sabato 1 novembre 2008

l’Unità 1.11.08
Mente sapendo di mentire
di Maria Novella Oppo


I tg di ieri ci hanno riferito la versione del governo sulle violenze di piazza Navona: una aggressione degli studenti di sinistra, alla quale i fascisti avrebbero reagito. E dire che qualche milione di spettatori avevano già visto la sera prima ad Annozero un filmato che dimostrava senza ombra di dubbio come i fascisti si fossero schierati in formazione militare, armati di mazze, in attesa dell’ordine di attacco, che è puntualmente arrivato e si è sentito benissimo anche in tv. Allora si sono mossi come un sol uomo, con i poliziotti che restavano immobili alle loro spalle. Il tutto sotto gli occhi dei giornalisti presenti al momento (che infatti lo hanno scritto). E ora, che giudizio si può dare di un governo che mente sapendo di mentire al Parlamento e al popolo? Esattamente quello che si può dare di Berlusconi, che nega non solo le verità più evidenti, ma perfino le sue stesse parole. Per lui, la satira di una Sabina Guzzanti in gran forma, non basta: a Blob l’ardua sentenza.

Corriere della Sera 1.11.08
Il sottosegretario Nitto Palma alla Camera: agenti equilibrati e prudenti
Scuola, polemica sugli scontri Il governo: partiti dalla sinistra
Ma Pd e Idv: menzogne, hanno iniziato teppisti di estrema destra
Maroni sulle occupazioni e le denunce: abbiamo acquisito relazioni dettagliate su ogni istituto
di Fabrizio Caccia


ROMA — Già a caldo, mercoledì scorso, subito dopo gli scontri in piazza Navona tra i fascisti del Blocco Studentesco e l'opposta fazione di Collettivi universitari, Cobas e centri sociali, alcuni parlamentari di centrodestra e centrosinistra (Gasparri, Pardi, Vita, Nerozzi) avevano chiesto al governo un'informativa urgente. Ieri mattina, il sottosegretario all'Interno, Francesco Nitto Palma (Pdl), 58 anni, ex sostituto della Procura di Roma, dopo aver letto il rapporto della Digos, ha svolto alla Camera il suo intervento: «Gli scontri più duri sono stati avviati da un gruppo di circa 400-500 giovani dei collettivi universitari e della sinistra antagonista, alcuni con caschi da motociclista, che è venuto a contatto con gli esponenti di Blocco Studentesco, urlando slogan contro i fascisti e poi iniziando un fitto lancio di oggetti, sedie e tavolini prelevati dai bar della piazza».
Quelli del Blocco, però, erano arrivati con un camioncino bianco Iveco, da cui poi hanno preso, per picchiare, decine di bastoni rivestiti dal tricolore. Com'è stato possibile? «È usuale che durante le manifestazioni i mezzi con altoparlanti raggiungano piazza Navona», ha detto Nitto Palma. E i bastoni «erano occultati ». Le prime tensioni — secondo la ricostruzione del governo — sono cominciate alle 11 quando, dopo reciproche accuse di aggressione tra «rossi» e «neri», gli studenti si sono fronteggiati, divisi da agenti in borghese («L' atteggiamento dei manifestanti, che urlavano slogan anche contro le forze di polizia, ha indotto a non impiegare queste ultime direttamente in piazza Navona per evitare di acuire la tensione »). Nitto Palma ha contestato anche il filmato sul web in cui si parla di un infiltrato della polizia tra i ragazzi di destra. In realtà, ha spiegato, «si trattava di un giovane del Blocco, fermato e accompagnato in questura». Ha quindi concluso elogiando l'operato «equilibrato e prudente» delle forze dell'ordine (334 gli uomini impegnati). La versione governativa, però, ha fatto insorgere opposizione e movimento studentesco. Antonio Di Pietro (Idv) parla di «menzogne» e di «atto di bassezza mediatica», Walter Verini (Pd) di «grave sottovalutazione dei fatti: teppisti di estrema destra hanno aggredito ragazzi poco più che adolescenti ». I Collettivi della Sapienza hanno annunciato una controinchiesta («Noi aggrediti per primi»).
Intanto, su «Spazio azzurro», la bacheca del Pdl su Internet, sono molti i messaggi che chiedono al premier Berlusconi di portare l'elettorato di centrodestra nelle piazze per difendere la legge Gelmini. Qualcuno lo invita perfino ad andare in pub e discoteche a spiegare ai giovani la riforma. E il ministro Maroni, che l'altro giorno aveva annunciato denunce contro chi occupa abusivamente le scuole, ieri ha aggiunto: «Abbiamo acquisito una relazione dettagliata su ogni singolo istituto. Ora valuteremo con saggezza, prudenza e il rigore che serve, perché le leggi vanno rispettate. Ma non è un'iniziativa del governo. È solo una cosa ovvia».

Corriere della Sera 1.11.08
L’altra versione. Tre del servizio d'ordine di Rifondazione: avevano già fatto tre aggressioni. Le forze dell'ordine non si sono messe in mezzo
I militanti prc: ci hanno chiamati e abbiamo sbaragliato i fascisti
di Giovanni Bianconi


ROMA — «Parliamoci chiaro: prima che arrivassimo noi c'erano già state tre aggressioni contro persone finite all'ospedale o comunque rimaste ferite. Ammesso e non concesso che ce l'avesse avuta prima, quella gente non aveva più alcuna legittimità a stare in piazza. Abbiamo chiesto che fossero allontanati, e niente. Gli abbiamo gridato di andarsene, e niente. A quel punto li abbiamo caricati e sbaragliati. Basta, finito. Inutile stare a nascondersi o girarci intorno».
Partito della Rifondazione comunista, sede della Direzione nazionale, terzo piano. Simone ha 32 anni e un linguaggio diretto. Accanto a lui ci sono Emiliano, 30 anni e quasi due metri d'altezza, e Yassir, 33 anni e una denuncia per lesioni e resistenza a pubblico ufficiale: l'hanno fermato e liberato dopo una notte passata in gattabuia. Sono impiegati del settore organizzazione del partito (quello che un tempo si sarebbe chiamato Servizio d'ordine), e mercoledi scorso erano in piazza Navona. Raccontano la loro versione dei fatti con una premessa, affidata a Emiliano: «Per noi l'antifascismo è un valore irrinunciabile. E' il fondamento della nostra Costituzione, ed essere antifascisti oggi significa difendere la democrazia, la pace e la libertà di espressione».
Anche con l'uso della violenza? Risponde Simone: «A nessuno di noi piace andare in giro a caricare i fascisti, ma capitano situazioni particolari. Come l'altro giorno. Con la polizia che non ha fatto niente per impedire lo scontro fisico». Lo interrompe Yassir: «Sono diciotto anni che partecipo alle manifestazioni, e ti assicuro che non avevo mai visto prima un fascista così da vicino. Perché sempre si sono messi in mezzo per evitare il contatto diretto, o ci chiudevano piazze o strade presidiate da loro. Stavolta invece è come se avessero detto "prego, accomodatevi". Io non penso a complotti, però qualche cattivo pensiero può venire. Anche perché questa storia è cominciata molto prima di mercoledì».
Il riferimento è ai giorni precedenti, lunedì e martedì, quando «i fascisti » del Blocco studentesco hanno conquistato la testa del corteo degli studenti medi o issato il loro striscione al sit-in davanti al Senato. «Sempre con quel camioncino bianco pieno di mazze nascoste — insiste Simone — senza che nessuno lo fermasse. Noi in quelle due occasioni abbiamo abbozzato, per evitare problemi, ma in piazza Navona, mercoledì, s'è passato il segno». Racconta Yassir: «Io stavo andando al lavoro quando mi ha telefonato un ragazzo del liceo Tasso per avvisarmi che i fascisti stavano picchiando la gente. Temevo che esagerasse, ho chiamato altre persone, e tutti confermavano le aggressioni. Parlavano di sangue. Ho radunato altri compagni e siamo andati». Insieme a quelli dell'università: «E mica sono il Settimo Cavalleggeri! — sorride Simone —. Era già previsto che venissero anche loro, hanno solo accelerato un po' il corteo ». Con il loro camioncino: «Certo — risponde Emiliano - quello c'è sempre, per gli altoparlanti e i megafoni. Mazze non ce n'erano, stai sicuro. Quando siamo arrivati abbiamo trovato la piazza terrorizzata dalle violenze precedenti e i fascisti schierati in formazione, coi bastoni pronti. A quel punto che fai?».
Già, che fai? Yassir: «Abbiamo formato un cordone e fino all'ultimo abbiamo tentato di tenerlo, ma la piazza dietro spingeva e quelli davanti aspettavano co' 'sti bastoni come fossero giocatori di baseball». E voi coi caschi in testa: «Certo, per protezione. A mani nude, però. A un certo punto non abbiamo tenuto più e c'è stato lo scontro. Coi poliziotti a godersi lo spettacolo ». Sono volate le sedie dei bar. «Di vimini... Ne vola una, ti arriva addosso, la rilanci no? A me un fascista m'ha tirato una scopa — continua Yassir —, l'ho parata, ho visto arrivare i carabinieri dall'altra parte e ho avuto paura di restare in mezzo. Mi sono lanciato tra i tavolini dei bar. Mentre correvo mi sono sentito prendere alla gola e stringere, mi stavano soffocando. Poi mi hanno buttato a terra, e mentre temevo che arrivasse una coltellata ho sentito dire "soggetto immobilizzato". Erano poliziotti, per fortuna».
Quindi sono intervenuti. «Per disperderci — puntualizza Simone —, dopo che avevamo neutralizzato i fascisti e ridotto quel camioncino come doveva essere ridotto. Questi sono doppiamente pericolosi: militarmente, perché picchiano la gente, e politicamente perché rischiano di avere un effetto catalizzatore su giovani cosiddetti "neutri", soprattutto in certe scuole e periferie, dove ci sono logiche più da comitiva che da gruppo politico, un po' da stadio». Emiliano: «Coi loro metodi: o ti adegui e fai quello che dicono loro oppure menano. A Roma da due anni le aggressioni si sono moltiplicate. Dicono di essere contro questo governo, ma non mi pare se poi spunta un sottosegretario che si appiattisce sulla loro versione. Comunque al corteo dello sciopero non si sono visti». Ancora Simone: «Noi da quando siamo rimasti senza parlamentari abbiamo molte più difficoltà a gestire la piazza, mentre loro si sentono protetti. Mercoledì qualcuno di noi s'è dovuto prendere un permesso dal lavoro per venire a cacciare i fascisti, ma ti pare normale?».

l’Unità 1.11.08
Spranghe in piazza? Normale
di Massimo Solani


Il governo: colpa dei ragazzi di sinistra. Polemica sulla ricostruzione del sottosegretario
Dal Blocco studentesco i primi atti di violenzaI filmati e le sequenze delle cinghiate

Nitto Palma: «Usuale che i camion entrino in piazza Navona per le manifestazioni». Ma che dentro ci fossero i bastoni dei fascisti era ben visibile. E su questo indaga la Procura. Il Pd: l’esecutivo ha sottovalutato.
Monca, ad essere cauti. Faziosa e volutamente miope, se si vuol essere realisti. Comunque la si guardi, la ricostruzione degli incidenti di mercoledì a Piazza Navona fatta dal sottosegretario all’Interno Francesco Nitto Palma ieri alla Camera lascia inquietanti zone d’ombra. Perché nel corso della sua ricostruzione l’ex sostituto procuratore di Roma ha puntato l’indice contro i giovani dei collettivi dando loro tutta la responsabilità e scagionando così i fascisti del Blocco Studentesco. «Alcuni indossavano caschi - ha spiegato - e invece di attestarsi nella piazza a manifestare, si sono fatti largo tra i ragazzi e si sono dapprima schierati urlando slogan contro i fascisti e poi hanno iniziato un fitto lancio di oggetti, sedie e tavolini prelevati dai bar della piazza». Alcuni esponenti del Blocco, ha continuato il sottosegretario, «ma in numero molto minore, si sono schierati ed hanno preso bastoni dal camioncino, mentre i ragazzi dei Collettivi sono avanzati venendo a contatto».
Una versione miope che, ad esempio, ha lasciato sullo sfondo come si trattasse di un dettaglio di nessuna importanza le aggressioni avvenute circa un’ora prima degli incidenti. Quando cioè i ragazzi del Blocco, come testimoniato dalla foto sopra, hanno picchiato e mandato in ospedale due persone, una delle quali refertata al Pronto Soccorso ben prima che in Piazza Navona si scatenasse il finimondo. Aggressioni che hanno poi suscitato la reazione dei collettivi universitari, accorsi in Piazza Navona per difendere gli studenti medi e ricacciare indietro (a mani nude, tanto che sono stati lanciati tavolini e sedie dei bar) quelli del Blocco nel frattempo arretrati e già posizionati in assetto da battaglia con bastoni e caschi. Il tutto senza che la Polizia muovesse un dito per intervenire. Particolari che la Digos aveva segnalato già nella sua prima informativa (una seconda prevista per ieri è stata “congelata” in attesa dei riscontri su ulteriori fotografie e filmati) che da giovedì fa parte del fascicolo di inchiesta affidato al pm Patrizia Ciccarese. Quindici le persone indagate, 21 quelle identificate ad oggi, fra loro 20 appartenenti al Blocco Studentesco.
Ma ci sono altri particolari che la ricostruzione di Palma non ha affatto chiarito. Innanzitutto la presenza in piazza del furgone del Blocco carico di bastoni e mazze (secondo la Digos occultati in una intercapedine, in realtà ben visibili a tutti già lungo il tragitto del corteo): «È usuale - ha sottolineato infatti il sottosegretario - che durante le manifestazioni i mezzi con altoparlanti raggiungano piazza Navona». Non è dello stesso parere la procura che, al contrario, sta proprio cercando di capire chi abbia dato il permesso ai mezzi (c’era anche un sound system dei centri sociali) di entrare in una zona normalmente off limits. Ma nel suo intervento Palma ha scagionato da ogni addebito la Polizia («L’atteggiamento dei partecipanti che urlavano slogan contro le forze dell’ordine - ha spiegato - ha indotto a non impiegare queste ultime in piazza per evitare di acuire la tensione») negando che fra i ragazzi fermati e appartenenti al Blocco ci fosse anche un agente infiltrato. Una ricostruzione che ha scatenato la bagarre in Aula e fuori. «Decine di teppisti appartenenti a Blocco Studentesco hanno aggredito armati di mazze e bastoni ragazzi poco più che adolescenti - ha commentato il deputato del Pd Walter Verini - la ricostruzione del governo è molto al di sotto della gravità dei fatti». «Non si può mentire per sempre», ha accusato il leader dell’Idv Antoni Di Pietro secondo cui quanto dichiarato da Nitto Palma mostra «una bassezza mediatica legata al tentativo di attribuire la colpa dei tafferugli ai giovani di sinistra».

l’Unità 1.11.08
L’agente: «Infiltrati? Probabile, vogliono far salire la tensione»
di Malcom Pagani


Dai dirigenti ho sentito frasi para eversive: macché costituzione

Si aspetta la domanda, non sembra stupito. «Infiltrati in Piazza Navona e nel movimento? Molto probabile. La protesta studentesca dà fastidio e lo scopo finale è quello di alzare la tensione». Il poliziotto che accetta di parlare con la garanzia dell'anonimato, ha molti anni di esperienza nell'ordine pubblico e un dubbio, diventato certezza col passare delle ore: i ragazzi di «Blocco studentesco» hanno avuto vita facile. «Li hanno lasciati fare. I dirigenti presenti sono stati blandi e volontariamente disattenti. Avrebbero dovuto sequestrare le mazze e denunciare i possessori». Non è successo. «Destra e sinistra c’entrano relativamente. È una questione di legalità». I segnali provenienti dall'esecutivo, dichiarazioni di Maroni e Berlusconi in testa, farebbero pensare ad un inasprimento delle tensioni pronto a deflagrare in tempi stretti. L'uomo in divisa, allarga il campo del ragionamento. «In teoria, il governo non avrebbe bisogno di utilizzare certi metodi ma l'incapacità di alcuni dirigenti di PS e la voglia di legittimarsi davanti ai nuovi padroni, potrebbero produrre un corto circuito. Di servi sciocchi, è pieno il mondo. In molti vanno oltre il proprio mandato e quando sentono parlare di legalità, girano le spalle». Un quadro sconsolante. «Ho sentito con le mie orecchie, dirigenti di un certo peso arringare i giovani sottoposti con gli argomenti sbagliati: "Ma quale Costituzione? Se dobbiamo arrestare, arrestiamo. Se dobbiamo produrre prove, le costruiamo dopo”». Squarci inquietanti. «Purtroppo credo che andrà a finire male. Ci sono poliziotti esasperati, provati da turni massacranti e in piazza viene utilizzato anche il personale di norma impiegato negli uffici. La gente stanca è meno disponibile al dialogo e accade di sbagliare o spaventarsi. Basta una sola scintilla, come a Genova». «Sa qual’è la verità? Siamo troppo vicini a una pozzanghera e gli schizzi finiscono per colpire chiunque».

l’Unità 1.11.08
Servizi, squadristi e X Mas: la strategia della provocazione
di Aldo Giannuli


Destra estrema e forze dell’ordine: contiguità degli anni 70
1977 Negli scontri tra autonomi e polizia muore la studentessa Giorgiana Masi

Roma 9 novembre 1963, il corteo sindacale è arrivato a Piazza Santi Apostoli, la manifestazione inizia a sciogliersi, i militanti arrotolano bandiere e striscioni mentre il palco viene smontato. All'improvviso, incomprensibilmente, scoppia un parapiglia. Sembra una rissa fra pochi manifestanti, poi man mano ne giungono altri e, dopo poco, gli scontri dilagano. Polizia e carabinieri intervengono con brutalità e la manifestazione finisce fra le manganellate ed il fumo acre dei lacrimogeni. I dirigenti della Cgil non capiscono come sia potuto succedere, sono disorientati come anche i dirigenti del Partito comunista e del Partito socialista. Maggior fiuto mostra Ferruccio Parri - futuro presidente della Sinistra indipendente - che sente odore di provocazione. I fatti gli daranno presto ragione: durante l'inchiesta sul Sifar (il servizio segreto militare dell'epoca), si scoprirà che gli incidenti erano stati provocati ad arte dalle «squadrette» reclutate da un alto dirigente del Servizio, il colonnello Renzo Rocca, fra giovani fascisti e veterani della X Mas. La polizia aspettava solo un pretesto per intervenire.
Stava per formarsi il primo governo di centrosinistra. Una svolta che suscitava aspettative «pericolose» fra lavoratori i quali, dopo anni di stretta salariale, pensavano fosse giunto il momento di una spallata rivendicativa. Dunque, meglio stroncare le cose sul nascere: quegli incidenti erano giunti opportuni.
Non fu l'unico episodio periodo: era venuto in visita a Roma il presidente del Congo Moise Ciombe - su cui gravava la responsabilità morale dell'assassinio del leader progressista Patrice Lumumba - e la Federazione giovanile comunista italiana aveva organizzato una manifestazione di protesta, che i teppisti di Avanguardia Nazionale avevano attaccato a freddo. Quando i giovani comunisti, riavutisi dalla sorpresa, reagirono, i cordoni della polizia si aprirono per far passare i fascisti e poi si richiusero per caricare i manifestanti.
Scene che si vedranno a Valle Giulia, il 1° marzo 1968, dopo che la spedizione squadristica guidata da Giorgio Almirante e Giulio Caradonna era stata respinta dagli studenti. Poi a Bologna il 18 giugno 1969 (dove gli incidenti furono scatenati dal Fuan, il Fronte universitario anticomunista nazionale, organizzazione fiancheggiatrice del Movimento sociale italiano). Dopo, ancora a Milano, durante i funerali dell'agente Antonio Annarumma, il 21 novembre 1969, quando il leader del Movimento studentesco Mario Capanna corse il rischio d'esser linciato. E poi cento altre volte ancora, per tutti gli anni Settanta. Magari con qualche variante, come il 12 maggio 1977 quando, in uno scontro a fuoco fra «autonomi» e polizia, fu uccisa Giorgiana Masi, una studentessa di 19 anni. Tra gli «autonomi» armati, ne venne fotografato uno che poi fu individuato come agente di polizia.
Era una fase storica particolare, nella quale le forze dell'ordine, come per una macabra par condicio, colpivano anche l’estrema destra. Accadde a Roma, in via Acca Larentia, dove i carabinieri intervenuti dopo l’assassinio di due militanti del Movimento sociale da parte delle Brigate rosse, aprirono il fuoco contro gli stessi missini che protestavano, uccidendone uno.
Un fatto, come si diceva, accaduto in un momento storico particolare. Perchè di rado l’estrema destra e le forze dell’ordine si sono scontrate. Il tema ricorrente è stato, al contrario, quello dell’incontro. Una vicinanza che trova le sue radici nella comune lotta contro comunisti le sinistre. Non dimentichiamo il problema storico della continuità della polizia dei primi anni della Repubblica con la polizia fascista.
Certo da una ventina d'anni la polizia è cambiata, sia per il livello culturale degli agenti e dei funzionari, sia per la composizione sociale ed anche per le simpatie politiche dei suoi componenti, oggi ben più distribuite fra i diversi partiti. Sarebbe sbagliato non capirlo. Ma si non si può tacere il fatto che determinati ordini, o più semplicemente, certi segnali del potere politico trovino ancora terreno accogliente e possano andare a risvegliare antichi umori che, anche se assopiti, non sono del tutto scomparsi. A volte basta un’intervista, una dichiarazione appena accennata.

l’Unità Lettere 1.11.08
Il Pci era per la fermezza
di Francesco Cossiga


Cara Direttore,
Vorrei che tu mi spiegassi una cosa. Perché gli ex-comunisti o i loro ex - contigui vogliono nascondere agli altri ed anche a se stessi, che il PCI è stato il più rigido sostenitore del «pugno duro» in materia di ordine pubblico, che è stato il mio più forte sostenitore quando ero ministro dell’Interno, che plaudì in Parlamento quando io feci sgomberare «manu militari» l’Università di Roma dai «pacifici occupanti» dopo la cacciata di Lama a suon di cubetti di porfido (leggere il bel libro di Lucia Annunziata… per credere!) e quando «liberai» l’università e la città di Bologna con il glorioso Reparto Celere di Padova, i ragazzi dell’allora Battaglione Carabinieri Paracadutisti «Tuscania» e il Battaglione Mobile moto-corazzato dei Carabinieri «Gorizia»? E perché gli ex-comunisti o i loro ex-contigui vogliono nascondere agli altri ed anche a se stessi, che il PCI è stato il sostenitore della linea della fermezza durante il doloroso caso Moro?
Comprendo l’amico Fassino quando per giustificare la diversa linea di condotta nel caso del cronista giudiziario de La Repubblica sostenne che nel caso Moro si era sbagliato a rifiutare la trattativa con le Brigate Rosse: ma oggi non è in ballo un governo o il sostegno del Gruppo La Repubblica-L’Espresso al centro-sinistra. Perché, allora? Cordialmente.

il Riformista 1.11.08
Errata corrige per un titolo sbagliato
«Cuori neri spaccano teste rosse», ha titolato il Riformista all'indomani degli scontri tra studenti di destra e di sinistra a piazza Navona


Cuori neri spaccano teste rosse», ha titolato il Riformista all'indomani degli scontri tra studenti di destra e di sinistra a piazza Navona. A ripensarci col senno di poi, non era il titolo giusto. Era un titolo suggestivo, musicale, forse brillante, ma giornalisticamente sbagliato.
In primo luogo, perché restituiva l'idea di un'aggressione a senso unico di una parte politica verso l'altra. Ma soprattutto, cosa ancora più importante, perché non rispecchiava fedelmente il contenuto dell'articolo, dove invece si raccontava chiaramente che, se ad accendere la miccia della violenza di piazza era stato il tentativo violento dei neofascisti del Blocco studentesco di porsi alla testa del corteo (come dimostrano anche le foto pubblicate su questo numero a pagina sei), a scatenare la guerriglia vera e propria, quella poi ripresa da fotografi e telcamere, era stato il successivo arrivo della "spedizione punitiva" dei collettivi di sinistra provenienti dall'università.
Così sono andate le cose, e alla fine di «teste rosse» - per le conseguenze della bastonate - e di responsabilità nella degenerazione della manifestazione ce n'erano dall'una e dall'altra parte. Noi l'abbiamo scritto, e ora ci rassegniamo alla necessità che la verità dei fatti non sia compromessa dalla bellezza di un titolo.

l’Unità 1.11.08
Apocalisse Ricerca: «La destra cancella il futuro»
Il Paese rischia di subire danni irreversibili
Forum con Fabio Mussi
di Andrea Carugati e Eduardo Di Blasi


500.000 euro: è quanto costa allo Stato preparare un ricercatore calcolando
la sua formazione dalle elementari al dottorato
460 milioni di euro: è quanto ha investito in due anni il governo Prodi in ricerca. Il governo Berlusconi sta andando nella direzione opposta: quella dei tagli
3° Il posto occupato dall’Italia nella classifica mondiale di produttività
dei nostri ricercatori e che tiene conto della qualità del lavoro svolto. Nonostante le difficoltà
20%ll tasso di crescita annuale degli investimenti in ricerca della Cina. L’India investe il 7% del Prodotto interno lordo e il Brasile ha già raggiunto l’Italia
40%I ricercatori italiani precari o senza contratto che lavorano al grande progetto Lhc (Large Hadron Collider) in corso al Cern di Ginevra

Fabio Mussi, che giudizio dà della manifestazione di giovedì sulla scuola?
«Mi sono fatto da manifestante il corteo. Era tanto tempo che non vedevo una cosa così. Questo è un movimento che è salito dalla società italiana, che coinvolge studenti, ricercatori, maestri, personale non docente della scuola, famiglie. L’onda è una metafora assolutamente appropriata. È un movimento che chiede più scuola, più sapere, più scienza. Si muove su una frontiera molto avanzata della civiltà umana. Ed è un buon segno perché vuol dire che questa non è una società normalizzata. In genere Berlusconi si arrabbia quando ci sono fischi e non applausi. Ma tanti fischi così non se li aspettava. La scuola è un nervo scoperto, e non accorgersene è un sintomo dell’incapacità di questo governo a comprendere il Paese. Uno si avvolge nella rete dorata della rappresentazione che gli viene di rimbalzo dalle sue televisioni, si immagina che il mondo sia come lui lo crea. E invece è diverso. E lì non capisce più. Da qualche giorno è cambiata la faccia del capo del governo. Si vede che è scosso. Le reazioni sono scomposte».
Quali conseguenze avrà la legge 133 sull’università?
«Dobbiamo essere sinceri. È un pezzo che i governi italiani non hanno scuola, università e ricerca come priorità. Compreso il governo di cui ho fatto parte. Naturalmente quelli che sono attualmente in carica, se non saranno fermati faranno un disastro irreversibile. Mentre, francamente, noi disastri irreversibili non ne abbiamo combinati».
Marco Bruni, docente all’istituto di Cosmologia e gravitazione di Portsmouth, Gran Bretagna, chiede via e-mail perché il governo Prodi abbia dato 700 milioni alla ricerca privata invece che a quella pubblica.
«Il governo Prodi ha investito sulla ricerca 160 milioni il primo anno e 300 quello successivo: io ho protestato perché erano cifre inadeguate per recuperare il ritardo che avevamo accumulato. Certo, avevamo promesso di fare meglio. Tuttavia c’è stato un «più». I fondi di cui parla Bruni facevano parte del programma “Industria 2015”, volto al sostegno dell’innovazione e della ricerca nel sistema economico e delle imprese. Ma la ricerca pubblica non è stata definanziata».
Un’altra critica che emerge dalle e-mail riguarda i temi del nepotismo, dei concorsi, della meritocrazia.
«Il regolamento sui concorsi universitari, da me disegnato, prevedeva innanzitutto un piano straordinario di assunzioni di ricercatori: 20-40-80 milioni in 3 anni, in cofinanziamento, per 4500 nuovi ricercatori. Ho fermato i concorsi per cattedratici e ho riaperto quelli per ricercatori. C’era però il problema di evitare accordi preventivi sui posti da assegnare, per garantire la serietà dei concorsi. Il criterio scelto era quello della “Peer review”, rivista tra pari. Per prima cosa stabilivamo un principio: per un posto un solo vincitore, due posti due vincitori. Niente sistema degli “idonei”, vale a dire quella massa che preme e che poi si fa entrare per legge. Il Parlamento ha votato per ripristinare gli idonei su pressione di An ma con vasti consensi trasversali. Il secondo principio prevedeva la creazione di liste nazionali e internazionali di valutatori. Per entrare nelle liste si doveva fare domanda e si veniva accettati sulla base dei curricula. C’è un posto di ricercatore? Fanno in venti la domanda e vanno al concorso i cinque che hanno ricevuto in base al curriculum le valutazioni migliori. A giudicare sono valutatori anonimi estratti a sorte da queste liste. Noi l’avevamo fatto, con la destra sulle barricate. Ma la Corte dei conti l’ha bocciato durante la crisi di governo, e a quel punto non era più possibile fare nulla».
Il ministro Gelmini dice di voler premiare valutazione e merito...
«Come? Il nostro era un sistema basato sulla valutazione e sul merito. Intanto la Gelmini l’ha bloccato, quando bisognava solo avviare le procedure. E ha bloccato anche l’agenzia di valutazione, l’Anvur. un ente terzo rispetto all’università e al governo, perché definita “elefantiaca”, quando aveva solo 7 persone di staff e un po’ di personale preso dal ministero».
Matteo Palutan: «Io lavoro per l’Istituto di Fisica Nucleare che è impegnato in prima linea nel progetto del Cern sull’acceleratore di particelle. L’Italia ha investito negli ultimi 10 anni un miliardo di euro in questo progetto, di cui metà è tornato alle imprese italiane in commesse ad alto contenuto tecnologico. I ricercatori italiani sono in prima linea in questo progetto, basti pensare che il prossimo direttore di ricerca del Cern è del nostro ente. Da noi il 30% dei ricercatori che lavorano in questi progetti così importanti è precario. Un altro 10% è fatto di studenti di dottorato. Dunque c’è un 40% di giovani, se così si può dire a 40 anni, che non potranno essere assunti a tempo indeterminato. Questo mentre tutti gli altri Paesi si stanno attrezzando per raccogliere i frutti (noi come Italia abbiamo costruito il 20% del progetto del Cern) del lavoro svolto in questi anni. Nel nostro caso non è tanto un problema di soldi, ma di sbloccare l’accesso dei giovani alla ricerca. E qui vengo alle domande. Il centrosinistra aveva deciso di puntare sull’università e sulla ricerca. Poi, quando è andato al governo, ha continuato a fare un discorso di contabilità. Certo, è stato fatto un tentativo serio di risolvere il problema di questo eccesso di precari, mettendo in moto il processo delle stabilizzazioni e investendo soldi in più per assunzioni straordinarie, anche se pochi. Poi, di fatto, è però iniziato un calvario che è durato mesi in cui ogni giorno ci si domandava se Mussi avesse firmato o meno i regolamenti... Insomma è stato un processo lento. Poi, chiaramente lo scenario oggi è cambiato: adesso ci dicono che i ricercatori non servono a nulla. Nel mio laboratorio su 20 ricercatori precari, 4 sono andati all’estero trovando posto. Non abbiamo problemi a competere con il mondo, a scrivere su riviste internazionali: ci scriviamo una volta al mese. Ma non vediamo il motivo per dovercene andare».
Mussi: «I nostri 20 mesi al governo sono stati molto faticosi. Le cose fatte sono state inferiori alle attese dei nostri elettori. Oggi però ci aspetta l’apocalisse per la ricerca: il mondo dell’università l’ha capito, non sono sicuro che i cittadini italiani ne siano consapevoli. Per capirlo bisogna guardare il decreto Brunetta, la 133 e gli annunci del ministro Gelmini. Il decreto Brunetta abroga la legge del 2001 che aveva esteso alla pubblica amministrazione la possibilità di contratti di lavoro flessibile. Nell’Università c’era stato un boom di questi contratti: ora la norma prevede che, alla scadenza, questi contratti non siano più rinnovabili. Anche per quelli che non hanno scadenza e sono legati a progetti di ricerca: scadono a giugno 2009. Su 70mila ricercatori circa la metà hanno contratti flessibili. Quelli che scadranno non saranno rinnovati. E non ci sarà possibilità di trovare altri accessi, perché gli accessi sono chiusi. Mi spiego: gli enti di ricerca devono ridurre del 10% il loro personale. Il turn-over nelle università è di uno su cinque: ma se escono 5 professori e entra un ricercatore non è uno a 5 ma uno a 10 in termini di costi. Avremo un corpo docente fatto sempre meno da giovani e da ordinari vecchissimi, non sostituiti da nuovi ingressi. Infine, il taglio di 1,4 miliardi di euro alle università da qui al 2013 farà sì che si comincerà a tagliare sui posti di dottorato e di ricercatore e non ci saranno più concorsi. Di più: la Gelmini vuole bloccare i concorsi in atto per 3mila ricercatori. In poco tempo saranno per strada 30mila ricercatori che sono la spina dorsale del sistema della ricerca in Italia. È un delitto inimmaginabile, apocalittico. Questo vuol dire che noi non parteciperemo più alla ricerca del Cern, che non potremo più fare ricerca sui tumori in istituti come il Mario Negri. Chiudono tutto. Ci rimarrà l’”Isola dei famosi” e la “Talpa”. È una cosa che merita un’insurrezione: ammazzano un’intera generazione e quelle dopo che verranno. Io sono qui anche per prendermi in carico le nostre colpe, ma la destra sta preparando l’apocalisse».
Giulia Marinello: «Io temo la trasformazione delle università in fondazioni private: così si distrugge il ruolo pubblico della formazione. Solo la ricerca pubblica può lavorare in tutti i campi. Quella privata rischia di essere settoriale e controllabile».
Ti senti parte della generazione che non avrà un posto?
Giulia Marinello: «Io vorrei fare l’ingegnere in Italia, occuparmi di fonti rinnovabili. Ma c’è una politica miope, che punta solo a chiudere i bilanci e non guarda al futuro: se vorrò lavorare nel mio campo sarò costretta ad andarmene all’estero. Eppure lo Stato per formarmi spende almeno 10mila euro...»
Mussi: «Ti correggo, un ragazzo che ha concluso il dottorato costa dalla scuola elementare in poi 500mila euro. Eppure capita che regaliamo persone ad altri Paesi per risparmiare 50 euro di stipendio di un ricercatore... La ricerca è un investimento altamente produttivo: per ogni dollaro investito se ne producono 3. Ma non può dipendere solo dall’utilità economica, deve spaziare dalla vita degli Assiri a quella delle formiche. Per questo serve una forte ricerca pubblica. Il problema però è un altro: la borghesia italiana non mi pare interessata. Si preferisce investire 50 milioni per un centravanti. Da noi Mecenate è morto e non ci sono Guggenheim e Rockefeller. Perché dunque le Fondazioni? Sono la via alla chiusura di una parte del sistema universitario per fallimento. Il rettore del Politecnico Profumo ha paragonato la cura Gelmini al digiuno per gli anoressici: li affami, li costringi a cercare fondi. Ci saranno poche università che riusciranno a sopravvivere sul mercato. Altre no, Chiuderanno».
C’è il problema della proliferazione degli insegnamenti: tutti parlano di quel famoso corso di berbero con un solo iscritto...
«Sotto il precedente governo Berlusconi le sedi universitarie sono passate da 290 a 360. Non abbiamo troppi atenei, ma troppe sedi: su questo siamo intervenuti con la finanziaria 2007 bloccandone la proliferazione. Sempre sotto il governo Berlusconi i corsi sono passati da 4400 a 5600: è evidente che con il 3 più 2 fossero destinati ad aumentare, ma così è troppo. Io ho fissato per legge il numero massimo di esami: 30 per la triennale, 12 per la specialistica. Abbiamo alzato gli standard per tenere aperto o aprire un corso: prima se aprivano in quantità, soprattutto con professori a contratto che sono arrivati fino a 38mila: docenti con contratti da 500, 1000 euro l’anno. Noi abbiamo stabilito che un corso si può aprire solo se c’è la metà dei docenti strutturati. Un governo deve limitarsi a questo: fissare regole generali per impedire gli abusi. La politica non può decidere sui singoli corsi da chiudere, sarebbe un grave rischio. Grazie al nostro decreto il numero dei corsi si ridurrà del 25-30%».
Michele Prospero: «Io contesto il mito della funzione economicistica dell’università, con tutto il lessico aziendalista che ne è seguito. Il punto di svolta è stato il 3 più 2, con il principio della concorrenza tra gli atenei che arrivano a spendere il 20% dei loro fondi in pubblicità. Credo che per combattere la mediocrità il problema principale sia cambiare il sistema dei concorsi: ci sono cervelli che andrebbero incentivati alla fuga, che devono la carriera solo alla fedeltà ai potenti. Possibile che nei concorsi ci sia sempre un solo candidato per ogni posto? L’outsider che si presenta viene invitato dal barone a ritirarsi, e questa pratica non ha colore politico. Oggi è in voga un altro fenomeno: quello che vede i professori descritti come una casta di privilegiati. Un ricercatore stabilizzato arriva a prendere 1600 euro al mese, come il consigliere di un municipio di Roma, un associato o di prima fascia da 2500 a 3200 euro. Ci sono però alcuni professori che approfittano del loro ruolo per svolgere altri mestieri, consulenze o attività private. Perché queste figure non vengono inquadrate diversamente, con contratti di diritto privato, liberando migliaia di posti per docenti e ricercatori?
Mussi: «Anch’io trovo insopportabile il linguaggio aziendalista, il discorso dei crediti mi fa pensare a una banca. L’applicazione del 3 più 2 è andata fuori strada, ma l’impianto dei tre livelli di laurea (triennale, specialistica e dottorato) oggi è applicato da 47 Paesi. Non sono contrario alla concorrenza, ma bisogna stare attenti a quale tipo di concorrenza: ad esempio non condivido il criterio che premia gli atenei che incrementino di più il numero degli studenti. Questo ha scatenato un effetto devastante come le lauree in convenzione che hanno creato un meccanismo di favori tra gli atenei e alcune categorie professionali. Io iscrivo in blocco i miei associati e tu mi regali dei crediti: se sei poliziotto 120, giornalista 110, dipendente della Regione Sicilia 124, della Uil di Messina 110...».
C’è poi il caso degli atenei che bocciano meno per attirare un maggior numero di iscritti...
«C’è anche questo rischio: si boccia meno e arrivano tutti i Gelmini d’Italia. Anche il ministro ha fatto l’esame da avvocato a Reggio Calabria perché era più semplice. Insomma, la concorrenza ad accaparrarsi iscritti può anche provocare un abbassamento della qualità».
Oltre ad appoggiare le proteste cosa propone oggi il centrosinistra? Tante mail segnalano delusione nei confronti delle politiche del governo Prodi su scuola e università.
Mussi: «Anch’io mi aspettavo di più».
Giulia Marinello: «Noi studenti stiamo manifestando da diverse settimane, ma perché i partiti del centrosinistra si sono mossi solo dopo di noi? Dov’erano finora? L’opposizione l’abbiamo svegliata noi».
Mussi: «Intanto bisogna capire bene che cosa è oggi il centrosinistra, o quel che ne resta: io spero che si ricostruisca. Comunque capita spesso che i partiti arrivino sulle questioni dopo che la società si è già mossa. Per gli studenti questo deve essere considerato un successo: avete costretto la politica a misurarsi con il vostro movimento. Ora il problema è che la politica rafforzi la sua iniziativa per ottenere risultati: ci sono infiniti altri passaggi prima di un eventuale referendum, a partire dalla finanziaria. Purtroppo la formazione è sempre una priorità del centrosinistra prima delle elezioni. Dopo è un‘altra cosa...».
Vede analogie tra questo movimento e quello del ‘68?
«Allora c’era una più forte politicizzazione di partenza: il Vietnam, Franco, i colonnelli, Praga, la Russia e l’America, l’autoritarismo familiare. Oggi c’è più il merito della questione universitaria, della conoscenza. Penso che il movimento assumerà forme politiche, è uno sbocco inevitabile, ma sarà diverso dal ‘68. Potrebbe anche essere potenzialmente più produttivo».
Si può creare attorno al tema della scuola un nuovo blocco sociale in grado di incrinare quello della destra?
Mussi: «Con la crisi finanziaria siamo arrivati a un punto di rottura dello sviluppo: il “turbo-capitalismo” non funziona più. È un sistema che ha spremuto plusvalore dal lavoro riducendolo alla merce più vile e concentrando la ricchezza nelle mani di quella che Robert Reich, ministro di Clinton non un “no global”, chiama la “superclasse”, la infima minoranza che possiede metà della ricchezza globale. Questa idea oggi è in frantumi. Ma adesso da dove si riparte? O dalla guerra, come è avvenuto nel Novecento, o dalla triade lavoro, risorse naturali e conoscenza. In questa triade c’è un’altra idea di società umana. E l’Italia che contributo porta in questa discussione? Se taglia l'istruzione è evidente che strada intende prendere».
Qual è l’opinione di Mussi sulla proposta di abolizione del valore legale del titolo di studio che trova consensi anche tra intellettuali vicini al Pd, come Ichino e Salvati?
«In Europa quasi ovunque c’è il riconoscimento del valore legale del titolo. Poi le imprese, naturalmente, assumono chi vogliono: non ci sono vincoli. L’idea di abolirlo è puramente ideologica, anche da parte dei cosiddetti riformisti».
In Italia i tentativi di mettere mano ai meccanismi di potere dell’università sono sempre falliti. C’è un interesse diffuso, bipartisan, nella difesa della casta dell’università. I baroni sono più potenti dei politici?
«C’è un aspetto castale del potere accademico che non è stato corretto. Nel 1972 ero responsabile dell’università del Pci, parlai al professor Eugenio Garin della questione dei concorsi a scatola chiusa. Lui mi rispose: “Ci mancherebbe altro che una cosa così delicata come un concorso fosse affidata al caso...”. Eppure stiamo parlando di un grande maestro... È chiaro che chi governa l’università esercita un potere, ma bisogna democratizzarne le forme. Ad esempio i rettori non dovrebbero cambiare gli statuti per restare al loro posto per più di due mandati. Non si rendono conto di quanto questo produca un danno nell’opinione pubblica».
Matteo Palutan: «In fondo chi farà le spese di questa crisi è la parte più giovane dell’università...».
Mussi: «Mi fa impazzire quando la destra dice che gli studenti in piazza difendono i baroni: il meccanismo dei tagli, così come è stato pensato, è fatto per escludere i giovani. Attualmente con i fondi per il diritto allo studio si copre solo il 70% degli aventi diritto. Nel 2010, con la 133, se ne taglierà un terzo. E con i tagli a Regioni ed enti locali scenderemo sotto la metà degli aventi diritto. Il potere dei baroni non sarà scalfito».

Repubblica 1.11.08
"I neonati non sono persone", choc a Firenze
La tesi di un primario al convegno sulla bioetica. E scoppia la polemica
"La frase presa da un libro di Engelhardt, influente bioeticista texano"
di Michele Bocci


FIRENZE - La destra aspettava con il fucile puntato le parole del medico olandese Eduard Verhagen, autore della Carta di Groningen che ipotizza l´eutanasia per i neonati sofferenti e senza speranza, e invece a scuotere il discusso convegno "Le sfide della neonatologia alla bioetica e alla società" è stato un neonatologo italiano. Gianfranco Vazzoler, primario di Pordenone e membro della Consulta di bioetica della città, nel suo intervento di ieri ha detto che «I feti, i neonati, gli infanti, i ritardati mentali gravi e coloro che sono in uno stato vegetativo permanente, costituiscono esempi di non persone umane. Tali entità fanno parte della specie umana, ma non sono persone». Il titolo della sua relazione, "Il neonato è persona?", non prometteva bene e ha smosso il neocardinale Giuseppe Betori, che aveva fatto cenno a quella frase nella sua visita di domenica scorsa all´ospedale pediatrico Meyer, dove ieri e giovedì si svolgeva l´incontro. «Il neonato non è una persona, perché persona è chi ha autocoscienza, senso morale e razionalità � ha detto Vazzoler, anche a margine dell´incontro - In certi casi gravi di bambini malformati, potrebbe essere ragionevole accettare, come in Olanda, l´eutanasia».
La prima replica alle parole del medico è arrivata già al convegno. Gianpaolo Donzelli, ordinario di neonatologia a Firenze, ha definito quelle di Vazzoler «tesi personali, senza alcun fondamento scientifico ed etico». Duro anche il direttore dell´ospedale Paolo Morello. «Si tratta di parole offensive e inaccettabili, da cui prendiamo le distanze con fermezza».
Contro le affermazioni del medico di Pordenone si sollevano le associazioni di volontariato. Fish ne raccoglie una cinquantina tra cui l´Anffas, che si occupa di disabilità intellettive. Il suo presidente Pietro Barbieri spiega: «Qui sembra esserci un´idea economicista per cui non vale la pena assistere alcune persone. Il 3 maggio di quest´anno è entrata in vigore la convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità che afferma con estrema chiarezza, e in senso laico, il diritto intrinseco alla vita». Padre Maurizio Faggioni, nei comitati etici della fondazione del Meyer e del Bambin Gesù di Roma, insegna bioetica all´Accademia Alfonsiana di Roma. «La frase è stata presa da un libro di Engelhardt, influente bioeticista texano che dice essere soggetto morale solo chi è capace di razionalità. Ma per me ogni appartenente alla famiglia umana merita rispetto. Introdurre distinzioni all´interno di questa comune appartenenza significa introdurre una discriminazione e mina il convivere civile, che si basa sul rispetto della dignità essere umano al di là di qualità«. Sandro Spinsanti è presidente del comitato etico degli Ospedali Riuniti di Bergamo e direttore della rivista specialistica Janos. «E´ molto insidioso e ambiguo partire dalle parole � spiega - compresa una così altisonante come "persona". Bisogna partire invece dalle relazioni. Escludere dal consorzio umano in base ad una definizione a priori certi esseri umani è molto offensivo per chi invece investe energie per mantenere queste relazioni. La bioetica dovrebbe partire più dal concreto, dalla clinica, dalle relazioni umane e meno da definizione astratte e aprioristiche».

Corriere della Sera 1.11.08
Berlusconi e la paura del «novembre caldo»
La linea del capo del governo: ora varare provvedimenti che smorzino la tensione
di Francesco Verderame


Per la prima volta nei sondaggi Silvio Berlusconi accusa un calo nel gradimento personale, «perché la faccia sui tagli ce la metto io», perché è lui il premier, ed è su di lui che si scaricano le tensioni sociali, le incertezze di un Paese che non sa come e quando uscirà dalla crisi.
Sapeva che sarebbe andato incontro a un autunno caldo e a un inverno rigido per i morsi dell'emergenza economica, l'aveva messo in conto già in campagna elettorale. Ma se ieri fosse saltata la trattativa su Alitalia, il Cavaliere avrebbe «perso la faccia», come ha detto Umberto Bossi, e le ripercussioni sul governo sarebbero state pesanti. Perché sull'italianità della compagnia di bandiera aveva scommesso, e il fallimento di Az avrebbe provocato un pericoloso cortocircuito politico, amplificato mediaticamente — agli occhi dell'opinione pubblica — dagli scioperi della scuola, degli statali e dei metalmeccanici.
Raccontano che nelle ore più convulse Berlusconi abbia voluto capire se una «manina politica» si fosse inserita nei delicati equilibri della vertenza tra Cai e sindacati, e che l'incontro con Roberto Colaninno sia servito proprio a dissipare quei dubbi: il sospetto di «una trappola» scattata quando non ci sarebbe più stato il tempo per rimediare. Dubbi e sospetti che albergavano anche nella mente di Gianni Letta, a cui il premier aveva affidato il dossier. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio si attaccava al telefono, furente con «i sindacati confederali che fanno i furbi» e con quei «banchieri e industriali che ora si lamentano » per gli equilibri ai vertici della compagnia: «Ora, solo ora, dopo mesi che discutiamo...
». Nulla lasciava presagire simili rischi, se è vero che nei giorni scorsi Berlusconi aveva affrontato l'argomento con Bossi, offrendo «garanzie» sul partner straniero di Alitalia. «Anche Letizia Moratti è della stessa idea, bisogna puntare su Lufthansa», aveva chiesto il capo del Carroccio, e il Cavaliere lo aveva rassicurato. Insomma, non era questo il fronte che lo preoccupava, ed ormai erano lontani i giorni in cui nel governo aveva suscitato scalpore l'assenza di Giulio Tremonti dal tavolo della trattativa. «Se mi fossi seduto lì — aveva spiegato il ministro dell'Economia — avrei accreditato l'idea che lo Stato potesse intervenire per acquistare la compagnia».
Erano e restano altre le emergenze che deve fronteggiare il premier, chiamato a dare risposte al Paese e alla sua maggioranza sulla crisi. Perciò non sono state casuali ieri le sortite dei capigruppo del Pdl, con Maurizio Gasparri che ha definito «prioritaria la difesa del potere d'acquisto per le famiglie » e Fabrizio Cicchitto che ha parlato di «misure allo studio da parte del governo ». Un classico gioco delle parti, con cui si punta a sgretolare il muro issato da Tremonti a tutela dei numeri della Finanziaria. Un'operazione combinata e assecondata da Berlusconi, convinto che l'unico modo per rispondere all'offensiva di piazza della Cgil e del Pd sia «varare misure che smorzino la tensione».
È ormai chiaro che nel centrodestra si confrontano due modi diversi di approcciare la crisi, e Tremonti — conscio dell'accerchiamento — non è rimasto fermo. Da qualche tempo ha stretto rapporti con i leader sindacali contrari alla «deriva massimalista » della Cgil, ed è con loro che ha ragionato sul «nuovo mondo»: «Con il crollo del sistema siamo entrati in un mondo sconosciuto. L'impatto della crisi sul comparto produttivo sarà pesante e noi dovremo salvare il patrimonio umano». Evocando i lavoratori, Tremonti ha fatto presa sugli interlocutori, assicurando risorse al ministro del Welfare Maurizio Sacconi per la cassa integrazione. E Sacconi, insieme a Tremonti, è stato ospite del convegno organizzato dalla fondazione Nuova Italia di Gianni Alemanno per un dibattito sull'economia sociale di mercato.
Chissà se il titolare di via XX settembre ha illustrato la sua visione del futuro anche a Massimo D'Alema, con cui coltiva un intenso rapporto culturale, è certo che ai sindacati ha promesso di impegnarsi a favore delle fasce più deboli, come i non auto- sufficienti. Renata Polverini dell'Ugl confida che «arrivino risposte concrete»: «Il confronto è utile, ed è importante che le proposte siano condivise prima». Tremonti è pronto alla contromossa, la prova sta nel breve intervento pronunciato ieri in Consiglio dei ministri: «Nel 2009 persino la Germania non crescerà. È con questo che dovremo fare i conti. Perciò, se pensassimo di muoverci con l'intento di invertire il ciclo economico, sappiate che il ciclo non lo invertiremo. Diverso è il ragionamento se volessimo muoverci per far vedere che cerchiamo di dare un po' di respiro alle famiglie, ai lavoratori». È il richiamo al «patrimonio umano da salvare». Ecco il modo in cui Tremonti mira a spezzare l'accerchiamento.

Corriere della Sera 1.11.08
La Cisl: inseguono il «cofferatismo»
Bonanni: la Cgil fa politica Il leader vuol scalare il Pd
di Enrico Marro


ROMA — Se Epifani col suo «movimentismo» pensa di scalare il Pd si sbaglia, perché «questo è un partito nuovo e diverso dal Pci e dai Ds: un partito riformatore, pluralista e comunque più moderato dei Ds». Se il leader della Cgil pensa di ripercorrere le orme del predecessore, allora si ricordi che «il cofferatismo non ha avuto sbocchi». Il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni, il giorno dopo la rottura con la Cgil, ostenta sicurezza: «Una rottura annunciata. Avevano già detto di no al contratto del commercio e all'intesa con Confindustria sul modello contrattuale. Adesso arriva il no anche sui contratti pubblici. Mi dispiace solo che ciò avvenga mentre siamo al bivio».
Quale bivio?
«Tra la conservazione e l'innovazione. È dal memorandum di riforma del pubblico impiego che aspettavamo di sbloccare la situazione. Adesso ci riusciamo, ma la Cgil, come fa sempre nei momenti di svolta, si tira fuori».
La Cgil dice che 70 euro lordi in due anni sono troppo pochi.
«Alla Cgil ricordo che abbiamo recuperato una situazione compromessa. Il governo Prodi aveva stanziato un cifra sufficiente a distribuire appena 8 euro. E se avessimo aspettato ancora, vista la situazione economica disastrosa, rischiavamo di non avere neppure questi 70 euro. Senza contare che c'è anche il recupero delle voci accessorie dello stipendio e del fondo per la produttività. La verità è un'altra ».
Quale?
«La Cgil ha seguito un percorso che ha avuto ieri il suo approdo naturale nell'abbraccio con la Fiom. Pur di salvaguardare la totale unità interna, la Cgil calpesta l'unità sindacale e torna indietro di molti anni».
Al 2002, col Patto per l'Italia e la rottura sull'articolo 18?
«Sì, e da allora la Cgil, tutte le volte che abbiamo provato a riformare le relazioni industriali, si è messa di traverso. Dal 2004, quando Epifani abbandonò la riunione in Confindustria per non affrontare la riforma del modello contrattuale, a oggi».
Epifani come Cofferati?
«Non lo so, ma in ogni caso: che sbocco ha avuto il cofferatismo? Che cosa è rimasto di quella piazza del Circo Massimo? Niente, né sul piano sociale né su quello politico. Non è rimasto in piedi un solo concetto di quelli sbandierati allora dalla Cgil mentre il nostro riformismo va avanti».
A proposito di piazze. Quella di giovedì, contro la riforma della scuola, era piena. E c'era pure lei, che certo ha ricevuto applausi durante il comizio. Però sembrava la piazza di Epifani, con gli studenti che gli chiedevano autografi.
«No. Il fatto è che qualcuno vede la piazza piena e pensa che siano tutti suoi. E invece l'80% dei partecipanti era gente della scuola, che la Cisl rappresenta più della Cgil. Non solo, c'era anche chi ha votato per questo governo. Insomma, una piazza pluralista».
Ma ora, dopo la rottura con Cisl e Uil, Epifani diventerà uno dei leader di riferimento della protesta.
«Se volesse fare questo, sarebbe alla guida di un movimento politico e non di un sindacato. Lo so anch'io che la società è piena di problemi, ma faccio il sindacalista e cerco soluzioni con gli accordi. La situazione è critica. È in arrivo un tifone e noi dovremmo contribuire a rasserenare il clima».
Crede anche lei che Epifani pensi a un suo futuro prossimo nel Pd?
«Non lo so. Non è la prima volta che dirigenti sindacali hanno utilizzato lo scampolo finale del loro mandato per farsi largo in politica. Lo ritengo un errore e spero che non succeda più. In ogni caso il Pd è una forza politica nuova e diversa dal Pci e dai Ds. Un partito riformatore, pluralista e più moderato dei Ds. Non voglio quindi credere che possa essere influenzato da posizioni movimentiste».
Ma è pure difficile credere che Veltroni si schieri con lei contro la Cgil.
«Veltroni nel suo comizio al Circo Massimo ha parlato del pubblico impiego chiedendo l'abbandono di certi conservatorismi. Noi abbiamo accettato la sfida dell'innovazione. La Cgil, invece, continua a dire solo dei no».

Corriere della Sera 1.11.08
«Obamacons» e «Obamacans » Tra i primi a schierarsi Susan Eisenhower, seguita da molti ex politici repubblicani
Neocon, liberisti, antiabortisti: i «convertiti» che votano per Obama
Sono disgustati da Bush, spaventati dalla Palin o delusi da McCain
di Maria Laura Rodotà


WASHINGTON — Ci sono gli Obamacans (repubblicani per Obama), intellettualmente meno complessi di certi Obamacons (conservatori per Obama). Ci sono i liberisti per Obama, i libertari per Obama, gli antiabortisti per Obama, i cavalieri di Colombo per Obama (ex, li hanno appena cacciati), gli ex membri di amministrazioni Reagan- Bush-Bush per Obama. C'è Colin Powell, figura rispettatissima, e personaggi meno prestigiosi che magari contano sulle promesse del candidato democratico; di governare unificando e facendo molte nomine bipartisan. Ci sarebbero, si dice, anche parecchi razzisti per Obama, quasi convinti a votarlo causa recessione. Tutti insieme dovrebbero essere il 22 per cento dell'elettorato conservatore. Milioni saranno indecisi fino all'ultimo e magari non voteranno. Quelli importanti, dichiarati, famosi si sono schierati; e per molti deve essere stato liberatorio. Barack Obama li corteggia dall'inizio, comunque.
Perché è un bravo ragazzo — Gli obamologi specializzati in analisi della costruzione del consenso obamiano a destra (ce ne sono molti, testimonianze viventi dell'impazzimento giornalistico preelettorale; la maggioranza dei cittadini Obamacons/cans neanche sa di esserlo) indicano come pietra miliare un profilo-intervista dell'anno scorso sul New Yorker. L'autrice, Larissa MacFarquahar, aveva concluso che «nella sua visione della storia, nel suo rispetto per le tradizioni, nel suo pensare che il mondo non possa essere cambiato se non molto, molto lentamente, Obama è profondamente conservatore». La sua tesi è rimbalzata di blog in blog; qualche conservatore ha saltato il fosso. Disgustato dai due mandati di Bush se repubblicano vecchio stile e/o anomalo; inorridito dalla gigantesca spesa pubblica per le guerre se liberista; dalle limitazioni prodotte dal Patriot Act se libertario; deluso dalla trasformazione conformista di John McCain, se fan del McCain precedente. I primi a fare coming out sono stati alcuni repubblicani di sangue blu come Susan Eisenhower, che ha parlato alla convention. Il più importante e mai dichiarato — ma è come se lo fosse, si è parlato di lui come numero due del ticket — è Chuck Hagel, senatore del Nebraska, veterano del Vietnam; sessantenne influente, taciturno e ariano. Già a inizio estate si parlava di lui e Powell. Uno storico commentatore di destra, Robert Novak detto il Principe delle Tenebre, li descriveva come in Italia si descrivono quegli elettori di sinistra che giurano di non votare Pd alle prossime europee, così il Pd impara: gente che «non mostra grande affetto per il rigidamente liberal Obama. La sindrome dell'Obamacon è fondata sull'ostilità verso l'amministrazione Bush e sulla repulsione verso l'attuale partito repubblicano. Il pericolo per McCain è che questo desiderio di un bagno di sangue terapeutico sfugga al suo controllo». E' successo, pare.
E poi è arrivata Sarah — Palin ha rianimato la destra religiosa e i conservatori poveri degli stati in bilico. Nel frattempo ha messo in imbarazzo buona parte degli editorialisti filorepubblicani; David Brooks, che scrive sul New York Times, le ha dato direttamente del tumore. Il pensatore neocon Francis Fukuyama (quello della fine della storia, quasi vent'anni fa, tempi belli) si è sentito meno neocon organico. George Will del Washington Post e di
Newsweek, icona di centrodestra, l'altro ieri ha chiamato McCain «The Careless Candidate», il candidato insensibile e pasticcione. E il figlio dell'icona repubblican-patrizia dell'East Coast William Buckley (deceduto prima della scelta di Palin; non sarebbe comunque sopravvissuto), lo scrittore Christopher (quello di Thank You for Smoking) l'ha messa così: «Non sono io che ho lasciato il partito, è il partito che ha lasciato me». Dopo di che un discreto numero di politici repubblicani demotivati ha di fatto lasciato il partito per appoggiare Obama. Molti ex, in effetti: l'ex governatore del Massachusetts William Weld, l'ex portavoce di Bush, Scott Mc Clellan, l'ex consigliere di Reagan e Bush padre Ken Adelman, che aveva rotto con Dick Cheney sulla guerra in Iraq (era riluttante, si è dichiarato rispondendo a un giornalista via e-mail, adesso scrive sul sito liberal
Huffington Post e pare contentissimo). Il momento più alto è stato l'endorsement dell'ex segretario di Stato Powell, il «generale a quattro stelle dell'esercito degli Obamacons».
«Non uccidiamo bambini» — Non ci sono solo gli inorriditi da Sarah Palin. Qualche «social conservative» che dovrebbe apprezzarla ha rotto i ranghi.
Come il giurista Douglas Kmiec della Pepperdine University in California. Quando va nei campus a fare campagna per Obama, gli capita di trovare studenti cattolici che lo contestano recitando il rosario. Kmiec, cattolico antiabortista, ritiene che una presidenza Obama salverà più bambini, grazie all'assistenza e alla pianificazione familiare; nel frattempo gli negano la comunione. Intanto sono stati espulsi dai Cavalieri di Colombo (un milione e 200 mila negli Usa) i fondatori del sito Knightsforobama; avevano difeso una colta gaffe tv di Joe Biden, che citando Tommaso d'Aquino in tv si chiedeva quando diventa umano l'embrione. E così anche Biden potrebbe aver contribuito a quella che viene pomposamente (ottimisticamente?) definita «la migrazione degli elettori culturalmente conservatori verso Obamaland»; contemporanea alla «rivolta degli intellettuali » ora meno neocon. Anzi, ora neocomplici: gli ex amici li chiamano «élite republicans », utili idioti asserviti agli élite liberals; o direttamente «rats». Gli altri potenziali Obamacons ignorano la polemica, e quasi certamente, in molti, fanno parte di quell' 8 per cento di elettori incerti fino all'ultima settimana. Potrebbero decidere l'elezione; come i Reagan Democrats dal 1980 in poi. Obama lo sa, e giammai ormai attacca i repubblicani; parla male solo di Bush. La simpatica conduttrice progressista Rachel Maddox di Msnbc, dopo averlo intervistato giovedì, l'ha soprannominato Mr. Bipartisan Pants. Ma basterà?

venerdì 31 ottobre 2008

Repubblica 31.10.08
Scuola, le piazze della protesta Roma paralizzata: siamo un milione
Assedio al ministero, cortei in tutte le città: "Il Paese è insorto"
di Mario Reggio


ROMA - «Il Paese è in rivolta». Guglielmo Epifani prende la parola dal palco di piazza del Popolo e un boato si leva dalla folla stipata là sotto, sul balcone del Pincio, e lungo i tornanti che calano da villa Borghese. «Cari compagni e compagne - esordisce - questa è una giornata memorabile non solo per la scuola, ma per la democrazia e per i giovani». I cinque sindacati della scuola hanno portato in piazza a Roma centinaia di migliaia di persone. Un milione secondo gli organizzatori. E mentre piazza del Popolo non riusciva più a contenere i cortei che arrivavano da tutte le strade, decine di migliaia di giovani dei collettivi universitari e i ricercatori precari circondavano il ministero della Pubblica Istruzione in viale Trastevere. Nel pomeriggio il ministero ha diffuso i dati sulle adesioni allo sciopero: il 57 per cento del personale ha incrociato le braccia. Secondo le organizzazioni sindacali l´adesione ha sfiorato l´80 per cento del personale ed il 90 per cento delle scuole non ha aperto i cancelli. Ma lo sciopero e la protesta hanno segnato tutte le grandi città: genitori, bambini, studenti delle superiori, universitari e ricercatori, professori e non docenti hanno marciato in corteo da Milano a Bologna, da Napoli a Bari. E poi Torino, Firenze, Genova, Catanzaro, Palermo e Catania. Una moltitudine umana che ha urlato no ai tagli alla scuola, al maestro unico, al blocco del turn over all´università e alla sforbiciata di un miliardo e mezzo in tre anni ai bilanci degli atenei. Tutto per coprire il deficit del bilancio statale, l´abolizione dell´Ici e l´affaire Alitalia. E in piazza del Popolo? «Una manifestazione mai vista - ha affermato Guglielmo Epifani - la prossima volta dovremo scegliere una piazza più grande. Il governo avrebbe fatto meglio a dire: abbiamo bisogno di soldi e tagliamo scuola e università, anziché camuffare l´operazione come se fosse una riforma. E ai giovani dico: grazie di essere qui in tanti, non permetteremo che le vostre proteste vengano messe in dubbio da chi ha cattivi pensieri. Dobbiamo essere uniti, la maggioranza del Paese comincia a capire». L´invito all´unità è raccolto da Raffaele Bonanni, leader della Cisl: «La scuola ci unisce e sarà l´unità della scuola a salvarla. Le scelte del futuro si devono fare con la gente: non si discute della scuola del popolo come se si fosse in un consiglio d´amministrazione». È passata da poco l´una. Ma piazza del Popolo non si svuota. Stanno arrivando i cortei bloccati alla Magliana, a piazza Esedra e sul Raccordo Anulare. La città è un brulicare di bandiere e striscioni. E nel pomeriggio per il ministro Gelmini l´ultima doccia fredda. Vasco Errani, presidente della Conferenza dei governatori annuncia: «Le iscrizioni scolastiche si apriranno a gennaio del 2009 e non ci sono le condizioni per predisporre il piano di riordino degli istituti scolastici entro il 30 novembre 2008 come ha deciso il governo. Abbiamo già respinto le decisione di mandare un commissario nelle Regioni che non rispettano la scadenza - afferma - chiediamo un incontro con il governo per discutere della chiusura della scuole di montagna con meno di 50 studenti nelle aree svantaggiate e di montagna. E per sapere di pagherà i costi di questa scelta». Il maestro unico rischia di diventare una pia illusione del governo.

Repubblica 31.10.08
Il giorno della verità dei fratelli d´Italia
di Giuseppe D’Avanzo


"Quella di cui parla il premier non è la vera scuola. Siamo qui a difenderla"
Guardando la gente che sfila si comprende che Berlusconi ha fatto il suo primo errore
Una generazione disegnata come apatica sembra aver riscoperto la politica

CHISSENEFREGA della solita conta, un milione e mezzo, un milione, ottocentomila o fate voi. Roma è per intera paralizzata. E´ impossibile anche entrare in città. Decine di pullman sono "spiaggiati", come balene, sul Grande Raccordo e, nell´impossibilità di raggiungere il centro storico, migliaia di persone se ne vanno in processione, allegre e rumorose, là dove sono: lungo l´anello autostradale, alla Magliana. In centro, chi si è mosso da piazza della Repubblica scende dal Pincio verso piazza del Popolo che il serpente � quieto e colorato di palloncini blu e giallo e rosso � ha ancora la coda nella posta di partenza. Chi con realismo dispera di arrivarci, in piazza del Popolo, cambia strada. La protesta si frantuma e si disperde dilatandosi là dove trova spazio e strade libere da affollare. I cortei diventano tre e si muovono in direzioni diverse, gli universitari e gli studenti dei licei venuti dalla Sapienza e da molte città del Mezzogiorno se ne vanno verso Trastevere e circondano il ministero della Gelmini e le gridano: «Mariastella, arrenditi. Sei circondata!»
Quanti saranno? Importa davvero a qualcuno, se non al governo imbarazzato («poche migliaia di persone»), avere un numero? E´ il giorno della realtà, questo, quale che siano i numeri. E´ il giorno della robusta e ostinatissima realtà.
È il giorno della concretezza della vita quotidiana di studenti e insegnanti, delle compromesse speranze di futuro dei più giovani e delle loro famiglie. È il giorno della tangibilità di una sdegnata rabbia per il presente che – con la voce e il corpo di centinaia di migliaia di uomini e donne, ragazze e ragazzi che nella scuola e nelle università ci vivono, ci lavorano, ci studiano, ci sperano – mette finalmente in un canto, per un´intera mattinata, le formule vuote e le verità rovesciate che avvelenano il discorso pubblico.
Dice un´insegnante in piazza della Repubblica – non sono ancora le nove, la pioggia è intensa e tutti sono già zuppi d´acqua e non se ne curano –: «È come se mi avessero messo davanti allo specchio. Io ho i capelli neri e loro mi dicono che sono biondi. Li ho corti e quelli dicono che ho i capelli lunghi. Dicono che sono strabica, incartapecorita dagli anni e sdentata e invece io so di essere giovane con gli occhi e i denti giusti. Dicono che sono depressa e io invece so di essere energica e decisa. Quel che dicono di me, non mi racconta, non mi descrive. Quella non sono io. Questa non è la scuola che abito e conosco. Hanno bisogno di trasfigurarla per poterla distruggere in silenzio e nel disinteresse dei più. Ecco perché sono qui. Sono qui perché non voglio vedere distrutta la scuola pubblica che è la mia scuola e la scuola di tutti. Vorrei fare io una domanda a tutti: chi ne parla, conosce davvero la scuola?».
* * *
È un leit motiv: davvero conoscete la scuola, signori? Davvero la conosce il governo? Di quale scuola parlano, parlate? Di quella che ogni giorno, con i suoi ritardi e le sue eccellenze, con i suoi sacrifici e pigrizie, con i suoi piccoli sconosciuti eroismi, apre i battenti? O di quella che immaginano o lasciano immaginare per poterla schiacciare? Sono domande – spiegano in una singolare coincidenza di opinioni, studenti e professori, bidelli e maestri, sindacalisti e ricercatori – che impongono di chiamare le cose con il loro nome, finalmente.
Così, anche se negli slogan Mariastella Gelmini è protagonista e trasfigurata in santa, «Santa Ignoranza», nei colloqui, nei capannelli, nelle discussioni che si accendono qui e lì il decreto diventato ormai legge dello Stato non ha una madre, ma soltanto un padre: Giulio Tremonti.
Dice uno: «La Gelmini, di suo, avrebbe dovuto proporre un disegno, un progetto educativo, un documento da discutere, un percorso riformatore per passare dalle criticità di oggi – che ci sono e non trascurabili – a un assetto più soddisfacente nel futuro. Non lo ha fatto. La sua è una presenza muta. È una comparsa. Il primattore è l´altro, è Tremonti. Suoi sono i tagli e questa riforma – che è una falsa riforma – non è altro che tagli al personale docente, amministrativo e tecnico; risparmi per il bilancio dello Stato; riduzione dell´orario scolastico e fine del tempo pieno; tagli al Fondo di finanziamento delle università e trasformazione degli Atenei in Fondazione private. Noi abbiamo bisogno di più riforma e invece ci danno meno risorse e nessuna riforma».
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È il giorno della realtà, questo. Non è il giorno dei «grembiulini», del «cinque in condotta», del maestro che da «unico» diventa per magia, per conformismo e obbedienza dei media, «prevalente». In una parola non è il giorno dei codici comunicativi e vuoti che, con sapienza, Berlusconi ha messo in campo per nasconderla e manipolarla, la realtà.
L´«avviso ai naviganti» del mago di Arcore puntava ad accendere il solito dispositivo, a innescare un riconoscimento identitario della società con la sua leadership, a indicare un ostacolo da rimuovere: i «fannulloni», gli «ignoranti», il «potere dei sindacati», gli «insegnanti pagati troppo per quel che fanno e danno», una scuola che è soprattutto o forse soltanto «spreco».
In una parola, un´«infezione» che minaccia la salute del Paese. La protesta contro la riforma della scuola – suggeriva il premier – compromette il diritto allo studio. Pregiudica il futuro dell´educazione che invece la riforma assicura. Le proteste danneggiano la formazione dei più operosi. Quindi, la loro stessa libertà.
Berlusconi ha voluto indicare alla sua gente – «la maggioranza silenziosa» come va dicendo la Gelmini – un terreno di conflitto, quasi una chiamata alle armi, un nuovo ambito di ostilità di un´Italia: la sua Italia, contro l´altra che non lo ama o che vuole giudicarlo senza pregiudizio per quel che fa. Non ha esitato a minacciare l´arrivo dei Reparti Celere nelle scuole e università «okkupate» perché sempre un «diritto di polizia» si affaccia quando «lo Stato non è più in grado si garantirsi gli scopi empirici che intende raggiungere ad ogni costo».
A quanto pare, se si guarda questa piazza e queste vie, Berlusconi per una volta ha sbagliato i suoi calcoli. Clamorosamente. Per la prima volta, in questa legislatura. Come dicono lungo via Sistina, «il governo è riuscito nel miracolo di mettere insieme tutte le sigle sindacali», che solitamente intrattengono tra di loro i rapporti che il cane ha con il gatto.
Ha consentito a un´intera generazione, distratta, disillusa, spettatore passivo distante dal luogo comune, di scoprire che la politica non è appartenenza a un partito o a un gruppo, a una fazione o a un´ideologia, ma che è politica soltanto la volontà di opporsi e resistere a un progetto di ordine sociale che esplicitamente rinuncia a una concezione dello Stato «garante legale dell´eguaglianza» per disegnare esclusioni e differenze, creare privilegi e divisioni.
Non c´è chi in questo corteo, che ora affolla piazza del Popolo e via Ripetta e via del Babuino fino a piazza Augusto Imperatore e piazza di Spagna, non abbia letto il decreto e toccato con mano che «i grembiulini» sono soltanto polvere negli occhi che acceca. Lo studente universitario ti spiega pignolissimo come «il Fondo di finanziamento ordinario delle università viene progressivamente ridotto di 63,5 milioni per il 2009, di 190 milioni per il 2010, di 316 milioni nel 2011, di 417 milioni per il 2012 e di 455 a partire dal 2013, un risultato che si otterrà vietando di assumere personale oltre il 20 per cento dei pensionamenti dell´anno precedente. Una morta lenta che ucciderà tutti, i buoni e i cattivi senza alcun discernimento: chi ha disperso le sue risorse e chi le ha utilizzate al meglio; chi ha valorizzato il merito e chi ha inaugurato un insegnamento inutile per dare una cattedra all´amante o al figlio. Dicono: quel che non darà più lo Stato lo forniranno le Fondazioni, ma quali, ma come? Il governo non lo dice perché o non lo sa o non può dire che vuole un´università privatizzata».
È la trama della realtà che fa capolino. È il suo giorno. Per una volta, la «comunicazione» può attendere. I trucchi non funzionano. Quell´indifferenziazione tra reale e fittizio che sempre Berlusconi riesce a costruire appare sgonfia come una ruota bucata. La gente che è qui, che ancora non riesce a raggiungere piazza del Popolo, sembra che ancora riesca a distinguere ciò che accade davvero da quel che la politica e i suo cantori raccontano.
Madri di famiglia ti spiegano come cambierà concretamente la loro vita e la vita del figlio con la fine del «tempo pieno», con il «maestro unico» e l´orario settimanale di ventiquattro ore. «Che cosa è più educativo la strada, la televisione o la scuola?», chiedono.
La realtà. Ha il fiato corto Berlusconi quando si lamenta della «scandalosa capacità di mentire su cose di buonsenso» o quando nega che ci siano tagli. Qui se ne vanno in giro con nella borsa o in tasca il decreto e, sollecitati, sono pronti a squadernartelo sotto gli occhi. «I docenti a tempo determinato che voleranno via come stracci saranno 87.341 in tre anni. Nel 2009/10, 42.105; 25.560 nel 2010/11; 19. 676 nel 2011/2012. Questo per gli insegnanti. Per il personale amministrativo, tecnico e ausiliario sono previsti 42.500 posto in meno, il 17 per cento in meno. Come si fa a dire che non ci sono tagli?».
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In piazza del Popolo, un´orchestrina intona l´inno di Mameli. È bizzarro, e di certo non consueto, che prima sottovoce, poi con sempre maggiore forza e convinzione, quel canto dilaghi in ogni angolo della piazza. A pensarci meglio, non è fuori posto «Fratelli d´Italia». Anzi, quel canto appare coerente. Forse può essere addirittura il senso della giornata. Le persone che sono qui, quale che sia il loro numero, sembrano sapere che è in gioco «un´idea di Italia» a cui non vogliono rinunciare. Sanno che «la scuola pubblica, la scuola di tutti», quell´idea la custodisce. Anche con i suoi deficit.

Repubblica Roma 31.10.08
Guarini: "La riforma Gelmini taglierà 113 milioni alla Sapienza"
L’addio dell´ex rettore Guarini: riforma assurda
L’ex rettore "Decisione lesive dell´autonomia e del ruolo delle università"
di Carlo Alberto Bucci


Il vecchio matematico napoletano torna ai suoi studi di statistica economica. Ma, prima di lasciare il rettorato che ha tenuto per quattro, lunghi anni, Renato Guarini fa i conti esatti sulle perdite che il suo ateneo patirà nell´immediato futuro. «Per la Sapienza - ha sottolineato il Magnifico nel discorso di addio - ci saranno tagli pari a 5 milioni di euro nel 2009, 15 milioni nel 2010, 25 nel 2011, 33 nel 2012, e 35 nel 2013». Totale, 113 milioni in meno. In un badget (finora di circa 1 miliardo di euro l´anno, la metà coperta dallo Stato con il Fondo di finanziamento ordinario mentre un 10 per cento è assicurato dalle tasse degli studenti) che verrà alleggerito di un quinto nei prossimi cinque anni. E questo in un «ateneo sottofinanziato già prima dei tagli estivi».
Il conto del ragioniere Guarini l´ha fatto ieri mattina in Aula magna, mentre la città veniva attraversata dell´imponente manifestazione contro la legge Gelmini. Un movimento, quello dell´"Onda anomala", che il Magnifico ha appoggiato e accompagnato con le parole della sua relazione di fine mandato, riepilogo di 11 anni (del 1997 è la nomina a vice) di gestione dell´ateneo più grande d´Europa: «Coloro che di volta in volta si alternano nella gestione del potere, sembrano tenere in considerazione il lavoro delle università solo per l´utilità che possono ricavarne». Critiche quindi anche al governo di centrosinistra. Poi l´affondo sul presente: «La più recente conferma di questo atteggiamento del decisore politico, è rappresentata da alcuni articoli della manovra finanziaria, la legge 133, varata nella scorsa estate, che prevede tagli indiscriminati dei finanziamenti, lesivi dell´autonomia, del ruolo e della missione delle università pubbliche».
La cerimonia è iniziata con le note dell´orchestra di musica classica composta da studenti, docenti e impiegata. E, prima dell´epilogo a sorpresa con la cantante della jazz band della Sapienza che ha intonato il celebre motivo di Mina ("Renato, Renato, Renato, così carino ...."), Guarini ha sintetizzato in venti minuti la voluminosa relazione (130 pagine date alle stampe) su «questi quattro anni positivi». Sono stati destinati «24 milioni di euro alla ricerca e mantenuti invariati i finanziamenti alle attività prioritarie, nonostante la manovra estiva del governo che ha sottofinanziato la Sapienza». Inoltre, «abbiamo realizzato tremila nuovi posti banco, riordinato la didattica, avviato ampliamenti edilizi». La Sapienza si è estesa per 40mila metri quadri (dall´ex scuola Silvio Pellico alla vetreria Sciarra). Ed è in attesa che sia inaugurato il parcheggio sotterraneo che permetterà di pedonalizzare la città universitaria.
Il 500esimo, ultimo discorso da rettore di Guarini, che, a 76 anni, ricoprirà il ruolo di presidente della Fondazione Sapienza, è stato salutato dal successore Luigi Frati («noi lo ringraziamo tutti, purtroppo la Sapienza vive un momento difficile ma vi assicuro che i tradizionali valori dell´università non cambieranno»). E sottoscritto dal presidente della Provincia, Nicola Zingaretti: «Le parole del rettore Guarini sugli effetti che il decreto Gelmini avrà sulla Sapienza con un taglio di 113 milioni di euro, chiariscono ulteriormente la grande importanza che le mobilitazioni di questi giorni messe in atto da studenti, docenti e genitori hanno per il nostro Paese».

Repubblica 31.10.08
Il paradosso dell'opposizione
di Nadia Urbinati


Il paradosso che attanaglia e quasi immobilizza l´opposizione politica è quello di dover giustificare al paese di esistere, e soprattutto di esistere anche fuori del Parlamento.
Da questo paradosso ne spunta immancabilmente un altro, quello di pensare (anche a sinistra) che le manifestazioni di dissenso che i cittadini mettono in atto direttamente siano un fatto eccezionale che abbia anch´esso bisogno di giustificazione. Sembra che non ci si renda conto che in una democrazia costituzionale l´opposizione non è un ospite, ma un co-gestore della casa comune. Come la maggioranza politica ha i propri strumenti � quelli del potere positivo di fare le leggi, dopo (è sperabile) il confronto con l´opposizione, così l´opposizione ha e può avvalersi di tutti gli strumenti che la costituzione le garantisce per far sentire la propria voce, criticare il lavoro del governo e, possibilmente, bloccarlo. L´azione di protesta e di bloccaggio è altrettanto sacrosanta di quella del governo.
Per esempio: la distruzione sistematica della nostra scuola dell´obbligo è un fatto così rilevante e grave che l´opposizione ha il dovere di fare quanto è in suo potere per bloccarla. Non lo fa per se stessa ma per l´intero Paese. E se non è il partito di opposizione che si prende carico di fare questo lavoro di bloccaggio, allora saranno i cittadini. Poiché è chiaro che eleggendo i rappresentanti perché facciano le leggi ordinarie noi non deleghiamo mai il potere di giudicare; ce lo teniamo e lo usiamo per influenzare indirettamente il parlamento e il governo. L´opposizione che il ministro Gelmini è riuscita a costruire (poiché la rivolta contro la sua rovinosa proposta di riforma non è partita dal Pd ma da chi è direttamente toccato dalla distruzione della scuola pubblica: insegnanti, genitori e studenti) è un segno straordinario della vivacità della società democratica, la quale non ha bisogno di chiedere il permesso di far sentire la propria voce, ma la usa perché questo fa parte del potere dei cittadini sovrani.
Il linguaggio dell´opposizione ha uno stile necessariamente complesso e composito: quello della caparbia attività parlamentare, quello della denuncia sui mezzi di informazione (ma come è possibile se la maggioranza ha il monopolio dei mezzi privati e pubblici?), quello delle petizioni e della raccolta di firme per proposte referendarie, quello delle manifestazioni. La piazza è parte di questo linguaggio politico legittimo; non è simbolo di populismo ma di esercizio di libertà politica. Un simbolo che rivela la natura stessa del governo democratico, il quale vive immancabilmente di una tensione permanente tra la dimensione del potere costituito o istituzionale (politica attuata) e la dimensione del potere in formazione o extra-istituzionale (politica attuante). Merita ricordare come in quello che gli storici sono concordi nel considerare il primo documento della democrazia moderna, il documento dei livellatori inglesi del 1649, fossero elencati sia i desiderata democratici (il suffragio e la rappresentanza elettiva) sia le loro potenziali deviazioni e perversioni, come a voler mettere i cittadini in guardia dal pensare che avere un governo legittimato dal consenso dei governati equivalesse ad avere democrazia. La non coincidenza tra istituzioni e democrazia è stata da allora il più robusto filo conduttore che ha unito la storia politica della democratizzazione nei paesi occidentali, tanto che non è irragionevole pensare alla democrazia come a un ordine politico che si regge su un disaccordo permanente tra legittimità e fiducia, volontà e giudizio.
Questa è la premessa dalla quale discende la conclusione che riformismo e piazza non sono necessariamente una strana coppia, per usare le parole di Edmondo Berselli sulla Repubblica di qualche giorno fa. E la stessa alternativa tra riformismo e populismo puó essere fuorviante, perché la radicalità che da mesi si invoca (alcuni di noi invocano) non è di tipo populistico (il populismo è un´anomalia della democrazia rappresentativa). L´idealità (o l´ideologia) della sinistra è quello che è e che deve essere: difesa delle eguali libertá e della giustizia sociale dei cittadini e condizioni di tolleranza verso i diversi (cittadini e non) che rendano la vita sociale sicura per tutti. Dare a questi principi irrinunciabili un linguaggio convincente, incalzante e soprattutto autorevole: questo è quello che manca all´opposizione. Continuo a pensare che il problema dell´opposizione sia un problema di leadership. Del resto, se davvero si pensa che sia necessario adottare la strategia del populismo, allora si dovrà immancabilmente porre il problema di avere leaders autorevoli che siano capaci di conquistare consensi larghi.
La parola carisma fa tremare i polsi a molti di noi, tuttavia è un fatto che un movimento politico che voglia estendere il proprio consenso oltre il proprio bacino di potenziali elettori deve riuscire ad essere molto convincente senza stravolgere i proprio principi. Barack Obama vincerà le elezioni americane senza aver avuto bisogno di usare l´arma del populismo (questo è il messaggio forse più straordinario che ci viene dalla sua campagna elettorale) e perché è in grado di esprimere anche tra i repubblicani un senso di autorevolezza, di grande forza di determinazione e di lavoro sistematico. Egli ha messo in moto una macchina politica che non ha nulla di improvvisato e che quasi assomiglia a un partito di vecchio stampo. Diversamente lo slogan "we can" sarebbe stato veramente rischioso. Obama ha dimostrato che "we can" ha senso se chi lo dice trasmette davvero l´impressione di potere. Questo è quanto dovremmo imparare dall´esperienza americana: l´opposizione democratica ha dovuto attraversare il deserto impiegando un decennio prima di trovare una via d´uscita dal tunnel (e un leader capace di convincere che la rinascita era possibile). Per preparare questo risultato occorre un lavoro sistematico e un partito che faccia davvero lavoro politico tra la gente � per ripetere Berselli, occorre "la schietta radicalità di parlare di cose vere" e, aggiungo, occorre far camminare questa radicalitá su gambe strutturate e non solo mediatiche. Un lavoro di incalzo, di denuncia e di bloccaggio che non lasci respiro alla maggioranza e in tutti i luoghi dove le scelte della maggioranza fanno sentire le loro pesanti conseguenze. Ma prima di tutto, occorre smettere di pensare di dover giustificare di esistere e di parlare nei linguaggi e nelle forme che la carta costituzionale ci garantisce.

Repubblica 31.10.08
Fu uno degli inservienti di Arcore a presentare la Gelmini a Berlusconi. E lui in tre mesi la promosse
Dal giardiniere di Silvio al posto di Croce l'irresistibile ascesa di Mariastella
di Sebastiano Messina


SE NON fosse stato per il giardiniere di Arcore - da non confondere con lo stalliere, che infiniti guai addusse ai Dell´Utri - Maria Stella Gelmini forse oggi non sarebbe lì dov´è: asserragliata nel bunker di marmo del ministero dell´Istruzione, sotto l´assedio di studenti infuriati, maestrine arrabbiate, fuoricorso imbufaliti, professori incavolati, ricercatrici furibonde e precari col coltello tra i denti. E sembra quasi di vederla, lei che si presentò alla Camera citando Gramsci («Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso...»), lei che beffa l´opposizione di sinistra dipingendosi come la versione italiana di Barack Obama, lei che getta sulle barricate roventi delle università il ghiaccio della sua ostentata sicurezza («Avrò la tenacia dell´acqua che scava la pietra»), sembra quasi di vederla, alla finestra che si affaccia su viale Trastevere, nello stanzone che fu di Benedetto Croce e Giovanni Gentile, scrutare attraverso i suoi sottili occhialini colorati quella folla che ce l´ha con lei, sventolando i santini ironici della «Beata Ignoranza» e una perfida preghierina dietro la sua effigie: «Maria, Stella d´Ignoranza, il governo è con te. Tu sei benedetta da Tremonti e benedetto è il trucco dei tuoi tagli...».
Chi l´avrebbe mai detto, alla figlia dell´ex sindaco democristiano di Milzano, laggiù nella bassa bresciana, a lei che nel Sessantotto non era ancora nata, a lei che andava all´asilo mentre divampava il Settantasette, che a 35 anni si sarebbe trovata a fronteggiare la più vasta protesta che la scuola ricordi, un´unica grande trincea che parte dalle elementari e arriva alle scuole di specializzazione? Certo non poteva immaginarlo neanche quel giardiniere - Giacomo Tiraboschi - che ebbe la felice idea di presentare a Berlusconi, una sera di tre anni fa, questa tosta bresciana dal sorriso angelico che all´epoca era solo un modesto assessore provinciale all´Agricoltura alle prese con quote latte, pascoli e grandinate.
Invece il giardiniere Tiraboschi decise che al Cavaliere quella donna sarebbe piaciuta. Aveva ragione. E tutti sappiamo com´è fatto Berlusconi: quando ti prende in simpatia - che tu sia la Carfagna o la Brambilla, la Prestigiacomo o la Gardini - passi subito sulla corsia di sorpasso. Dunque la nominò all´istante sua consigliera. Di lì a tre mesi la promosse proconsole in Lombardia, coordinatrice regionale nella terra più berlusconiana d´Italia. Poi l´ha voluta accanto a sé (convocata da una telefonata di Bonaiuti) nella storica sera del comizio di San Babila sul predellino della Mercedes. Quindi l´ha scelta come una dei sette «saggi» che hanno selezionato i candidati - pardon: i parlamentari - di questa legislatura. Infine, fattone una sua deputata, l´ha promossa direttamente al rango di ministro. Alla sua prima legislatura.
Il suo motto è ordine, disciplina e meritocrazia. E pazienza se s´è scoperto quel peccatuccio del suo esame per diventare avvocato, una storia del 2001, quando pur di non presentarsi a Brescia dove bocciavano il 68,3 per cento dei candidati si trasferì a Reggio Calabria, dove i respinti erano appena il 6,6 per cento. Un trucco da furbetti, ma nobilmente motivato: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi».
Perché poi proprio questa trentacinquenne bresciana, che così rocambolescamente era riuscita a diventare avvocato, sia stata scelta per riformare la scuola italiana, è rimasto un mistero anche per gli alleati di Berlusconi. «Purtroppo mettono a fare i ministri chi non ha mai fatto l´insegnante» commentò, acido, Umberto Bossi, beccandosi una risposta pepatissima: «Non mi risulta che Bossi sia un insigne costituzionalista, eppure fa il ministro delle Riforme...».
Adesso sono tutti con lei, però. Pazienza se giusto a lei che invoca la severità dei professori è scappato in un discorso al Senato un errore da matita blu, quando ha scandito «egìda», con l´accento sulla i. Berlusconi, dicono, è entusiasta di questa ministra trentenne che la mattina affronta i cortei col sorriso sulle labbra, dicendo alla polizia che non c´è bisogno di identificare chi la fischia, «ho sufficienti argomentazioni per rispondere a qualsiasi contestazione», e il pomeriggio si fa fotografare sdraiata come una vamp sullo scalone d´onore del ministero dell´Istruzione, sui gradini dove salivano Quintino Sella e Vittorio Emanuele Orlando, Aldo Moro e di Giovanni Spadolini.
A dispetto del suo look anni Settanta, messimpiega senza pretese e tailleur castigato, c´è chi vede in lei un personaggio sadico, la domina in tailleur alla quale Berlusconi ha consegnato il frustino per scudisciare studenti e professori. Ma quando le domandano quale sia stata, in tutta la sua vita, la cosa più trasgressiva che le sia capitato di fare, lei risponde senza pensarci su: «Aderire a Forza Italia». E si capisce: se non fosse stato per quel giardiniere...

Repubblica 31.10.08
"Tra Berlusconi e il paese idillio finito nel Pd si deve aprire una nuova fase"
D'Alema: Veltroni coinvolga tutti, il profilo riformista va alzato
intervista di Massimo Giannini


Lavoriamo ad una vasta coalizione per tornare a dialogare con i ceti moderati che hanno votato Berlusconi
Capisco l´appello di Walter all´unità ma è lui che deve prendere l´iniziativa altrimenti non ci si lamenti se nascono le fondazioni

ROMA - «La protesta di massa sulla scuola, la drammatica crisi economica che attanaglia famiglie e imprese. Ormai è evidente: l´idillio tra Berlusconi e l´Italia si sta incrinando e la vicenda della legge elettorale europea, di cui apprezziamo il ritiro, non è solo il risultato della fermezza dell´opposizione ma anche di difficoltà interne alla maggiranza. Di qui dobbiamo partire per rifondare un nuovo centrosinistra, che rappresenti agli occhi dei cittadini un´alternativa vera e credibile per il futuro governo del Paese». Ammainate le bandiere della grande manifestazione del 25 ottobre, Massimo D´Alema scende in campo e suona la carica al Partito democratico e a Veltroni. «Adesso - dice l´ex premier ed ex ministro degli Esteri - bisogna lavorare per costruire intorno al Pd una vasta coalizione democratica, e che ci permetta di alzare il nostro profilo riformista, di dialogare con tutte le opposizioni, di parlare ai ceti moderati che hanno votato Berlusconi, e che ora capiscono la sua palese inadeguatezza».
Onorevole D´Alema, non è che state scommettendo un po´ troppo su questa «fine della luna di miele» tra il Cavaliere e gli italiani?
«Nessuna illusione. Ma non possiamo non vedere quello che sta succedendo. L´Italia attraversa una crisi senza precedenti, che sarà di lungo periodo. Si è ormai dissolta l´idea che Berlusconi vivesse una sorta di `luna di miele permanente´ con il Paese. Stanno esplodendo i primi, seri problemi nel rapporto tra il governo e i cittadini. Sta crollando come un castello di carta la straordinaria `fiction´costruita dal governo in questi mesi. Ci sono problemi enormi, il governo li ha gravemente sottovalutati e oggi dimostra di non avere la forza per affrontarli con la necessaria radicalità».
In realtà, l´unico serio «problema nel rapporto tra il governo e i cittadini», come lo chiama lei, riguarda la scuola.
«E le pare una cosa da poco? Quello che sta accadendo sulla scuola merita una grandissima attenzione. Un insegnate mi faceva notare una cosa molto giusta: mentre nel �77 in prima fila c´era la parte meno qualificata del corpo studentesco, oggi in testa ai cortei ci sono i primi della classe, che non vedono più una prospettiva per il futuro. Perché questo succede: se tagli gli investimenti nelle università, blocchi il turn over e cacci i ricercatori, rubi il futuro agli studenti più bravi e più capaci. Ora, io penso che l´opposizione debba rispettare e non strumentalizzare i fatti. Ma gli scontri dell´altro ieri a Roma mi hanno enormemente allarmato. Ci sono aspetti che devono essere chiariti e che riguardano anche la condotta della polizia: il centro era tutto bloccato alla circolazione, per chiunque, eppure un furgoncino carico di mazze è potuto arrivare fino a Piazza Navona, dove ha scaricato la sua `merce´, e dove un gruppo di squadristi ha atteso il corteo degli studenti. Com´è possibile?».
Comunque sulla scuola chi è senza peccato scagli la prima pietra.
«E´ evidente, ma da questa crisi non si esce con le scelte primitive della destra. Giusto colpire gli sprechi e i privilegi, ma per farlo non si possono prosciugare le risorse di tutta la scuola. Giusto colpire gli abusi al diritto di assistenza dei disabili, ma per farlo non si può eliminare il diritto. Giusto colpire i casi di `baronato´ e i corsi universitari con un solo studente, ma per farlo non si può tagliare 1 miliardo di euro a tutta l´università. L´autonomia non è arbitrio. E il fatto che non ci siano i soldi è una scusa. Le scelte compiute dal governo su Alitalia alla fine costeranno 2 miliardi ai contribuenti. La soppressione dell´Ici per i più abbienti è costata 3,5 miliardi.
Quei soldi c´erano. Il problema è che sono stati usati per effettuare una politica redistributiva a favore della parte più ricca del Paese. Quindi il governo non è stato costretto a tagliare: ha fatto una scelta, ben precisa. Ed è una scelta di destra che il Paese mostra di non gradire».
Lei ha qualche dubbio sul referendum contro la legge Gelmini.
Perchè?
«Non è questione di dubbi. Penso che il referendum è uno strumento monco e improprio, perché i tagli alla scuola approvati in Finanziaria non sono materia da referendum, e le norme della Gelmini, se e quando il referendum si facesse, cioè all´incirca nel 2010, avranno già prodotto i loro effetti. Quindi io dico: raccogliamo pure le firme, ma impegniamoci davvero, qui ed ora, per costringere il governo a un cambiamento di rotta».
Quali altri segnali vede, di questa incrinatura tra il governo e il Paese?
«C´è il profondo malessere che sta crescendo dentro la stessa maggioranza sulla riforma delle legge elettorale per le europee.
Su questo abbiamo fatto una riunione con tutti i gruppi parlamentari. Ebbene, oltre a una convergenza sul tema specifico, è emersa la preoccupazione condivisa sulla visione della democrazia di questa maggioranza: questa idea oligarchica, presidenzialista e plebiscitaria del potere, indebolisce la democrazia e produce solo una parvenza di decisionismo».
Ma la denuncia di questa situazione, e tutti i no che ne derivano, basta a voi dell´opposizione per mettervi l´anima in pace?
«No, non basta. E qui veniamo al cuore del problema. Questa crisi, drammatica, non è solo della maggioranza, è del Paese. E questo da un lato getta le basi per una prospettiva politica nuova, dall´altro lato carica l´opposizione di una grande responsabilità. Dobbiamo alzare nettamente il nostro profilo riformista. Dobbiamo ridefinire il progetto politico dell´opposizione, e aprire una fase nuova che ci consenta di creare un campo di forze per l´alternativa. E non sto parlando di nomenklatura, ma di pezzi della società italiana, di ceti moderati, di classi dirigenti, che devono tornare a guardare a noi come a un nuovo centrosinistra di progetto e di governo, che non riproduca i limiti e gli errori del passato. La costruzione di questa coalizione va di pari passo con la nostra capacità di parlare al Paese, che non è solo quello che scende in piazza».
La vostra piazza del 25 ottobre non doveva servire proprio a questo?
«E´ stata una piazza molto bella, soprattutto perché è stata festosa.
Tuttavia, dopo il grande sforzo comune di quella manifestazione, mi piacerebbe adesso che l´insieme del gruppo dirigente fosse coinvolto in una riflessione per il rilancio della nostra prospettiva. Capisco l´appello di Veltroni all´unità, ma è innanzitutto da lui che deve venire l´iniziativa per favorirla e renderla efficace. Siamo in uno scenario che sta cambiando profondamente. Siamo passati dall´illusione di una partnership con Berlusconi per fare le riforme (quello che Ferrara sul Foglio sintetizzava con l´espressione `Caw´), ad una aspra conflittualità, di cui innanzitutto il premier porta la responsabilità. Ora, però, è molto importante dare anche forza propositiva alla nostra iniziativa e rilanciare la capacità di dialogare con l´intera società italiana».
Partiamo dall´opposizione. Il suo ragionamento implica che, a partire da Di Pietro, vadano ridiscusse le alleanze. E´ così?
« Prima ancora di questo occorre mettere a fuoco un nuovo progetto riformista e riformatore per l´Italia, sul quale cercare il massimo dei consensi possibili, e non solo nell´opposizione. I temi non mancano: dai meccanismi per il voto europeo al federalismo, dal referendum sulla legge elettorale al Mezzogiorno. Insomma, anziché una inutile discussione tra di noi se si debba guardare a destra o a sinistra, ciò che dobbiamo fare è accrescere la nostra capacità di attrazione, a partire dal nostro progetto riformista e dall´iniziativa politica che mettiamo in campo. L´obiettivo, certamente, è quello di allargare il campo delle alleanze».
E cosa intende quando parla di riflessione sul Pd e sulla sua organizzazione interna? Siamo di nuovo alla diarchia conflittuale D´Alema-Veltroni?
«No, nessuna diarchia e nessun conflitto. Ma per il Pd il problema non pienamente risolto continua ad essere quello della piena valorizzazione delle sue risorse. Andiamo verso la conferenza programmatica, e quello sarà un momento di verifica importante proprio per marcare il nostro profilo riformista. Questo richiederebbe il contributo di tutti, perché in caso contrario è inevitabile che le forze si disperdano. Se non è il partito a chiamare ed impegnare tutti, non ci si può lamentare se nascono fondazioni, associazioni, e iniziative di vario segno»..
La sua Red come la vogliamo giudicare?
«Io mi occupo della Fondazione Italianieuropei. Red è un´associazione che ci aiuta a sviluppare i nostri progetti, e sta coinvolgendo molte persone anche fuori dal Pd. Non c´è nulla di anormale in questo. E´ sbagliata l´immagine di un partito che si identifica in un principe buono, minacciato da un gruppo di pericolosi oligarchi cattivi».
E questa idea chi la mette in giro, se non tutti voi messi insieme?
«Io non mi riconosco tra i diffusori di questa immagine. Veltroni è il leader del Pd. Come sa io non ho incarichi e non ne cerco. Sono uno dei pochi che ha lasciato incarichi per favorire il rinnovamento. Ma in questo partito c´è un gruppo dirigente formato da molte personalità, e non da oligarchi cattivi. Questo gruppo dirigente è anche una garanzia del rapporto tra il Pd e il Paese. Mettere al lavoro queste persone, vecchie e giovani, non indebolisce Veltroni, ma al contrario lo rafforza».
E il congresso straordinario che fine ha fatto? Ormai si farà dopo le europee.
«Non ho mai chiesto che si tenesse un congresso straordinario. Il congresso com´è previsto dallo statuto, si terrà dopo le europee».
Comunque di tempo ne avete. Il Cavaliere vi consiglia un riposo di 5 anni.
«Berlusconi non ha molto da ironizzare. I sondaggi dicono che le difficoltà della maggioranza sono serie, il governo ha perso 18 punti. Ma la fine dell´idillio non si traduce in un travaso di consensi dalla maggioranza all´opposizione. Quando un Paese non ha fiducia né nel governo, né nell´opposizione significa che c´è il rischio di una democrazia più debole. Anche per questo è urgente rilanciare non solo la nostra battaglia di opposizione, ma il nostro progetto politico. Il partito del centrosinistra riformista è nato per questo».
m. gianninirepubblica. it

Repubblica 31.10.08
Un saggio su "Micromega"
L’equivoco di una religione civile
Fede e politica
di Gustavo Zagrebelsky


È un fenomeno che avviene sotto i nostri occhi e che papa Benedetto XVI ha teorizzato. Ma che è in conflitto con lo Stato laico
La Chiesa offre la teologia e i suoi valori come tessuto connettivo alle società occidentali di cui si presume il disfacimento
La riproposizione di una funzione antichissima, addirittura originaria
L´attacco a un sistema definito materialista, nichilista, privo di nerbo morale

Sotto i nostri occhi, si svolge una mutazione nel rapporto tra la Chiesa e la società: dalla religio (o theologia) socialis dell´ultimo scorcio del XIX secolo, alla religio (o theologia) humana della seconda parte del secolo scorso, alla religio (o theologia) civilis (o politica) del tempo attuale, quando la religione si offre come tessuto connettivo di società politiche in auto-disfacimento: «Prendere una [�] chiara coscienza della funzione insostituibile della religione per la formazione delle coscienze e del contributo che essa può apportare, insieme ad altre istanze, alla creazione di un consenso etico di fondo nella società» (parole del papa Benedetto XVI, durante la visita a Parigi il 13 settembre 2008). Quest´ultimo � il «consenso etico di fondo» �, un concetto molto ambiguo che non si sa che cosa significhi (ma forse qualcuno, con lo sguardo rivolto alla storia della Chiesa, può temere di saperlo), è il punto che riguarda la situazione odierna. (...)
L´ultimo passaggio, la religio civilis, è presentato come un prodotto della «post-modernità» o del «post-secolarismo». Ma è un ricominciare da capo, poiché, in verità, essa è la ri-proposizione di una funzione antichissima, anzi addirittura originaria, della religione come fattore politico, secondo il senso che quella formula assume nella classica tripartizione sviluppata nelle Antiquitates di Marco Terenzio Varrone, di cui Agostino d´Ippona, nel De civitate dei (libri VI e VII), dà ampio ragguaglio: «religione civile» come pratica religiosa dei sacerdoti a vantaggio non della vita eterna delle anime, ma come salute dei popoli e delle città e come fattore connettivo, o presupposto socializzante della convivenza nelle comunità umane.
Questa ri-proposizione è avvenuta nell´ambito del dibattito odierno circa le «premesse sostanziali», necessarie alla vita delle istituzioni liberali e democratiche: premesse che � questo è l´assunto � «lo Stato liberale secolarizzato» non sarebbe in grado di garantire. L´interesse di questa posizione sta in questo, che la fondazione della vita politica su premesse religiose è prospettata come un atto di amicizia, non d´inimicizia, nei confronti delle società liberali, altrimenti votate al suicidio o, comunque, alla propria fine. Questa denuncia teorica, circa l´incapacità delle democrazie liberali di garantire i propri presupposti normativi, si accompagna, come conferma empirica, a una fiorente letteratura sulla decadenza delle società occidentali, parallela a quella corrente nell´Europa del secolo scorso tra le due guerre mondiali. Queste società, materialiste, disgregate, disperate, nichiliste, egoiste, prive di nerbo morale, preda di pulsioni autodistruttive, sarebbero giunte a «odiare se stesse», secondo una vibrante accusa del magistero cattolico. I sintomi sarebbero la diminuzione del tasso di natalità e l´invecchiamento delle generazioni; lo sviluppo abnorme di scienze e tecniche frammentate, prive di anima, fini a loro stesse e dotate di ambizioni smisurate; la riduzione della ragione a mera «ragione strumentale» al servizio di nichilistiche volontà di potenza; minacce esterne all´identità europea � allora il bolscevismo internazionale, oggi l´islam: tutto questo in un ambiente di debilitazione morale e di «relativismo», di cui il cosiddetto pensiero debole sarebbe la teorizzazione filosofica. In questo contesto, la religione cattolica romana, traendosene fuori e dando per presupposta la propria attualità e idoneità a fronteggiare i problemi del presente, si propone come religione civile, come sostegno della società politica, come medicina delle sue infermità, come fattore d´identità ed esorcismo nei confronti della violenza che quella società in frantumi cova al suo interno. La Chiesa può pretendere così, per questa via, una nuova legittimazione generale per la sua parola: una legittimazione chiaramente politica che, sul piano teorico, si accompagna � negli ultimi anni, a partire dall´enciclica Fides et ratio del 1998 � all´ardita elaborazione di una theologia naturalis che ha la pretesa di fornire alla scienze umane il «fondamento razionale» di verità che occorre loro, traendolo dalle proposizioni della fede cristiana. La funzione totalizzante della Chiesa, non solo nelle cose sociali, non solo in quelle umanitarie, ma direttamente in quelle politiche, è così fondata. Essa può pretendere di interpretare e garantire l´«identit໠� l´identità cristiana � dei popoli di tradizione occidentale e, in questo, si incontra con progetti politici che nulla hanno a che fare con la fede religiosa, ma sono interessati a un´alleanza per la difesa di una non meglio precisata «civiltà occidentale». (...)
In generale, è possibile, anzi necessario, sollevare il dubbio circa la compatibilità dell´anzidetta funzione civile della Chiesa con la posizione che a questa compete secondo la Costituzione e il regime concordatario, previsto nell´articolo 7. È lecita la domanda se esistano ancora le premesse di quel tipo di regolazione dei rapporti di diritto ecclesiastico. Tale regime si basa, infatti, sulla premessa, stabilita nel primo comma, che Stato e Chiesa sono, cioè devono essere, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. Ciò significa due cose: innanzitutto, il riconoscimento reciproco del carattere di societas perfecta, cioè sufficiente a sé medesima nel perseguimento dei propri compiti, rispettivamente: il governo della società e la salvezza delle anime; in secondo luogo, l´obbligo di non ingerenza di un «ordine» nell´«ordine» altrui. La religio civilis è contraria a entrambe: assume l´insufficienza dell´ordine civile a badare a sé stesso; afferma la competenza della religione in questioni relative alla «tenuta» della società civile. Entrambe le proposizioni ricorrono ormai pressoché incontrastate nei documenti della Chiesa (anche quella circa lo Stato come societas imperfecta: un´affermazione d´ingerenza grave), senza alcuna sensibile reazione da parte dell´autorità civile. La sua subalternità, innanzitutto culturale, si tocca con mano. Il «supremo principio di laicità» contenuto nella Costituzione (Corte costituzionale, sentenza 203 del 1989), è chiamato in causa direttamente, in quanto esso implica, come premessa minima irrinunciabile, l´autosufficienza dello Stato.
In secondo luogo, la religione come religio civilis (cosa tutta diversa dall´indiscutibile diritto dei credenti, come di chiunque altro, di agire politicamente ispirandosi al proprio credo) viola il carattere liberale e democratico dell´organizzazione politica della società civile. La funzione civile della religione dovrebbe essere quella di fornire un legame sociale che contrasti le conseguenze disgreganti della libertà: essa, quindi, dovrebbe sottrarsi alla sfera della libertà, per poter svolgere questo suo compito. Come è stato detto, dovrebbe «precedere» la libertà. Ma, se così, dovrebbe collocarsi nell´ambito dell´esercizio di autorità. In brevi e brutali parole, dovrebbe essere «inculcata», con i mezzi possibili di convinzione. Con il che si tornerebbe a prima del riconoscimento, da parte della Chiesa stessa, della libertà di coscienza come diritto umano intangibile. La stessa Costituzione, un documento della libertà, verrebbe come messa sotto tutela di princìpi politici elaborati nella sfera della religione.
In terzo luogo, la religione civile, in un contesto di pluralismo culturale e religioso, comporta di per sé lesione del principio di laicità, nel suo contenuto ugualitario. Laico è lo Stato che non prende partito a favore di una o di un´altra religione, come pure non prende partito tra le diverse posizioni religiose, e, ancor prima, tra queste e quelle atee o agnostiche. Si tratta del principio di imparzialità o equidistanza in materia di professioni di fedi e convinzioni, religiose e non religiose, principio che vieta non solo di assumere di una religione come «religione dello Stato», ma anche di assicurare trattamenti privilegiati, in corrispettivo della funzione ch´essa svolge nella compagine sociale. Soprattutto con riferimento alle religioni monoteiste, il cui Dio è un «Dio geloso», la funzione civile della religione, però, non può essere svolta da più religioni, in concorrenza tra loro. Più religioni significherebbero inevitabilmente non rafforzamento di un «io comune», ma disgregazione. Il riconoscimento alla religione di una funzione civile implica perciò il privilegio. La tolleranza, oggi, è o sembra essere fuori discussione. Ma la laicità non si accontenta della tolleranza (nel senso minimo della tradizione curiale, come sopportazione dell´inevitabile), ma pretende diritti in condizione di uguaglianza. Le religioni diverse da quella, unica, chiamata a improntare di sé la società nel suo complesso, cioè le religioni minoritarie, dovrebbero invece adattarsi a «vivere nella diaspora», cioè in un ambiente sociale, politico e giuridico che è d´altri, non anche loro, dove le proprie ragioni circa la vita buona in comune non hanno rilevanza pubblica, dove devono accontentarsi d´essere «tollerati». È un´espressione terribile e precisa, nell´indicare dove conduce l´assegnazione alla religione della funzione «civile», ma tuttavia più esplicita e onesta di altre, correnti e ugualmente orientate alla difesa di pretese identità storico-morali, come le espressioni da cui si è preso avvio, che si avvalgono degli aggettivi esornativi «vero», «sano», «nuovo», «positivo», e così via parlando.

Repubblica 31.10.08
Sinistra? Un circo minimo
Esce un pamphlet di Berselli
di Filippo Ceccarelli


È una sorta di cabaret sull´orlo del baratro, un libro spietato e onesto, ma anche tenero e in fondo costruttivo, con un titolo "Sinistrati" che viene da lontano
Il "fattore C" di Prodi viene analizzato nelle sue origini e nel suo utilizzo
Un partito ipotetico che ha affrontato le elezioni come se fossero un gioco d’azzardo

Le parole, le immagini, i titoli dei libri non arrivano mai per caso, e se rimbalzano proseguendo e replicandosi nel tempo, nello spazio e nelle relazioni vuol dire che davvero sono in grado di aprire spiragli di verità, non di rado oscura e fuggevole perché scomoda e anche dolorosa. Così nel marzo del 2006, poco prima di quelle elezioni che furono il più classico dei pareggi, ma che la sinistra si sforzò di considerare come una mezza vittoria uscì per Laterza un impietoso ritratto dell´allora già disastrata classe dirigente dell´Ulivo, così come veniva fuori dagli articoli di quel magnifico giornalista e direttore che fu Claudio Rinaldi. Un´antologia di figuracce e cantonate dei leader della sinistra, dalla "gioiosa macchina da guerra" ai fasti dell´Unipol, e che di conseguenza Rinaldi volle intitolare: I sinistrati. Ecco. Di lì a un paio d´anni, per l´esattezza all´indomani delle elezioni della primavera scorsa, il sinistro, vale la dire l´accidente, la sciagura, la disgrazia di quel mondo si è fatta ancora più evidente, conclamata, maiuscola. E Sinistrati s´intitola la "storia sentimentale di una catastrofe politica" che Edmondo Berselli ha scritto per Mondadori (pagg. 208 pagine, euro 17, dal 4 novembre), secondo la felice e sperimentata formula del cabaret sull´orlo del baratro e il piglio degno del moralista che non se la sente di fare la morale ad alcuno, tanto è inutile, l´importante semmai è smettere per un attimo di fare i cinici, i furbi e i vanagloriosi, sempre che sia umano e possibile - conveniente, in politica, no di certo.
Ecco dunque un pamphlet spietato e onesto, beffardo, tenero e per certi versi anche costruttivo, fin dal primo capoverso: «Dopo che ci è arrivato addosso il tram, in quel fatale e crudelissimo mese d´aprile, ci abbiamo messo un po´ di tempo per capire che cosa era successo. Sulle prime siamo rimasti seduti fra le rotaie, frastornati. Poco dopo ci siamo rialzati, non ancora del tutto coscienti. Poi ci siamo spolverati i pantaloni a testa bassa, poi lentamente ci siamo avviati verso casa stringendo i denti, cercando di mostrare un atteggiamento disinvolto e indifferente, come Fantozzi dopo una martellata sulle dita, e sperando che la gente intorno non ridesse». Persa per persa, lascia intendere Berselli, tanto vale scherzarci sopra, ma da sinistra. Mitologie, fissazioni, tic, gente che ancora si prende troppo sul serio, sondaggisti che pochi giorni dal voto preavvertivano movimenti nella pancia profonda del paese, dabbenaggini, stravaganze e superbe ingenuità tipo l´sms spedito da Franceschini ad Arturo Parisi, che ancora lo conserva nel suo telefonino, il pomeriggio della disfatta: «Ce la stiamo facendo». Oh, vanità delle vanità rileggere le magagne del centro sinistra pittorescamente lanciato verso il suo stesso inesorabile disastro. Il "fattore C." di Prodi, di cui sono qui delineate le origini e il selvaggio utilizzo a tinte mitico-magiche. Le grevi civetterie mondane di Bertinotti. Le velleità "romanzieresche" di Veltroni, "funambolo dei sospiri". La sicurezza di D´Alema «che non crede più in niente tranne in ciò che al momento pensa lui». Nomi e cognomi a iosa - ed è impossibile non pensare alle facce dei protagonisti quando leggeranno questo che non è un sketch di Crozza, ma il libro di un illustre politologo, fino a ieri direttore de Il Mulino; un commentatore obbligato, come diversi altri in questo tempo, a cogliere e a concentrarsi sul grottesco dominante nella vita pubblica italiana, a mettere in parodia i cattivi esempi, i luoghi comuni, le deformazioni culturali, la sfilata di maschere, l´intreccio senza ritorno di arcaismi e tecnologie, il chiaro disegno economico post-corporativo del centrodestra, il conseguente spappolamento sociale, a parte le indispensabili miserie della politica e le perenni male arti del potere.
In questo panorama, di suo già pieno di macerie, si staglia la nuova e pittoresca inadeguatezza della sinistra. Tanto più acuminato quanto più discorsivo, il racconto rintraccia le cause di questo esito nella rapida erosione delle culture politiche e ricostruisce la fine degli amati-odiati partiti di massa. Insieme e attraverso il ritratto dei nuovi protagonisti quali Berlusconi, Fini, Bossi, il quale piacevolmente designò l´ex alleato Casini come un "carugnit de l´oratori", viene fuori una preziosa storia disincantata della Seconda Repubblica, o Terza che sia. Certo fra I sinistrati del profetico Rinaldi e Sinistrati del corrosivo Berselli, la caduta dell´articolo indica un che d´irrevocabilmente compiuto, il ground zero di una antica e nobile vicenda che ormai ha dato tutto ciò che poteva dare. Ma adesso? Beh, resta da dire che la descrizione della nascita, come della breve vita infelice del Partito democratico, con congressi ds e Margherita conclusi al suono delle canzoni di Rino Gaetano e Caterina Caselli, sfiora la più simpatetica crudeltà e l´amaro dileggio da parte di chi, pur con tutti i dubbi del caso, non ce l´ha fatta proprio a farsi incantare dall´euforia artificiale del nuovo riformismo europeo, dalla retorica delle grandi tradizioni che finalmente si ritrovano in un unico soggetto eccetera, per non dire i caroselli e i giochi d´artificio sulle varie carte dei saggi, i manifesti etici e i Pantheon elaborati a forza di ghost-writer.
L´appartenenza affettiva a quel mondo consente un giudizio più netto, senza lo schermo dell´autolesionismo. Deludente fusione a freddo è stata, quella del Pd. Per giunta priva di messaggio, che non fosse «una tonalità intellettuale, una sfumatura emotiva, un intero spettro di nuances sentimentali». Il dubbio è che tuttora si tratti di una forza politica "fuori dal mondo", un "partito ipotetico". Uscito di scena Prodi, il gruppo dirigente democratico ha affrontato le elezioni come un "gioco d´azzardo". E alla prova delle urne lo schema di Veltroni, pure rapito dall´incantesimo del Cavaliere, si è risolto in un tragicomico paradosso: «L´operazione è riuscita, ma il paziente è morto». Non solo, ma a questo punto «per giorni e settimane Walter si è trastullato con i decimali e con la confortante, per quanto oggettivamente strampalata, idea di aver vinto o quasi le elezioni e di essere al governo insieme a Berlusconi». Ovvio che adesso tutto si potrà fare meno che guardarsi alle spalle. Non salveranno la sinistra le vecchie zie, né le nonne che ormai perseguono un´etica da fiction, dicono "autostima" e parlano come la tv. «La prima cosa che la sinistra deve fare - azzarda Berselli avviandosi allegramente sconfortato alla conclusione - è imparare a dire la verità. Il che non è semplice perché la sinistra crede di essere la verità e quindi non sente il bisogno di dirla». E sembra di riascoltare il grido del Circo Massimo: «Siamo due milioni e mezzo». Ecco, magari molti, molti di meno, comunque sinistrati, anzi sinistratissimi.

Repubblica Firenze 31.10.08
Il medico olandese bacchetta i politici: "Politici, ascoltate gli scienziati"
Eduard Verhagen e l’eutanasia: è necessario discutere di temi così importanti
di Michele Bocci


Meyer, parla il medico olandese: solo qui tutte queste polemiche

«Il problema della politica è che spesso esprime posizioni prima di ascoltare i tecnici, i medici. E invece dovrebbe fare il contrario: studiare, discutere e poi prendere decisioni». Eduard Verhagen è al Meyer per il convegno dei neonatologi. Lo studioso olandese che ha realizzato la carta di Groningen, dove si illustra l´assistenza di fine vita per i neonati e in caso di certe malattie si ammette l´eutanasia, non ha l´aria da "dottor morte", come lo ha definito qualcuno. E´ un serio e un po´ timido studioso che premette di non voler imporre il suo pensiero. «La Chiesa? Rispetto le sue idee ma a volte vorrei che spiegassero come arrivano a certe prese di posizione. Le occasioni di confronto che ho avuto con suoi esponenti sono saltate all´ultimo momento».
Verhagen, la cui presenza ha scatenato polemiche e pure interrogazioni al presidente del consiglio, ha tenuto la sua relazione senza mai accennare all´eutanasia. Era previsto che non lo facesse, e infatti ha illustrato come vengono trattati in vari paesi i prematuri con problemi che non danno scampo, quando vengono comunque rianimati e quando si decide di staccare le macchine. Poi, a margine il medico olandese, che ha detto di essere di religione protestante, ha risposto ad alcune domande.
Il suo arrivo a Firenze è stato preceduto da molte polemiche, che idea si è fatto?
«Partecipo ad una decina di convegni ogni anno, alcuni anche in Italia ma non mi era mai capitata una cosa del genere. Mi spiace che l´attenzione caschi su di me a scapito di questo incontro scientifico, dove è importante la discussione tra chi lavora in questo paese. Io porto le mie conoscenze e racconto quello che facciamo in Olanda ma non ho nessuna intenzione di dire agli italiani quello che devono fare. Le nostre culture sono molto diverse».
Qual è il messaggio del suo intervento?
«E´ necessario che si discuta del momento in cui si interrompono le cure. Noi medici tendiamo a parlare dei miglioramenti della tecnica, che ci permettono di curare persone per cui un tempo non c´era speranza. Nelle neonatologie si presta giustamente attenzione a come intervenire sui bambini per guarirli. Ebbene lo stesso tipo di sensibilità va adottata anche per decidere che non c´è più niente da fare, e che quindi il trattamento sanitario va limitato o addirittura interrotto. I medici devono essere in grado di spiegare alla società cosa succede in quei momenti, come mai vanno prese certe decisioni. E fare sempre tutto d´accordo con i genitori».
E perché si arriva a decidere l´eutanasia?
«Il percorso che ha portato il mio paese a legalizzare questa pratica è stato lungo. Si applica solo a bambini che soffrono tremendamente per una malattia che non dà scampo. Abbiamo creato un protocollo per fare chiarezza su come comportarsi in questi casi, sempre rispettando la volontà dei genitori. Dal 2007, poi, in Olanda non ci sono stati più casi di eutanasia su bambini perché abbiamo esteso la diagnosi prenatale».
Conosce il caso di Eluana Englaro?
«In Olanda abbiamo avuto un caso simile 25 anni fa che dimostra come due paesi possono affrontare in modo molto diverso gli stessi problemi. A quel tempo ci fu un ricorso ad un tribunale da cui arrivò la decisione che l´alimentazione artificiale è un atto medico. Dunque poteva essere sospeso perché viste le condizioni della persona non serviva a nulla. Non si tratta di omicidio, non si tratta di eutanasia. Da allora non abbiamo più avuto casi del genere. Sono contendo che in Italia si discuta di un caso come quello di Eluana e mi auguro che alla fine il risultato sia positivo per la ragazza, per la famiglia e per tutta la società italiana».

Corriere della Sera 31.10.08
Gli stranieri sono 4 milioni Producono il 9% del Pil
Negli ultimi cinque anni le denunce contro gli stranieri sono aumentate del 45,9 per cento
di C. Mar.


Più imprenditori. Crescono le aziende gestite da immigrati: l'85% delle imprese è stato costituito dopo il 2000

MILANO — Quasi quattro milioni, il 6,7% della popolazione italiana. Per la precisione 3.987.000. Tanti sono gli immigrati in Italia secondo il rapporto Caritas Migrantes presentato ieri. Mezzo milione in più rispetto all'anno scorso. Il 62,5% risiede al Nord, il 25% al Centro e il 10% al Sud. La comunità romena, raddoppiata negli ultimi due anni, è la più numerosa: quasi un milione le presenze regolari. Seguono gli albanesi (402.000), i marocchini (366.000), i cinesi (157.000), gli ucraini (133.000, l'80,4% sono donne) e i filippini (106.000 residenti).
Per comprendere meglio le percentuali basta considerare che un residente su 15, uno studente su 15, un lavoratore su 10 è straniero. La popolazione straniera è molto giovane: l'80% ha meno di 45 anni e il tasso di fecondità delle donne straniere assicura il ricambio della popolazione (2,51 figli per donna).
Gli immigrati portano anche ricchezza. Sono un milione e mezzo quelli che lavorano e secondo una stima di Unioncamere gli immigrati producono il 9% del Pil, tre punti in più rispetto all'incidenza sulla popolazione. Il dossier stima che almeno 500 mila stranieri lavorano in nero. È la Lombardia a contare il numero maggiore di lavoratori immigrati: a Brescia un lavoratore su cinque è nato all'estero; a Mantova, Lodi e Bergamo uno su sei; a Milano uno su sette. Non solo dipendenti, ma anche imprenditori.
L'85% delle aziende con titolari immigrati è stato costituito dal 2000 in poi. I più numerosi sono i marocchini, con 20 mila figure di questo tipo. Subito dopo ci sono i romeni e i cinesi. Sono soprattutto impegnati nell'edilizia e nel commercio. Il reddito medio non è però elevato: circa 900 euro al mese, comunque considerato dagli immigrati «soddisfacente ».
I dati crescono però anche nel campo della giustizia e della criminalità. In cinque anni (2001-2005, ultimi dati Istat) l'aumento delle denunce contro gli stranieri è stato del 45,9% e nello stesso periodo l'incidenza della criminalità straniera (regolare e non) è passata dal 17,4% al 23,7%.

Corriere della Sera 31.10.08
Il capolavoro di Raffaello sarà esposto a Firenze dal 23 novembre dopo dieci anni di restauro
Una mostra celebra la «Madonna del Cardellino»
di Wanda Lattes


Si è concluso ufficialmente il complesso intervento di conservazione e restauro della «Madonna del Cardellino », la tavola dipinta da Raffaello nel 1505 (per le nozze dell'amico Lorenzo Nasi). L'opera era stata ridotta in pezzi a causa del crollo del palazzo che l'ospitava e per secoli si sono susseguiti interventi di ogni genere: per tenere insieme i frammenti, per rimediare i guasti della pittura.
Dieci anni fa la decisione di affrontare un recupero degno dell'artista e del capolavoro. Da qui l'impegno prodigato dagli studiosi dell'Opificio delle Pietre dure di Firenze durante il complesso lavoro di restauro («Corriere della Sera», 29 marzo 2008). In qualche modo testimoniato ieri, nella sede della Stampa Estera a Roma, dalla proiezione di un documentario ricco di immagini inedite relative alle indagini e agli interventi eseguiti.
Nell'occasione è stata annunciata anche la mostra che dal 23 novembre prossimo offrirà a Firenze, in Palazzo Medici Riccardi, non soltanto la visione del «Cardellino», ma anche di alcuni lavori capaci di illuminare l'intera epoca in cui quella «speciale» Madonna fu creata (a cominciare da un altro capolavoro di Raffaello, «La gravida », o da un'opera di Girolamo della Robbia). In quelle stanze saranno tra l'altro esposte foto, analisi, diagrammi dello stesso restauro.
Ma l'incontro di ieri ha anche permesso alla responsabile diretta dell'intervento, Patrizia Reitano, una commovente narrazione degli interventi di analisi, pulitura e ritocco. E ai soprintendenti Cristina Acidini e Bruno Santi la «sottolineatura» di quella «cosciente responsabilità culturale assunta dall'Opificio».

il Riformista 31.10.08
Il primo intoppo del governo


La scuola è il primo vero intoppo nella gioiosa macchina da guerra del governo. C'è poco da dire. Quando si riempiono così le piazze, e così tante piazze, seppure sotto l'egida sindacale, vuol dire che il paese non ha accolto il decreto Gelmini con l'entusiasmo con cui accolse il decreto per l'immondizia a Napoli o quello per salvare Alitalia. Un po' era inevitabile: con la scuola si comincia a toccare la carne viva della spesa pubblica. Un po', però, era evitabile.
Lo stato d'animo del governo è stato ben espresso ieri da Ignazio La Russa: «Per la prima volta c'è stata una mancanza di informazione: si poteva anche fare il decreto, ma al termine di un percorso». È un eufemismo per dire ciò che molti ministri pensano: non staremo prendendo un po' troppo a schiaffi il paese? Dall'immagine inclusiva e paterna che Berlusconi ha dato a Napoli, si è passati troppo rapidamente alla faccia feroce di un premier che minaccia l'invio della polizia. Il decreto Gelmini non è certo l'articolo 18, eppure è diventato rapidamente impopolare per la carica simbolica che si portava dietro: ragazzi spaventati di un futuro in cui la loro laurea non varrà nulla, famiglie che temono di dover andar a prendere i bambini a scuola a mezzogiorno, precari a vita che non diventeranno mai di ruolo. La miscela era abbastanza esplosiva per maneggiarla con più cura. Il governo ha portato a casa il decreto, ma ha rotto l'idillio.
L'opposizione può vantare un successo tattico, è uscita dall'angolo. Ma la partita strategica resta immutata. Neanche la rivolta per l'articolo 18, ben più imponente di questa, segnò una svolta nella legislatura. Quando tra qualche anno arriverà, se mai arriverà, il referendum abrogativo di Veltroni, difficilmente si vincerà ripescando nella memoria degli italiani l'antico ricordo del maestro unico. Fossimo in Veltroni, dunque, non parleremmo di fine della luna di miele di Berlusconi. «E' finita sulla scuola - ha detto ieri - come quella di Prodi finì con l'indulto». A parte il fatto che, se non ricordiamo male, il Pd votò l'indulto, la luna di miele di Prodi non era nemmeno mai cominciata.

il Riformista 31.10.08
Arriva in libreria un pamphlet contro i nemici della modernità e della civiltà occidentale
Tra apocalittici e utopisti le "ragionevoli speranze" del filosofo Paolo Rossi
di Guido Vitiello


Dicono che l'occidente è diretto verso la catastrofe. Che la modernità non va riformata, ma abbattuta. Semmai per innalzare sulle sue rovine la Città ideale. Si trovano a destra e a sinistra, tra gli intellettuali e tra i leader di piazza. In "Speranze", il grande storico delle idee ci spiega perché faremmo meglio a dubitare delle loro visioni catastrofiche.

Profeti di sventura. Alcuni dei bersagli polemici del nuovo libro di Paolo Rossi: Martin Heidegger Alberto Asor Rosa Guido Ceronetti

Quella tra Paolo Rossi e i nemici della modernità è una contesa di vecchia data. Negli anni settanta lo storico delle idee, autore di studi ormai classici sulla filosofia moderna e la rivoluzione scientifica, polemizzava con gli «antimoderni a destra e a sinistra». E cioè quegli intellettuali, come Pier Paolo Pasolini ed Elémire Zolla, che pur da diverse postazioni ideologiche si esercitavano in un «fuoco concentrico» contro gli stessi nemici: la scienza, la tecnica, il razionalismo e altre teste di turco create allo scopo. Qualche lustro più tardi, in Paragone degli ingegni moderni e postmoderni (di cui è in arrivo un'edizione aggiornata), i bersagli di Paolo Rossi erano Emanuele Severino e gli heideggeriani «di provincia».
L'ultimo capitolo di questa battaglia culturale si intitola Speranze, ed è da pochi giorni in libreria per i tipi del Mulino (pp. 148, € 9). Un piccolo libro erudito e spassoso, diviso in tre sezioni: «Senza speranze», «Smisurate speranze», «Ragionevoli speranze». Ovvero, semplificando appena un po', gli apocalittici, gli utopisti e... i riformisti.
Cambiano i nomi e i volti, ma il risentimento contro la modernità rimane lo stesso. Siamo davanti a un problema cronico?
Forse sì. La critica al mondo nel quale viviamo ci accompagna da sempre. Nel nostro passato non ci sono muraglie che isolino dal resto del mondo una nostra immaginaria perfezione. Ci sono i viaggi, la curiosità, l'idea che gli altri (come i Persiani per Montesquieu o i Cinesi per Leibniz e Voltaire) possono essere migliori di noi. Sappiamo che alle radici dell'identità europea stanno anche i traduttori ebrei di Toledo e i filosofi arabi dell'Andalusia. Ma un conto è mettere in discussione un patrimonio culturale per meglio possederlo e accrescerlo, per distinguerne l'attivo dal passivo, un altro conto è mettersi in viaggio per le isole felici al fine di liberarsi da quel patrimonio.
Quando i testi della Scuola di Francoforte divennero una sorta di Bibbia delle nuove generazioni - il mondo moderno venne presentato a un larghissimo pubblico non come un edificio bisognoso di riparazioni o ristrutturazioni, ma come un mucchio di macerie.
Lei scrive che il profetismo, sconfinando via via dal linguaggio religioso, è penetrato nella filosofia e nella politica. Un tempo avevamo Oswald Spengler e quelli che Popper chiamava «filosofi oracolari». Chi sono, oggi, in Italia, i profeti del tramonto?
Scelgo a caso fra titoli di libri usciti in Italia dopo il 1990: Catastrofi, Il principio disperazione, Sull'orlo dell'abisso, Progresso e catastrofe, Nuovi rischi, vecchie paure, Le nuove paure Il pessimismo e la predicazione di un' imminente Apocalisse «pagano» e rendono popolari.
Gli intellettuali hanno una forte propensione per l'oltrepassamento, e l'ineffabile. Sono propensi a ritenere che le istituzioni delle società nelle quali vivono siano al servizio delle forze del male. Per questo capita che si dichiarino a favore di regimi politici capaci delle peggiori nefandezze e manifestino disgusto per il mondo entro il quale il destino li ha (per loro fortuna, ma con grande e nobilmente sofferta loro insoddisfazione) collocati. Il problema di molti intellettuali italiani di sinistra (di quella detta radicale o alternativa) sembra sia quello di uscire dall'occidente. Il modo scelto da Alberto Asor Rosa per effettuare questa operazione è quanto di più sofisticato si possa immaginare. Una full immersion nel testo dell' Apocalisse di Giovanni gli consentirebbe di realizzare il sogno di Hegel: «Mettere in reciproca relazione un piano temporale e uno extratemporale della riflessione, che in genere procedono separati e incomunicabili».
E oltre ad Asor Rosa, quali sono gli antimoderni a sinistra? Si trovano tra gli ecologisti, tra i no global?
La risposta dipende dai modi della loro critica alla società. Un conto è pensare quest'ultima come un intreccio di elementi positivi e negativi, individuare limiti e pericoli. Un altro conto è presentarla come un blocco omogeneo. Il mondo moderno, si disse, andava non cambiato, ma «abbattuto». Dato che ai blocchi omogenei non credo molto, esiterei ad appiccicare con facilità l'etichetta di antimodernismo a movimenti anche se, in entrambi, l'antimodernismo mi sembra prevalente.
E a destra? L'antimodernismo si rifugia nella Lega?
L'idea della civiltà occidentale come sfacelo, perdita dei valori, «agitazione e febbre, priva di ogni luce» sta al centro di uno del classici della Destra: la Rivolta contro il mondo moderno di Julius Evola, pubblicato nel 1934. È stato una fonte per molti, ma a volte ho l'impressione che l'antimodernismo presente nella sinistra sia oggi più più vigoroso di quello della destra. Una componente di antimodernismo è certo presente nella Lega, ma non sembra oggi la prevalente.
Un certo tipo di antiberlusconismo ha diffuso ancor più la figura del profeta di sventura. Oggi le Cassandre parlano in piazza? Vede differenze, per esempio, tra un Grillo, un Di Pietro e un Veltroni?
Grillo è la caricatura di un profeta. Di Pietro non ne ha la stoffa. Che le Cassandre parlino in piazza è indubbio. Nella parte finale della domanda vedo rispecchiata una delle ragioni che condannano la sinistra (anche quella riformista) a restare all'opposizione. A causa di una sistematica incapacità di unità, del sistematico rifiuto di riconoscersi o di accettare un leader. Credo che a tutta la sinistra (anche purtroppo a quella riformista) si possa applicare oggi lo schema un tempo riferito ai soli fiorentini: lo sai perché si deve andare alle riunioni con due tesi da sostenere? La seconda serve nel caso che la prima abbia la maggioranza.
Il suo libro aiuta a rispondere a una domanda che si ponevano Raymond Boudon e Robert Nozick: perché gli intellettuali non amano il liberalismo? Si tratta di un risentimento verso un sistema che non li premia abbastanza? Di un mondo troppo «aperto» che rifugge alle grandi semplificazioni, ai fumettoni storici?
La ragione è l'ultima che ha detto. Dove la democrazia è lo sfondo normale della politica, quest'ultima non dà brividi nella schiena e c'è poco spazio per i fumettoni storici. Quelle che Karl Löwith elencava come virtù politiche sono forse tra le cose più difficili da imparare: pazienza, prudenza, scepsi, accettazione dei limiti, rifiuto del modo di ragionare per dicotomie e della tentazione del tutto o niente.
L'immagine che lei offre dell'«apocalittico in poltrona», così come l'ambigua esaltazione di un Citati o di un Ceronetti davanti al crollo delle Torri, che lei cita nel libro, porta alla mente una vecchia idea di George Steiner, secondo cui il desiderio degli intellettuali di "Grande Storia" è legato alla noia di vivere nelle condizioni relativamente pacifiche di una democrazia. I nostri intellettuali si annoiano molto? È per questo che s'inventano grandi canovacci romanzeschi per abbellire l'insensatezza della storia?
Non so se è solo per questo, certamente è anche per questo. Uno dei noti intellettuali citati sopra ha scritto una volta che la sua visione della storia come apocalisse era nata per «riempire la nuda, empirica, quotidiana e spesso squallida frequentazione della storia con qualche prospettiva meno precaria e transitoria di quelle con cui ci trastulliamo ogni giorno». Questo è un modo per fare della politica un sostituto della religione.
Lei polemizza sia con i profeti di sventura sia con gli ottimisti immotivati. Solo che, a differenza del passato, sembra che questi ultimi si siano molto assottigliati. Lei cita, come esempio di ottimismo irragionevole, quello che puntano a ottenere l'immortalità per vie scientifiche. Caduta la speranza in una Città ideale, le uniche «smisurate speranze» vengono dalla tecnologia?
È vero. Si sono grandemente assottigliati. Tuttavia credo che sia una forma di smisurata speranza anche l'appello ad una Grande Speranza senza la quale le piccole, parziali speranze perderebbero ogni senso.
Ha seguito la polemica sul nuovo libro di Victor Farías "L'eredità di Heidegger"? Il gregge degli antimoderni è ancora guidato, oggi, dal Pastore dell'Essere?
L'ho seguita abbastanza. Nella imminente riedizione del mio Paragone degli ingegni moderni e postmoderni ho aggiunto un saggio dedicato a discutere il libro su Heidegger di Franco Volpi e Antonio Gnoli intitolato L'ultimo sciamano. Bobbio, nel 1989, si associava al mio giudizio negativo sull'heideggerismo italiano, e giudicava «ardito e provocatorio» il mio paragone tra filosofia di Heidegger e tradizione magico-ermetica. Quel paragone viene oggi fatto proprio dagli specialisti.
Ho però forti dubbi che si possa parlare di un ultimo sciamano. Nella tradizione della filosofia ci sono da sempre personaggi come Empedocle, che si presentava ai suoi discepoli come un semidio, e come Socrate che andava per le strade a porre domande in apparenza banali. Penso che la Storia (vale a dire il senso della storia, la sua struttura, la sua direzione) ci sia e ci sia sempre stata preclusa. Che la storia possa essere decifrata dalla filosofia è stata la Grande illusione del Novecento. Essa è nata dal bisogno di tamponare con una nuova mitologia il vuoto lasciato dalla crisi della religione e di rispondere a una nostalgia dell'Assoluto.

il Riformista 31.10.08
Svolta di Ratzinger, psicologi in Vaticano
di P.R.


Tredici anni non sono pochi per l'uscita di un documento vaticano
NOVITÀ. Un documento del Vaticano apre ai nipotini di Freud. A loro il compito di valutare la «maturità affettiva» dei futuri preti. Gay compresi.
Benedetto XVI

Tredici anni non sono pochi per l'uscita di un documento vaticano. E non lo sono nemmeno per il documento uscito ieri, anche perché l'argomento di cui parla non è dei più facili. S'intitola "Orientamenti per l'utilizzo delle competenze psicologiche nell'ammissione e nella formazione dei candidati al sacerdozio" ed è stato curato dal ministero della Santa Sede che si occupa dell'educazione cattolica, con delega, appunto, ai seminari. In sostanza, un pamphlet di sole diciotto pagine che spiega come, in quali casi e perché, sia opportuno l'uso di psicologi (anche tramite test) per valutare eventuali patologie e «ferite» psichiche dei candidati al sacerdozio.
Perché una così lunga gestazione? La colpa - per molti il merito - pare sia di Joseph Ratzinger: fu lui, da cardinale, a rispedire indietro più volte il documento al quale il Vaticano iniziò a lavorare nel 1995. È stato lui a controllarne i contenuti una volta divenuto Pontefice. Il motivo? Il testo era troppo sbilanciato sulla scienza. Ovvero sugli psicologi. Si insisteva troppo sulla psicologia come scienza utile a discernere la giustezza delle vocazioni e troppo poco, invece, sul piano spirituale ovvero sul fatto che ogni vocazione è per la Chiesa, in ultima analisi, una grazia. E, dunque, su come l'ultima decisione in merito alle vocazioni sacerdotali spetti a coloro che guidano i vari seminari e non agli psicologi e alla psicologia.
Ma gli psicologi, si sa, aiutano. E sono importanti soprattutto di questi tempi, come i ripetuti casi di pedofilia scoppiati nelle diocesi del Nord America dimostrano. E Benedetto XVI ne è consapevole tanto che finalmente, dopo tredici anni, ha permesso l'uscita di questo importante documento. Non un testo destinato soltanto ai casi di omosessualità nei seminari (di questi già aveva parlato un testo del 2005 uscito dalla congregazione per la Dottrina della fede), quanto una riflessione sull'aiuto che la psicologia può dare a quei seminaristi che non manifestino una piena e cosciente maturità sessuale. Per costoro, qualora il sostegno dello psicologo o la psicoterapia non causasse miglioramenti, il cammino verso il sacerdozio può essere legittimamente interrotto. Per il bene degli stessi seminaristi, ma pure per il bene della Chiesa.
Il documento non manca di elencare le immaturità che si possono manifestare nei candidati al sacerdozio: forti dipendenze affettive, notevole mancanza di libertà nelle relazioni, eccessiva rigidità di carattere, mancanza di lealtà, identità sessuale incerta, tendenze omosessuali fortemente radicate. In questo senso, hanno spiegato ieri il cardinale Zenon Grocholewski e monsignor Jean-Louis Bruguès, rispettivamente prefetto e segretario dell'Educazione cattolica (l'uscita del documento si deve anche all'arrivo in congregazione di quest'ultimo), coloro che manifestano «tendenze omosessuali fortemente radicate» o un'identità sessuale «incerta» non possono entrare in seminario e diventare sacerdoti.
P. R.

il Riformista 31.10.08
Trovata la minuta del domenicale di Eugenio Scalfari
di Antonello Piroso


La pretesa resurrezione del Pd, la cena con Eco, Inge e Grass. La saggezza di Anemone, il barbiere di piazza della Minerva, le correnti e l'effetto rifrazione dei frammenti del partito-specchio rotto e il sarcasmo di D'Alema

Dedico queste note alla pretesa resurrezione del Pd e alla percezione che di essa hanno avuto l'opinione pubblica e i mass media. La prima, è noto, è come l'atmosfera: impalpabile, pura o inquinata, strutturata nelle sue componenti chimiche ma al tempo stesso volatile sotto la sferza di venti improvvisi. Gli stessi che consentiranno alla Cai di Roberto Colannino, con la benedizione del Grande Incantatore di Palazzo Chigi, di far solcare il cielo ai propri vettori tra il plauso dei Balilla della maggioranza e con l'abbrivio che animava lo spirito e le membra di Gabriele D'Annunzio nella sua impresa istriana. I secondi, le "moderne armi di persuasione di massa" - come le definisce l'autorevole professor Paolo Ferrari, più noto all'universo mondo come l'uomo del Dash - vivono l'hic et nunc, in una sorta di eterno ritorno dal sapore nietzschiano. Possiamo allora, dopo la grande manifestazione di sabato, dichiarare invertita la rotta - con il favore dei venti di Eolo - e onorare Walter Veltroni come intrepido Ulisse pronto al ritorno a Itaca per sbaragliare Massimo D'Alema e i suoi Proci, in primis Nicola La Torre? Nella "Scienza Nuova", Giambattista Vico sosteneva l'immutabilità dei caratteri sia degli individui sia dei soggetti collettivi. Ma è un principio che sopporta parecchie eccezioni. Basta guardare - o tempora, o mores - i tanti giri di valzer ai quali ci ha abituato Gavino Angius. Ne discutemmo una sera fino a tardi con Umberto Eco, Gunther Grass e Inge Feltrinelli. In onore dello scrittore tedesco intonammo dei simpatici jodler tirolesi, e poi ci sbizzarrimmo in acculturati giochi di società. Eco declamò: «Fatti non foste per vivere come Drupi…». «E chi è?» interloquì Inge. «Un cantante degli anni Settanta» sbuffò Eco, che a tradimento aggiunse: «Chi ha scritto Anima mia?», e Inge, garrula: «Lo so, lo so: il teologo Vito Mancuso». Eco si accasciò sfranto mentre Grass ci guardava perplesso, denunciando una sorta di spaesamento autistico che era anche il mio.
È questa condizione di estraniazione, di alienazione (in senso marxiano) la stessa che sta vivendo il Pd? Quello che so è che la fotografia più nitida della nostra caduca contemporaneità me l'ha offerta giorni orsono la saggezza di Anemone, il barbiere di piazza della Minerva dove già tagliavano le loro chiome Mario Pannunzio e Arrigo Benedetti quando poi la sera andavamo in via Veneto a sorbettare un Punt e Mes. Ebbene, Anemone mi ha raccontato, in quel vernacolo che lega Gioacchino Belli, Trilussa e financo Gianfranco Funari, di come uno specchio gli sia andato in frantumi, mentre cercava di spostarlo per far posto al calendario di tal Sara Varone, ennesimo esemplare muliebre prono alla mercificazione delle proprie pudenda. «A' dotto', 'o specchio è venuto giù dar muro come 'n sercio» ha esemplificato Anemone. Il suo specchio come il muro di Berlino. Ecco, a guardare il Pd «con occhi distaccati» - per dirla con l'indimenticato Marty Feldman, protagonista della pellicola "Frankestein Junior" - viene in mente uno specchio rotto. Ridotto in frammenti correntizi che riflettono, ciascuno, un'immagine parziale e deformata. Un effetto di rifrazione. In quella molteplicità di immagini si specchia una miriade di gruppi di dirigenti; nei frammenti di minime dimensioni cerca di rimirarsi, inutilmente, il solo Goffredo Bettini. Rutelli contempla Fassino, Franceschini osserva Parisi, Bersani concupisce la Finocchiaro, Soru ammicca alla Melandri, Gentiloni fissa Letta, la Bindi guata di sottecchi Veltroni, tutti si girano verso D'Alema, che li scruta come a dire: «Cazzo avete da guardare?». Alla fine, ciascuno - gruppi e individui - guarda se stesso e se ne compiace, ma non c'è la visione di insieme. Ci vorrebbe uno specchio unico per avere un'identità condivisa, ma è proprio questo che manca al Pd. Forse la sua crisi come soggetto politico è conseguenza di un mutamento antropologico e sociale: tante opinioni private senza più una visione del bene comune, al tempo stesso causa ed effetto del successo del Sire di Arcore, la parrucca del Re Sole che governa il Belpaese, agevolato dagli asserviti corifei mediatici della Real Casa. Le redini si sono rotte e i cavalli corrono all'impazzata senza un fantino, un Brunetta che possa guidarli. A questa è ridotta ormai la nostra povera Patria: il pifferaio suona, gli allocchi abboccano e il Pd si impaluda in un barattolo di Nutella. Lascio ai lettori trarre le dovute conclusioni. Avvertendoli però che il prolasso del sistema è alle porte. Per quanto mi riguarda, io ritorno a parlare con io.
(Estratto dell'editoriale di domenica prossima di Eugenio Scalfari su Repubblica)

Irispress.it 30.10.08
Scuola: Bertinotti, ci sono ragioni per lo sciopero generale

ROMA, 30 OTT - "Lo sciopero generale è sempre stato, nell'intera storia del movimento operaio, il banco di prova della maturità di un'opposizione, del consenso di massa e partecipato che vive con essa. ''Lo è ancora? Sí, lo puó essere" Fausto Bertinotti scrive il proprio commento all'attuale situazione sul bimestrale 'Alternative per il socialismo'. "Viene eletto a normalità lo stato di emergenza. Si dispiegano, senza freni, le posizioni della Confindustria per l'affermazione del primato assoluto dell'impresa, si fa potente il tentativo di irretire il sindacato, di cancellare il contratto nazionale di categoria, fino a proporre l'orizzonte concreto dei contratti individuali. Sí ci sarebbero tutte le ragioni per lo sciopero generale, eppure esso non è all'ordine del giorno. Perché?" conclude l'ex presidente della Camera.

Adnkronos 30.10.08
Scuola: Bertinotti, da qui riparte la lotta sociale

Roma, 30 ott. - (Adnkronos) - "La lotta sociale riparte dalla scuola". Cosi' Fausto Bertinotti, commenta la massiccia partecipazione del popolo della scuola alla manifestazione organizzata a Roma contro le politiche del governo. Una partecipazione massiccia che, secondo Bertinotti, vuol dire che "la mancanza di opposizione politica o meglio la possibilita' di un governo di neutralizzare l'opposizione non evita che si possa determinare una crisi sociale e una contrapposizione sociale. Anche in assenza di un'opposizione politica si puo' realizzare una grande opposizione sociale di una societa' civile che si muove in autonomia''. ''Siamo di fronte a un fatto nuovo, un movimento post novecentesco che nasce spontaneamente su una realta' come quella della scuola in cui sono gli stessi protagonisti a immedesimarsi nella contestazione. E' il corpo sociale -ha concluso- come tale, che manifesta la sua contrarieta'".

Apcom 30.10.08
Scuola/ Bertinotti: Impressionante spedizione punitiva di ieri
"Certo suo carattere richiedeva intervento pronto polizia"Roma, 30 ott. (Apcom) - L'ex presidenne della Camera, Fausto Bertinotti, non vuole entrare nelle polemiche sulla gestione dell'ordine pubblico in occasione degli scontri di ieri in Piazza Navona: "Mi ha colpito di più - commenta parlando con i cronisti a margine della manifestazione sindacale sulla scuola - che sia stata organizzata una spedizione punitiva, quello è impressionante".
Secondo Bertinotti "per fortuna questo è un movimento che non teme di essere inquinato dalla provocazione: la sua connotazione antifascista è non-violenta è dichiarata".
"Certo - aggiunge, rispondendo a una domanda sulla presenza in quella piazza dei componenti del Blocco Studentesco armati di mazze - il carattere così proditorio richiedeva un intervento della polizia pronto...".

Apcom 31.10.08
Bertinotti agli studenti: Sulla riforma terrò una lezione
L'ex presidente Camera dedicherà una lezione a Perugia sull'argomento


Perugia, 31 ott. (Apcom) - Una lezione all’università dedicata alle difficoltà con le quali si trova a fare i conti il mondo della scuola. L’ha promessa agli studenti dell’Ateneo di Perugia l’ex presidente della Camera, Fausto Bertinotti, che oggi ha tenuto la sua seconda lezione da professore universitario alla facoltà di giurisprudenza del capoluogo umbro.
Alcuni studenti del movimento in lotta contro la riforma Gelmini, provenienti dalla fazione degli «autoconvocati», hanno chiesto a Bertinotti di poter esprimere a lui e agli altri ragazzi presenti il malessere che si sta vivendo nell’Università perugina dopo i tagli e il rischio di privatizzazione paventato dal governo Berlusconi. Tutto questo è avvenuto nel corso della lezione. Bertinotti ha chiesto di poter continuare la sua «traduzione» della storia della Costituzione, rimandando alla terza lezione un intervento specifico sulla scuola e sui mali che la stanno attraversando. Gli studenti hanno accolto la proposta dell’ex presidente della Camera.