiese notizie sul presunto figlio napoletano di Maradona, ma lo delusi perché ne sapevo meno di lui e l’incontro finì lì. Nel deserto dei Gobi, dovetti scusarmi con un celebre paleontologo mongolo per avere ironizzato sulle sue offerte agli spiriti della tempesta che stava distruggendo il nostro accampamento di tende; scuse più che dovute perché — mi fece notare lui — ognuno ha diritto di credere a quello che vuole, ma anche perché la tempesta si placò davvero dopo pochi minuti, e io non saprò mai se fu una coincidenza o se gli spiriti gradirono davvero quel po’ di liquore che il paleontologo aveva spruzzato in aria con tanta devozione.
Ma l’incontro più impressionante con lo sciamanesimo lo ebbi in Kazakistan, quando la curiosità e una lunga trattativa mi portò in una yurta, una tenda circolare completamente foderata di tappeti, dove tre sciamane si apprestavano a un rituale di guarigione. Fuori alcune donne bisognose di cure aspettavano di entrare; io avevo avuto il permesso di assistere, ma seminascosto dietro un tappeto per non turbare gli spiriti.
Le sciamane, vestite con abiti tradizionali bianchi, erano accovacciate sul pavimento; allineati in bell’ordine davanti a loro c’erano un tamburello con tanti campanelli, un sistro, un paio di coltelli e alcuni «rosari» islamici. Mentre le pazienti si sedevano in circolo, la più giovane delle sciamane, con un bel volto incorniciato da un velo bianco, iniziò a cantare con voce sottile una nenia dolce e monotona. Sembrava non succedesse nulla ma le pazienti si fecero sempre più inquiete, cominciarono a piangere e lamentarsi dondolando il busto, come se un dolore profondo le tormentasse.
Alcune si alzarono in piedi e con gli occhi chiusi, barcollando, tentarono di andarsene, ma due sciamane le bloccarono con minacce e strattoni, mentre loro urlavano cercando di svincolarsi. Una cadde sulla schiena e rimase inarcata in maniera innaturale; le sciamane le afferrarono la faccia, le gridarono ordini e minacce, le aprirono la bocca soffiandole dentro parole bisbigliate. Ma lo spirito della malattia pareva intenzionato a non lasciare il corpo della donna che infatti si opponeva, gridava insulti, cercava di graffiare le guaritrici. Allora una le immobilizzò le braccia mentre l’altra cominciò a succhiarle le guance, le braccia, il collo, come per estrarre un veleno che poi sputava mentre l’ammalata rantolava; finché, d’improvviso, sembrò placarsi e si distese sfinita con piccoli lamenti, sempre più flebili, e il corpo scosso da tremori. Le altre subirono lo stesso trattamento, ma meno violento.
La seduta era finita. Una a una le pazienti si alzarono da terra un po’ trasognate ma calme, si avvicinarono alle sciamane bagnate di sudore e le ringraziarono sorridendo. Poi uscirono dalla yurta, presero le borse della spesa che avevano lasciato e se ne andarono. Non so se davvero guarite, ma di certo più rilassate.