l’Unità 6.10.12
L’addio a Lenin di Gramsci
Carmine Donzelli: un saggio basato su schemi superati
La riproposta di una prefazione del 1981 alle «note sul Machiavelli» con un nuovo scritto del 2012 più interno alle polemiche attuali
di Bruno Gravagnuolo
IL PENSIERO DI GRAMSCI È UN AFFASCINATE PALINSESTO. PER TANTI ASPETTI ANCORA UN ENIGMA Sta in questo tratto complesso e stratificato, che intreccia dramma personale, affettivo e politico, la fecondità non del tutto esplorata del pensatore sardo. Vano e persino ridicolo perciò è tentare di stringere in vecchie formulette quel lascito, e ancora più futile, se non strumentale, è lo scandalismo di chi grida alla rivelazione esplosiva, al complotto o a nascondimenti di verità, perpetrati ad arte. Dai presunti «ravvedimenti» di Gramsci in galera, alla scoperta di un Gramsci «violento», all’idea di Quaderni rubati o nascosti (dal solito Togliatti anima nera).
Non sfugge a questi rischi Carmine Donzelli nel suo recente Antonio Gramsci, Il Moderno Principe. Il partito e la lotta per l’egemonia (Donzelli, pp. 259, Euro 22). E non perché indulga alla polemica strumentale o allo scandalismo su Gramsci, verso il quale anzi mostra ammirazione e rispetto intellettuale, come suo «autore» esclusivo di gioventù (a parte un’intervista gridata sul magazione di Repubblica). Piuttosto gli equivoci nascono da una serie di contraddizioni vere e proprie nel libro, oltre che da certe stereotipie, che sono poi quelle di un’interpretazione datata: quella coltivata e sottoscritta dall’autore nel 1981.
Perchè questa data? Perchè il libro è fatto da una doppia riedizione e da un nuovo saggio. Ovvero, dalla riproposizione di un saggio introduttivo del 1981 a un’edizione Einaudi del Quaderno del carcere 13: Noterelle sulla politica del Machiavelli. Versione annotata da Donzelli e riproposta in questa occasione. La tesi del 1981 è riproposta oggi pari pari. E paradossalmente nel momento stesso in cui l’autore lamenta ritardi, cautelosità e «privative» della storiografia comunista e post-comunista nel rendere disponibile il lascito gramsciano (a cominciare da Togliatti e dalla Fondazione Gramsci). Accusa per inciso non vera, perchè sia pur con ritardi e omissioni è stato Togliatti a salvare e rendere via via fruibile Gramsci. E dal «Gramsci» inoltre vengono sia l’edizione cronologica Einaudi, sia la nuova Edizione Nazionale delle Opere, che includerano tutto il carteggio di Gramsci e «attorno» a Gramsci (con carte vecchie e nuove consultabili da tutti gli studiosi).
La tesi del 1981? Eccola in sintesi: il Moderno Principe di Gramsci, «ispirato» a Machiavelli, è un partito politico onnipervasivo e «leninista». A «Egemonia» totalizzante e non democratico, benchè duttile e gradualista. Anche la «Costituente» ipotizzata da Gramsci già dal 1930in piena «svolta» staliniana è per Donzelli transitoria e tattica. Una tappa del «fronte antifascista», non già un quadro istituzionale permanente, inclusivo del pluralismo politico. Bene, il saggio di Donzelli scritto nel 2012, ribadisce questa tesi, malgrado lodi contraddittoriamente come «geniale» il lavoro di Franco Lo Piparo che addirittura ipotizza un Gramsci non più comunista (e che «ripudia» nella moglie l’Urss!). Tesi del «Gramsci leninista». Con alcune varianti: la discussione e la polemica mediatica di oggi. E dunque, la lotta Gramsci/Togliatti rivelata dagli archivi (dissidio ufficialmente noto da metà anni 60). E poi tutto «l’affaire» del dramma carcerario. Con Gramsci che sospetta di essere tenuto in galera da Togliatti e Grieco. E che tenta di giocare la carta della sua liberazione, tenendo fuori il Pci e Togliatti, sperando in Sraffa e nell’Urss, con l’aiuto di Tania Schucht. Speranza illusoria come è provato. Perché anche Togliatti era in un «carcere» ed ebbe stretti margini di manovra prima di poter salvare e mettere a frutto le idee di Antonio Gramsci. Tutte cose in verità ben dipanate da Giuseppe Vacca nel suo Vita e pensieri di Antonio Gramsci (Einaudi). Quanto alla «Costituente», non era provvisoria. Ad essa Gramsci dedica moltissimi punti dei Quaderni e ne fa il luogo cruciale della formazione delle soggettività politiche di massa in Occidente, dentro un’idea della «guerra di posizione» che rende le diverse egemonie reversibili. Non dittatoriali e definitive. Le ultime parole di Gramsci nel 1937 furono per una Costituente che doveva andare al di là del Fronte popolare antifascista. Non fase tattica, ma democrazia di nuovo tipo. Di qui si deve ricominciare. Senza rimasticare vecchi schemi.
l’Unità 6.10.12
Intervista a Susanna Camusso: «C’è una sola priorità: il lavoro»
«A Monti dico che c’è differenza tra sinistra e destra. L’evasione è stata una scelta di Berlusconi»
«Il Pd scelga una proposta fondata su lavoro, politica sociale, diritti, rigorosa autoriforma dei partiti»
«La Cgil vuole cambiare passo, dobbiamo uscire dalla difensiva e aprire una stagione di rottura col liberismo. Inizieremo il 20 ottobre a San Giovanni»
di Rinaldo Gianola
Niente politica industriale, disattenzione alle emergenze del lavoro, zero investimenti, crescita pericolosa delle diseguaglianze. Questo autunno propone un’Italia in piena emergenza economica e sociale, una situazione che viene fronteggiata dal governo con politiche inadeguate, insufficienti. Per questo Susanna Camusso chiama la Cgil a una nuova stagione di mobilitazione e di impegno. A partire dalla giornata del 20 ottobre, in piazza San Giovanni a Roma, la piazza delle grandi sfide sindacali. Spiega: «Chiediamo al governo scelte chiare di politica industriale, difesa degli insediamenti produttivi, detassazione delle tredicesime, sostegno ai lavoratori esodati, ai dipendenti delle aziende in difficoltà. C‘è bisogno di una svolta profonda di politica economica perchè il Paese non ce la fa». Segretario Camusso, qual è la situazione del lavoro e dell’industria?
«Assistiamo con enorme preoccupazione alla scomparsa di pezzi importanti del tessuto industriale. Siderurgia, auto, alluminio, distribuzione sono settori a rischio. Siamo un Paese che non investe. Per richiamare l’attenzione i lavoratori devono mettere in pericolo la propria vita salendo sui tetti, sulle torri, sui campanili. Il governo e il Paese forse non comprendono pienamente la gravità e i rischi di questo momento. L’occupazione e la difesa della nostra industria sono priorità assolute».
L’azione del governo Monti non la soddisfa?
«No, e non una questione personale. Non soddisfa il Paese. Dobbiamo fare uno sforzo comune, forte per aiutare chi perde il posto, chi vede la chiusura della propria azienda, chi cerca di salvare un pezzo di produzione. C’è una distanza enorme tra le condizioni reali di vita dei cittadini e le azioni del governo. C’è un’Italia insicura, impaurita che va aiutata, dobbiamo ricostruire un clima di fiducia, di speranza tra le persone».
Cosa chiede alla politica?
«Mi piacerebbe che la politica parlasse al Paese, dei problemi della gente, anzichè concentrarsi su se stessa, su formule ed equilibri spesso incomprensibili. Sarebbe necessaria in questo momento una proposta forte, radicale, di autoriforma della politica in grado di riconquistare il consenso dei cittadini, di rafforzare la base democratica. Tocca ai partiti formulare proposte chiare per battere le diseguaglianze crescenti, per migliorare le condizioni di vita di chi sta peggio, per garantire reddito, lavoro, pensioni, occupazione ai giovani e alle donne».
Monti sostiene che la differenza non è più tra destra e sinistra, ma tra chi paga le tasse e chi evade. È d’accordo?
«No. È una semplificazione che non va bene. L’evasione fiscale è stata una scelta politica di destra, di Berlusconi. È la destra che ha favorito i condoni, i capitali scudati, i furbetti del fisco. Si può criticare la politica, ma la politica non è tutta uguale».
Il governo ha ventilato l’ipotesi di una riduzione del carico fiscale, Squinzi dice che di troppe tasse si muore...
«Il governo ha offerto un messaggio contraddittorio sulle tasse. Ha aperto uno spiraglio e poi ha fatto marcia indietro. A Squinzi vorrei dire che di troppa diseguaglianza fiscale si muore. Sono i lavoratori dipendenti, i pensionati che pagano troppe tasse. Sono i redditi delle persone fisiche gravati da un carico eccessivo, non sono certo le rendite ad essere penalizzate. Questa ingiustizia peggiora la recessione e favorisce i privilegiati che fuggono dal fisco».
Cosa si attende dal Pd?
«Una proposta per un’Italia diversa. Il Pd ha la grande responsabilità di guidare la svolta di governo. È un impegno gravoso, ma stimolante. Metta al centro della sua politica il lavoro, i diritti, il welfare, la politica industriale, un modello di equaglianza sociale, tiri fuori il Paese da questo disastro combinato dai liberisti».
Qual è una politica alternativa?
«Una piattaforma socialdemocratica per il welfare, la civiltà del lavoro, la costruzione di un modello più giusto di società per rimettere insieme il Paese, per attutire i danni combinati dalla destra che ha lavorato per dividere i citta-
dini. Dobbiamo riflettere sul fatto che cresce non solo la disoccupazione, ma anche il lavoro povero e chi è occupato spesso non ce la fa. C’è un deterioramento pericoloso del tessuto sociale, anche di quei soggetti che definiamo garantiti.L’Italia ha bisogno di una svolta perchè dopo quattro anni di crisi e due di sacrifici pesantissimi siamo ancora in mezzo al guado»
Il sindacato cosa può offrire in questo percorso?
«Il sindacato ha i suoi problemi, le divisioni non aiutano, nè aiuta l’ eccesso di esposizione di alcune parti verso schieramenti politici. Ma il sindacato ha fatto la sua parte nella crisi, ha gestito vertenze, ristrutturazioni, accordi, confrontandosi con forti innovazioni. Continueremo in questa direzione, ma nessuno può pensare di ridurre il potere di contrattazione dei lavoratori, nè di continuare a discriminare i giovani, le donne, i soggetti più deboli».
La Cgil cosa si propone con l’iniziativa del 20 ottobre?
«È l’inizio di un percorso. Vogliamo cambiare passo, pressare questo governo di congiuntura. La Cgil è ben consapevole che il movimento sindacale deve uscire dalla difensiva. Prepariamo alla conferenza di programma per lanciare un Piano del lavoro, che parli di welfare e di ambiente come sviluppo, di innovazione e ricerca, di contrattazione sull’organizzazione e sui modelli di partecipazione del lavoro. Se saremo uniti sarà più facile».
C’è un gruppo di liberisti che lancia il manifesto “Fermiamo il declino”. La Cgil partava di declino 10 anni fa...
«...E tutti ci accusavano di essere disfattisti, cassandre, portatori di sciagure. Nel 2004 la Cgil fece uno sciopero generale per fermare il declino e alcuni dei firmatari di questo manifesto liberista ci definivano statalisti, nazionalisti. Noi abbiamo tanti difetti, ma siamo vicino alla gente e capiamo i problemi. I liberisti si devono rassegnare: la crisi è figlia delle loro idee, è ora di cambiare».
La protesta degli studenti. Cariche della polizia a Roma e in altre città
I ragazzi delle medie superiori in corteo per difendere la scuola pubblica
Il movimento: basta tagli, ascoltateci o sarà il caos
Repubblica 6.10.12
Le ragioni del futuro
di Chiara Saraceno
HANNO dichiarato la loro sfiducia a tutta la classe dirigente, agli adulti che hanno il potere di prendere le decisioni cruciali per il loro destino: governo, partiti politici, sindacati, imprenditori. Derubricare questa protesta come manifestazione adolescenziale senza una vera maturità politica, sarebbe grave e forse pericoloso. Dopo essersi sentiti definire da tutti una generazione perduta, questi ragazzi stanno provando a dire che non vogliono fare le vittime sacrificali degli errori altrui. Lo spettacolo dato dalla politica è stato una miccia per una ribellione che non poteva non esplodere. A fronte delle continue esortazioni a portare pazienza, perché non ci sono risorse, alla promessa che la riforma delle pensioni e quella del lavoro sono state fatte per loro, i giovani, è arrivata anche la prova che molti soldi vengono buttati, che chi ha il potere di decidere si tiene stretti i propri privilegi (e qualcuno anche ruba). Sarà semplicistico dedurre che basterebbe togliere, subito, non a partire dalla prossima legislatura, rimborsi elettorali, vitalizi e pensioni facili e ridurre un po’ gli stipendi dei politici, per avere le risorse necessarie alla scuola e ai servizi sociali. Ma andatelo a spiegare a ragazzi che si sentono continuamente fare la lezione da chi poi pratica, o avvalla, o non denuncia questi sprechi e abusi. Non mi sorprende che la sfiducia sia più bruciante nei confronti del centro-sinistra e dei sindacati: perché da loro ci si aspettava di più.
Anche nel movimento del ‘68 la critica ai partiti di sinistra era stata radicale e un po’ tranchant. Ma allora l’accusa era di aver tradito la promessa di cambiare il mondo. Il terreno del conflitto, persino gli ideali, erano, o si volevano, comuni. Oggi l’accusa rivolta ai politici di ogni colore è che pensano solo a farsi gli affari propri, che badano solo al proprio interesse. Spero che nessun partito e nessun gruppo dirigente pensi di poter cavalcare questa protesta a puri fini elettoralistici. O viceversa di poterla ignorare come una febbre di stagione o bollarla di anti-politica. Tanto più che dietro a quelli che sono scesi a protestare, ci sono i molti altri che esprimono la sfiducia nel silenzio, nel cinismo di chi sa che tanto non cambia nulla. E ci sono gli adulti, i genitori, altrettanto sfiduciati se non anche un po’ atterriti dalla tenaglia della crisi economica, cui si aggiunge quella della devastazione economica e morale prodotta dalla gestione politica e della politica ad ogni livello.
Il governo e i partiti, in particolare il Pd se vuole continuare ad avere un senso e un futuro, hanno la responsabilità di provare a ricostruire un terreno di comunicazione, prima ancora che di confronto, con questa generazione. Senza false promesse, ma anche senza dire loro che l’unica cosa che si può fare oggi è attraversare il deserto, stringendo i denti, e poi si vedrà. Occorre restituire a questi ragazzi la speranza che anche per loro ci sia un futuro dignitoso, per il quale valga la pena di impegnarsi, la dignità di essere considerati come la risorsa più preziosa. Occorre mostrare loro che ci sono interlocutori affidabili, non solo perché non rubano e sono sobri, ma per le scelte che fanno e che accettano di discutere e verificare con gli interessati. Altrimenti sì che si rischia di abbandonarli ad un destino di generazione perduta, con la rabbia, la violenza, il cinismo che ne sono l’inevitabile corollario.
il Fatto 6.10.12
Pd tra i due litiganti
Si vota per permettere a Renzi di correre alle primarie ma non c’è accordo sulle regole
Più si allarga la partecipazione più vantaggio ha il sindaco di Firenze
di Wanda Marra
C’è una mediazione sulle regole che non è un accordo, un numero legale, che non è certificato, un cambio di Statuto, che deve essere certificato. La vigilia dell’Assemblea che oggi per le grandi occasioni (deve votare la modifica dello Statuto per permettere a Renzi di partecipare) torna all’Ergife di Roma si presenta più o meno così: versioni contraddittorie della Commissione Statuto che si è riunita ieri, dando il via libera preliminare alla deroga, interpretazioni diverse degli eventi, dichiarazioni di vittoria da una parte e dall’altra. Ma la realtà è che il braccio di ferro andato avanti per tutto il giorno non ha prodotto nessun accordo finale. Tutto rimandato alle prossime settimane: si voterà un mandato al segretario per mediare con i membri della coalizione e gli altri candidati. Un modo per non decidere. Ma ci sono sufficienti paletti e tensioni da far saltare il banco. I bersaniani negli scorsi giorni avevano preparato una bozza che comprendeva - tra le altre cose - l’obbligo di pre-registrarsi in un luogo e in un posto diverso da quello dove poi si sarebbe dovuto votare, l’impossibilità di votare al secondo turno, se non si era votato al primo e un albo degli elettori pubblicato su Internet. Avevano tuonato i renziani, minacciando ricorsi e ventilando pure uscite dal partito. Alla fine, dopo aver parlato con Bersani, Renzi si era detto disponibile ad accettare l’albo degli elettori, purché non online, ma al limite consultabile su richiesta, e il doppio turno, ma aveva detto di no alla pre-registrazione obbligatoria e al divieto di non votare per chi non l’avesse fatto al primo turno. Nico Stumpo, responsabile Organizzazione del partito, a metà pomeriggio ieri offriva la dichiarazione ufficiale: “Nessuna trattativa in corso”. Più un diktat che altro. In serata Rosy Bindi ha mandato ai delegati i documenti che verranno posti in votazione oggi: il segretario avrà mandato di definire con i membri della coalizione un “manifesto politico” che dovrà essere sottoscritto da tutti (il famoso obbligo di condividere un programma, richiesto da Fioroni). E di definire le regole sulla base di alcuni indirizzi. Rispetto ai punti critici, si legge che ci sarà il doppio turno. Ma non si specifica se al secondo potranno votare anche nuovi elettori. E soprattutto che chi vota dovrà impegnarsi a sostenere l’alleanza alle politiche “sottoscrivendo un appello pubblico per il successo dell’Alleanza stessa ed iscrivendosi all’Albo delle sue elettrici e elettori”. Ma non si parla di albi online. Ancora: “La registrazione potrà avvenire dal 21esimo giorno precedente la data delle elezioni fino al giorno del voto”. Ma non si specifica dove. Per dirla con la Bindi “non è cambiato proprio niente, le regole sono sempre quelle”. Per leggerla con alcuni renziani, sono abbastanza fumose da poter consentire compromessi. Se Gentiloni ribadisce che “portare meno gente a votare è un male per il Pd”, Renzi si muove in virtù di un semplice assunto: più gente vota, più lui è favorito. L’ultimo sondaggio realizzato dall’Swg per Agorà dice che se andassero alle urne di oltre 4 milioni di elettori, Renzi, raccoglierebbe il 29% dei consensi contro il 26%; se invece andassero a votare 3milioni e 300.000 elettori, Bersani raggiungerebbe quota 33%, Renzi si fermerebbe al 29%.
DA QUI si parte per una giornata che eufemisticamente lo stesso Gentiloni ha definito “incerta”: prima si vota questo documento, poi il cambio dello Statuto. Una garanzia per i big del partito, che la tentazione di non permettere a Renzi di partecipare ce l’hanno tutta. Servono 476 voti (nel quale sono compresi anche Lusi o Penatio, per dire). Dopo settimane di concitazione e nervosismo, i bersaniani sono abbastanza certi che il numero legale ci sarà. Intanto i renziani si riuniscono stamattina alle 9 e mezza: il sindaco di Firenze (che invece è in Puglia con il camper) ha bisogno del 10% dei membri dell’Assemblea per presentarsi. Dunque 9.5. I renziani assicurano che loro possono contare su 100-150 membri. Anche questo, tutto da dimostrare. A rappresentare lo sfidante ci dovrebbe essere il numero 2 Roberto Reggi. Ma il bizantinismo democratico colpisce ancora: per la prima volta nella storia del partito, sarà un’Assemblea democratica cui potranno partecipare solo i delegati e gli invitati dalla presidente Bindi. Alla fine, però, pare che Reggi sia stato invitato. I giornalisti non potranno entrare nella sala, ma dovranno assistere da una stanza con le telecamere a circuito chiuso.
il Fatto 6.10.12
Primarie, scontro finale
Bersani, Renzi e gli altri: tutto ciò che non sapete
Le ceste di Bersani. Cl, Prodi e le Coop
Il sistema Renzi: amici, famiglia e potere
Vendola il terzo incomodo
quattro pagine, qui
l’Unità 6.10.12
Il sindaco di Firenze dovrebbe pensare a terminare il suo mandato
Se si voleva ridiscutere la linea del Pd la sede naturale era il congresso
Norma ad personam per Renzi Un cedimento alla prepotenza
di Enrico Rossi
Presidente Regione Toscana
Oggi sarò all’assemblea nazionale del Pd a discutere, ma non a votare perché sono solo un invitato permanente, del cambiamento dello Statuto che consentirà a Renzi di candidarsi alle primarie per le quali si è già impegnato, con il camper da settimane e sulle tv da anni.
Lo farò molto malvolentieri, provando a portare un contributo solo per non peggiorare la situazione. Lo farò per senso di responsabilità. Penso che la modifica dello Statuto ad personam sia un cedimento alla prepotenza, costituisca una rinuncia all’autonomia della politica e scalfisca le regole per le quali si aderisce consapevolmente a un’associazione.
Ci sono in Toscana due precedenti che sono andati in senso opposto: Leonardo Domenici, che avrebbe gradito candidarsi in Parlamento nel 2008, dopo quasi due mandati da sindaco di Firenze. E Claudio Martini, che nel 2009, alla fine del secondo mandato da presidente della Regione, avendo una grande e riconosciuta esperienza in Europa, avrebbe voluto candidarsi al Parlamento europeo. A entrambi il partito mandò a dire che non se ne parlava nemmeno e che avrebbero dovuto finire il loro mandato, come da regola e nel rispetto dell’impegno preso con i cittadini. Vi assicuro che Domenici e Martini non avevano e non hanno nulla da invidiare a nessuno quanto a capacità politiche, cultura e consenso.
Cos’è cambiato nel mio partito per garantire a Renzi, da poco più di tre anni eletto sindaco di Firenze, il mestiere più bello del mondo, un trattamento opposto e di favore? A mio avviso solo un fatto: la spregiudicatezza con cui il giovane sindaco si è costruito una visibilità nazionale attaccando pressoché quotidianamente il Pd; non impegnandosi in un’opera di rinnovamento, ma criticando a palle incatenate e trovando in questo modo spazio sui grandi media che, per lo più, non accettano che nel nostro Paese esista un partito libero, forte e organizzato, che non risponda a oligarchie ma solo ai suoi iscritti e agli elettori. Cambiare lo Statuto ad personam è già un cedimento pericoloso e non giustificato dalla buona intenzione di voler così aumentare la partecipazione, che come sappiamo è sempre stata ampia anche quando il Pd ha sostenuto un suo unico candidato. L’idea poi che dovremmo
non avere regole per consentire agli elettori del centrodestra di essere determinanti nella scelta del leader di centrosinistra non solo lede i miei diritti di militante ed elettore di sinistra, ma non ha neppure un riscontro nelle democrazie occidentali e rappresenta il massimo del populismo a cui finora si è avuto la sfrontatezza di spingersi. Un populismo figlio di Berlusconi e di quella cultura con cui, non a caso, il giovane Renzi non ha saputo, né voluto intenzionalmente fare i conti.
Leggo oggi che Renzi, alternando vittimismo e arroganza, comincia ad accettare l’idea che qualche regola dovrà pur esserci. Penso che se avessimo cominciato prima a far valere le nostre ragioni, comprese quelle dell’educazione, probabilmente non ci saremo trovati oggi in questo pasticcio e Renzi avrebbe potuto continuare a misurarsi con un ruolo importante come quello di sindaco di Firenze, dove avrebbe messo effettivamente alla prova le sue capacità. Se poi avesse voluto dire la sua in politica, come è suo diritto e dovere, non ci sarebbe stata occasione migliore che fare un congresso, magari per tesi, seguito da una conferenza di organizzazione che avrebbe potuto toglierci dall’imbarazzo anche sul ruolo e funzionamento dell’assemblea nazionale. Cosa che mi provai a dire in un articolo del dicembre 2011 sull’Espresso. Si sarebbe così sentito Renzi parlare nelle sedi appropriate e avremmo ascoltato, magari ripulite dagli effetti speciali degli scenari della Leopolda, le sue proposte per spostare a destra l’asse del partito. A mio avviso non avrebbero avuto grandi consensi.
Corriere 6.10.12
Napolitano: “Ora convergenza di sforzi di credenti e non credenti, come per l’Assemblea costituente”
Le ragioni del dubbio e della fede a confronto nel Cortile dei Gentili
Napolitano e Ravasi ad Assisi evocano la ricerca del «Dio sconosciuto» dal nostro inviato di Armando Torno
ASSISI — C'è un Dio sconosciuto qui, tra le vestigia di Francesco? Ponendo tale domanda ai pellegrini, ai ragazzi con i loro zaini o a tre turisti inglesi che sorseggiano un rosso generoso in una rivendita presso Porta San Giacomo, avrete come risposta un sorriso che cela perplessità. Ma è questa la sfida del Cortile dei Gentili: parlare di Dio dove nessuno lo ricorda abitualmente e recare le ragioni di chi non crede dove tutti lo pregano. Il dialogo, condotto da Ferruccio de Bortoli, che ha aperto la due giorni dal significativo titolo Dio, questo Sconosciuto, era un incontro tra il presidente Giorgio Napolitano e il cardinale Gianfranco Ravasi, responsabile del dicastero culturale della Chiesa. E noi di quanto è avvenuto, a cominciare dalle 17.20 per un'ora abbondante nella Piazza inferiore di San Francesco ad Assisi, cercheremo di mettere in evidenza proprio l'aspetto culturale.
Immaginatevi il microcosmo che prende vita in questo spazio prima di un avvenimento. Ci sono i canti, le autorità, si coglie il profilo dei corazzieri staccarsi dalle linee francescane; non mancano le antiche pietre, gli affreschi che non si vedono ma si immaginano, altre suggestioni. Poi la voce di Ferruccio de Bortoli riunisce gli sguardi e, poco dopo, Napolitano prende la parola. La sua è una relazione in cui non mancano riferimenti ai fatti italiani degli ultimi tempi, ma quel che colpisce sono i protagonisti evocati. Amici, compagni di viaggio, maestri. «Voi conoscete — sottolinea — il mio percorso e il suo punto di partenza, da giovane che si guardava attorno e si apriva al futuro negli anni 40 dello scorso secolo, e non vi stupirete quindi dell'approccio storico-politico di questo mio intervento».
I nomi che ricorda delineano le sue convinzioni religiose, oltre quelle morali. Ecco il costituzionalista Leopoldo Elia — è la posizione che emerge nell'Assemblea Costituente — e quel suo mettere in luce talune possibili convergenze tra il pensiero della sinistra marxista e di quella cattolica, ma anche di «alcuni ambienti della cultura laica». Ed ecco La Pira che avrebbe desiderato porre la brevissima formula «In nome di Dio il popolo italiano si dà la presente Costituzione», subito seguito da Francesco Saverio Nitti: «Perché ci dovremmo dividere sul nome di Dio?». Commovente l'entrata in scena di Concetto Marchesi, celebre classicista che, al di là dell'adesione al marxismo, ha lasciato parole su cui riflettere: «Ho sempre respinto nella mia coscienza l'ipotesi atea, che Dio sia una ideologia di classe. Dio è nel mistero del mondo e delle anime umane». Già, «mistero»: non sfuggì a Palmiro Togliatti codesta parola quando ne commemorò la morte alla Camera. Norberto Bobbio («Non mi considero né ateo né agnostico») volle funerali civili: non si era mai allontano dalla religione dei padri ma solo dalla Chiesa. E ancora: Thomas Mann, che si inginocchiò dinanzi a Pio XII, quindi Benedetto Croce. Del quale, ha ricordato Napolitano, «non deve scandalizzare quel "credo a modo mio": ne coglierei il senso di misura e di rispetto che ha caratterizzato l'atteggiamento di personalità tra le maggiori del mondo laico italiano verso la sfera della fede e il fatto religioso».
È il momento del cardinale Ravasi. Parla a braccio e fissa due simboli. Il primo è il muro, che è anche fisicamente riportabile all'antico Cortile dei Gentili di Gerusalemme. C'era la morte per chi lo varcava, le mani — sottolinea sua eminenza — «non potevano assolutamente incrociarsi». Il cristianesimo, però, sovverte le regole. Da biblista cita la lettera di Paolo agli Efesini per ricordare che quel muro l'ha abbattuto Cristo. E, se non c'è più, il dialogo diventa non solo possibile ma necessario. Il cardinale, riprendendo il presidente, ammette che i maestri citati li ha letti e che, grazie ad essi, esiste una base comune superiore alle distinzioni. Mette in gioco Einstein, che ammoniva di non dimenticare mai l'umanità, e una battuta della tradizione giudaica che meglio di ogni altra spiega il senso del dialogo: «Lo stolto dice quel che sa, il sapiente sa quel che dice». Quindi Ravasi si aggancia alle parole di Ferruccio de Bortoli proferite all'inizio, prima di aprire l'incontro. La citazione del filosofo francese Luc Ferry gli consente di ricordare che «ho appena finito di scrivere con lui un libro a quattro mani», infine passa al secondo simbolo. De Bortoli ha citato, riprendendo un testo di Paolo de Benedetti, gli «svegliatori»: avevano il compito di «svegliare Dio», perché «anche Dio può dormire». Il porporato coglie la palla al balzo e porta il concetto attraverso i Salmi, si sofferma sul vegliare-svegliare presente nel Nuovo Testamento, cita Wilde, Bernanos, sottolinea che il Cortile è nato perché ci siano domande che possano e sappiano svegliare.
Le posizioni si sono delineate, si vedono. De Bortoli ha tempo per porre due domande: una sul bene comune nel nostro Paese (qui le risposte toccano inevitabilmente la politica) e l'altra riguarda i dubbi che si possono avere con la propria fede. Ravasi, rispondendo per primo, ammette di averli provati; del resto la stessa Bibbia ricorda l'oscurità, l'assenza di Dio. Giobbe arriva al punto di rappresentare Dio come un mostro; ma anche Gesù, dinanzi alla sua sorte mortale, urla: «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?», e il Padre non risponde. Napolitano parla della sua educazione religiosa, dei sacramenti, della fede della madre. Confessa: «Mi sono distaccato da una prassi e mi sono calato in un'altra dimensione di vita che non mi poneva quelle domande». Riprende ancora La Pira, cita il sommo Pascal, di nuovo Marchesi. Ma i suoi sentimenti li ha già descritti, nell'intervento iniziale, con i maestri cari e rigorosi, moralmente ineccepibili.
Si finisce presentando il nuovo portale dei Francescani. Ieri sera ad Assisi Dio non era proprio uno sconosciuto. Caso mai si è cercato di «svegliare» un discorso che lo riguarda.
l’Unità 6.10.12
Il valore del dialogo
Quando la verità accetta il mistero
di Vincenzo Vitiello
CI SI ATTENDE MOLTO DALL’INCONTRO DI ASSISI, NEL CORTILE DI FRANCESCO, TRA IL PRESIDENTE NAPOLITANO E IL CARDINALE GIANFRANCO RAVASI. Anche più che un «dialogo» tra credenti e non credenti. E non mi riferisco ai tanti, troppi «dialoghi» che si sono succeduti in questi ultimi anni tra atei credenti e atei laici: dialoghi che continuavano, sotto falso «titolo», un dibattito politico già scontato, nel quale la religione non c’entrava per niente. L’incontro di Assisi promette d’essere un confronto che giunge alle radici stesse della nostra cultura, se è ancora in grado di accogliere voci diverse senza di necessità ridurle ad un unico denominatore.
Il tema dell’incontro è, certo, la religione; e si sa che il termine «religione» è molto ampio, comprendendo in sé non soltanto l’appartenenza ad una comunità unita da un credo condiviso, sì anche un atteggiamento di vita, un modo di abitare il mondo, che rinvia ad altro dal mondo, un essere-nel-tempo che non è appartenenza esclusiva al tempo. Se Napolitano e Ravasi discuteranno anche solo di questo, sarebbe già molto. Ma noi resteremmo ancora con una domanda aperta. Anzi con la domanda più urgente: che ne è di coloro che abitano il mondo senza attesa di un «al di là»? La questione investe direttamente l’ethos religioso, e cioè il modo di comportarsi con quanti non hanno parole di preghiera. E qui bisogna distinguere: non ci sono soltanto gli atei convinti, quelli che riposano in pace nella loro verità certa, assoluta, che nessuna parola «religiosa» può scuotere. Con costoro il «credente», colui che è parte di una chiesa visibile, che ha la sua verità di fede, anch’essa certa, assoluta, non può avere altro rapporto che quello che si ha con i credenti di altre religioni. Non può che difendere la propria esistenza, chiedere, cioè, che l’opposta verità non la opprima e la neghi.
Qui il dialogo svolge tutta la sua possibile efficacia. Mi sovvengono i versi di una poesia di Goethe: «L’Oriente è di Dio / l’Occidente è di Dio. / Le regioni del Nord e del Mezzogiorno / riposano nella quiete delle tue mani». Il «pagano» Goethe, il politeista Goethe dettava in questi versi il senso più alto del dialogo inter-religioso (del dialogo tra religioni-istituzioni, tra le quali rientrano gli atei convinti, gli atei di fede: coloro ai quali ben s’addice l’affermazione del Salmo: dixit insipiens non est Deus). Ma come si rapporta la religione intesa come abito, come ethos, come modo di abitare il mondo nei confronti di coloro che non hanno parole di preghiera perché non sanno pregare? Perché non hanno certezza, non hanno verità? E non hanno verità non perché la neghino, ma perché interrogano, dubitano, cercano. Perché non subordinano la domanda alla risposta. Perché ogni risposta si traduce in loro in domanda. Quale l’atteggiamento del credente, dell’appartenente alla religione-istituzione, quale che sia, nei confronti di costoro?
Nel migliore dei casi il credente risponde alla domanda di colui che cerca, dicendo: «continua a cercare» semmai col sorriso «benedicente» di chi è sicuro che lo si incontrerà sull’altra sponda. Questo atteggiamento di «attesa», o almeno di fiduciosa speranza, è vano, se non dannoso. Ma non per chi non prega, non sa pregare, ma proprio per chi prega. Perché non mette in questione la fede, perché lascia la fede entro la sua chiusa dimora. Il credente che attende l’altro sicuro nella sua fede, non apprende nulla dall’incontro con chi dubita, interroga e s’interroga; perde la più grande occasione della sua vita: quella di misurare la fede col dubbio, al limite, subordinare la verità al mistero. Il più grande e il più umile: il senso della vita, il fiore che nasce su un cumulo di rifiuti.
Molto l’uomo religioso, il credente che appartiene ad una religione-istituzione, ha da apprendere da colui che non afferma, né nega, ma interroga. Molto, moltissimo. Se Colui che si presentava come Figlio di Dio, ed insieme dell’uomo, colui che diceva di sé d’essere la Verità e la Vita, chiedeva ai suoi, che lo seguivano: «E voi chi dite che io sia?».
Una grande verità: la verità che dice ch’essa la verità non è mai nostra, ma di coloro che accogliendoci, o anche respingendoci, ce la donano. Nostra è solo la responsabilità che altri ci siano per farci dono della verità.
il Fatto 6.10.12
Benedetti candidati
“Non c’è nessuna emergenza democratica” per cui Zingaretti sia costretto a correre per la Regione
Ai romani questa commedia sarebbe meglio risparmiarla
Riccardi si ritira. Al suo posto il cattolico Gasbarra
di Marco Politi
Durata ventiquattr’ore, il tempo di dirottare Nicola Zingaretti dal Campidoglio alla Regione, la candidatura a sindaco di Andrea Riccardi si è dissolta come un gelato buttato sull’asfalto in una giornata d’agosto. Il ministro della Cooperazione e fondatore della Comuntà di Sant’Egidio ha rifiutato di farsi tirare per la giacca e garbatamente ha dichiarato che accettare una candidatura che interrompa il suo mandato ministeriale “sarebbe in contraddizione con l’impegno nazionale e super partes al quale sono stato chiamato dal presidente della Repubblica e dal premier”.
Ma intanto il siluro della candidatura Zingaretti a sindaco di Roma aveva già prodotto il suo effetto. A pensar male si fa peccato, diceva Andreotti, ma ci si azzecca spesso. Ed è indubbio che l’evocazione incosciente dell’ipotesi Riccardi, lanciata senza avere in tasca un risposta positiva certa, ha tutta l’aria di una manovretta. Se n’è accorto persino il prudente e moderato Corriere della Sera – prima ancora che Riccardi declinasse l’offerta – che lo spostamento di Zingaretti alla Regione aveva l’aria di uno scambio “per sistemare gli equilibri interni del Pd”. Eliminato lui, si apre la strada al “cattolico” Gasbarra, attuale segretario del Pd laziale.
ALLORA È BENE dirla tutta. Il Vaticano vedeva come fumo negli occhi che salisse sul Campidoglio un laico come Zingaretti modello Pisapia, un politico che non fa mistero di considerare unioni civili e testamento biologico un diritto dei cittadini da rispettare e rendere concreto. “Penso che siamo maturi per non accettare più intrusioni dello Stato nel nostro orientamento sessuale e per dare diritti a chi li reclama”, dichiarò qualche settimana fa alla festa del Pd nel IV Municipio. Parole che gli hanno procurato il veto Oltretevere, già in allarme per la sua proposta di una patrimoniale, che andrebbe a colpire inevitabilmente i grandi proprietari ecclesiastici, che hanno ottenuto da Monti il privilegio di non pagare l’Imu nel 2012. Quel che è peggio, però, è che Zingaretti non è mai piaciuto al “partito vaticano” dentro al Pd. Il baco sta lì. Ci poteva andare Gasbarra alla Regione. Ne ha le capacità, sa attrarre voti: una passeggiata stante lo sfacelo del Pdl. Ma no. Bisognava sbarrare la strada a un laico in Campidoglio. Perché Roma è un palcoscenico mondiale e il Vaticano – abbarbicato alla battaglia di retroguardia dei cosiddetti “diritti non negoziabili” (che ai cattolici del quotidiano non interessano affatto, se ne cura solo il 7 per cento, vedere il sondaggio Ipsos /Acli) – non vuole che nella Città Eterna l’autorità civile faccia risuonare un diverso parere.
Forse aveva ragione Pannella, quando proponeva provocatoriamente che Roma e il Lazio fossero ridati allo Stato pontificio. A patto di lasciare in pace l’Italia. Il fatto è che la maggioranza dei romani non vuole che l’Urbe sia un feudo papalino e non vede l’ora che in Campidoglio torni un sindaco laico come Argan dopo i salamelecchi filoclericali di Alemanno. Fa molto male il Pd a dare ascolto a chi al suo interno, agitando un’inesistente questione cattolica, sostiene che non bisogna disturbare e irritare il Vaticano e che perciò una candidatura cosiddetta “cattolica” sarebbe meglio.
É LO STESSO discorso di “potere e possesso” che per decenni ha etichettato il ministero della Pubblica Istruzione come “dovuto” ai democristiani (o ai cattolici), motivazione che fu bloccata in extremis alla formazione del governo Monti, quando il rettore della Cattolica Ornaghi sembrava avere già in tasca le chiavi del Miur.
La Stampa 6.10.12
Campidoglio, Riccardi si sfila “C’è confusione sul mio nome...”
Il fuoco di Sel e di pezzi del Pd romano. E Fioroni s’infuria
Il cattolico: «Sono stufo di fare figuracce» Ma Orfini: «Sono sicuro che se ne potrà riparlare...»
di Federico Geremicca
Una telefonata a Mario Monti per avvertirlo che aveva deciso di togliere se stesso e il governo da ogni imbarazzo; poi, il colloquio con Pier Luigi Bersani: «Mi spiace, segretario, ma devo declinare l’offerta. Sul mio nome - per altro - non c’è unità, e anzi vedo anche molta confusione... ». E così, a metà di un pomeriggio che sembra agosto piuttosto che autunno, Andrea Riccardi comunica il gran rifiuto: non sarà il candidato-sindaco del centrosinistra per il comune di Roma. E la sua decisione rappresenta un’altra grana l’ennesima - della quale l’esausto Bersani (alle prese da giorni con il rebus-primarie) avrebbe naturalmente fatto volentieri a meno.
«Accettare ipotesi di candidature che interrompano il mio mandato ministeriale - scrive Riccardi in un comunicato che evita di spargere sale sulle ferite - sarebbe in contraddizione con quell’impegno nazionale e super partes al quale sono stato chiamato dal Presidente della Repubblica e da quello del Consiglio... Ringrazio chi mi ha proposto la candidatura a sindaco di Roma: è un’offerta che mi lusinga, ma che non posso accogliere». La via d’uscita scelta dal fondatore della Comunità di Sant’Egidio e ministro alla Cooperazione internazionale, è - dunque - elegante, indolore e per nulla polemica: nasconde, però, un grande rammarico e un problema politico che tormenta il Pd a Roma come nel resto d’Italia. E il problema è quello solito: la possibilità di tener assieme nella stessa alleanza Vendola e Casini...
A convincere del tutto Andrea Riccardi alla rinuncia, infatti, è stato il tiro incrociato cui è stato immediatamente sottoposto da Sel e anche da pezzi del Pd. Massimiliano Smeriglio, coordinatore nazionale del partito di Nichi Vendola, era stato subito durissimo: «Oggi Riccardi rappresenta il “Monti dopo Monti” - ha annotato in una intervista a “il Manifesto” -. In questo senso, diciamo no a lui e no all’Udc. Proprio come per le elezioni politiche». Come non bastasse, il segretario del Pd romano, Marco Miccoli, annunciava: «Il percorso per arrivare al candidato sindaco di Roma non cambia: verrà scelto dagli elettori con le primarie che si terranno il 20 gennaio». In 24 ore, insomma, prima il no di Sel e poi le condizioni del Pd: Riccardi sarà candidatosindaco solo se vince le primarie...
Al di là delle oggettive questioni che la sua candidatura potrebbe porre in rapporto alla “neutralità” del governo Monti, ce ne era evidentemente a sufficienza perchè Riccardi si chiamasse fuori: scatenando, però, l’ira della componente cattolica del Pd. Beppe Fioroni, per esempio, è un fiume in piena: «Mi sto stufando di fare figuracce, è un mese che insistevo con Riccardi... Ora Bersani ha il dovere di spiegarci quale è la rotta, perchè vedo che Zingaretti ha cominciato la sua avventura di candidato alla Regione riunendo gli uomini della “foto del Palazzaccio” (da Sel all’Idv, tutti i leader firmatari del referendum contro la riformaFornero, ndr) e che gli ex diessini del Pd romano hanno sparato da subito contro Riccardi. Ad andare avanti così non ci sto: infatti, non solo perdiamo le elezioni ma ci facciamo anche ridere dietro... ».
Il Pd, in verità, ammette una certa superficialità nella gestione della candidatura di Riccardi, ma spera se ne possa riparlare tra qualche mese. Dice Matteo Orfini, tra i più influenti leader romani: «La motivazione addotta da Riccardi ha un senso: il doppio ruolo, per mesi, di candidato-sindaco in pectore di una coalizione politica e contemporaneamente ministro di un governo super-partes, avrebbe potuto creare problemi. Ma sono sicuro che se ne potrà riparlare più in là». Un po’ meno ottimista Roberto Rao, braccio destro di Pier Ferdinando Casini: «Sì, se ne potrà forse riparlare, ma in un quadro di chiarezza. Nel quale, tanto per cominciare, si prenda atto che, se si chiede la disponibilità di una personalità come quella di Riccardi, poi non è pensabile di sottoporla a elezioni primarie... ».
Un pasticcio, insomma. In coda al quale molti si chiedono: ma non era - e da mesi - Nicola Zingaretti il naturale candidato-sindaco del centrosinistra a Roma? Certo che lo era: solo che è stato trasformato in candidato-governatore alla Regione. Vuoi mettere quanto era noiosa una soluzione già assunta, e per di più comprensibile e lineare...?"
Repubblica 6.10.12
Imu-Chiesa, bocciato il decreto del governo
Il Consiglio di Stato dice no al provvedimento che impone l’imposta sui beni commerciali della Chiesa
di Valentina Conte e Roberto Pietrini
La battaglia delle tasse rischia di segnare l’ultima legge di Stabilità della legislatura. Ad accendere il dibattito, dopo gli interventi di Bankitalia, Corte dei Conti, Confindustria e sindacati, è stato lo stesso presidente del Consiglio Mario Monti, che non ha escluso la possibilità di un primo intervento. A dare corpo all’ipotesi sono le ingenti risorse che affluiscono nelle casse dello Stato, nonostante la recessione, dal fisco: 10,4 miliardi in più rispetto allo scorso anno, come pure aumenta il gettito delle addizionali regionali e persino i Comuni sembrano poter godere di un extragettito Imu relativo alle maggiorazioni che i Municipi possono applicare alle aliquote base. Anche la lotta all’evasione sembra diventare strutturale e prevedibile: ormai il 95 per cento dei controlli va a segno e quest’anno si prevede di replicare il risultato del 2011 quando Agenzia delle entrate e Guardia di finanza portarono in cassa 12,7 miliardi. Il Pd ha tentato fino all’ultimo di inserire nella legge delega sul fisco un anticipo al 2013 dell’operatività del fondo taglia tasse. «No» del Tesoro.
LE TASSE gonfiano le casse dello Stato. Nonostante la recessione. I dati diffusi ieri dal Tesoro indicano che nei primi otto mesi dell’anno sono entrati 10,4 miliardi in più rispetto al 2011 (ovvero il 4,1 per cento in più). La stessa Via Venti Settembre spiega il motivo: la crescita del gettito dipende dalle manovre che si sono succedute dall’estate dello scorso anno, dai bolli alle accise, dalla prima rata Imu all’imposta sui capitali “scudati”. Nel quadro che porta la pressione fiscale oltre il 45 per cento svolgono un ruolo importante anche le tasse locali: le addizionali Irpef regionali sono cresciute del 24 per cento rispetto allo scorso anno.
Un gran quantità di risorse che ieri il Tesoro ha messo in mostra anche in una relazione al Parlamento sui risultati della lotta all’evasione: nel 2011 sono stati accertati 30 miliardi e in cassa sono finiti 12,7 miliardi (un risultato che si attende anche per quest’anno). Fatto importante: ormai gli uomini dell’Agenzia delle entrate di Befera e della Guardia di Finanza non sbagliano un colpo e nel 95 per cento dei casi fanno centro. Dal 2007 il recupero è più che raddoppiato, trasformando sostanzialmente i proventi della lotta all’evasione fiscale in una variabile quasi certa.
Notizie di extragettito provengono anche sul fronte dell’Imu. Complessivamente, secondo i calcoli della Uil servizi Politiche territoriali, la stima contenuta nel “Salva Italia” pari a 21,5 miliardi dovrebbe essere rispettata. La parte spettante ai Comuni tuttavia, grazie alla mano pesante sulle aliquote esercitata dai Municipi, dovrebbe essere assai abbondante: 14,8 miliardi, circa il 2,8 in più rispetto alle previsioni.
Con queste cifre la battaglia per la riduzione delle tasse si prepara a catturare la scena dello scorcio di legislatura. E’ stato lo stesso Monti ad accendere la miccia giovedì, rispondendo a Enrico La Loggia, non ha escluso una «prima tappa» di riduzione delle imposte evitando tuttavia di impegnarsi prima delle elezioni. Sotto il pressing di sindacati e Confindustria che prosegue, preoccupati della ormai asfittica domanda interna, il governo ha individuato 4-5 miliardi da destinare all’operazione che potrebbe prevedere interventi su tredicesima o no tax area. «Se Monti non taglia le tasse perde credibilità, e il decreto Sviluppo è solo un aperitivo per il rilancio dell’economia», ha detto ieri il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi.
«Boatos», si è limitato a dire Vieri Ceriani, sottosegretario all’Economia e vero e proprio uomo del fisco dell’Esecutivo che ha evitato di escludere l’ipotesi di un intervento di riduzione. Anzi, stando ai resoconti parlamentari, ieri Ceriani nell’ambito della discussione in Commissione Finanze sulla delega fiscale ha sostenuto che «si può valutare » l’anticipo dell’operatività del fondo taglia-tasse alimentato con i proventi dell’evasione, e perorato dal relatore del Pd Alberto Fluvi. Ma anche a questa apertura ha fatto seguito una frenata: una nota del Tesoro, dove siede Vittorio Grilli, poco dopo ha chiuso la porta all’eventuale anticipo dell’operatività del fondo di un anno ribadendo la necessità di lasciarlo collocato al 2014. Ovvero nella prossima legislatura.
No, ma con sfumature, arrivano anche da due ministri. L'impegno è quello di «evitare l'aumento dell'Iva in maniera strutturale » mentre si lavora per «creare le condizioni perché dalla prossima legislatura si possano ridurre le tasse», ha detto Corrado Passera. Anche Elsa Fornero chiude: «Credo che sia onesto dire che nel poco tempo che resta al governo gli spazi sono molto scarsi. Se ci sarà, sarà più una boccata di ossigeno ma molto selettiva».
Corriere 6.10.12
il processo che non cura il malessere del Vaticano
di Massimo Franco
Pochi sono disposti a scommettere che il Vaticano possa recuperare serenità al proprio interno perché viene condannato il maggiordomo di Benedetto XVI. Il processo contro Paolo Gabriele, che si chiude oggi, trova un colpevole clamoroso e insieme troppo facile per le fughe di notizie degli ultimi due anni. Ma soprattutto trasmette un'immagine ancora più sfuocata delle dinamiche di potere e degli intrighi che si consumano all'ombra del Pontefice. Se l'inchiesta giudiziaria doveva essere un atto per dimostrare la trasparenza e la determinazione della Santa Sede nella caccia ai responsabili, il bilancio è per lo meno controverso.
Sebbene mitigata da una probabile grazia papale, la condanna che il cosiddetto «corvo» dovrebbe subire equivale moralmente all'Inferno.
Eppure, l'intera Curia rimane immersa fino al collo in un Purgatorio del quale nessuno è in grado di misurare il perimetro e gli abitanti; e questo non è di conforto. Circoscrivere preventivamente le responsabilità al solo Gabriele sembra più un modo per chiudere in maniera rapida l'indagine, che per cercare una spiegazione convincente ma forse imbarazzante per i vertici vaticani. La verità giudiziaria appare parziale in modo sospetto: anche perché finora nessuna delle sette persone chiamate in causa da Gabriele, compresi due cardinali, è entrata nell'inchiesta.
La tesi che l'assistente del Papa abbia fatto tutto da solo è plausibile: lui stesso la accredita. Da anni fotocopiava e rubava documenti dall'appartamento di Benedetto XVI. Approfittava della fiducia che gli veniva dal suo ruolo e dal fatto di lavorare con monsignor Georg Gaenswein, segretario personale del Pontefice: persona che era ed è rimasta al di sopra di qualunque sospetto. Per difendersi, il maggiordomo ha detto che voleva proteggere un Papa «manipolato». La spiegazione induce a sorridere con scetticismo; ma non può non far riflettere. Lascia indovinare una solitudine papale più profonda di ogni attestato di lealtà. E angoli bui nei rapporti fra la cerchia dei suoi collaboratori e l'apparato di sicurezza vaticano.
Le accuse di Gabriele sul trattamento che avrebbe ricevuto quando era detenuto, tutte da provare, trasmettono un'impressione sgradevole. Contribuiscono a presentare il Vaticano sotto una luce strana, non benigna, e ad alimentare un clima di sospetto e di oscura intimidazione, che non risparmia nessuno, nemmeno l'«Appartamento». Il sodalizio fra Benedetto XVI e don Georg rimane solidissimo, nonostante forse qualcuno abbia tentato o sperato di incrinarlo. L'impressione finale, tuttavia, è che il processo potesse essere un'occasione di chiarezza; e che invece venga percepito come una conferma dello status quo. È forte il dubbio che la condanna serva a lasciare tutto come è stato finora.
Probabilmente questo Vaticano, accerchiato dalle inchieste sulla pedofilia, insidiato dal secolarismo occidentale e affetto a Roma da una rissosità che fa parlare di «sindrome italiana», non è in grado di andare oltre. È troppo debole per guardare al proprio interno in profondità. E dunque tende a difendersi sacrificando di volta in volta uno dei suoi «figli». Ma senza mai mettere in discussione i pilastri della sua catena di comando; senza contestare un sistema di governo che da troppo tempo produce storture e faide, e non risparmia nemmeno le persone più vicine al Papa. Su questo sfondo, si può anche individuare un altro o altri «Corvi», e fare un secondo processo. Ma forse bisognerebbe cominciare a chiedersi dove e perché nidificano tanto.
Corriere 6.10.12
Digiuno in classe per i morosi. Effetto Adro nei Comuni
Da Vigevano a Landriano. E a Napoli mensa sospesa per tutti
di Andrea Pasqualetto
È successo sulle sponde pavesi del Ticino, dove governa la Lega e il sindaco Andrea Sala non fa sconti ai 129 bambini di Vigevano esclusi dalla mensa scolastica: «Solo così si recuperano i denari delle rette», stabilisce ricordando i suoi propositi non del tutto miti: «Spezzeremo le gambe ai genitori che non pagano, li stiamo già stanando, ci sono stranieri che devono essere educati e ci sono italiani ricchi che fanno i furbi...». Ed era successo cento chilometri più in là, nel cuore della Franciacorta, con il suo collega di partito Danilo Oscar Lancini che ad Adro aveva negato il pranzo ai figli di chi non versava il dovuto: «Ha funzionato, pur di non far brutta figura ora chi può paga».
Esattamente come aveva fatto qualche tempo prima un'altra giunta padana, quella vicentina di Montecchio Maggiore, che aveva scelto per la scuola elementare la soluzione differenziata: pasto per chi paga, panino per chi non paga. Domanda: politica leghista, dunque? Risposta: non solo. Perché ai tempi dei grandi tagli provvedimenti analoghi spuntano silenziosi e imbarazzanti anche fra le decisioni di alcune amministrazioni del centrosinistra, cosicché dall'alto del Carroccio il sindaco Lancini può suonare la tromba del trionfo: «Abbiamo fatto scuola». È il caso di un paese della vallata del Lambro, Landriano, dove l'assessore ai Servizi sociali e alle politiche giovanili di una lista civica appoggiata dal Pd, Morena Taffarello, parla di «pena» della sospensione dei buoni pasto: «Siamo stati rigidi nei confronti di coloro che non sono disposti a sanare i debiti». Che è un po' l'orientamento della brianzola Cavenago dove rischiano il pasto 120 bambini mentre il primo cittadino Sem Galbiati, orecchino casual e due mandati, vede grigio: «Quando 120 su 600 sono inadempienti noi possiamo poco». Da Vigevano il consiglio è uno solo: «Usando il pugno di ferro le famiglie pagano».
Esperimento, quello del pressing, provato anche a Padova dal sindaco democratico Flavio Zanonato che ha forzato la mano delle famiglie indebitate da oltre cinque anni. «A luglio abbiamo spedito 1.200 lettere minacciando l'intervento di Equitalia — spiega l'assessore alla Pubblica istruzione, Claudio Piron —. Alla fine molti hanno pagato. Ma sia chiaro: Padova non ha mai negato il pranzo a nessuno». Che poi è quel che succede a Rho, in provincia di Milano, dove la giunta del centrosinistra è alle prese con 600 casi di insolvenza e così ha dichiarato guerra ai morosi, «ma senza toccare i bambini» come tiene a precisare Alessia Bosani, assessore alla Scuola e istruzione: «Faremo una campagna di sensibilizzazione perché tutti paghino il servizio, poi passeremo al recupero coattivo del credito». Insomma, il problema è generale e si sta allargando a macchia d'olio. Per tutti l'obiettivo è quello: recuperare i crediti. C'è chi usa il fioretto e chi la clava, chi bussa alla porta e chi toglie il piatto. Mentre Napoli ha risolto a modo suo: servizio di refezione sospeso dappertutto. E come fanno? Alla scuola Baracca dei quartieri spagnoli ci pensano le mamme: un po' loro, un po' la rosticceria della zona e qualcosa di caldo non manca mai. Sala sorride: «Bisogna stanare e pignorare».
Corriere 6.10.12
Se a scuola il denaro vale più dei bambini
di Silvia Vegetti Finzi
Il pugno di ferro dei sindaci contro chi non paga le rette scolastiche. Da Vigevano a Landriano, mense sospese e bambini costretti al digiuno. «Spezzeremo le gambe ai professionisti dell'insoluto...». Ma la priorità sono i piccoli scolari, non il denaro da riscuotere.
«Spezzeremo le gambe ai professionisti dell'insoluto... Abbiamo i piranha in giro, li stiamo già stanando...» dice il sindaco leghista di Vigevano Andrea Sala, nel corso della conferenza stampa convocata per giustificare l'esclusione di 129 bambini dalle mense scolastiche a causa del mancato pagamento delle rette. Le ricadute sul piano educativo sono evidenti. La discriminazione apre una frattura profonda tra i bambini, contrapponendo chi ha diritto a fruire pienamente delle risorse scolastiche e chi no. Se gli esclusi mangiano un panino in classe si considerano in esilio, se siedono a tavola con i compagni ma restano senza cibo si sentono dei paria. Non dimentichiamo che chi va a scuola è un soggetto completo ed è contradditorio impartirgli «cibo per la mente» escludendolo dalla distribuzione del «cibo per il corpo». Chi riceve un piatto caldo e un pasto preparato fruisce di un gesto materno carico di significati affettivi, mentre la comunicazione verticale tra cattedra e banchi riveste connotazioni intellettuali e paterne. Il fatto che molti dei bambini discriminati appartengano a famiglie extracomunitarie non giustifica il provvedimento, così come non è giusto che si cerchi di costringere i genitori insolventi ad assumersi le proprie responsabilità colpendo i figli. I furbi vanno indubbiamente individuati e puniti ma i bambini non c'entrano. Sappiamo che le finanze locali sono in gran difficoltà ma si tratta di stabilire delle priorità. La scuola è la nostra ultima utopia. Se riconosciamo ai più piccoli il primo posto nella graduatoria delle spese necessarie, in qualche modo i soldi si trovano. Si devono trovare perché le giovani generazioni sono l'unico futuro che abbiamo.
Corriere 6.10.12
Gli italiani nascondono nei paradisi un tesoro di 11 miliardi di euro
ROMA — Ammontano a 11 miliardi di euro le somme di denaro evase attraverso il ricorso ai «paradisi fiscali» dagli italiani nel 2011. E' quanto riporta una relazione del Tesoro presentata al Parlamento. «L'azione di contrasto all'evasione internazionale ha portato alla scoperta di circa 11 miliardi di euro per imponibili non dichiarati», si legge nel testo, «relativamente a casi di "esterovestizione" della residenza di persone fisiche e società, stabili organizzazioni occulte di società estere, transfer pricing e altre operazioni di carattere evasivo od elusivo condotte per il tramite dei cosiddetti paradisi fiscali».
Intanto proseguono le operazioni sul territorio italiano con risultati sorprendenti: dai controlli effettuati dai finanzieri del Comando Provinciale di Lecce sono emerse ben 100 irregolarità sui 110 immobili controllati, oggetto di affitti estivi. I proprietari non hanno dichiarato i canoni di locazione percepiti durante le stagioni estive dal 2007 al 2010, per un totale di 529.535 euro ed hanno evaso l'imposta di registro per 7.075 euro. Tra i casi, quello di un ex idraulico, proprietario di otto appartamenti al mare, che, in 4 anni è riuscito a nascondere al Fisco affitti per complessivi 67.320 euro.
Sette del Corsera 5.10.12
Il fascismo mai morto
Molti protagonisti delle ruberie nella Regione Lazio lo rivendicano con orgoglio
di Aldo Cazzullo
qui
l’Unità 6.10.12
Sant’Anna di Stazzema non è in Europa
La sentenza di archiviazione è un atto di ingiustizia Ma anche un danno alla credibilità di quei giudici
di Moni Ovadia
LA SENTENZA DI ARCHIVIAZIONE PER GLI IMPUTATI DELLA STRAGE NAZISTA DI SANT'ANNA DI STAZZEMA È UN ATTO DI INGIUSTIZIA PERPETRATO CONTRO LE VITTIME INNOCENTI TRUCIDATE DAI CARNEFICI DELLE SS, contro i sopravvissuti e i loro discendenti e rappresenta anche uno strappo brutale inferto alla carne della memoria europea. Il danno principale, tuttavia, lo riceve paradossalmente la credibilità di quei giudici. Il loro giudizio pone un interrogativo serio sul carattere del loro retroterra culturale.
Cerchiamo di capire perché. Un tribunale militare italiano dopo anni di lunghe e dolorose indagini ha emesso una sentenza di colpevolezza e una conseguente condanna sulla base delle numerose deposizioni di testimoni oculari, ma anche sulla base di confessioni di colpevolezza rese agli inquirenti e alla stampa da alcuni esecutori di quell'eccidio. I magistrati di Stoccarda, indagando con puntiglio e meticolosità, hanno deciso per l'assoluzione degli imputati per insufficienza di prove, di fatto dichiarando che le prove di colpevolezza riconosciute dai magistrati italiani sono a loro parere prove «fabbricate». Inoltre hanno addotto, a titolo di attenuante, il fatto che lo scopo principale di quella azione era di natura bellica con l'obiettivo di contrasto ai partigiani e che essere nelle Ss non è di per sé una prova di colpevolezza. Giusto. Ma una pesantissima aggravante si! Nelle Ss si entrava volontari giurando cieca e assoluta ubbidienza a Hitler con l'ordine di perpetrare genocidi e crimini di ogni sorta per la gloria del Reich. I giudici di Stoccarda sostengono di essersi scrupolosamente attenuti la legge. Come dire: Dura lex sed lex, ma hanno ignorato il: summum jus summa iniuria, ovvero l'eccesso di «giustizia» si trasforma nel massimo di ingiustizia. Quei magistrati si sono anche assunti la responsabilità di avere costituito un precedente che farà la gioia dei negazionisti di ogni risma e fornirà sostegno all'impunità di genocidi e massacratori di ogni luogo e di ogni tempo, per non dire dei sedicenti esportatori di democrazia con le bombe e le stragi senza numero di civili innocenti. Non è improprio dunque sostenere, se questa sentenza è legittima, che le azioni militari contro i partigiani dessero piena giustificazione alle Ss di trucidare donne vecchi e bambini e, di passo in passo, far passare l'idea che i partigiani non fossero combattenti per la libertà e la giustizia che si opponevano alla più criminale forza di occupazione della Storia ma banditi, come recitava il cartello che era messo loro al collo prima di essere impiccati agli alberi o ai lampioni. I revisionisti di casa nostra e i loro complici mediatici possono davvero ritenersi soddisfatti.
La Stampa 6.10.12
“Da Stoccarda sentenza sconcertante”
“Per ribaltare il verdetto caccia alle colpe individuali”
Lo storico Carlo Gentile: “Nei documenti italiani ci sono”
«Troppa omertà e menzogne da parte dei testimoni della difesa delle ex SS»
di Alessandro Alviani
Lo storico Carlo Gentile si occupa da oltre dieci anni dell’eccidio di Sant’Anna di Stazzema ed è stato consulente della procura militare di La Spezia nel processo che portò nel 2005 alla condanna all’ergastolo di dieci ex membri delle SS. Lavora all’università di Colonia, ad agosto è uscito in Germania un suo nuovo libro sulle stragi naziste in Italia.
Per la procura di Stoccarda mancano elementi per dire che l’eccidio fosse pianificato sin dall’inizio. Che ne pensa?
«Dal punto di vista storico è abbastanza problematico: abbiamo pochissimo materiale originale sulla vicenda. Sulla base dei miei studi sui perpetratori delle stragi in Italia, in particolare su quelli della divisione responsabile della strage di Sant’Anna di Stazzema, posso dire che la storia di queste unità mi induce a pensare che l’uccisione delle donne e dei bambini fosse prevista già dall’inizio».
Perché?
«Non è l’unica strage che esse compiono, il fatto stesso che in Italia le azioni condotte dalla divisione “Reichsführer SS” siano in pratica stragi della popolazione civile mi fa pensare che fosse una strategia seguita da questa divisione. Visto come si è comportata - la strage di Sant’Anna di Stazzema, di Bardine, di Valla, di Vinca, di Bergiola Foscalina, le stragi intorno a Massa, quelle vicino a Lucca, quella di Marzabotto: 2.400-2.500 civili uccisi solo da questa divisione in Italia – non credo si possa sostenere che sia stata una situazione sfuggita di mano a soldati che in realtà volevano solo catturare delle persone o dare la caccia ai partigiani».
Come sostiene la Procura.
«A mio avviso l’idea che questi soldati siano andati a Sant’Anna di Stazzema convinti di fare una normale operazione contro i partigiani e di arrestare qualcuno non è sostenibile. Quegli uomini sapevano che, nella situazione in cui si sarebbero trovati, avrebbero potuto uccidere donne e bambini, perché ciò faceva parte del bagaglio della loro cultura di guerra. Sulla vicenda ho pubblicato diverse cose, probabilmente alla Procura non le hanno lette molto intensamente, perché altrimenti non avrebbero scritto che manca la prova che l’azione sia partita sin dall’inizio con il potenziale di diventare strage. È deludente che non si sia ricavato di più da quest’indagine: in dieci anni gli inquirenti non sono riusciti a superare quel muro di ostruzionismo, di omertà, di menzogne e di mezze verità che i testimoni delle ex SS hanno costruito».
C’erano elementi per muovere l’accusa contro i 17 indiziati?
«Sulla base delle mie conoscenze mi sembrava che per lo meno in alcuni casi il materiale probatorio esistente fosse sufficiente a mandare avanti l’indagine».
L’archiviazione l’ha sorpresa?
«La decisione mi ha deluso, per cui capisco e condivido l’indignazione che molti provano, ma non mi ha sorpreso, perché non è la prima volta che indagini di questo tipo vengono chiuse così. Temevo si sarebbe giunti a questo esito. C’è una serie di problemi ricorrenti».
Ad esempio?
«In Germania pesa molto la distinzione tra omicidio doloso semplice, che va in prescrizione dopo un certo numero di anni, e omicidio aggravato che non va in prescrizione. Oggi, in riferimento alla Seconda guerra mondiale, si possono solo perseguire crimini che risultino qualificabili come omicidio aggravato. Nel caso di Sant’Anna, pur avendo la Procura di Stoccarda ritenuto comprovato che il fatto in sé costituisce un crimine di guerra, non ha ritenuto di poter classificare ogni singola uccisione come omicidio aggravato. È anche un problema di ordinamenti giuridici differenti».
Per Stoccarda non è dimostrata la colpa individuale degli indiziati. Crede che la magistratura tedesca abbia interesse a chiarire la vicenda?
«Sì, senz’altro. Ma ci sono anche limiti oggettivi: per la Procura tedesca portare la prova della responsabilità individuale significa avere una prova documentale scritta o una testimonianza che dimostri il coinvolgimento di una persona in un crimine. Ma è un problema se nessuno parla, se il documento non esiste più negli archivi o non indica con precisione l’unità o il nome di questa persona. In Italia queste prove si sono invece trovate».
Repubblica 6.10.12
Ok dai giudici nonostante il no dei genitori: la ragazza ha chiesto di staccare la spina
“Grace ha il diritto di morire” gli Usa e la nuova Terri Schiavo
NEW YORK — La ragazza che vuole morire ha tutto il diritto di farlo. La più alta corte dello stato ha deciso che Grace Sung Eun Lee può fare staccare i tubi che la tengono ancora in vita per non si sa però più quanto: perché Grace è malata terminale di tumore al cervello, paralizzata dal collo in giù, e per lei non ci sono più speranze.
Grace è la nuova Terri Schiavo che divide l’America. Ma come nel caso di Terri Schiavo a dividersi è prima di tutto una famiglia. Grace ha 28 anni, fa l’analista finanziaria, e ha confessato ai medici del North Shore University Hospital, Manhasset, New York che non sopporta più di vivere così com’è: e dice basta all’accanimento terapeutico. Ma i suoi genitori si oppongono. Sono immigrati coreani e sostengono che staccare i tubi è contro la loro religione: di cui il padre è anche un pastore. Per lui smettere la terapia sarebbe, per la ragazza, un suicidio. Grace finirebbe all’inferno.
Proprio come nel caso di Terri Schiavo, anche qui c’è una prova che dimostrerebbe che Grace deve vivere: è il video registrato dai genitori sta già facendo il giro di YouTube. C’è un uomo che solleva il capo della ragazza: «Vuoi che sia tuo padre a prendersi legalmente cura di te per cure?». «Sì». «E quando vorresti lasciare l’ospedale?». «Subito». Quell’uomo è il cugino e il video dura solo 24 secondi. Troppo pochi: i critici sostengono che possa essere stato manipolato. Anche perché quello che Grace dice nelle immagine è il contrario di quello che raccontano i medici. «Noi vogliamo solo aderire alla sua volontà», dice Terry Lynam, la portavoce dell’ospedale che col New York Times non vuole però commentare sul video. Chiamato senza mezzi termini: «Grace ci dice che vuole lasciare quest’ospedale».
La battaglia non è solo giuridica. Lo psichiatra della clinica sostiene che — malgrado la malattia terminale — Grace è in grado di intendere e prendere le sue decisioni da sé. Il padre Man Ho Lee, pastore dell’Antioch Missionary Church nel Queens, giura invece che è stata manipolata dai dottori: «E’ sotto la loro influenza». Il dramma è cominciato nell’ottobre dell’anno scorso e la malattia implacabile ha in brevissimo travolto questa ragazza che lavorava alla Bank of America e si stava allenando per la maratona di New York. Malgrado il video su YouTube, la sentenza dell’alta corte adesso raccoglierebbe le sue ultime volontà: fine della corsa.
l’Unità 6.10.12
«La primavera araba ha dato il coraggio di ribellarsi ai despoti»
Sari Nusseibeh rettore universitario a Al-Quds parla delle positive conseguenze
della rivoluzione
intervista di Stefano Pisani
«LA COSA FONDAMENTALE DELLA COSIDDETTA PRIMAVERA ARABA È CHE QUELLE POPOLAZIONI NON HANNO AVUTO PIÙ PAURA DI RIBELLARSI AL DISPOTISMO E HANNO CONQUISTATO LA SOVRANITÀ». A parlare è Sari Nusseibeh, Rettore dell’Università araba di Al-Quds, a Gerusalemme Est, intervenendo all’incontro I comandamenti per il XXI secolo. Una due giorni di studio nell’ambito di «Futuro Remoto» inaugurata lo scorso 3 ottobre nella Città della Scienza di Napoli ricca di dibattiti, tavole rotonde, dialoghi per affrontare domande fondamentali sul futuro dell’uomo, della conoscenza, dell’ambiente e dell’economia.
Di recente, conflitti tribali che per centinaia di anni avevano insanguinato la Papua Nuova Guinea hanno trovato improvvisamente una soluzione. Che riflessioni le ispira questo con particolare riferimento alla situazione mediorientale? «Evidentemente quelle popolazioni si erano talmente stufate di combattersi che alla fine hanno trovato un altro modo di gestire il conflitto. Credo che potrebbe accadere anche fra Israele e Palestina. Il fatto che negli ultimi 40-50 anni sia fallito ogni tentativo di risoluzione non deve farci pensare che non ci siano speranze. Abbiamo combattuto per anni, non si sa nemmeno chiaramente perché: ognuno voleva qualcosa che non è riuscito a ottenere. A un certo punto si arriverà a un punto di saturazione, una sorta di “massa critica” che farà accordare le due leadership. Non so quale sarà la formula istituzionale e non so quanti anni occorreranno, ma alla fine si arriverà a una risoluzione, a uno spazio individuale per tutti. E tutti contribuiranno al nuovo luogo. Solo che non sarà “pace”, ma gestione del conflitto. Non dobbiamo smettere di credere nel potere della compassione che c’è negli uomini. Anche se la vera pace probabilmente esiste solo oltre la vita, sarà possibile arrivare a una conflittualità ridotta ai minimi termini che non intralcerà il progresso verso il futuro».
Lei crede che la condizione di conflitto sia inevitabile?
«Noi viviamo costantemente nel conflitto. Un conflitto che non è solo quello di una colonizzazione, ma che è presente nella vita di ogni giorno, nei piccoli contrasti che abbiamo per strada, sul posto di lavoro, in casa. Cosa ci porta a entrare in un conflitto? Cos’è la pace? E la violenza è necessaria? Era davvero necessario, per esempio, per i siriani il ricorso alle armi? Vorrei fare mie alcune riflessioni di Gandhi che in uno dei suoi primi trattati sull’autonomia indiana sottolineava il potere dell’anima, il potere dell’amore che si oppone alla violenza, e che è più forte del potere delle guerre. Altrimenti, diceva, avremmo avuto ovunque sempre e solo guerre, e non ci sarebbero più tanti esseri umani sulla faccia della terra. Altri filosofi, di origine islamica, sostenevano che sia la compassione, che citavo prima, a essere la molla che promuove la vita. La compassione e le passioni che ci muovono a combattere per proteggere le persone che amiamo dal pericolo. Possono sembrare ragionamenti un po’ naif, ma sono convinto che l’arte del mondo sia l’amore. L’amore, la compassione, i sentimenti positivi sono al centro delle persone e possono contrastare i conflitti. Altre cose, vengono dopo. Le faccio un esempio, rispetto al potere positivo delle passioni. Se a muovere tutto fosse il mercato, non avremmo il conflitto israelo-palestinese, essendo i due popoli oltremodo interessati, per tante ragioni economiche, a stare insieme. Non è il mercato che dà forma alla società, sono le passioni. Nel bene e nel male».
La Siria, che vive in un regime di guerra civile e, ora, è in tensione con la Turchia. Come valuta il movimento complessivo della cosiddetta primavera araba?
«Due anni fa la mia università decise di conferire una laurea honoris causa a Erdogan. Nel frattempo, la situazione geopolitica è molto cambiata e ci siamo chiesti se fosse il caso di confermare questa laurea. Considerando che la Turchia ha chiesto scusa per il genocidio curdo, abbiamo pensato di conferire la laurea. Speravamo che questo potesse indurre la Turchia a chiedere scusa anche per il massacro armeno. Purtroppo... Noi siamo sostenitori della lotta nelle regioni per la conquista della libertà. La primavera araba, queste lotte, non sono state “belle”. Non è bella nessuna lotta che fa scorrere sangue. L’unica cosa positiva è che è venuta meno la paura dei popoli rispetto all’autorità, e questo è l’inizio del cambiamento. Ora le persone si sentono sovrane e presto o tardi il cambiamento sarà completato».
Le università e la cultura stanno smarrendo il loro ruolo in questa rivoluzione? «L’istruzione dovrebbe concentrarsi nello sviluppo dell’abilità di gestire i conflitti. Credo che più utili delle nozioni, siano le abilità sociali, la capacità di interagire con altri esseri umani per contribuire alla crescita di tutti. L’università e l’istruzione, purtroppo, oggi si sono concentrate troppo poco su questa funzione. Si tende a insegnare ai propri allievi a rimanere incapsulati nella propria classe sociale, ma l’istruzione deve avere l’obiettivo di liberare, come sosteneva Dewey. E questo principio vale in qualunque contesto».
La Stampa 6.10.12
Turchia. Reportage dal fronte
Nella città divisa dal confine si aspetta il ritorno della guerra
Dopo il raid di Erdogan i siriani di Tal Abyad si rifugiano dai parenti turchi di Akcakale
di Francesca Paci
La lingua di confine su cui per due giorni si è evocata la guerra tra Turchia e Siria è un florido campo di cotone spezzato dal filo spinato e dalle torrette con le bandiere nemiche a penzoloni nella calura senza vento. Al di qua e al di là della frontiera, nella città turca di Akcakale che ha appena seppellito le sue vittime e nella siriana Tal Abyad colpita dalla rappresaglia di Erdogan, si vedono le stesse abitazioni ocra, tetti lasciati incompiuti per eventuali piani extra, parabole sostenute da lamiere precarie, ulivi assetati. La tensione è scemata, l’artiglieria tace, due tank turchi stazionano per dovere. Eppure l’aria è grave, carica di quel che poteva accadere e chissà poi se si ripresenterà.
Il commerciante turco Yemek e l’edile siriano Kalhed si conoscono da una vita, mezzi parenti come molti qui, nell’estrema periferia turca dove si parla l’arabo e il 15% delle spose viene dall’altro lato del confine. S’incontrano nella terra di nessuno, divisi solo formalmente: Khaled, 47 anni, ha portato moglie e figli nella più sicura Akcakale e torna a dormire a Tal Abyad per presidiare la casa. «Grazie Erdogan» dice compiaciuto. Yemek scuote la testa: «Replicare a Damasco è stato avventato, ora viviamo in trincea».
Se la risposta turca alla provocazione siriana (o all’incidente? o al casus belli cercato dai ribelli?) sia stata o meno efficace è materia per think tank mediorientali. Secondo Soner Gagaptay del Washington Institute for Near East Policy l’esibizione muscolare di Erdogan ricorda il ‘98, quando le forze turche si disposero al confine per convincere Assad padre a scaricare i miliziani curdi. L’analista Orhan Miroglu ritiene che bisognasse controbattere al presidente siriano per impedirgli di «internazionalizzare il conflitto» e trascinare la Turchia in un «Vietnam americano». Ma il politologo Murat Yetkin teme che con tutti gli interessi in campo, regionali e non, l’escalation sia tutt’altro che scampata.
Poi c’è la prima linea, dove la geopolitica cede il passo alla vita e gli uomini con le loro paure hanno ragione della Storia.
Un tempo, prima della dissoluzione dell’impero ottomano, Akcakale e Tal Abyad erano una sola città, un unico amalgama religioso che in seguito avrebbe preoccupato Ataturk: te ne accorgi quando attraversi di corsa il filo spinato e dribblando il flusso contrario di esuli a piedi e in motocicletta ti ritrovi in pochi balzi a ridosso della prima moschea siriana, le case sforacchiate dai proiettili, i negozi sventrati dalle granate lanciate a pioggia negli ultimi mesi della ormai degenerata guerra civile. In giro si vedono solo galline, gatti emaciati e i soldati del Free Syrian Army, braccio armato dell’opposizione.
«Non abbiamo piani per Tal Abyad, non pensavamo che i governativi levassero l’assedio tanto presto, per noi è una benedizione» commenta il barbuto comandante dell’unità locale, l’ex commerciante Mahmoud el Faris. La moglie e tre figli sono in Turchia, il quarto, 16enne, lo segue imbracciando il kalashnikov.
Se Tal Abyad è vuota dei suoi 4 mila abitanti, al buio, con il piccolo ospedale in mano alle capre, Akcakale trabocca ansie, malumori e nuove necessità. Il governatore della provincia Konagi porta la solidarietà governativa al municipio che dista 500 metri dal confine ma ai tavoli del Nil Cafe si diffida della politica.
«Le 14 scuole cittadine sono chiuse, 5 mila di noi sono fuggiti con le 400 lire (180 euro) concesse da Ankara, abbiamo un campo profughi di 10 mila siriani... ci mancava il braccio di ferro tra Erdogan e Assad» borbotta il maestro Mustafa sorseggiando çai, tè turco. Quattro donne con il foulard viola, la foggia locale, affrettano il passo: portano rose davanti alla casa sventrata delle vittime di mercoledì. La guerra è scongiurata, pare, ma la pace spetta solo a chi non c’è più.
l’Unità 6.10.12
Jean-Paul Fitoussi: lo insegna la Grecia, il rigore eccessivo uccide
«Più che un aiuto la linea Ue verso Atene sembra una punizione. Noi europei dobbiamo far sì che l’occupazione cresca e che aumentino i redditi»
intervista di Umberto De Giovannangeli
Il drammatico grido d’allarme lanciato dal primo ministro greco non va sottovalutato o lasciato cadere nel vuoto. Non si tratta di un espediente per ottenere più tempo per contenere il deficit pubblico o per avere più aiuti, tanto meno va rubricato come un “ricatto” all’Europa. Quella che Samàras ha evocato è una prospettiva tutt’altro che irrealistica. L’Europa farebbe bene a prestargli ascolto, perché in gioco non c’è solo il futuro della Grecia ma dell’Europa stessa». A sostenerlo è Jean-Paul Fitoussi, Professore emerito all'Institut d’Etudes Politiques de Paris (Istituto di Studi Politici di Parigi) e alla LUISS di Roma. È attualmente direttore di ricerca all'Observatoire Francais des Conjonctures Economiques (Osservatorio Francese per la Congiuntura Economica), istituto di ricerca economica e previsione.
Professor Fitoussi, come interpretare le parole del primo ministro greco? «Sono sempre stato convinto che quello messo in atto dall’Ue verso Atene più che un aiuto assomigli ad una punizione. Le parole di Samàras sono una drammatica conferma di ciò, Peraltro, attendo ancora una risposta convincente da parte dei leader europei, a cominciare dalla cancelliera Merkel, ad un interrogativo...».
Quale?
«Che senso ha aver messo sul piatto 30 miliardi di euro quando poi saranno erogati al 5% di interessi, più dell’inflazione e dei tassi medi del debito pubblico europeo? Vincoli del genere hanno poco a che vedere non solo con un principio di solidarietà, ma denotano anche una scarsa lungimiranza: perché un’austerità portata all’estremo finisce per “strangolare” un’economia e dunque affondare un “sistema-Paese”».
Come aiutare la Grecia?
«Prendendo l’impegno di fare investimenti in quel Paese per rilanciare la crescita. Il governo greco faccia il suo mestiere con il budget corrente, ma noi europei mettiamo i soldi per gli investimenti in Grecia, per far sì che l’occupazione cresca, che aumentino i redditi e che sia possibile una loro redistribuzione più equa».
Quale lezione trarre da questa vicenda?
«Quando i mercati crollano i governi puntano sull’austerità: solo che così le imprese non crescono, non producono più ricchezza e i mercati crollano di nuovo. Occorre spezzare questo circolo vizioso partendo dalla constatazione che l’austerità non favorisce la crescita, ma può produrre effetti devastanti sul piano sociale. Il caso greco è da questo punto di vista paradigmatico».
Sul piano sistemico, come leggere la crisi che continua a investire l’Europa? «L'Europa sta vivendo una crisi nella crisi: il problema è nato nel centro del capitalismo, negli Stati Uniti, come crisi di sostenibilità. Da noi è stata aggravata dal vizio di fondo di costruzione dell'Europa: siamo in un sistema in cui il debito è sovrano, ma la moneta è senza sovrani. I Paesi europei emettono titoli in una moneta sulla quale non hanno nessun controllo: è la prima volta nella storia. Siamo, tutto sommato, in una situazione simile a quella dei Paesi emergenti che si indebitano con una moneta estera. Così, però, i mercati ottengono un potere enorme: quello di fare profezie “autoavveranti". Se i mercati diffidano di un Paese , i capitali fuggono, senza che ci sia una motivazione reale, e i tassi salgono fino a costringere all'insolvenza. Quando invece i mercati si fidano, il Paese paga addirittura tassi negativi. Rispetto i mercati: ma si sbagliano sempre».
Come invertire questa tendenza?
«Il solo modo di reagire è di avere una moneta sulla quale si esercita sovranità. La soluzione è ovvia: serve un titolo pubblico unico, per eliminare i margini della speculazione. Anche perché i meccanismi messi in atto adesso sono
inefficaci: l'ESM, ad esempio, ha risorse troppo esigue, nell'ordine dei 700 miliardi, per salvare debiti di oltre 3.000. Dovrebbe per questo essere dotato di licenza bancaria. La Germania, però, è fortemente contraria: anche se è il Paese che ha il debito implicito più alto. La sua popolazione sta diminuendo: questo significa che deve trovare soldi per pagare le pensioni. E diventerà un Paese creditore di altri Paesi della zona euro».
Guardando alla Grecia il successo del partito di estrema destra «Alba Dorata» ma allargando l’orizzonte, ciò che emerge è che populismo e nazionalismo risorgono puntualmente nei periodi di grande crisi come quello che stiamo vivendo. Si tratta «solo» di un fenomeno congiunturale?
«Non c’è niente di più sbagliato del minimizzare fenomeni la cui pericolosità non va misurata solo in termini di percentuali elettorali. In questo la storia è maestra di vita, a patto che non si rimuovano le sue “lezioni”. Possono cambiare le forme e i contenitori in cui si manifestano, ma non c’è dubbio che populismo e nazionalismo trovano un humus fecondo dentro grandi crisi che non trovano soluzione in una politica coraggiosa, proiettata nel futuro; una politica che non sia succube dei mercati. Il problema del mondo futuro, e in esso dell’Europa, è la crescita. Le politiche di austerità sempre più violente, che si stanno imponendo solo per paura delle agenzie di rating, possono solo peggiorare le cose, alimentando spinte autarchiche, populiste e nazionaliste. I segnali dall’allarme non vengono solo dal risultato elettorale di “Alba Dorata” in Grecia, ma devono far riflettere anche il successo del Front National di Marine Le Pen e il rafforzamento in Italia dei movimenti neo-populisti. Il messaggio è chiaro: la gente non intende più dare fiducia a governi la cui unica politica è il disaggio sociale».
Corriere 6.10.12
«La Grecia? Rischia la fine di Weimar»
L'avvertimento di Samaras a pochi giorni dall'arrivo della Merkel ad Atene
di Paolo Lepri
BERLINO — Se Angela Merkel lo dirà anche ad Atene, il 9 ottobre, che la Grecia non deve lasciare la moneta unica, sarà un segnale di grande importanza. La cancelliera tedesca ha infatti deciso di andare a incoraggiare gli sforzi di risanamento finanziario della grande malata europea. Era da tempo che i suoi consiglieri valutavano i pro e i contro di una visita nel Paese dove giornali e dimostranti l'hanno raffigurata in divisa nazista e si chiedevano quale sarebbe stato il momento appropriato. Il momento è arrivato, mentre la troika di Unione Europea, Fondo monetario internazionale e Bce è impegnata a valutare i progressi fatti sulla strada delle riforme, a cui è condizionato il via libera ai 31 miliardi di euro della nuova tranche di aiuti. «Abbiamo fondi a disposizione fino a novembre, poi le casse sono vuote», è stato l'allarme lanciato proprio ieri dal primo ministro ellenico Antonis Samaras.
«Vogliamo aiutare la Grecia a stabilizzarsi nella zona euro. Lo stiamo facendo contribuendo massicciamente ai programmi di salvataggio che dovrebbero farla uscire dalla crisi. Questo sarà possibile soltanto con grandi sforzi, abbiamo visto che c'è maggior impegno nelle riforme con il governo Samaras e vogliamo sostenere questo atteggiamento», ha detto ieri a Berlino il portavoce della Cancelliera, Steffen Seibert. Sarà una visita «normale», ha aggiunto. Ma sono molti i commentatori a rilevare che il viaggio di Angela Merkel non avrà niente di normale, in primo luogo per la situazione di tensione che coinciderà con il suo arrivo ad Atene, una città che si è ribellata più volte contro «le politiche punitive dell'Unione Europea». Le radio hanno interrotto i programmi, ieri, per annunciare la notizia, e i sindacati hanno immediatamente chiamato la gente in piazza, nel giorno della visita, proclamando uno sciopero generale di tre ore.
«Angela Merkel sarà accolta nella maniera che compete al leader di una grande potenza e di un Paese amico», ha detto Samaras, che aveva invitato la Cancelliera quando era andato a Berlino, il 24 agosto. Anche per lui non sarà una giornata normale. Sa di giocarsi tutto nell'arco di poche settimane. Non è un caso che abbia drammatizzato ulteriormente i toni, paragonando la situazione greca a quella della Germania prima dell'avvento del nazismo. «La nostra democrazia si trova probabilmente di fronte alla sua sfida più grande e la tenuta della società è messa in pericolo dalla disoccupazione crescente, come è stato alla fine della Repubblica di Weimar», ha sostenuto in una intervista a Handelsblatt, ricordando le minacce rappresentate dal populismo di estrema sinistra e dalla crescita del partito Alba dorata, «fascista, neonazista, che è già la terza forza politica». «Se il mio governo fallisce ci attende il caos», ha avvertito.
Intanto proseguono ad Atene i colloqui tra la troika e il ministro delle Finanze Yannis Stournaras, che ha detto di attendere il rapporto finale entro la metà di ottobre e ha espresso ottimismo sulla possibilità che la Grecia riceva la nuova tornata di aiuti entro la fine del mese. Ma oltre ad avere assoluto bisogno di questi fondi, il governo Samaras chiede un rinvio di due anni, dal 2014 al 2016, della scadenza del programma di riforme. Sarà probabilmente questo il nodo più difficile della trattativa con la Cancelliera. Angela Merkel ha cambiato linguaggio, ha riconosciuto le sofferenze e i sacrifici dei greci, ma su questo argomento non è sembrata disposta a cambiare posizione.
Corriere 6.10.12
A Zhengzhou, in Cina
Foxconn, migliaia in sciopero nello stabilimento dell'iPhone
La direzione chiede di lavorare anche durante le feste: incrociano le braccia almeno 3.000 dipendenti
qui
La Stampa 6.10.12
Scienziati con il vizio della truffa
di Eugenia Tognotti
Dio solo sa se – con questa overdose «di ladronecci, d’inganni, e di rubamenti» - non avremmo fatto volentieri a meno della notizia che frode, sete di denaro, arrivismo sono male piante che allignano anche nel campo della ricerca scientifica, in dispregio delle norme etiche. E, invece, ecco arrivare, col clamore che meritano, gli sconfortanti risultati di uno studio pubblicato dalla rivista Proceedings of the National Academy of Science.
Secondo la rivista la frode (dati fittizi o manipolati) è la causa prima (43 per cento) dei 2047 ritiri - da parte degli editori - di articoli pubblicati in riviste mediche e biologiche a partire dal 1973. Seguono altre «cattive condotte» – come vengono pudicamente definite – tra cui il plagio (24 per cento).
Insomma disonestà e scorrettezza - e non umanissimi e perdonabili errori materiali compiuti in buona fede - sono all’origine di circa due terzi delle «ritractions». Che sono aumentate ad un ritmo allarmante, afferma uno degli autori dello studio, il microbiologo e immunologo, Arturo Casadevall dell’Albert Einstein College di Medicina a New York. Per dire, negli ultimi 37 anni sono cresciute di 10 volte. Il picco è stato raggiunto nel 2007 con 96 studi su ogni milione revocati per frode. Si tratta di una tendenza inquietante su cui hanno influito molti fattori. A cominciare dalla natura sempre più competitiva della scienza, per continuare con la pressione esercitata sulla biomedicina, per dire, dai grandi interessi economici, e con la prospettiva, per i singoli scienziati, di accaparrarsi brevetti e finanziamenti, attirando l’attenzione su risultati di ricerca «fragorosi». Più importante e prestigiosa è la rivista in cui si pubblicano le ricerche, più è facile ottenere fondi, e cadere in tentazione. L’equazione è semplice: più denaro più ragioni per truffare, più fama, più potenziale per il profitto. Insomma, ha osservato un bioeticista della New York University, Arthur Caplan, quello che accade nella scienza non è «troppo dissimile dalla truffa e dalla frode che abbiamo visto nel settore bancario».
Il fatto è che i Fiorito della scienza possono produrre enormi danni. Basta fare riferimento ad uno degli studi più celebri e discussi, ritirato da una delle più autorevoli riviste mediche al mondo, Lancet. Si trattava di un articolo scritto, nel 1998, dal medico inglese Dr Andrew Wakefield - fervente oppositore delle vaccinazioni - che sosteneva un possibile collegamento tra il vaccino trivalente morbillo-parotite-rosolia e autismo, confutato dal mondo scientifico. Come risultato, le vaccinazioni diminuirono drasticamente in Gran Bretagna, mentre crescevano i casi di morbillo. Inoltre, molti genitori si convinsero che le vaccinazioni erano pericolose. Lo studio del Dr. Wakefield - che aveva sottoposto dei bambini ai test invasivi come colonscopia e punture lombari - era gravato, appurò poi una Commissione tecnico-scientifica - da gravi conflitti scientifici e finanziari: una parte dei costi della ricerca, ad esempio, era stata sostenuta dagli avvocati dei genitori di bambini autistici che intendevano citare in giudizio e chiedere i danni ai produttori di vaccini. Inoltre l’autore dell’articolo aveva brevettato nel 1997 un vaccino contro il morbillo che avrebbe potuto trovare un florido mercato se il vaccino trivalente fosse stato screditato. Secondo la Commissione, l’autore si era comportato in modo disonesto, aveva infranto le norme di base dell’etica e aveva mostrato un «cinico disprezzo» per la sofferenza dei bambini coinvolti nella sua ricerca. Che le frodi nella scienza aumentino, è una cattiva notizia. Ma che a dirlo pubblicamente e ad attirare l’attenzione sulle «mele marce» siano gli stessi scienziati è una buona notizia. Magari prendesse esempio la classe politica nostrana.
Corriere 6.10.12
Condannato il museo Lombroso: restituisca i resti del «brigante»
di Antonio Carioti
Esulta il comitato «No Lombroso», che esige la rimozione del criminologo veronese e delle sue teorie, accusate di razzismo antimeridionale, dai libri di testo e da ogni intestazione di vie, piazze scuole o musei. Un primo successo della battaglia contro lo studioso di origine ebraica è stato sancito dalla magistratura: il giudice Gustavo Danise, del tribunale calabrese di Lamezia Terme, ha stabilito che il museo universitario di antropologia criminale «Cesare Lombroso», situato a Torino, dovrà consegnare uno dei teschi esposti nelle sue sale al comune di Motta Santa Lucia (Catanzaro) e pagarne le spese di tumulazione.
Il cranio in questione apparteneva a un residente del luogo, Giuseppe Villella, sospetto di brigantaggio e condannato per furto e incendio, che morì in carcere nel 1872. Cesare Lombroso, medico prima a Pavia e poi a Torino, ne sottopose il cadavere ad autopsia e, nell'esaminarne la testa, giunse alla convinzione di aver individuato le caratteristiche morfologiche del «delinquente nato». Da lì prese a costruire le sue teorie, secondo le quali la tendenza al crimine sarebbe una caratteristica atavica, particolarmente diffusa nel Mezzogiorno e soprattutto in Calabria, riscontrabile nell'aspetto fisico dei soggetti interessati. La conformazione del cranio, in parole povere, come prova di un'innata inclinazione al delitto.
Lombroso sviluppò le sue tesi, da tempo rigettate come prive di fondamento dagli scienziati, raccogliendo un gran numero di resti umani. Poi la sua collezione privata divenne un museo a lui intitolato, che è stato riallestito nel 2009 dall'Università di Torino. Contro di esso è indirizzata la campagna del comitato «No Lombroso», di cui «la Lettura» si è occupata il 1° luglio scorso. «Non chiediamo la chiusura dell'allestimento — dichiara l'animatore del comitato, Domenico Iannantuoni —, ma il ritiro dei reperti ossei umani e, dove possibile, la loro restituzione alle comunità di origine delle persone cui appartenevano. L'istituzione torinese non è un museo anatomico, quindi non ha diritto di esporli. Magari li si potrà sostituire con degli appositi calchi in gesso o in plastica».
Così è partita l'azione legale presso il tribunale di Lamezia Terme, promossa dal comune di Motta Santa Lucia sulla base delle norme per cui gli atenei potevano svolgere indagini scientifiche sui cadaveri dei condannati morti in carcere, ma dovevano poi, terminati gli studi, procedere alla loro sepoltura. Il che non è mai avvenuto, malgrado i reperti abbiano perso ogni interesse scientifico dopo la smentita delle teorie lombrosiane.
L'Università di Torino si è opposta, sostenendo che il museo non ha alcuna intenzione di rilanciare concezioni ormai superate, ma si propone di documentare l'epoca del positivismo, di cui Lombroso fu esponente, rilevandone ovviamente anche i gravi errori.
Il giudice però ha respinto questo argomento: sarebbe come se un innocente finito in galera, si legge nell'ordinanza, anche dopo il riconoscimento dell'errore giudiziario fosse trattenuto in carcere, «quale testimonianza degli errori che può commettere la giustizia penale». Non vi è dunque motivo, sostiene il magistrato, per cui il cranio di Villella debba rimanere esposto come esempio di una categoria umana bollata come criminale per natura in base a una teoria errata. Di conseguenza l'ateneo «deve restituire il cranio per la sepoltura, anche al comune di residenza in vita, in mancanza di eredi che abbiano formulato espressa richiesta».
Repubblica 6.10.12
La replica di Mancuso su un testo del Cardinale
Martini mi scrisse di pubblicare la sua lettera
di Vito Mancuso
Caro direttore, in un articolo dell’ultimo numero della Civiltà Cattolica a firma Gianpaolo Salvini sul cardinal Martini si legge: «Con molta poca correttezza sono state usate come “Prefazione” lettere private, non destinate alla pubblicazione, con cenni di incoraggiamento inviate a qualche autore che gli aveva fatto avere le bozze di un suo libro». Nel suo blog ormai diventato un avamposto del cattolicesimo più conservatore e nemico del dialogo (tanto da avere sparso veleno molte volte sul cardinal Martini) Sandro Magister commenta così le parole della Civiltà Cattolica:
«Chiara allusione a Vito Mancuso e al suo primo libro al quale la prefazione abusiva spianò il successo: L’anima e il suo destino».
Penso che Magister in questo caso abbia ragione, la Civiltà Cattolica intendeva alludere proprio a me e al mio libro pubblicato nel 2007 presso Raffaello Cortina nella collana «Scienza e idee» diretta dal filosofo della scienza Giulio Giorello. A parte il fatto che non si trattava del mio primo libro ma del sesto, posso attestare che conservo nel mio computer una mail del cardinal Martini in cui testualmente mi si dice: «Quanto al tuo libro, ho il rimorso di non aver fatto nulla. Forse mi puoi mandare la bozza del testo e posso scriverti una lettera, che se vuoi puoi pubblicare almeno in parte. Tuo Carlo Maria c. Martini, S. I.».
La mail è datata 2 novembre 2006 e posso esibirla agli interessati che ne facessero richiesta mediante un semplice clic. Martini mi scriveva di avere un rimorso perché in precedenza aveva rifiutato di scrivermi una prefazione a causa degli impegni e della salute declinante. Poi ci ripensò e fu lui a chiedermi le bozze, non io a inviargliele dietro mia iniziativa, come scrive erroneamente la Civiltà Cattolica, e fu sempre lui a dare il suo assenso alla pubblicazione della lettera che mi avrebbe scritto e che quindi scrisse sapendo che sarebbe stata pubblicata, del tutto al contrario rispetto a quanto afferma ancora una volta erroneamente la Civiltà Cattolica parlando di «lettere private, non destinate alla pubblicazione». Ma al di là delle falsità sul mio conto prodotte da
Civiltà Cattolica, quello che importa sottolineare è, ancora una volta, l’operazione anestesia sulle scomode profezie del cardinal Martini che è in corso nella Chiesa ufficiale e negli organi di informazione da lei controllati. Si vuole normalizzare a tutti i costi, persino con le falsità, una figura scomoda, facendola apparire del tutto conforme all’attuale configurazione ecclesiastica, della quale invece egli disse, nella sua ultima intervista, che era «rimasta indietro di duecento anni».
Repubblica 6.10.12
Adolescenza. Quella libertà senza futuro che impedisce di crescere
Da sempre un’età problematica ora lo è diventata ancor di più
Soprattutto per colpa degli adulti
di Massimo Recalcati
psicoanalista lacaniano
Una volta gli psicoanalisti consideravano la crisi dell’adolescenza come una manifestazione psichica della tempesta puberale che trasformava il corpo infantile in quello di un giovane uomo o di una giovane donna. Era il risveglio di primavera: come abitare un nuovo corpo che non è più il corpo di un bambino ma che manifesta con forza nuove esigenze e nuovi desideri?
Oggi la forbice evolutiva distanzia sempre più pubertà e adolescenza: l’età puberale sembra imporre una nuova precocità — bambine e bambini di 10-11 anni si comportano come veri e propri adolescenti — mentre, al contrario, l’adolescenza sembra non finire mai. Questa sfasatura è però l’indice di un’altra e più profonda contraddizione che rende per certi versi insostenibile la condizione dei nostri giovani. Da una parte essi si trovano gettati con grande anticipo sulla loro età mentale in un mondo ricchissimo di informazioni, saperi, sensazioni, opportunità di incontro, ma, dall’altra parte, sono lasciati soli dagli adulti nel loro percorso di formazione.
Nessuna epoca come la nostra ha conosciuto una libertà individuale e di massa come quella che sperimentano i nostri giovani. Ma a questa nuova libertà non corrisponde nessuna promessa sull’avvenire. La vecchia generazione ha disertato il suo ruolo educativo e ha consegnato ai giovani una libertà mutilata. L’offerta incalzante di sempre nuove sensazioni si è moltiplicata quasi a parare l’assenza drammatica di prospettive nella vita. Ecco disegnato il ritratto del nuovo disagio della giovinezza: per un
i nostri figli sono esposti ad un bombardamento continuo di stimolazioni e, per un altro verso, gli adulti evadono il compito educativo che la differenza generazionale impone simbolicamente loro e la cui funzione sarebbe, oggi, se possibile, ancora più preziosa che nel passato dove l’educazione veniva garantita attraverso l’autorità della tradizione.
Ricordo un mio vecchio maestro elementare che aveva il vizio di riproporre in modo assillante una metafora educativa tristemente nota: “Siete come viti che crescono storte, curve, arrotolate su loro stesse. Ci vuole un palo e filo di ferro per legare la vite e farvi crescere diritti”. In un passato che ha preceduto la contestazione del ’68 il compito dell’educazione veniva interpretato come una soppressione delle
storture, delle anomalie, dei difetti di cui invece è fatta la singolarità della vita. Oggi questa metafora non orienta più — meno male — il discorso educativo. Oggi non esistono più — meno male — pali diritti sui quali correggere le storture delle viti. Il problema è diventato quello dell’assenza di cura che gli adulti manifestano verso le nuove generazioni, lo sfaldamento di ogni discorso educativo che l’ideologia iperedonista ha ritenuto necessario liquidare come discorso repressivo.
Non che gli adulti in generale non siano preoccupati per il futuro dei loro figli, ma la preoccupazione non coincide col prendersi cura. I genitori di oggi sono, infatti, assai preoccupati, ma la loro preoccupazione non è in grado di offrire sostegno alla formazione. Quello che dobbiamo constatare con amarezza è che il nostro tempo è marcato da una profonda alterazione dei processi di filiazione simbolica delle generazioni. Come in una sorta di Edipo rovesciato sono i padri che uccidono i loro figli, non lasciano il posto, non sanno tramontare, non sanno delegare, non concedono occasioni, non hanno cura dell’avvenire. La vita dei nostri figli è aperta ad un sapere senza veli — quello delle rete per esempio — ma anche quello
relativo al mondo degli adulti una volta impermeabile ad ogni domanda, mentre oggi ridotto ad un gruviera: i figli sanno tutto dei loro genitori anche quello che sarebbe meglio non sapessero. L’alterazione del rapporto tra le generazioni passa anche da qui; i figli hanno accesso senza mediazioni culturali ad un sapere senza confini e diventano i confidenti dei genitori e delle loro pene. Anziché potere appoggiare la loro vita su quella dei propri genitori, seguono per lo più attoniti verso le vite da adolescenti di chi dovrebbe prendersi cura delle loro vite.
Una pesante responsabilità di scelta attende i nostri giovani non essendo più la loro vita vincolata ai binari immutabili della tradizione e della trasmissione familiare. E’, come direbbe Bauman, la condizione liquida delle nuove generazioni. Sempre meno esse si trovano a proseguire sulle orme dei loro familiari e sempre più si trovano — nel bene e nel male — obbligate ad inventare un loro percorso originale di crescita.
I nostri figli sono nel tempo di una libertà di massa dove però l’isolamento cresce esponenzialmente insieme al conformismo. La loro responsabilità cresce precocemente, ma sempre più raramente possono incontrare negli adulti incarnazioni credibili della responsabilità. La politica non dovrebbe essere un punto di riferimento culturale alto al quale i giovani debbono poter guardare con fiducia? Ma non è proprio il luogo della politica — per Aristotele la più alta e nobile delle arti, quella capace di ricomporre le differenze particolari per il bene comune della Polis — ad essersi trasformato in un party adolescenziale forsennato?
L’iperedonismo contemporaneo ha scomunicato il compito educativo come una cosa per moralisti. Di conseguenza, la libertà si è ridotta a fare quello che si vuole senza vincoli né debiti. Ma intanto il debito cresce e ha sommerso le nostre vite e l’assenza di senso della Legge ha spento la potenza generativa del desiderio. E allora la libertà non genera alcuna soddisfazione ma si associa sempre più alla depressione. E’ qualcosa che incontriamo sempre più frequentemente nei giovani di oggi. Ma come? Hanno tutte le possibilità, più di qualunque generazione precedente? E sono depressi? Come si spiega? Si spiega col fatto che la loro libertà è in realtà una prigione perché è senza possibilità di avvenire. Cresciamo i nostri figli nella dispersione ludica mentre la storia li investe di una responsabilità enorme: come fare esistere ancora un avvenire possibile?
Nietzsche aveva posto all’uomo occidentale il problema della libertà nel modo più radicale possibile. L’uomo è pronto per essere libero? E’ all’altezza del compito etico della libertà? La fuga delle masse nei totalitarismi del Novecento aveva dato una risposta negativa a quella domanda. No, l’uomo non è capace di essere libero, l’uomo fugge dalla libertà. Adora il tiranno e il suo bastone. La pulsione gregaria domina quella erotica. Il rifugio nel grande corpo della massa viene preferito all’assunzione
singolare della propria libertà e della vertigine che essa comporta.
Oggi le cose sono cambiate. La massa non è più unita dall’attaccamento fanatico all’ideale. Il cemento che la tiene insieme si è inesorabilmente sgretolato, così si è fatta liquida, ondivaga, informe. E prevale l’individuo nel suo isolamento narcisistico.
Repubblica 6.10.12
Se la psicoanalisi mette il mondo sul lettino
Come cambia la sua funzione in altre culture
Oggi a Pavia si tiene un seminario internazionale intitolato “Geografie della psicoanalisi”
di Luciana Sica
Un musulmano in analisi si stenderà tranquillamente sul lettino? Probabilmente no, tanto più se l’analista è una donna. La posizione sdraiata potrebbe restituirgli un senso di sottomissione, non sempre accettabile. Anche la paziente islamica tenderà a preferire il vis-à-vis, non avere seduto alle spalle l’analista, ma di fronte, guardarlo negli occhi. Seppure per la ragione opposta, perché il lettino – quella situazione inevitabilmente seduttiva – potrebbe rappresentare per lei l’umiliante conferma di un ruolo subordinato. Del resto, questo fa la psicoanalisi quando si misura con la cultura di certi Paesi: tende a recuperare il femminile, mettendo in discussione la figura del padre dominante. E questo – per dire – fa anche in India, dove la neutralità analitica deve tener conto della particolare richiesta di calore, di “compassione”, come tratto culturale caratteristico di quella vasta regione: lì, in terapia, oltre alle parole saranno particolarmente importanti i gesti, l’intonazione della voce, le espressioni facciali.
Sono solo esempi, ma rendono con immediatezza il senso di un interrogativo obbligato per gli epigoni di Freud: che ne è infatti della “loro” psicoanalisi quando s’innesta in culture completamente diverse da quella occidentale? La grande diffusione di una disciplina eternamente sotto attacco si direbbe una buona notizia per chi ne difende la vitalità intellettuale e terapeutica, le sofisticate teorie e la qualità della clinica. Ma – aldilà dei facili trionfalismi – il sapere freudiano, che tanto si è evoluto nel corso di oltre un secolo, “trapiantato” se non “esportato” in contesti lontani e in più differenti tra loro solleva anche una gran quantità di problemi, e non di non poco conto.
A occuparsi di una questione poco esplorata e attualissima, è un seminario internazionale in programma domani al Collegio Ghislieri di Pavia. Con un titolo – Geografie della psicoanalisi – che rimanda a un numero della rivista Psiche,
presentato al congresso di Pechino dell’International Psychoanalytical Association (l’istituzione fondata da Freud nel 1910, dodicimila iscritti in tutto il mondo).
Per dieci anni alla guida di quel periodico molto apprezzato, firma al femminile del mondo freudiano, è Lorena Preta la principale artefice di un appuntamento su “le molte psicoanalisi” disseminate nelle varie aree del mondo, in particolare in India e nei paesi dell’Islam. «Sembra una contraddizione – dice lei – ma la psicoanalisi è in crisi e in crescita nello stesso tempo, perché da un lato deve misurarsi con il ricorso diffusissimo agli psicofarmaci e le terapie brevi che promettono miracoli, dall’altro è considerata sempre più importante nei Paesi asiatici e musulmani... “Non sanno che portiamo la peste”, è la celebre frase di Freud in viaggio per New York. Oggi si direbbe che tutto il mondo è stato “appestato”, ma è la funzione della psicoanalisi che tende a cambiare, a seconda dei contesti. Se da noi, in Occidente, l’analisi tende a ricomporre le parti spesso frammentate di soggetti disorientati e privi di riferimenti sia psichici che sociali, altrove non è così. Nel mondo orientale spesso ci sono regimi totalitari o anche apparati religiosi che impongono comportamenti rigidissimi. In quelle realtà i pazienti cercano soprattutto di emanciparsi dal controllo del gruppo, di conquistare spazi di libertà individuale».
Oltre alla Preta, a Pavia prenderanno la parola analisti come Fausto Petrella e Maurizio Balsamo, Vanna Berlincioni e Daniela Scotto di Fasano, due docenti universitari – Marco Francesconi che insegna a Pavia e Livio Boni, professore a Tolosa, grande esperto della cultura indiana – ma sono attesi soprattutto gli interventi di Fethi Benslama, docente maghrebino a Parigi e fondatore dell’Association Psychanalytique Marocaine, e dell’iraniana Gohar Homayounpour, didatta del Teheran Psychoanalytic Institute. Saranno loro a dire se nel mondo la psicoanalisi sta producendo nuovi ibridi “sulle spalle di Freud” o se almeno i principi classici fondamentali restano salvi. A cominciare dalla centralità dell’inconscio nel funzionamento della mente umana – ovunque, da sempre.