No, il carcere non è un manicomio
La polemica
Risposta a Massimo Fagioli che sulla rivista Left ha sostenuto che le galere hanno sostituito le istituzioni abolite alla legge Basaglia. Così si riduce la popolazione detenuta a un concentrato di malattie mentali
di Luigi Manconi e Andrea Boraschi
Nei penitenziari ci sono persone malate e persone sfortunate. Ma sono uomini e donne artefici del proprio destino e capaci di riscatto
II problema è dunque quello dell'istituzione carceraria che, così com'è fatta, riproduce l’attività criminale e se stessa
Si dice (sempre più spesso, sempre da più parti): «il carcere è diventato una discarica sociale». E una frase ambigua, da sottoscrivere solo in parte. Da un lato, mette bene in luce come il sistema penale e penitenziario si sia trasformato in un terminale per molteplici processi di marginalizzazione e di esclusione; e suggerisce come lo stato, e la società tutta, siano, in molte situazioni, sempre più assenti, sempre più incapaci d'intervenire per garantire opportunità di integrazione e di «recupero» alle fasce più deboli ed esposte della popolazione. Spiega, quella frase, come il sistema della «sicurezza civile» (che presiede alla difesa dell'incolumità dei cittadini e, quindi, procede a sanzionare chi, quest'incolumità, violi o metta a repentaglio) e quello della «sicurezza sociale» (che è fatta di diritti, welfare, intervento pubblico, garanzie) siano sempre più divaricati, sino a diventare confiiggenti. E la tendenza emergente da questo conflitto segnala che gli strumenti della repressione prevalgono su quelli della inclusione: ovvero che il carcere è divenuto, nel tempo, una non-soluzione a problemi di ordine sociale, più che penale. E, dunque, varrebbe la pena rovistare tra i «rifiuti» se di «discarica» si tratta; e si scoprirebbe che gli istituti di pena sono pieni di immigrati irregolari, tossicodipendenti, persone affette da disturbi psichici, emarginati d'ogni genere. Individui la cui condizione, sociale e individuale, può rivelarsi come un potente fattore precipitante verso le più diverse forme di devianza; e la cui condizione di marginalità impedisce, assai spesso, l'applicazione di quelle forme di difesa e tutela previste per chi è accusato di un crimine. Dunque, individui per cui il carcere si traduce, nella maggior parte dei casi, in un mero aggravamento del disagio e della emarginazione che già scontano.
Lo spunto per queste note ci viene da un articolo di Massimo Fagioli, pubblicato sul numero 26 del settimanale Left. Lo psichiatra romano sembra invitare a una riflessione proprio su questo punto: chi sono i detenuti? Qual è il loro profilo sociale, culturale, economico? e clinico? In quello scritto si accenna a diverse questioni, ugualmente meritevoli di approfondimento; ma una su tutte ci sembra la più interessante e riguarda proprio l'approccio scientìfico dell'autore: secondo il quale il carcere avrebbe, nella maggior parte dei casi, sostituito i manicomi aboliti dalla «riforma Basaglia». Le nostre galere, insomma, sarebbero piene di casi psichiatrici: persone, cioè, che andrebbero curate, ancor prima di essere punite. Sullo sfondo di questo ragionamento, si scorge quella che Fagioli stesso riconosce come un'utopia: l'abolizione del carcere in quanto istituzione. E, tuttavia, se quell'idea rimane - nelle condizioni attuali - «una favola», da essa si dovrebbe pur muovere per ripensare radicalmente la funzione sociale del sistema penale: serve a punire o a riabilitare? E quali effetti produce la detenizione sulla persona? E in quali casi vi si dovrebbe ricorrere?
Lo si è scritto più volte su queste stesse colonne: l'impostazione che vede il carcere quale principale (se non sola) politica penale è profondamente sbagliata. La detenzione, specialmente per come si configura nel nostro sistema, va ridotta ai minimi termini, riservata ad alcune fattispecie di reato e prevista solo per quei casi in cui la libertà del reo costituisce una minaccia attiva per la società. Esistono molte possibili forme di sanzione, alternative al carcere e più efficaci di esso, rispetto alle quali poco si è realizzato e poco si è sperimentato. Siamo altresì convinti che le «patrie galere» siano colme (anzi, stracolme) di persone che lì non dovrebbero trovarsi, che avrebbero bisogno di cura, aiuto, assistenza. Pure, quell'equazione tra istituti di pena e luoghi di «concentrazione» dei rifiuti, come dicevamo in apertura, non ci convince del tutto. E non perché ci sembra osceno che si paragonino i detenuti alla spazzatura (non c'è alcun intento stigmatizzante in quella definizione: al contrario). Ma non crediamo esistano dei meccanismi così ineludibili e cogenti da determinare una relazione stretta, di causa-effetto, tra lo svantaggio sociale e il crimine. Quello svantaggio è un fattore agevolante importantissimo: ma non è, in ultima analisi, un fattore determinante. Così pure, il ragionamento di Fagioli appare in larga misura condivisibile: è vero che il gesto criminale è molto spesso sintomo di un disturbo profondo, che meriterebbe cura e attenzione; e, tuttavia, questa affermazione (riferita specificamente a chi commette i reati più gravi ed efferati) non è generalizzabile oltremisura. In primis, perché questo approccio rischia di scivolare in una sorta di «panpsichiatrizzazione» della delinquenza o, peggio, della devianza. E, come ben documenta una ricerca di Laura Astarita sul carcere bolognese della Dozza, già oggi i detenuti assumono una quantità di psicofarmaci (vuoi perché effettivamente portatori di disturbi psichici, vuoi perché si tende a «sedarli») di gran lunga superiore, proporzionalmente, a quella consumata tra la popolazione libera. Secondariamente, perché questa visione, come più in generale quella della «discarica sociale», rischia - se portata alle estreme conseguenze - di validare un atteggiamento patemalistico-assolutorio, nei confronti dei detenuti, che vanifica il peso e il ruolo della volontà individuale. L'analisi del contesto, dei dati clinici, dei disturbi della personalità è determinante per comprendere un fenomeno assai complesso quale è quello del crimine: che è, innanzitutto, una misura fisiologica e inestinguibile di resistenza e infrazione alle regole che organizzano una società. E vanno tenuti in grande considerazione, per far sì che la giustizia penale non sia estranea a quella sociale. Ma equiparare il carcere, persino «questo» carcere, a un sistema di occultamento e segregazione della follia vuoi dire ridurre la popolazione detenuta, nel suo complesso, a un concentrato di malattia mentale. Così pure, equipararlo definitivamente a una «discarica sociale» vuoi dire dare per spacciato chiunque nasca in condizioni di grave disagio sociale. In carcere ci sono molte persone malate e molte persone sfortunate; ma ci sono, soprattutto, uomini e donne artefici del proprio destino. E, dunque, capaci del proprio riscatto. Per questo motivo, soprattutto per questo motivo, non meritano di vivere segregati in un meccanismo punitivo, capace solo di riprodurre l'attività criminale stessa. E, con essa, il carcere.
Corriere della Sera 15.7.06
IN COMMISSIONE
Camera, primo sì all’indulto
Un indulto di tre anni. Lo prevede il testo base sullo sconto di pena approvato a larga maggioranza dalla commissione Giustizia della Camera e messo a punto dal deputato della Rosa nel pugno, Enrico Buemi. L’indulto, applicato a tutti i reati commessi fino al 2 maggio 2006, è escluso per i reati di maggiore pericolosità sociale come stragi, terrorismo e mafia, sequestri di persona a scopo di rapina o di estorsione, ma anche per quelli a sfondo sessuale: dalla violenza di gruppo, alla detenzione di materiale pedo-pornografico. Gli emendamenti al testo dell’indulto, che dovrebbe essere discusso in Aula il 24, potranno essere presentati entro il 18 luglio. «Stiamo chiudendo con fatica - ha affermato Massimo Brutti dei Ds - ma spero che arriveremo ad un provvedimento di clemenza prima di agosto». Marco Rizzo, eurodeputato del Pdci pensa, invece, che «l’amnistia sarà un argomento di cui parlare solo a settembre». E l’esponente dell’Ulivo Pierluigi Mantini ha affermato che presenterà «emendamenti migliorativi sul punto per l’estinzione delle pene accessorie».
il manifesto 15.7.06
Una nuova «forza» a sinistra
«Pace, lavoro e libertà». Da Orvieto prende forma l'alternativa rosso-verde al Partito democratico. La «costituente» sarà in autunno
di Antonio Massari
Ieri è arrivata la risposta al Partito democratico. Una costituente ad autunno, una struttura federale, un'organizzazione ispirata al sindacato. Il nuovo soggetto della sinistra potrebbe nascere presto, con Rifondazione, parte dei Ds e altre associazioni. E se non possiamo stabilire con certezza la data di nascita, di certo ieri hanno messo le basi perché il nuovo soggetto veda la luce: c'erano oltre 200 persone nel borgo medioevale di Pitignano, in provincia di Orvieto, impegnate a discutere i fondamenti di questo progetto politico.
Se la corsa di Ds e Margherita verso il Partito democratico, almeno finora, si è incentrata sul contenitore più che sul contenuto, ieri i protagonisti del nuovo soggetto di sinistra hanno percorso la strada opposta. Non a caso il convegno si titolava: «Il problema dei fondamenti». E i fondamenti sono risultati chiari: «pace, lavoro e libertà». Tre parole d'ordine sulle quali hanno discusso tre componenti di peso nella sinistra non riformista, e cioè «Uniti a sinistra», «Rossoverde» e «Asinistra.it». E non solo loro.
E' intervenuto il segretario del Prc Franco Giordano, che ha mostrato grande apertura verso il progetto: «E' una grande sfida culturale al partito democratico - ha detto Giordano - e Rifondazione Comunista, pur mantenendo la sua autonomia politica e organizzativa, vuole mettere a disposizione tutto il suo percorso politico, perché questa nuova soggettività politica possa nascere». Giordano aggiunge: «Il punto è capire su quali basi culturali ci appoggiamo: dobbiamo ancorarci al mondo del lavoro, alle nuove contraddizioni che toccano l'ambiente, la questione di genere, la pace e la guerra. Non possiamo correre il rischio di trasformare la sinistra in una cittadella autoreferenziale. Purtroppo in questi anni abbiamo assistito a un impoverimento culturale, a una espulsione del conflitto sociale dalla politica. Occorre una ripresa della tematica marxiana. Perché qualche subalternità al neoliberismo, nel centrosinistra, esiste».
Insomma Rifondazione apre i suoi cancelli, e quelli del progetto di Sinistra europea, che da ieri può iniziare a camminare a due gambe. Il senatore diessino Cesare Salvi, della corrente «Socialismo 2000», aveva annunciato immediatamente che non avrebbe mai aderito al Partito democratico, e che si sarebbe impegnato per la nascita di un nuovo soggetto di matrice socialista. Infatti ieri era presente all'appuntamento e ha subito afferrato il messaggio di Giordano: «Non posso che esprimere grande apprezzamento per le parole di Franco Giordano: è un primo passo importantissimo», ha dichiarato. «Il dibattito sul Partito democratico è simile a un vuoto pneumatico ed è un progetto al quale dico no senza se e senza ma», ha aggiunto. «Invece noi abbiamo bisogno di dare uno scarto culturale e politico. Siamo dinanzi a un momento complesso: il risultato elettorale, come è evidente, si è dimostrato inferiore alle aspettative. IL governo ha dei problemi: pace, lavoro, lotta al precariato. Sembra che l'abolizione della legge 30 sia improvvisamente scomparsa dall'agenda politica. Abbiamo bisogno di riflettere, di capire perché stia accadendo questo».
Soddisfatto del primo incontro anche Pietro Folena, indipendente di Rifondazione ed esponente di «Uniti a sinistra»: «Quella di oggi è stata un'ottima giornata: la piattaforma offertaci da Aldo Tortorella (presidente di Arsinistra.it, ndr) è stata un'ottima base. In più c'è una novità: l'apertura di Franco Giordano, con Sinistra europea che si mette in gioco».
Quindi il nuovo soggetto politico della sinistra è davvero in vista? «Credo che la costituente di sinistra europea, prevista per l'autunno e sollecitata da Giordano, possa essere l'occasione giusta per la costituzione di questo nuovo soggetto politico», dice Folena. Che aggiunge: «Oggi abbiamo cercato di delinearne i fondamenti ideali e nella seconda giornata del convegno avremo modo di approfondire ancora. Penso che questo soggetto possa essere federativo, con una larga rappresentanza nei territori, come moderne case del popolo».
aprileonline.info 15.7.06
Più azione, meno testimonianza
Il ddl rappresenta una netta discontinuità. E’ un passo in avanti per chi ha l’obiettivo di una exit strategy dall’Afghanistan. Il movimento ha bisogno di autonomia
di Gennaro Migliore*
A pochi giorni dalla discussione sul rifinanziamento delle missioni italiane all’estero, possiamo trarre alcuni elementi di giudizio sull’importanza generale in politica estera del governo Prodi. Questo disegno di legge rappresenta una discontinuità rispetto al precedente governo Berlusconi. Otteniamo infatti lo straordinario risultato del ritiro completo delle truppe italiane dall’Iraq. Questa scelta è una vittoria per il movimento della pace italiano. Tra le 28 missioni italiane, le quali costituiscono un reale contributo alle operazioni di peace-keeping a protezione delle popolazioni civili, c’è l’eccezione della missione Isaf in Afghanistan, retaggio della prima guerra in nome della lotta al terrorismo inauguratasi dopo l’11 settembre 2001. Abbiamo sempre contrastato l’ideologia statunitense della guerra preventiva e della lotta al terrorismo fatta con gli eserciti. Ma il terrorismo lo si combatte solo se si prosciuga il bacino d’odio da cui i criminali terroristi attingono per perseguire le loro nefande attività. Per questo chiediamo con forza un intervento della comunità internazionale che impedisca ad Israele di proseguire nell’azione di aggressione sistematica ai palestinesi, oggi esteso anche alla popolazione del Libano.
Berlusconi sbagliò ad inviare i nostri soldati in Afghanistan. Tuttavia, molte forze dell’Unione non la pensano così. Il disegno di legge sulle missioni è la sintesi tra chi avrebbe voluto una exit-strategy alla Zapatero (ritirò le truppe dall’Iraq triplicando la presenza in Afghanistan) e chi, come noi, vuole la chiusura dell’esperienza militare in Afghanistan. La mediazione raggiunta rappresenta un punto di partenza importante per riprendere un’iniziativa di massa anche sul tema dell’exit-strategy dall’Afghanistan.
L’accordo si basa su tre pilastri fondamentali. Il congelamento dell’attività compresa una non modificazione delle regole d’ingaggio e delle aree di intervento che rimangono a Kabul e Herat scontentando così le richieste del Segretario Generale della Nato. La costituzione di un comitato parlamentare di monitoraggio e verifica permanente coadiuvato da importanti esperti della società civile e di operatori civili che agiscono in Afghanistan. Una mozione di indirizzo al governo sulle missioni che contiene degli avanzamenti significativi in linea con la nostra idea di politica estera (a partire dalla prevenzione dei conflitti e dalla messa al centro dell’Articolo 11 della Costituzione italiana e del rispetto della legalità internazionale).
L’accordo raggiunto non contraddice le istanze pacifiste. In questo quadro crediamo sia di vitale importanza raggiungere l’autosufficienza della maggioranza che sostiene il governo senza far ricorso ai voti di una parte dell’opposizione. Per questo credo sia profondamente sbagliato il ragionamento fatto da alcuni senatori dell’Unione che minacciano di non votare il disegno di legge. L’autosufficienza politica dell’Unione è un bene comune da difendere.
Apprendo che numerosi esponenti pacifisti non siano stati nemmeno invitati all’assemblea che si terrà domani sabato 15 luglio. Peccato perché al posto di una sterile assemblea in sostegno di alcuni parlamentari si sarebbe potuto dar vita ad una rinnovata azione del movimento pacifista. L’autonomia del movimento è un bene prezioso. Autonomia sia dal governo ma anche da chi tenta di farsi appoggiare strumentalmente in battaglie politiche interne alle loro organizzazioni. Occorre rifuggire da queste tentazioni e scegliere una strada che privilegi l’efficacia dell’azione alla pura testimonianza.
*Capogruppo Camera Prc - Sinistra europea
Repubblica 15.7.06
In Bozze. La luna di Ingrao
di Simonetta Fiori
Non è un'autobiografia ingessata quella che Pietro Ingrao ha appena consegnato alla casa editrice Einaudi, annunciata per settembre nei Supercoralli con il titolo Volevo la luna. D'altra parte in un personaggio della sua caratura non sorprende il bilancio irrituale e tutt'altro che reticente del Pci, soprattutto la resa dei conti con Palmiro Togliatti. Specie sulla vicenda ungherese, tuttora molto sentita, Ingrao non lesina critiche al segretario, in un ripensamento sofferto dei suoi silenzi rabbiosi intorno a una tragedia che spaccò il mondo e la sinistra. Una memoria, in sostanza, niente affatto indulgente: con se stesso e con la storia del suo partito. Per questo ancora più preziosa.
Più che un'autobiografia, Volevo la luna è il racconto corale di oltre un secolo di storia: dalle lotte risorgimentali della famiglia (il nonno garibaldino in fuga dalla Sicilia borbonica, arretrata e parafeudale) al ritratto di gruppo nella vecchia casa in Ciociaria (il mondo di signori e contadini destinato a tramontare nel primo scorcio del Novecento). C'è "il lungo viaggio attraverso il fascismo", con il mitico gruppo romano - gli Amendola, i Pintor, i Lombardo Radice - raccontato nella sua dimensione più autentica, su cui s'infrange qualsiasi tentativo revisionistico. E c'è naturalmente la militanza nel Pci, incluse le battaglie eretiche per il diritto al dissenso, che segneranno la nascita della folta costellazione degli ingraiani. Una luce famigliare investe il Sessantotto, vissuto attraverso le speranze delle figlie.
Se la vita è "l'arte dell'incontro", il nonagenario Ingrao è abilissimo nel restituire i suoi: dagli affetti della vita - in primo piano la moglie Laura Lombardo Radice - ai colloqui con Che Guevara e Mao. Tante emozioni, un senso profondo dell'amicizia: colpisce il dialogo con Luigi Nono, la pena nei giorni della sua fine.
L’Arena 15.7.06
Un elegante volumetto edito da Donzelli presenta tutti gli «Scritti» del grande astrattista americano, solo in piccola parte noti ai lettori italiani
L’arte secondo Rothko
Nei suoi dipinti una «vampata di luce»
Le pagine testimoniano della tenacia irriducibile con cui l’artista ha continuato a credere nella forza comunicativa delle sue opere
di Gian Luigi Verzellesi
Tra i pittori del Novecento sono innumerevoli i seguaci di Dioniso, obbedienti alla sua vena rumorosa, aggressiva e sconcertante. Non così Mark Rothko (nella foto), nato nel 1903 e morto nel 1970, astrattista americano, devoto di Apollo, inteso come " il Dio della Luce ", grazie al quale " in un lampo di splendore non solo ogni cosa viene illuminata ma, come l'intensità aumenta, è allo stesso modo annientata. È questo segreto di cui mi servo per contenere il Dionisiaco in una vampata di luce ". Parole che si leggono in certi appunti del 1960, inclusi in un elegante volumetto, (presentato da Miguel López Remiro, edito da Donzelli) che presenta tutti Scritti sull'arte di Rothko, solo in piccola parte noti ai lettori italiani. Parole preziose, in quanto manifestano l'intento tenacemente ricercato e realizzato dall'artista nei suoi dipinti (dal 1947, quando si discosta dai surrealisti, in poi): dipinti, spesso maestosi, come pareti colorate, in cui l'esigenza predominante di "esprimere emozioni umane fondamentali" non si vale più della tradizionale rappresentazione di soggetti riconoscibili, ma è affidata a grandi quadrangoli cromatico-luminosi. Nei quali "ogni cosa" risulta sopraffatta e annientata da una "vampata di luce", così come permane condensata nelle campiture rettangolari che emergono da altre campiture in ombra, stagliate nello spazio dell'immagine.
"Sono convinto - scrive Rothko - che un dipinto può comunicare direttamente solo con quei vari individui che hanno la fortuna di trovarsi in sintonia con l'opera e con l'artista".
Dal ritratto dell'artista, tracciato da John Fischer nel 1970, il lettore apprende che Rothko era tutt'altro che fiducioso nelle capacità della critica d'arte: "disprezzo e diffido di tutti gli storici dell'arte, degli esperti e dei critici. Non sono altro che una massa di parassiti, che si nutre del corpo dell'arte. Il loro lavoro non solo è sterile, è fuorviante". Rosenberg (uno dei più prestigiosi critici americani) "si ostina a interpretare fenomeni che sfuggono alla sua comprensione": non capisce che "un dipinto non ha bisogno di nessuno. Se vale qualcosa parla da sé". Né Greenberg, né Emily Genauer, né Katharine Kuh, nè Selden Rodman (tutti addetti ai lavori della critica) avrebbero capito o saputo ascoltare i messaggi visivi di Rothko. A Rodman che gli aveva detto, "per me sei un artista: un maestro di armonie cromatiche", risponde seccamente: "non sono un pittore astratto: non mi interesso ai rapporti di colore"... Risposta sibillina che attesta una sorta di animosità difensiva, che lascia perplessi e induce a chiedersi: se le reazioni di colore non costituiscono l'essenziale, da che fattori è suscitata la reazione sentimentale dell'osservatore? Rothko precisa: "io preferisco comunicare una visione del mondo", "non credo che il mio lavoro abbia a che fare con l'espressionismo", i miei "dipinti di grande formato sono come drammi cui si prende parte in modo diretto".
Dichiarazioni come queste ricorrono nelle pagine degli scritti, ora pubblicati, come testimonianze della tenacia irriducibile con cui Rothko ha continuato a credere nella forza comunicativa dei suoi dipinti. Più volte ha precisato che, per poter essere capiti e ammirati, quei quadri spaziosi devono essere immessi in un bagno di luminosità accogliente, perché "se c'è troppa luce, i colori si fanno slavati e la loro apparenza si altera". Ma nel corso degli anni, la fiducia di Rothko di poter verificare l'efficacia comunicativa della sua pittura, è progressivamente diminuita. Il nucleo espressivo, reso visibile nelle grandi tele, risultava sfuggente o male inteso. Di qui, come ha notato Fischer, "la sua rabbia cronica: legittima in un uomo che si sentiva destinato a dipingere templi e constatava che le sue tele erano trattate come merci".
Un uomo dotato di un temperamento di grande, rara energia, che deprecava il consumismo, e concepiva l'arte come comunicazione tra l'artista e il pubblico: senza avvertire che dipinti come i suoi, "a denotazione zero" (ossia svincolati dalla rappresentazione mimetica), essendo privi di 'contenuto', esigono l'integrazione dello spettatore. Per l'amico Barnett Newman, Rothko avrebbe evocato "immagini di morte"; per un collega come che Clifford Still esprimerebbe " la tirannia dell'ambizione di soffocare " il riguardante con distese di colore; per T.J. Clark offrirebbe la possibilità di osservare "La nascita della tragedia di Nietzsche rifatta da Renoir"...
La disparità di queste interpretazioni (segnalate da Riccardo Venturi nella densa e incisiva postfazione) attesta il disorientamento fatale della critica di cui Rothko continuava a non fidarsi. Infatti, si sentiva molto diverso dagli espressionisti astratti. Era alla "ricerca disperata (così scriveva nel '69) di sacche di silenzio", dove "radicarsi e crescere". Né il successo internazionale né la prestigiosa laurea honoris causa, conferitagli dall’Università di Yale, hanno saputo dargli la pace interiore. E il coraggio di continuare a vivere.
http://www.imgpress.it/notizia.asp?idnotizia=19940&idsezione=4#
IGMPRESS 15/07/2006
Stanchi di sentire tifosi ossessionati dalla retrocessione, e giornalisti ossessionati dalla televisione, spegniamo tutto e viviamo. Così se vi capita di passare da Roma in questi giorni, oltre che venire a trovare due emigranti solitari, fate un giro a Trastevere. Vi capiterà di camminare tra piazze (come quella di San Cosimato, appena ristrutturata in stile hightech) che ospitano video istallazioni e sedute da biennale d’arte contemporanea, e basterà girare l’angolo per ritrovarsi in un vicolo che fino al 23 luglio accoglie artisti affermati, registi, attori e comparse. Tra le comparse noi emigranti ci facciamo strada, e accaparriamo due posti in piedi per sentire parlare di cinema due dei più grandi registi contemporanei della scena italiana: Marco Tullio Giordana (La meglio gioventù, per intenderci) che intervista Marco Bellocchio (l’ultimo film è Regista di Matrimoni, ma forse ricorderete Buongiorno Notte o L’ora di religione). Insomma, tempo e spazio per volare alto, e ripercorrere nella lunga conversazione la carriera di Bellocchio attraverso la sua produzione che, da I pugni in tasca (film che nel 1965 gli regala il successo a soli 23 anni), attraversa anche la storia politica e sociale del nostro Paese. Lui ha anticipato le istanze di ribellione del ’68 in parecchi dei suoi primi film, ha documentato con pellicole che potremmo definire militanti gli anni della lotta armata, ha indagato sulla psiche collettiva stringendo una criticata relazione artistica con lo psichiatra Massimo Fagioli, ha interpretato cinematograficamente la letteratura (da Pirandello a Kleist), sempre alla ricerca di una identità politica che non ha, a suo dire, ancora trovato. Abbiamo pensato a quanti di noi vivono chiedendosi e cercando una identità politica, che poi si traduce anche in una esigenza di critica e di interesse verso la realtà in cui viviamo. Che non è solo un rettangolo d’erba di 90x60…è anche una piazzetta di Trastevere, dove se vi capiterà di passare, la sera del 16 luglio, sentirete le note di Ludovico Einaudi, e vi chiederete se è vero.