Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
sabato 27 febbraio 2010
venerdì 26 febbraio 2010
Repubblica 26.2.10
Bonino rassicura il Pd "Resto candidata ma continuo il digiuno"
E difende la par condicio anti-talk show
di Edoardo Buffoni
E il ministro Zaia chiede di bilanciare anche le presenze dei giornalisti nei talk show
ROMA - Emma Bonino non abbandona la campagna elettorale per il Lazio. Anzi: rivendica un rapporto mai così buono con il Pd, grazie a Bersani. Ma la leader radicale non ha alcuna intenzione di fermare lo sciopero della sete e della fame. Ieri ha risposto a più di 300 messaggi nel videoforum di Repubblica Tv, con la consueta determinazione nonostante non mangi e non beva da lunedì sera.
Il suo slogan elettorale è "Ti puoi fidare". Resta in corsa per il Lazio, o bisogna dar retta a Pannella quando ipotizza un suo ritiro?
«La battaglia per la raccolta delle firme per me è un problema di coscienza. Dopodiché so che entrano in gioco altre responsabilità, gli impegni che ho preso, il fatto di non correre da soli. Il mio sciopero non vuol essere una minaccia per nessuno».
Ma così lei si comporta più da leader di partito che da guida di una coalizione.
«Con tutto il rispetto, per me non c´è solo il Lazio. Noi Radicali siamo una formazione piccola, anomala, ma nazionale e antica. Da leader nazionale mi pongo il problema della presentazione delle liste del mio partito».
Comunque, non si sfila
«Ci tengo agli impegni. È vero, faccio difficoltà a dire di sì, ma poi quando li prendo, li onoro. Qualche prova l´abbiamo data, noi Radicali, o no? O a 60 anni devo ancora stare qui a fare giurin-giurello?».
Le è mancato un sostegno da parte del Pd?
«Di quale Pd parliamo? E´ vero, alcuni non hanno visto di buon occhio l´appoggio che è arrivato da Bersani. Con la nuova segreteria del Pd c´è finalmente un rapporto chiaro, di rispetto. È la prima volta che accade. Ed è una grande novità».
Non tutto il Pd però la pensa così
«Invece devo dire che in giro, dai mercati alla provincia, l´impegno e l´entusiasmo dei militanti democratici sono un patrimonio importante. Il Pd non è solo Rosy Bindi, ma anche le tante persone sconosciute che stanno in silenzio».
Proprio la Bindi le ha chiesto di concentrarsi di più sulla campagna elettorale.
«Ma io faccio campagna elettorale. Incontro tutti, dagli agricoltori ai disabili. Sono stata a Fondi, Viterbo, Rieti, Frosinone, ovunque. La faccio anche con lo sciopero della fame. Le due cose vanno insieme. Senza legalità anche il nostro magnifico programma rischia di essere travolto».
Ma comportandosi da Radicali non si consegna la vittoria alla Polverini?
«Molti cittadini perbene del centrodestra possono sentire questa battaglia come una cosa loro. Sono confusi dalle mille promesse non mantenute, dalla retorica del fare che si riduce a malaffare. La sete di legalità è di tutti».
Lo sciopero della fame non è un modo vecchio di fare politica?
«Se avete altre idee per contrastare l´arroganza del Governo, ditele».
Sul regolamento della par condicio, si sono sollevati tutti.
«Meglio le sfide tra candidati governatori che i soliti ospiti di Ballarò. E poi forse così eviteremo la solita scena in cui Berlusconi, a pochi giorni dal voto e a reti unificate, annuncia il programma per gli italiani».
Dario Franceschini ha detto che non l´avrebbe candidata. Lei rappresenta una minaccia per i moderati cattolici?
«Quello del voto cattolico è un evergreeen del politichese. I cattolici non sono un pacco di voti che si sposta. Chi ha una fede poi sceglie in base a programmi, persone e idee. Comunque Franceschini se aveva un candidato lo poteva anche dire».
Repubblica 26.2.10
"Meno sprechi e più assistenza per i giovani e le famiglie"
In quattro punti il programma del Pd per la Bonino
Ma i vari partiti della coalizione di centrosinistra chiedono maggiori quote per i candidati in lizza
di Laura Mari, Giovanna Vitale
le riunioni sono andate avanti fino a tarda sera. Ma per sapere con certezza i nomi del listino che accompagneranno la candidatura di Emma Bonino alle elezioni regionali bisognerà aspettare fino a questa mattina. Motivo del prolungarsi delle consultazioni, la "guerra delle quote" per decidere quanti nomi per ogni partito della coalizione avranno spazio nel listino. Tra le ipotesi più plausibili, la presenza nel listino di cinque nomi legati al Pd, tre all´Idv (anche se entrambi i partiti in realtà chiedono maggior peso), due ai Radicali e uno a testa per Sinistra Ecologia e Libertà, Federazione della Sinistra, Verdi e Psi.
Intanto ieri il Pd capitolino ha presentato i quattro punti del programma che sosterrà la candidatura della Bonino. Parole d´ordine, meno sprechi, più assistenza agli anziani e, soprattutto, maggiori aiuti alle famiglie piegate dalla crisi e ai giovani. «Un programma semplice, fatto di pochi punti ma concreti» ha spiegato il segretario della federazione romana del Pd, Marco Miccoli. Un documento che affronta quattro temi fondamentali: la sanità, lo sviluppo del territorio con particolare attenzione all´ambiente, il sostegno alle fasce deboli e la razionalizzazione amministrativa.
Quattro impegni, da parte del Pd, per dare un contributo al programma elettorale della Bonino. «Per quanto riguarda la sanità, crediamo sia fondamentale radicarla nel territorio ampliando i turni dei medici di famiglia e aprendo gli ambulatori anche il sabato e la domenica - ha spiegato il capolista del Pd alle elezioni regionali, Esterino Montino - e vogliamo inoltre creare, per i malati cronici e gli over 75, un canale di accesso prioritario ai servizi sanitari».
Sul versante dello sviluppo, l´impegno del Pd si basa principalmente sul potenziamento delle ferrovie regionali e sull´elaborazione di un piano straordinario per l´efficienza energetica, installando pannelli fotovoltaici sugli edifici pubblici. «Bisogna poi premiare le aziende che stabilizzano i precari - sottolinea Montino - ed è necessario sostenere le fasce deboli finanziando ulteriormente il reddito minimo garantito, sostenendo le giovani coppie per l´acquisto della prima casa e destinando una quota dei nuovi alloggi di edilizia pubblica in affitto calmierato agli under 25».
E poi assegni per l´infanzia e l´istituzione di taxi rosa. Sul fronte della razionalizzazione amministrativa, il Pd romano punta poi ad abbassare i vitalizi e i compensi dei consiglieri regionali e dei manager, nonché a ridurre le società regionali. «La trasparenza - ha detto Esterino Montino - è alla base della buona politica».
il Riformista 26.2.10
Bindi sbaglia. Io difendo la Bonino
di Goffredo Bettini
GOFFREDO BETTINI. Il dirigente del Pd difende nel merito lo sciopero della fame e della sete della candidata alla Pisana: «Pone la questione del funzionamento del- la democrazia». È «offensivo» dire - come ha detto il vicepresidente del partito, senza poi smentire le sue parole - che «ha tradito il mandato della coalizione».
In queste ore la salute di Emma Bonino, donna appassionata e fragile, si sta aggravando. Una vita di battaglie testimoniate anche con il proprio corpo, la rende particolarmente esposta alle conseguenze della mancanza di cibo e di una normale idratazione. Spero con tutto il cuore che la situazione si sblocchi. IlPartito democratico sta operando in questa direzione. Pier Luigi Bersani si è comportato in modo molto serio.
Tuttavia la decisone della Bonino, candidata di un'ampia coalizione per la presidenza della Regione Lazio, ha suscitato più di un commento politico. L'obiezione che, in modo civile, qualcuno ha sollevato riguarda il pericolo che così facendo Emma Bonino ritorni dentro un cliché minoritario, d'estremismo radicale, sottomesso alle logiche del suo partito; perdendo quel profilo espansivo di donna competente, di governo, ferma nei valori ma pacata, misurata, pragmatica. Non sono d'accordo.
Certo lo sciopero della fame e della sete è uno strumento tipico della lotta radicale, della storia e del vissuto di quel partito. E un metodo che può apparire solitario ed estremo. Ma anche ad esso dobbiamo tante conquiste civili e di libertà che hanno migliorato e arricchito la Repubblica.
Ma poi, la vera, questione riguarda il merito della battaglia, più che il metodo. Il merito non ha nulla di partitico, di fazioso; non si riferisce a interessi particolari, a poltrone, a posizioni di potere, o a crociate ideologiche unilaterali. Tutte cose che nutrono ampiamente la politica di cui ci cibiamo. Anzi: la Bonino pone la questione delle regole, del funzionamento della democrazia, della possibilità dei singoli cittadini di essere informati proprio in quanto cittadini e non animatori di lobby.
C'è nella denuncia qualche elemento eccessivo? Pazienza: se sono in gioco lo stato di diritto e quella "religione" della Repubblica, oggi così indifesa sotto i colpi dei più forti, dei più furbi, dei più ricchi, i quali spesso dimenticano che il rispetto delle minoranze, fa grande una democrazia.
Accanto, però, a obiezioni intelligenti e comunque politiche, sono apparse sulla stampa affermazioni polemiche francamente offensive: Emma Bonino avrebbe addirittura tradito il mandato della coalizione; a conferma di una candidatura sbagliata, stravagante, sleale. In particolare Rosy Bindi ha voluto esternare queste critiche, senza smentirle nelle ore successive.
Il mio sentimento va in una direzione completamente opposta: non mi sento affatto tradito da una battaglia che certamente ha lo scopo anche di aiutare il Partito radicale a presentarsi in tutte le regioni, ma che ha, vivaddio, al centro valori, passioni e idee alte e che aiuta un po` tutti a respirare l'aria di una buona politica.
Mi sento molto più tradito (e quanta indulgenza abbiamo invece in questi casi!) per un dilagare, in qualche situazione, al di là della decenza: di pratiche politiche particolaristiche, di lotte furibonde attorno alle liste, di campagne per le preferenze che hanno inondato le nostre città di facce con i simboli di partito, ben prima che si decidessero le liste nelle sedi collettive e democratiche.
Per questo, dico, teniamoci la Bovino ben stretta, e cerchiamo di far pulizia di certi comportamenti che talvolta ci fanno somigliare ai nostri avversari.
il Riformista 26.2.10
Bonino-Pd, lite sul Listino. E Berlusconi interviene in quello della Polverini
di Matteo Valerio
C'è un caso Bonino nel centrosinistra. Ma anche una caso Udc nel centrodestra. La definizione dei "listini" nel Lazio provoca fibrillazioni a tutto campo. Sia Renata Polverini che Emma Bonino sono alle prese con la difficile trattativa nelle rispettive coalizioni per compilare la lista dei 14 che, in caso di vittoria, avrebbero un posto assicurato sugli scranni della Pisana, senza doversi sottoporre alla prova delle preferenze. Ti caso più scottante si è consumato a destra. L'Udc, ancora ieri impegnato in una serie di tentativi di mediazione, avrebbe addirittura minacciato la sospensione della campagna elettorale al fianco dell'ex leader Ugl. Motivo del malcontento, l'assegnazione di tre nomi per i centristi nel listino, quando invece gli accordi sottoscritti nel Lazio ne avrebbero previsti quattro. Sul tutto pesa l'ombra del premier Silvio Berlusconi. Sarebbe stato lui in persona a dare uno stop all'accordo sottoscritto da Polverini. L'allarme Udc, però, pare rientrato in giornata, tanto che il coordinatore regionale Luciano Ciocchetti, afferma soddisfatto al Riformista: «Abbiamo rinunciato ad un nostro nome, in modo responsabile, per favorire la chiusura dell'accordo». Diversa la versione nel Pdl: «Sono ben contenti di avere ottenuto tre nomi». Riguardo invece l'intervento diretto di Berlusconi, Polverini ieri smentiva con poche parole: «Non mi risulta». La scarsa propensione a dare spiegazioni e/o rassicurazioni, però, non ha fatto che confermare la situazione ancora indefinita: «Siamo ancora in alto mare, e non sappiamo se arriveremo ad un accordo», ripetevano ieri nei corridoi. E chi ha partecipato attivamente alla trattativa smentisce le parole della candidata: «Negli ultimi giorni c`è stato un ctteto "sliding doors", c'era gente che entrava e gente che usciva in continuazione. Berlusconi ci ha messo le mani, la Polverini ha fatto ulteriori modifiche alla luce di quelle osservazioni». Scongiurata la minaccia dell`Udc, il problema ora resta tutto interno al Pdl: «Sono in mille per undici posti», sintetizzano i bene informati. Allo stato attuale, l'accordo dovrebbe chiudersi con un leggero favore per gli ex fornisti, e con gli ex Anche cedono un minimo di terreno, avendo una propria espressione nella candidata in persona. Detto in soldoni, degli undici posti rimanenti escludendo quelli riservati all`Udc, sette andranno agli ex Fi, tre agli ex An ed uno sarà indicazione diretta del presidente della Camera Gianfranco Fini. In tutto questo, però, si chiuderebbero gli spazi per La Destra, sebbene Storace sia tranquillo: «Io ho fatto un accordo con Berlusconi, abbiamo indicato il segretario generale Vittorio Messa». Non va meglio neanche alla candidata Bonino, che per la compilazione del listino sembra abbia posto due condizioni: le metà dei nomi, 7 su 14, dovrà sceglierli lei, pescando soprattutto nella società civile. Inoltre l'esponente radicale vuole che i candidati del listino siano il più possibile espressione omogenea dei territori. Il problema è che anche il Pd chiede 7 posti. Una richiesta che fa sballare i conti, dato che così facendo non resterebbe niente agli altri alleati: Sinistra e Libertà, Federazione delle Sinistre e Idv. Questi ultimi, ad esempio, avevano già chiuso l`accordo su due nomi; la federazione delle Sinistre aveva espresso Silvia Garambois, mentre anche a Set spetterebbe la scelta di un suo esponente di riferimento. I radicali, comunque poco propensi a cedere rispetto alle posizioni di partenza, interpretano così la situazione: «Stiamo vivendo un vero e proprio arrembaggio al listino da parte dei partiti. Evidentemente si sono resi conto anche loro che Emma è assai meno soccombente di come tanti la dipingono». La stretegia del Pd, invece, per ora suona così: «Noi chiediamo sette posti, e pensiamo siano esattamente quelli che ci spettano. Abbiamo una serie di sensibilità diverse da rappresentare. Non è detto, d'altronde, che le sette personalità scelte da Bonino debbano provenire tutte dalla società civile: qualcuno potrebbe essere scelto tra le fila dei partiti». Per ora, comunque, i nomi quasi certi per il Pd sono quelli di Luisa Laurelli e Luigina Di Liegro. Si parla anche di Mirko Coratti e Fabrizio Scorzoni, mentre è in forse Patrizia Prestipino. L'unico punto di caduta possibile, comunque, «dovrebbe prevedere un piccolo passo indietro sia del Pd che della Bonino, onde evitare che si arrechino danni alla tenuta della coalizone», dice chi sta seguendo la trattativa.
l’Unità 26.2.10
Il Pd aderisce, così Idv, Sel, Fed e Verdi. Sul palco niente politici, parla anche Genchi
Tornano i Viola tre mesi dopo
Ora c’è anche l’opposizione
di Natalia Lombardo
A piazza del Popolo domani alle 14,30 il Popolo Viola contro la legge sul legittimo impedimento: «Basta, la legge è uguale per tutti». Stavolta il Pd sarà in piazza, anche Idv, Sel, Fed e Verdi. Non aderiscono Udc e Api.
A tre mesi dal successo del NoB Day, il tam tam del Popolo Viola chiama domani in piazza del Popolo, dalle 14,30. Il logo è una Mafalda rosa che grida un «Basta! La legge è uguale per tutti», scritta che campeggerà sul palco lungo 14 metri. Una manifestazione nazionale «contro l’approvazione del legittimo impedimento» e le leggi ad personam «per chiedere il rispetto della Costituzione e affinché si risolva il conflitto di interessi». Sarà trasmessa in diretta su RaiNews24 (già messa in croce dalla destra il 5 dicembre) con «finestre» nel Tg3.
Promossa dal Popolo Viola di Roma, Bo.Bi Boicotta il Biscione, San Precario, Libera Cittadinanza, sarà una seconda prova di coesione in piazza per la rete del malessere civile che si dirama nei blog. Il Popolo Viola prende corpo però «non ci saranno liste Viola», chiarisce subito una delle promotrici. L’adesione di tutti i partiti del centrosinistra c’è, stavolta anche quella del Partito Democratico, che il 5 dicembre a San Giovanni si affidò solo alla partecipazione individuale. Orgogliosamente Gianfranco Mascia, pashmina viola al collo, spiega: «Abbiamo fatto tutto in un mese», dall’idea lanciata su Facebook, «finora abbiamo raccolto 26mila euro di sottoscrizione on line, arriveremo a 40mila». E, soddisfazione maggiore, «ai partiti non abbiamo chiesto niente», né al sindacato, neppure l’aiuto logistico avuto al NoB Day.
I PARTITI CI SONO
«Per la prima volta un'iniziativa di autoconvocati riscuote l’adesione delle forze dell'intero arco costituzionale», dice Mascia, che poi precisa ridendo, «volevo dire dell’intera opposizione, con l’unica defezione dell’Udc». Anzi, Casini, il cui partito si è astenuto sul legittimo impedimento, critica il Pd: «Si fa un regalo a Berlusconi». Diserta anche l’Api di Rutelli. Il segretario del Pd Bersani questa volta ha aderito senza riserve; non ci sarà perché è in campagna elettorale fuori Roma (così Franceschini); in piazza ci sarà ancora Rosy Bindi, poi Andrea Orlando, Giovanna Melandri, Paola Concia. Giorgio Merlo si distingue: «Va bene, ma dev’essere chiaro il nostro no al giustizialismo». Hanno aderito l’Italia dei Valori (richiamata sul blog di De Magistris), Sinistra e Libertà, la Federazione delle sinistre, i Verdi, la Cgil.
I promotori viola incrociano le dita e confidano in un altro «successo»; 200mila le adesioni: Articolo21, Micromega, Libertà e Giustizia, l’Anpi, Un’Altra Storia di Rita Borsellino; pronti a partire 200 pullman. Sul palco ci saranno i lavoratori di Termini Imerese, dell’Ispra, i precari, i presidi de L’Aquila, Nessun politico né candidato avrà il microfono. Dalla giustizia al lavoro, alla difesa degli articoli 1, 3 e 21 della Costituzione; interverranno, fra gli altri, Alberto Asor Rosa, Paolo Flores D’Arcais, Guido Scorza per la libertà del web, Norma Rangeri. E Gioacchino Genchi, dopo la puntata al congresso Idv. Proiettati video di Giorgio Bocca e Marco Travaglio.
L’entusiasmo non manca, e dal 3 febbraio, quando alla Camera è passato il legittimo impedimento, un camper presidia piazza Montecitorio. Qui hanno consegnato le «patenti» viola a chi non l’ha votato, ultimi a Massimo D’Alema e Beppe Fioroni; il 9 marzo il ddl è in aula, ai senatori un provvisorio «foglio rosa». Ma, spiegano alcune «viole»: «È tanta la gente che si ferma al presidio, segno del disagio e della voglia di difendere la Costituzione». ❖
il Fatto 26.2.10
Piazza del Popolo domani si tinge di viola
di Federico Mello
Tutto è pronto per sabato, a Piazza del Popolo, nel centro di Roma. “Le legge è uguale per tutti” ribadirà il Popolo Viola nella sua giornata di protesta contro le leggi ad personam. Al No B. Day del 5 dicembre fino alla vigilia risultava ancora imprevedibile il successo della piazza viola; questa volta i manifestanti sono sicuri: la piazza sarà bella, colorata, con tanta gente e non solo: “L’adesione migliore che abbiamo avuto è stata quella del sole, che ha assicurato la sua presenza” scherza Vittoria Pagliuca, una degli organizzatori, durante la conferenza stampa di presentazione. Sono pronti il palco, gli interventi, la scaletta. Manca solo il popolo, viola e no, sabato a partire dalle 14:30. Questa volta i viola hanno fatto tutto da soli: nessun sostegno dai partiti ma una sottoscrizione online che ha funzionato; sono stati raccolti finora 23.000 euro (“pubblicheremo tutti i rendiconti sul Web” assicurano) sui 26.000 necessari. Tutti soldi arrivati via donazioni Web (PayPal) su 27febbraio2010.org. “Ma ancora dobbiamo capire quanti sono i contributi arrivati con il conto corrente bancario” aggiunge Emanule Toscano, del Popolo viola Roma. Le donazioni sono varie “C’è chi dona due euro, e chi ne ha versati 600”. La media è intorno ai venti euro”.
In questi giorni, oltre alla pagina Facebook dove tutto è cominciato, anche il presidio permanente che staziona da 20 giorni a Montecitorio, si è trasformato in un’occasione per pubblicizzare l’iniziativa di domani. I militanti che si radunano intorno al camper viola, sono stati protagonisti anche di sapidi siparietti con gli onorevoli che passano davanti alla Camera. Hanno funzionato le “Patenti viola a punti” rilasciate ai deputati che hanno votato contro la legge sul legittimo impedimento. Mercoledì, in mattinata, è stato arpionato dai militanti anche Massimo D’Alema che, suo malgrado, si è avvicinato al banchetto e ha ricevuto l’attestato: “Non aveva molta voglia, un po’ se la tirava” dice irriverente Francesca, una militante presente. “Granata invece no, è stato gentile”. Parla proprio di Fabio Granata, il deputato finiano del Pdl, che anche in questa occasione non ha perso occasione per distinguersi dai suoi colleghi di partito: è stato il primo esponente della maggioranza ad avvicinarsi al presidio. “A lui però abbiamo dato una patente con cinque punti in meno, sulla fiducia: alla votazione era assente” dicono i viola. Ormai sono numerosi i politici che hanno preso la patente: Antonio Di Pietro, naturalmente, ma anche Ignazio Marino, Vincenzo Vita, Paola Concia e Paolo Ferrero tra gli altri.
“Le patenti viola sono una cosa seria – dice Gianfranco Mascia uno dei protagonisti del No B. Day – perché con queste gli onorevoli si impegnano anche a mettere all’ordine del giorno dei lavori del Parlamento, entro sei mesi, una proposta di legge contro il conflitto d’interessi. Di leggi depositate ce ne sono numerose ma non vengono mai messe in calendario. Faremo su questo un controllo democratico”.
Ma per ora si pensa a sabato. Hanno aderito le personalità più disparate della cultura e dello spettacolo: Mario Monicelli, Dario Vergassola, Francesco Guccini, Dario Fo e Franca Rame, Daniele Silvestri e decine di altri.
Sul palco due donne smisteranno gli interventi: l’autrice satirica Francesca Fornario e la giornalista di Rai Tg 24 Maria Laura Carcano (il canale all news seguirà anche l’evento in diretta).
Apriranno le danze Daniele e Valentina, del Popolo viola. Seguirà l’avvocato Guido Scorza, punto di riferimento italiano sulle libertà digitali; quindi Alberto Asor Rosa, Genchi, Norma Rangeri del Manifesto, Gianni Minà, Paolo Flores d’Arcais e Oliviero Beha. Giorgio Bocca e Marco Travaglio saranno presenti con un intervento video. Grande spazio anche alle testimonianze civiche e di lotta: i lavoratori Ispra, gli operai Fiat di Termini Imerese, i comitati di precari, i rappresentanti dei cittadini de L’Aquila.
Obiettivo non è solo quello di chiedere le dimissioni di Berlusconi: “Abbiamo deciso di rappresentare sul palco le
problematiche relative agli articoli 1, 3 e 21 della Costituzione” dicono gli organizzatori. “Art 1: forma della democrazia e la tutela del lavoro; Art. 3: l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge; art. 21: il diritto ad essere informati, il dovere di informare”.
Repubblica 26.2.10
Il Popolo Viola alla piazza-bis arriva anche il sì della Cgil
E il finiano Granata prende la "patente" del movimento
Riuscita la colletta online per coprire i costi della manife-stazione di domani a Roma
di Alessandra Longo
ROMA - Fanno tutto da soli, questa volta. Cercano e trovano i soldi, si procurano i gadget e le bandiere, discutono l´organizzazione del palco, la scaletta degli interventi, il sottofondo in musica. A poche ore dalla manifestazione a difesa della Costituzione, i viola vanno a pieno ritmo e senza appoggiarsi ai partiti che pure, nella prima loro uscita pubblica, quella del 5 dicembre scorso, li avevano supportati e parzialmente finanziati. «Ma due mesi fa - dice Gianfranco Mascia, uno dei protagonisti di questo mondo nato all´ombra della Rete - non eravamo nessuno. Ora siamo i viola!». Ora li conoscono, sanno che possono portare domani, a Roma, in piazza del Popolo, decine di migliaia di persone. Un clic e la gente, in carne ed ossa, arriva. Un clic e i tanti italiani «stanchi del marcio e del marciume», donano il loro contributo alla causa. Chi due euro, chi seicento. Tutto visibile online, massima trasparenza, nel Paese dell´opacità.
Guglielmo Epifani, segretario della Cgil, manda gli auguri per un evento «che sia bello e sereno», con la solennità che si usa quando si riconosce il ruolo dell´interlocutore: «I temi che vi portano a manifestare suscitano in noi la stessa vostra preoccupazione». Articoli 1, 3 e 21 della Carta. Lavoro, uguaglianza davanti alla legge, libertà di stampa... Anche il Pd ci sta con molto più calore della volta precedente. «La nostra spinta, la nostra energia - dice Mascia - servono anche a loro. E il fatto che non ci siamo presentati con una nostra lista viola alle elezioni, evitando così un errore a mio avviso mortale, ha sciolto pregiudizi e diffidenze». Non sono un pericolo, semmai un aiuto.
Si dichiarano fuori dai giochi, dalle "gelatine" della politica. Il loro "libretto rosso" è la Costituzione. Sempre Mascia, pashmina viola al collo: «Per la prima volta una iniziativa di autoconvocati riscuote l´adesione dell´intera opposizione, dal Pd all´Italia dei Valori, da Sel alle altre forze di sinistra, con l´unica defezione dell´Udc». Una certa simpatia per questi outsider la nutre anche Fabio Granata, deputato, uno degli uomini più vicini a Fini. Ieri si è presentato al camper che i viola hanno posteggiato davanti a Montecitorio. «Ho spiegato ai ragazzi che sono molto contrario al processo breve ma considero la legge sul legittimo impedimento il male minore». Gli hanno consegnato, previa firma, la «patente viola», ma con quattro punti di penalità. Lui sorride e dice: «Non condivido la loro ossessione per Berlusconi ma trovo che siano un´area dialogante». Prima di Granata, la patente viola se l´erano messa in tasca D´Alema e Fioroni. Assicura Mascia: «Siamo pronti a ritirargliela se voteranno una qualunque delle leggi ad personam».
A domani, dunque. Con lo striscione-guida che dice: «Basta! La legge è uguale per tutti». E a incorniciare il palco una frase di Alain Touraine (pronunciata in un´intervista al manifesto) che rende onore alla sfida dei viola: «Sono uomini e donne disposti a mettersi in cammino».
il Fatto 26.2.10
“Non toccare il mio amico” Sos contro il razzismo in Italia
Lo scrittore Khouma: “Primo pericolo l’indifferenza”
di Stefano Citati
Sì, l’Italia sta diventando più razzista grazie alle parole di alcuni e all’indifferenza degli altri.
Per questo l’associazione Sos racisme, storica organizzazione che da 25 anni combatte in Francia contro la xenofobia e l’associazione gemella Sos razzismo italiana ha lanciato una campagna e una sottoscrizione di firme di personalità e comuni cittadini per tenere alta la guardia.
Tra i firmatari Pap Khouma, scrittore senegalese diventato cittadino italiano che descrive l’effetto combinato dell’offensiva verbale (e non solo) e la sempre maggiore indifferenza con la quale la società civile sembra reagire.
“A forza di sentir ripetere parole come quelle degli esponenti della Lega sempre più persone si possono sentire autorizzate a pensare in modo razzista; è come se il linguaggio di alcuni politici avesse sdoganato delle idee che un tempo erano tabù. Con la scusa della libertà d’espressione si finiscono con dire cose gravissime alle quali sempre più persone mi pare reagiscano con rassegnazione. È come se l’indignazione fosse finita, contingentata e a furia di ripetere certi discorsi non ci fosse più la capacità, la volontà, di reagire. Spesso ormai chi non è d’accordo si rifugia nel ‘lasciamo perdere, intanto se lo dice Calderoli...’. Ma non stiamo parlando di comici che provocano, stiamo parlando di politici che hanno il potere di fare le leggi. Non è possibile non dare importanza a queste provocazioni, o smettere di dargli importanza perché ormai sono trite e ritrite.
Lo sciopero annunciato da parte degli immigrati che si terrà lunedì può esser e un modo per sottolineare la situazione e ridare peso e importanza alla questione?
Chi subisce gli attacchi razzisti quasi sempre non ha voce; quella di lunedì è almeno un modo per dare voce, per unire le voci, della parte più debole del Paese. Quando un immigrato viene attaccato non si può reagire con il silenzio, dobbiamo prendere per primi noi coscienza e condividere la nostra condizione: il 1° marzo lo sciopero produrrà danni solo simbolici ma sarà una prima volta e sottolineerà che noi immigrati non siamo solo un allarme sociale, una massa indistinta da usare e poi colpire, uno strumento solo per raccattare voti. È facile colpire noi, come sparare sulla Croce Rossa, ci vuole solo pelo sullo stomaco. Certo gli immigrati, i clandestini, sono esattamente come il resto della società civile: sono individui, buoni o cattivi, bravi o meno, come i politici che siedono in Parlamento ma truffano, hanno le stesse debolezze e la stessa dignità. Ma dobbiamo arrivare a far capire a tutti, italiani ed europei, che proprio la terra e i popoli che hanno creato il multiculturalismo, che sono partiti e sono andati a vivere nel resto del mondo, adesso non vogliono più quello che hanno creato, ora che il multiculturalismo l’anno in casa loro”.
l’Unità 26.2.10
Il caso Fisichella
Abortoomicidio la «pia frode» e il Vaticano
di Maurizio Mori
La richiesta di dimissioni di mons. Rino Fisichella dalla presidenza della Pontificia Accademia per la Vita avanzata da cinque membri della stessa Accademia difensori della stretta ortodossia attraverso uno Statement reso pubblico il 16 febbraio scorso è un fatto significativo.
Di solito i più ortodossi si sono sempre attenuti alla via gerarchica e riservata. Ora invece rompono gli argini con una carica di nomina papale e non elettiva, per cui scontata era la reazione vaticana: «stupisce e appare non corretto che a tale documento venga data una circolazione pubblica» prima di averlo trasmesso a chi di dovere. Prima era la “sinistra” che ricorreva all’azione pubblica, adesso anche la “destra” scrive a chiare lettere che «c’è una ragionevole speranza che il Santo Padre riconoscerà l’esigenza di assegnarge a Fisichella un’occupazione più adatta alle sue capacità» visto che «non capisce cosa comporta il rispetto assoluto per le vite umane innocenti». Questo scambio delle parti è di per sé interessante. Ma ci si deve chiedere: è un segno di forza o di debolezza per la dottrina più tradizionale?
Il problema è posto dal caso della bambina brasiliana di 9 anni incinta di due gemelli per i ripetuti stupri del patrigno, risolto lo scorso anno con l’aborto terapeutico legale in caso di stupro e/o di alto rischio di vita. È irrilevante discettare se il rischio fosse davvero alto: il caso è tanto estremo e tragico da far credere che almeno lì l’aborto terapeutico era giustificato. Invece il vescovo Sabrinho lanciava la scomunica dando grande pubblicità al caso e suscitando polemiche. Su L’Osservatore Romano del 15 marzo 2009 Fisichella suggeriva un comportamento più prudente e mite teso più alla comprensione che alla condanna: per i critici l’eccezione buonista che apre la classica crepa che fa crollare la diga.
Era dai tempi di Pio XII che non veniva più esplicitamente ripetuto che l’aborto non è mai lecito neanche quando necessario per salvare la madre da morte. Per Fisichella questa tesi doveva restare sottotono essendo incomprensibile ai più, mentre per gli altri va riaffermata e proclamata senza timori. Questa divergenza è un altro segno dei tempi. È la prima volta che un vescovo afferma sia meglio glissare sul divieto assoluto di aborto terapeutico, quasi riconoscendo l’impossibilità di risalire la china diffusa. Inoltre, così facendo emergerebbe che l’aborto è una violazione dell’“ordine creaturale” ma non una forma di omicidio, col rischio che diventi palese che l’attuale condanna dell’aborto come omicidio è una sorta di “pia frode” diffusa per tamponare la diga della sacralità della vita ormai in via di smantellamento. ❖
l’Unità 26.2.10
Intervista a Shirin Ebadi
«Il regime è violento ha paura dell’altro Iran»
La Nobel per la pace: «Il movimento di protesta è un moto popolare non ha ideologie ma chiede diritti. E le donne sono in prima fila»
di Gabriel Bertinetto
Al telefono da Ginevra, dove partecipa a un convegno della «Federazione internazionale per i diritti umani» (Fidh) Shirin Ebadi, premio Nobel per la pace, paladina dei diritti umani in Iran. Signora Ebadi, da tempo lei gira il mondo patrocinando la causa dei diritti umani e civili violati in Iran. Ha l’impressione che oggi i popoli ed i governi comprendano meglio quanto accade nel suo Paese? «Credo di sì. Precedentemente quando si parlava di Iran, l’immagine prevalente era quella di uomini dalla lunga barba e donne velate vestite di nero. Ma le proteste pacifiche seguite al voto ed ai brogli hanno aiutato la comunità internazionale a crearsi un’idea diversa degli iraniani, come di cittadini amanti della democrazia». La Repubblica islamica ha una lunga storia di violazioni dei diritti umani. La situazione attuale è, a suo giudizio, solo la continuazione di un male endemico, oppure presenta caratteri originali?
«Credo che stiamo assistendo ad un peggioramento. Ciò che pero mi rallegra è che oggi in Iran ci sono molti più difensori dei diritti umani rispetto a prima. In passato di fronte alle violazioni commesse dal governo erano pochi a reagire ed a manifestare. Pochi osavano anche solo sollevare l’argomento. Ma ora cresce il numero di coloro che protestano e reclamano il rispetto dei più elementari diritti che ci vengono negati».
Questo indurimento nella repressione deriva dal desiderio che il regime ha di mostrare che non teme la contestazione, oppure al contrario è figlia della paura che si diffonde tra i dirigenti di fronte alla protesta popolare?
«Un regime che goda di un solido appoggio popolare non perpetrerebbe mai atti di violenza contro i cittadini. Dunque ritengo che il comportamento del regime dipenda dalla paura. E da cosa altro potrebbe scaturire la decisione di vietare alla gente di manifestare e di reprimere la libertà di associazione? Temono che i cittadini si riuniscano e agiscano assieme».
Neda Soltan, è diventata il simbolo della pacifica lotta degli iraniani per la libertà. Come spiega che così spesso in Iran le donne siano in prima linea,
sia come vittime dell’oppressione che come protagoniste della resistenza? «Lo trovo piuttosto normale. È logico che coloro che sono le prime a patire per la negazione dei diritti, siano poi anche all’avanguardia nella battaglia per ottenerne il rispetto». Il giorno dell’Ashura alcuni militari si sono rifiutati di sparare sulla folla. Singoli episodi di pietà, o la punta emergente di una rivolta etica che scuote gli stessi apparati di sicurezza? «Potrei dire in generale che molti esponenti del regime non condividono l’oltranzismo di Ahmadinejad. C’è chi valuta che osando troppo sul cammino della violenza si possa danneggiare il regime e provocarne la caduta. Molti sanno che se ciò avvenisse, sarebbero i primi a rimetterci. Ecco perché si oppongono ad esagerazioni ed estremismi».
Cosa distingue l’onda verde da precedenti mobilitazioni per la libertà e la giustizia? La dimensione numerica, la maggiore determinazione, la chiarezza degli obiettivi? «Credo sia evidente una cosa. Coloro che partecipano alle dimostrazioni sono mossi dalla volontà di perseguire obiettivi molto chiari: democrazia politica e rispetto dei diritti umani. Ma c’è anche un’altra differenza tra questo movimento ed altri del passato, ed è che l’iniziativa appartiene alla società. Il movimento è diretto dal popolo, non da Mirhossein Mousavi o Mehdi Karroubi. I leader non sono alla testa dei cittadini, piuttosto ne accompagnano l’iniziativa. Questa è una importante novità».
La Repubblica islamica sta agonizzando? «Posso solo dire che è molto indebolita. Ma da qui a dire che sia in agonia, ne passa. Non voglio spingermi così lontano. Penso che sia un dibattito prematuro. È troppo presto per emettere un verdetto così drastico». Si vede però che molte figure preminenti del cosiddetto establishment prendono le distanze dal capo di Stato Ahmadinejad e dalla Guida suprema Khamanei. Non è il segno di un crescente isolamento dei vertici?
«Sì, è vero che il sistema sta perdendo l’appoggio popolare, e contemporaneamente pezzi sempre più grandi di società se ne distaccano. Le massime autorità hanno meno sostenitori, sono più sole».
Lo Shah fu rovesciato anche in nome dell’Islam. Che ruolo ha oggi il sentimento religioso nel contesto dello scontro sociale e politico in atto? Gioca a favore dell’onda libertaria o è strumento della repressione?
«Direi che il sentimento religioso oggi in Iran è un po’ attenuato anche a causa degli arbitri e delle violenze che sono stati commessi facendosi scudo della fede. Non voglio dire che la gente sia meno devota di prima, ed anzi le convinzioni musulmane rimangono salde. Ma credo che sempre di più si imponga la coscienza che lo Stato e la religione devono essere due sfere distinte e separate».
Prevale dunque nell’opposizione chi rifiuta le basi ideologiche stesse della Repubblica islamica rispetto a chi denuncia nell’autoritarismo dittatoriale il tradimento dei valori fondanti del khomeinismo?
«Posso solo dire che l’onda verde non è un movimento ideologizzato. È una grande iniziativa popolare a carattere democratico. Fra coloro che manifestano nelle strade, hanno spazio le opinioni più diverse». La comunità internazionale sta agendo bene nei confronti dell’Iran? «Sarebbe opportuna una maggiore diffusione di informazioni, anziché limitarsi al contenzioso sul programma nucleare. Occorrerebbe occuparsi di più dei diritti umani violati e delle speranze di cambiamento degli iraniani. Quello che chiedo poi alla comunità internazionale sono atti concreti per vietare certi tipi di transazioni commerciali. Bisognerebbe astenersi dal firmare contratti che consegnano ai dirigenti di Teheran gli strumenti per opprimere i loro concittadini. Mi riferisco in particolare agli accordi raggiunti con aziende come Nokia e Siemens che forniscono allo Stato iraniano la tecnologia per controllare, censurare, bloccare le comunicazioni via Internet e la telefonia mobile.
Dunque lei approva le sanzioni contro l’Iran? «Dico sì a sanzioni che impediscano la vendita di strumenti d’oppressione, come le armi o i gas lacrimogeni».
Da quasi un anno lei non torna in patria. Cosa teme? La prigione, violenze fisiche? «Non ho paura. Sono i miei colleghi a Teheran che mi suggeriscono di non tornare. Dicono che la situazione è terribile e sarebbe estremamente difficile per me svolgere qualunque attività a casa, mentre all’estero posso fare molto di più per trasmettere i messaggi di denuncia e di proposta dei connazionali. In Iran mi sarebbe impedito parlare e comunicare. Ma non appena mi diranno che hanno bisogno di me, e posso essere più utile là di quanto non lo sia all’estero, non esiterei un momento a rientrare».
I suoi familiari hanno subito ritorsioni per causa sua da parte del potere. Come stanno adesso? «Mio marito fu messo in prigione per alcuni giorni e poi rilasciato con il divieto però di espatriare. Mia sorella è stata arrestata e poi rimessa in libertà dopo tre settimane. Né l’uno né l’altra hanno mai svolto attività politiche o sociali di qualunque tipo. Il fermo fu loro motivato così: se non siete in grado di far cessare le sue attività a Shirin Ebadi, sarete voi a patirne gli effetti. Evidentemente si sono poi resi conto che quel ricatto non funzionava, ed io avrei continuato la mia attività. E li hanno lasciati andare».❖
l’Unità 26.2.10
Il destino crudele di Chopin
L’anniversario Duecento anni dopo la sua nascita il compositore ancora sconta la sua dannazione: essere considerato un romantico per forza, amato dalle signore dei salotti bene. E invece era un grande rivoluzionario
di Giordano Montecchi
Gran brutta storia per un musicista nascere nei giorni del Festival di Sanremo. Puoi diventare famoso o importante più del padreterno, ma se c’è il Festival di mezzo, in Italia il tuo compleanno non se lo fuma nessuno. Pare proprio che la stampa italiana, così pronta a festeggiare i più arzigogolati anniversari quando c’è qualche comitato d’affari che spinge o quando la tv non offre carnazza da mettere in pagina, si siano dimenticati di quella creaturina gracile nata il 22 febbraio del 1810 e che prese nome di Fryderyk Franciszek Chopin. A dire la verità non è proprio esatto che ci si sia scordati di questo compleanno, solo che la concomitanza di un evento canoro di portata addirittura principesca ha spinto tutti quanti a risolvere ipso facto quel dubbio che gli studiosi ciancicano da duecent’anni: se Chopin sia nato il 22 febbraio come dice il certificato di battesimo, oppure il 1 marzo come lui era solito dire. Dubbio caprino se si vuole, ma comunque risolto grazie alla tv: per l’Italia Chopin è nato il 1 marzo. Scommettiamo?
Duecent’anni, ma lui non arretra. Chopin rimane, tanto roccioso nella vita postuma, quanto cagionevole nella travagliatissima sua esistenza; presenza costante e salvifica nei programmi da concerto, nei cd che stazionano tanto nei negozi specializzati sopravvissuti, quanto nei gironi infernali degli ipermercati; e anche negli spartiti adagiati sulle miriadi di pianoforti che adornano le case del pianeta (ornamento così raro dalle nostre parti).
Eroe indiscusso Chopin, forse insuperato, di quella specialissima categoria che Paolo Castaldi definì i musicisti «amati dal pubblico». La sua è una longevità inattaccabile, superiore a chiunque altro, fors’anche a Mozart la cui enorme recente fama è in fin dei conti un fenomeno mediatico. Chopin, lui, c’era già prima di Amadeus e nessuno potrà mai fare ombra ai suoi Walzer e ai suoi Notturni, e neppure ai suoi Preludi, Polacche, Studi, Scherzi, Ballate... E visto che ci siamo lasciatemi spendere una parola per quelle Mazurke che restano a modesto avviso di chi scrive i suoi gioielli più luminosi.
IL SUO MODELLO? BACH
Destino curioso o crudele per questo musicista diventare l’icona stessa del romanticismo più esteriore e senza controllo, lui che ebbe come suo modello Bach, che scansò rigoroso tutte le romanticherie alla moda della sua epoca, e che inveiva quando un editore marchiava qualche sua pagina con quei titoli che rimanevano poi indelebili, come tatuaggi indesiderati, fra Cadute di Varsavia, Tristezze, Gocce d’acqua ecc. (fatevi un giro su wikipedia e rabbrividite!).
Troppo evocatrice, emozionante e insieme sperimentale era la sua poesia sonora: intuizioni folgoranti scaturite dal muoversi stesso delle dita sulla tastiera; melodie che il più sublime operista gli avrebbe invidiato senza mai riuscire a eguagliarle; costruzioni così anomale eppure miracolosamente in equilibrio.
Così come le rivoluzioni vere sono quelle che sfuggono ai più, Chopin fu autentico rivoluzionario e come tale avversato non dal pubblico, che ne sentiva la tremenda nuova e conturbante bellezza e verità, ma dai colleghi e dai critici che, infastiditi dal suo lessico, dipinsero la sua musica come il paradigma dello sfascio morale, della malinconia, del morboso, di tutto ciò con cui signorine e giovani per bene non avrebbero mai dovuto avere a che fare. Fu così che Chopin divenne l’eroe ante litteram della décadence, finì tra mani che senza ritegno vi pomparono lacrime e svenimenti, deliqui ed assenzi, kitsch e feticismi.
IN MEZZO I FURBETTI
La reazione fu inevitabile: ai cesellatori dello Chopin d’antan si oppose chi volle spazzare via tutto questo fradiciume basso-romantico e ripristinare la purezza adamantina della sua musica. E siamo a oggi. Ma Chopin non è né l’uno né l’altro. E non sta neppure in mezzo, che in mezzo ci stanno solo i furbetti.
Semmai Chopin sta sopra: colui per il quale l’arte del puro comporre e l’arte di toccare nel profondo sono esattamente, miracolosamente la stessa cosa. Maestro immenso Chopin, monito perenne sia per chi si crede artista sfrucugliando le note come fosse un sudoku, sia per i piazzisti di easy listening o per gli spacciatori di mélo basso corporeo.
Repubblica 26.2.10
Dubai, licenza d'uccidere per la vendetta del Mossad
di Vittorio Zucconi
Alle 21 del 19 gennaio, in un lussuoso hotel di Dubai, un alto esponente di Hamas è stato assassinato. A portare a termine l´omicidio è stato un commando dei servizi segreti israeliani Una missione perfetta, svelata dalle telecamere dell´albergo Ma forse i killer avevano previsto anche questo
La vittima è stata soffocata e tenuta immobile perché la morte sembrasse naturale
Le note languide e inevitabili di Casablanca avevano appena cominciato a diffondersi dal pianoforte a coda Kawai nella hall dell´albergo, quando il morto entrò nell´hotel Al Bustan, «il giardino», di Dubai, reggendo il sacchetto con le scarpe nuove appena acquistate.
Lo vediamo voltarsi all´indietro un paio di volte, nelle immagini registrate dalle telecamere di sorveglianza a circuito chiuso, il morto che ancora non sapeva di essere morto, per l´abitudine nervosa del cospiratore, del terrorista, del killer quale lui era, senza vedere che fra i turisti con le racchette da tennis, le coppie in viaggio di nozze, gli uomini d´affari che circolavano sotto le grandi volte del «Giardino», c´erano coloro che pochi minuti dopo l´avrebbero soffocato con un cuscino in faccia.
Erano le 20 e 24 di martedì 19 gennaio. Dieci anni di un´operazione «bagnata», come l´avrebbe classificata il vecchio Kgb sovietico, cominciata nel 2000, avrebbero eliminato quel giorno Mahmoud Al Mabhouh, palestinese, capo della sezione omicidi e rapimenti di Hamas e bersaglio designato per la vendetta senza confini e senza scadenza dei servizi israeliani.
Le note languide e inevitabili di Casablanca avevano appena cominciato a diffondersi dal pianoforte a coda Kawai nella hall dell´albergo, quando il morto entrò nell´hotel Al Bustan, "il giardino", di Dubai, reggendo il sacchetto con le scarpe nuove appena acquistate.
Lo vediamo voltarsi all´indietro un paio di volte, nelle immagini registrate dalla telecamere di sorveglianza a circuito chiuso, il morto che ancora non sapeva di essere morto, per l´abitudine nervosa del cospiratore, del terrorista, del killer quale lui era, senza vedere che fra i turisti con le racchette da tennis, le coppie in viaggio di nozze, gli uomini d´affari che circolavano sotto le grandi volte del "Giardino", c´erano coloro che pochi minuti dopo l´avrebbero soffocato con un cuscino in faccia.
Erano le 20 e 24 di martedì 19 gennaio. Dieci anni di un´operazione "bagnata", come l´avrebbe classificata il vecchio Kgb sovietico, cominciata nel 2000, avrebbero eliminato quel giorno Mahmud Al Mabhouh, palestinese, capo della sezione omicidi e rapimenti di Hamas e bersaglio designato per la vendetta senza confini e senza scadenza dei servizi israeliani. Aveva prenotato la cena in uno dei dieci ristoranti dell´albergo, il Benihana, una catena americana che offre finta cucina giapponese e asiatica con grande sfoggio di cuochi prestigiatori e acrobazie di coltelli, ma la vendetta del Mossad non gli avrebbe concesso neppure quell´ultimo pasto.
Alle 21, mentre i cuochi del Benihana si preparavano ad affettare e arrostire per lui scampi, capesante, melanzane e cipolle davanti alla sua sedia vuota, il morto era già morto.
La ragnatela che per dieci anni un ragno implacabile aveva cominciato a tessere attorno a lui, al palestinese che aveva osato non soltanto sfidare la collera di David, ma vantarsene pubblicamente sulle emittenti arabe come al Jazira, citando i soldati israeliani che aveva rapito e ucciso, aveva impigliato la mosca nella propria rete di inganni, di "false flags", di bandiere e documenti falsi, come si dice nel gergo delle spie. Un tessuto di informatori, di agenti con licenza di uccidere chiunque ovunque nel segno della legge del taglione, che tutti sanno, e nessuno ammette, fanno capo al Mossad, all´"Istituto", come banalmente e burocraticamente si chiama il braccio spionistico dello Stato d´Israele, e all´ancor più misteriosa sezione per gli "affari bagnati", gli assassini, leggendariamente conosciuta come la Kidon, "la baionetta".
Al Mabhouh, che pure doveva sapere di essere da tempo sul podio più alto dei candidati alla vendetta d´Israele, si comporta con straordinaria leggerezza, nelle ultime ore della sua vita, forse cullato dalla lussuosa illusione di quell´emirato arabo. Era partito il giorno prima da Damasco, sul volo EK 912 della compagnia aerea degli Emirati, naturalmente in business class, come si conveniva a un dirigente, politico o terroristico non importa, con un biglietto già pagato per proseguire - non sappiamo perché - verso Pechino. Dubai non era una scelta necessaria, ma una gradita sosta, una pausa per ristorarsi e fare ciò per cui milioni di persone sbarcano nei suoi alberghi: shopping. Al Bustan è l´oasi preferita per viaggiatori che vogliano evitare la pacchianeria di alberghi più vistosi, accogliente, moderato nei prezzi e nel décor, affidato a colori tenui, a toni di beige, di azzurri e di marrone, come le sabbie della Penisola araba e la acque del Golfo. Si era concesso, con i soldi di Hamas, una junior suite, una stanza grande con un ampio letto matrimoniale e una zona soggiorno, separata da un tramezzo con l´inevitabile televisore piatto. La stanza 230. L´ultima maglia della ragnatela.
Di fronte a lui, nella stanza 237, era scesa una coppia di turisti con passaporto inglese, in apparente viaggio di nozze, una giovane donna con lunghi capelli bruni, chiamata «Gill», e un uomo, entrambi assolutamente trascurabili nell´aspetto, come vuole la regola dello spionaggio ben diversa dalla favole degli 007: persone delle quali ti dimentichi nel momento stesso in cui le vedi. Gill, che indossa una parrucca, e il suo compagno, anche lui con passaporto inglese falso, non erano gli assassini, erano gli "spotters", le civette, i pali. Un´essenziale maglia della rete, che l´occhio delle telecamere ci mostra mentre vagano, apparentemente senza scopi precisi, nella hall e nel corridoio del piano, fra la stanza 237 e gli ascensori.
Quando il morto arriva, a sera, loro se ne vanno. Al loro posto, appaiono le due coppie di assassini con licenza di uccidere, quattro uomini vestiti da turisti trasandati, i soliti squallidi cappellucci da baseball in testa, t-shirt, felpe, scarpe da ginnatica ai piedi e borse in mano.
In totale, ma ancora la polizia del Dubai che ha riscostruito sequenza per sequenza l´assassino non ha definito un numero conclusivo, almeno 25 persone avevano tessuto la ragnatela. Uomini e donne con passaporti falsi intestati a persone vere, inglesi, francesi, tedeschi, australiani, innocenti cittadini israeliani con doppia cittadinanza che hanno scoperto, a cadavere ormai freddo, di essere stati usati, senza saperlo, per un´esecuzione. Con l´immediata collera diplomatica dei governi coinvolti, ormai a cose fatte. Venticinque fra uomini e donne che nelle ventiquattr´ore finali del piano avviato nel 2000, si muovono freneticamente. Atterrano tutti lo stesso giorno in cui sbarca il bersaglio, Al Mabhouh, e gli occhi delle telecamere li individuano mentre passano la frontiera. Sono stati informati della partenza e dell´arrivo della preda da informatori palestinesi di Al Fatah, l´organizzazione che Arafat creò e che odia Hamas, ricambiata. I reciproci tradimenti e odi fra arabi, che invariabilmente si giurano in pubblico solidarietà e fratellanza mentre affilano i coltelli in privato, sono una delle certezze del puzzle mediorientale.
Si muovono come palline da flipper, cambiando alberghi più volte per confondere le tracce, si disperdono negli immensi shopping center dove pedinare qualcuno è impossibile, prenotano stanze che non occupano. Al mattino del 19, il giorno del delitto, fissano per telefono la stanza 237. Vagolano con racchette da tennis. Salgono e scendono ai piani dell´hotel Al Bustan, giustificati dall´avere una stanza lì. E due di loro forzano le serratura elettronica della suite vuota di Al Mabhouh, ingannando il computer centrale che registra gli accessi, con una tessera magnetica e un apparecchio che registra la combinazione, come le truffe ai bancomat. Sono l´avanguardia dell´assassinio.
Nella suite dove il bersaglio entra poco prima della nove di sera, si nascondono dietro il tramezzo fra la zona soggiorno e il letto. Quando Al Mabhouh arriva con il suo sacchetto in mano, lo paralizzano con una scarica elettrica dei loro "taser", che scaricano centinaia di volt ma non lasciano tracce evidenti. Al Mabhouh collassa. Le seconda coppia di assassini entra e, secondo il nuovo esame autoptico all´ospedale Al Rashid, lo soffoca sul lettone con il cuscino, immobilizzandolo sopra le lenzuola di magnifico lino italiano perché non le scompigli troppo e la morte sembri una morte naturale. Se ne vanno tutti e quattro insieme, gli ultimi rimasti della grande squadra, e davanti all´ascensore che li accoglie accennano a qualche cerimonia per chi deve passare per primo, forse per grado e rango. Meno di ventiquattr´ore dopo, quando il cadavere viene scoperto, si sono tutti dissolti, decollati verso Hong Kong, Londra, Francoforte e molti verso il Sudafrica, la nazione africana che più di ogni altra ha una lunga storia di collaborazione e di complicità con Israele.
Un´operazione perfetta. Un ballo degli assassini magnificamente coreografato per eliminare un assassino, se non fosse stato condotto sotto quegli occhietti delle telecamere e se la polizia di Dubai non fosse riuscita a individuare, in ore e ore di registrazione, gli agenti.
Un errore da troppa sicurezza? Una scelta deliberata, per mostrare al mondo che i nuovi "maccabi", i guerrieri vendicatori che lavorano per l´"Istituto", possono colpire chi vogliono, quando vogliono e ignorare le proteste di governi anche amici? Nulla, in Medio Oriente, è mai quello sembra ed è difficile immaginare che il Mossad non sapesse che tutto viene visto e registrato. Un mistero: dove sono finite le scarpe nuove che il morto lasciò cadere sulla moquette color paglia della stanza 230?
Repubblica 26.2.10
Una "talpa" ha dato il via alla fase finale del blitz
Nel complotto anche palestinesi
di Fabio Scuto
Il Mossad, così come altri servizi di intelligence, finisce per attirare l´attenzione soltanto qualcosa va decisamente storto o quando si rende protagonista di uno spettacolare successo operativo e vuole mandare un segnale forte e chiaro ai suoi nemici. L´eliminazione del comandante di Hamas Mahmud Al Mabhouh ne è la dimostrazione più evidente.
È ai primi di gennaio che l´operazione Dubai entra nella sua fase operativa. Nella Ha-Midrasha ("l´accademia"), la sede del servizio segreto a nord di Tel Aviv - un complesso che tutti chiamano «Il dito di Dio» per via delle altissime antenne che svettano sui tetti - arriva il primo israeliano Benjamin Netanyahu per incontrare Meir Dagan, il capo del Mossad. È qui, secondo la stampa israeliana, che l´ex generale che da sette anni guida l´"Istituto" illustra al premier i termini dell´operazione: spetta a lui l´ultima parola, la decisione finale. Dagan spiega che l´operazione è già stata "provata" in un grande hotel del lungomare di Tel Aviv, senza avvertirne la direzione, e che tutto è andato come previsto. I due, dopo un colloquio a quattr´occhi, si trasferiscono in un´altra stanza dove il premier incontra alcuni degli agenti operativi che saranno coinvolti nel caso. «Il Paese conta su di voi. Buona fortuna!», è la frase di commiato che scioglie la riunione.
I ventisei agenti che dovranno andare a Dubai, ventuno uomini e sei donne, sono "in vacanza" nell´Unione europea. Il segnale arriva per loro il 18 gennaio: una "talpa" da Damasco avverte che l´"obiettivo" ha comprato su internet un biglietto aereo per Dubai per quel giorno e ha prenotato una stanza al Bustan. Da Zurigo, Roma, Parigi e Francoforte i 26 arrivano all´aeroporto dell´Emirato, tutti con voli a cavallo della mezzanotte. Scendono in sei diversi hotel. A operazione conclusa l´indomani, nell´arco di tre ore, tutto il team lascia il piccolo Emirato sciogliendosi in dieci rotte diverse, chi va a Hong Kong, chi a Amsterdam, chi a Zurigo.
Non si porta a termine un´operazione in grande stile come questa senza una solida fonte nel cuore del nemico, e nel gioco doppio e triplo il Mossad non è secondo a nessuno. Portano a Gaza le tracce della "Palestinian connection", a una casa anonima, quella della famiglia Massud. Tre fratelli, tutti miliziani di Hamas, dai nomi di battesimo singolari: Nehru, Tito e Nasser, dati in onore dei leader terzomondisti molto popolari fra i palestinesi negli anni Sessanta. A essere impelagato nell´affaire, che ha scatenato veleni e accuse reciproche di complicità fra gli eterni rivali Hamas e Fatah, è Nehru, fedelissimo del giro di Khaled Meshaal (il numero uno di Hamas, che vive a Damasco) finito in galera in Siria e sospettato di essere la "talpa" che ha passato le informazioni sugli ultimi decisivi spostamenti di Al Mabhouh.
Ma ci sono altri due palestinesi coinvolti, arrestati in Giordania e ora in cella a Dubai. Si chiamano Ahmad Hasnain e Anwar Shekhaiber. Entrambi sono ex funzionari degli apparati della sicurezza dell´Anp di Gaza. Due figure di medio rango che dopo il fallito contro-golpe del 2007 di Mohammed Dahlan, ex delfino di Arafat, per rovesciare Hamas nella Striscia di Gaza, sono fuggiti a Dubai, dove si sono rifatti una vita da businessmen. Nelle ore dell´omicidio di Al Mabhouh i due hanno lasciato in gran fretta Dubai. Uno di loro, secondo la polizia dell´Emirato, ha incontrato brevemente uno degli uomini del commando del Mossad. «È la prova del profondo coinvolgimento dell´Anp nell´assassinio di un nostro fratello», dice al telefono Fawzi Barhum, portavoce di Hamas nella Striscia. «Hamas farebbe bene a guardarsi dalle infiltrazioni nelle sue fila», ribatte secco da Ramallah Adnan Demeiri, capo dei servizi di sicurezza dell´Anp. «Le due versioni non sono contrastanti, anzi potrebbero essere complementari», spiega a Repubblica un esperto di un servizio di sicurezza arabo: «se il Mossad li avesse usati entrambi?».
L´armiere di Hamas ucciso, i due principali gruppi palestinesi che si accusano reciprocamente di tradimento, nessun uomo lasciato sul terreno, tracce che si perdono in dieci diversi aeroporti nel mondo. Sembra la realizzazione del motto del Mossad: «Per mezzo dell´inganno faremo la guerra».
Repubblica 26.2.10
Le grandi intuizioni arrivano in gioventù ma per l´accademia contano solo gli anziani
A quanti anni si diventa geni
Il Wall Street Journal: cresce l'età dei ricercatori, ora l'innovazione è a rischio
di Alessandra Retico
La meglio gioventù della scienza. Un tempo era roba da ragazzi, le scoperte migliori le facevano loro. Tra un appuntamento galante e giornate pazze con gli amici. Il 24enne James Watson andava parecchio dietro alle donne, poi con medesima passione tornava in laboratorio a Cambridge, lavorava allegro. Chissà se è stata quella spensieratezza a fargli individuare la struttura del Dna, su cui scrisse un anno dopo, nel ‘53, uno dei più importanti studi insieme ai compagni di felicità Crick e Wilkins. Il trio nel ‘62 vinse anche il Nobel per la scoperta sulla struttura molecolare degli acidi nucleici. Altro che bruciata, era una gioventù infuocata di intelligenza.
Isaac Newton di anni ne aveva 23 quando cominciò a studiare quello che diventerà il teorema binomiale (la formula per elevare a una qualsiasi potenza un binomio) e il calcolo infinitesimale; Albert Einstein pubblicò i suoi migliori scritti a 26 anni, e 24 compiuti erano quelli di Heisenberg quando formulò l´idea della meccanica matriciale, meccanica quantistica in nuce, che sette anni dopo gli valse il Nobel per la fisica. Il mondo era diverso, ma l´anagrafe no, tutti loro erano ragazzi e per molti versi immaturi.
La primavera della vita e la creatività sono state a lungo associate: lo sguardo senza esperienza come visione senza pregiudizi, più fresca e acuta sulle cose. Jonah Lehrer, neuroscienziato di successo ad appena 28 anni, autore del recente Come decidiamo (Codice Edizioni), affronta l´equivalenza giovane=creativo sul Wall Street Journal, mettendola alla prova dell´oggi: l´innovazione è a rischio perché il numero degli scienziati giovani è drammaticamente in calo. Nel 1980, spiega Lehrer, la maggior percentuale dei finanziamenti del National Institutes of Health americano è andato a ricercatori trentenni, nel 2006 ai 40enni. Un anno dopo, proporzionalmente, hanno preso più soldi i 70enni che non gli under 30. Una curva che segue solo in parte l´invecchiamento della popolazione mondiale e in particolare dei baby boomers, dall´altra tradisce il conservatorismo delle accademie. Anche se qualcosa sta cambiando in America, molte no-profit e fondazioni "rischiano" ma sanno di innovare finanziando solo i giovani. Una chimera in Italia.
Ma poi: è vero che esiste nella vita un picco di creatività che spesso si raggiunge molto presto? Lehrer cita molti studi sul tema, in particolare quelli ultra decennali dello psicologo Dean Simonton dell´Università della California, che ha dimostrato come i fisici facciano le scoperte più importanti entro i vent´anni, da cui il detto che se il Nobel non arriva prima del matrimonio allora non ci si speri più. Solo un´altra professione è altrettanto performativa della fisica, dice Simonton: la poesia. Entrambi ostili ai luoghi comuni, aperti alle sorprese, interessati a combattere lo status quo. Teorie sulla creatività per niente oziose, molti economisti le fanno proprie. Come Paul Romer, della Stanford, che studia il ruolo che hanno le idee nel generare crescita: «Gli anziani guidano, i giovani fanno fatica a fare qualcosa di veramente differente». La gerontocrazia come tappo al cambiamento. Certo, di per sé l´età non è un valore, e molti hanno prodotto capolavori da anziani (Tiziano, Goya, Beethoven). Ma che non sia un alibi. La meglio gioventù, aspettando, peggiora.
Repubblica 19.3.10
IL GAY DELLA FGCI
intervista di Stefano Malatesta
ROMA - Nichi Vendola ha 26 anni, è pugliese. Qualche giorno fa è stato eletto membro della segreteria nazionale della Fgci, la Federazione giovanile comunista. Ha un viso gradevole. In testa calza un berretto blu con visiera, da studente svedese. Intorno al collo è annodata una sciarpa di lana bianca. Porta al lobo sinistro un orecchino d' oro. Nichi Vendola è un gay, il primo attivista omosessuale entrato a far parte della dirigenza comunista. Dice senza asprezza polemica: "Sono sicuro che parlerai dell' orecchino d' oro. Ho già dato un' intervista in cui raccontavo un po' di cose, fatti personali e politici. Dopo ho avuto dei timori, credevo che ci fossero reazioni a Roma, nel partito. Invece i compagni sono stati benevoli. Mi hanno però avvertito: stai attento a non farti ingabbiare nel clichè, il gay alle Botteghe Oscure, eccetera. Prima c' erano i funzionari infagottati nei doppipetti grigi tagliati male, con le cravatte stonate in raso. Adesso l' omosessuale con l' orecchino. Al congresso giovanile avevo un magnifico, luminescente papillon sopra una camicia a righe. Dì, vuoi che ti stringa la mano sotto il tavolo?". Rispondo che il passaggio sotto le forche del commento becero è obbligato: cosa si vuole aspettare, finezze anglosassoni? L' umorismo in Italia, e anche altrove, è spesso di genere caserma, dovrebbe esserci abituato. Però mica posso far finta di essere venuto per le sue preclare virtù politiche di cui tutta l' Italia parla. Sono venuto perchè Vendola è il primo dirigente comunista gay dichiarato. Nel 1948 il Pci non ha espulso Pier Paolo Pasolini per indegnità morale? "Sono passati esattamente 37 anni. Sai cosa ho detto al congresso giovanile? Per noi comunisti non si tratta di difendere la grande dignità e i valori dell' omosessualità, ma di acquisire la diversità come elemento di ricchezza per chi vuole ancora trasformare il mondo. E' stato il passo più applaudito nel mio intervento". Mi ricordo di un altro intervento, più volte citato, fatto da Enrico Berlinguer quando era segretario della Fgci, su Maria Goretti: la additava ad esempio per le future generazioni dei comunisti. "Era il dopoguerra. I comunisti venivano descritti come bestie. L' accusa di essere intellettual-frocio-comunista, senza molta distinzione tra i termini, ugualmente vituperati, è stata merce corrente fino a non troppo tempo fa. Da parte del Pci si tentava di difendersi, di proporre dei modelli di moralità sotto quell' alluvione di vituperi. Il difetto stava nel prendere in prestito i modelli dalla cultura cattolico borghese". Ma c' era anche molta grettezza moralistica e bacchettona all' interno del partito. Chi conviveva con una ragazza veniva convocato e avvertito con l' usuale frase: "Compagno, è ora che regoli la tua posizione". E Togliatti ebbe dei problemi quando iniziò la sua relazione con Nilde Jotti. Secchia non scherzava. "Lo stesso Secchia, una volta caduto in disgrazia, fu accusato, non tanto larvatamente, di essere un finocchio, accusa infamante e degradante. Ma erano tempi diversi, il partito continuava a vivere in stato di allarme, non ci si potevano concedere lassismi personali con il nemico o con la sindrome del nemico alle porte. Però Pasolini, tra il ' 60 e il ' 70, già poteva scrivere liberamente anche di omosessualità su "Vie Nuove"". Pasolini era uno scrittore celebre, un poeta, "un' artista". Anche Visconti non venne mai attaccato: Togliatti ne ha fatto sempre grandi elogi. Ma era un' eccezione. L' aristocratico decadente se lo poteva permettere, proprio perchè aristocratico e decadente. L' operaio in fabbrica no. Diciamo la verità: i compagni lo avrebbero preso a calci nel sedere. "Su Visconti posso essere d' accordo. Ma lui non faceva professione di omosessualità, come non la fa Zeffirelli. In questo senso non sono "scandalosi". Invece Pasolini era provocatorio, almeno per quegli anni e il fatto che scrivesse su "Vie Nuove" è significativo. Però è vero che l' omosessuale in fabbrica, tra i compagni, non aveva vita allegra. Mio padre, comunista da sempre, un uomo magnifico, dolce, andava a fare le spedizioni per picchiare "i froci". Una volta mi ha detto: se ti ammazzassi, noi tutti potremmo riacquistare una dignità. Mi ha molto amato, ma per lui, come per tanti altri, gli omosessuali erano solo i turpi individui che adescavano i bambini nei giardinetti. Ma di queste cose non ne voglio più parlare". Non ho l' intenzione di continuare ad insistere su certi ritardi e manchevolezze del Pci. Ma qui, come in altre occasione, l' azione dei radicali mi sembra sia stata decisiva. Gli altri hanno seguito, anche con riluttanza: tutto questo non gli interessava, soprattutto non faceva parte della loro cultura. "I radicali hanno avuto dei meriti, creando movimenti, flussi, attraverso un' ottica garantista. Ma con qualche casella o piccolo spazio in più di libertà non cambi le regole del gioco, che sono rimaste quasi le stesse. Il "Fuori" voleva creare la cittadella gay, dove gli omosessuali si potessero sentir protetti. I comunisti sono sempre stati contro l' ideologia del ghetto: in ritardo, magari, però decisi a risolvere le questioni, non solo a presentarle, che è molto più facile. D' altronde basta andarsi a rileggere le centinaia di lettere che arrivavamo all' "Unità" e a "Rinascita"" durante gli anni 70: un dibattito libero". Mi dicono però che alti dirigenti del partito non siano stati particolarmente soddisfatti dell' elezione di un omosessuale nella segreteria della Fgci: Chiaromonte ad esempio. "Francamente nel Pci non ho mai avuto problemi, come li ho avuti in famiglia. Credo che oggi comunista significhi anche rispetto dell' altro, essere condannati ad una contaminazione attraverso il rapporto umano: un rischio che bisogna accettare. Lo sguardo inquietante di un altro uomo può farti crollare il tuo castello di certezze, ma è inutile e stupido fuggire. Sono i liberali che hanno sguardi paralleli, che non s' incrociano mai: l' idea del rapporto come due monologhi. Questa è mummificazione dell' esistente. Libertà comunista è dinamismo, è contaminazione, con le nostre coscienze e i nostri corpi, è buttarsi nella mischia. Io l' ho fatto, sono diventato coscientemente omosessuale, per poi recuperare l' eterosessualità, per poi trovar la sessualità, senza aggettivi. Vorrei che ci capissimo, non sto parlando di membri e di apparati genitali, altrimenti torniamo alla caserma". Io credo di capire, ma non so quanti siano in grado di farlo nel Pci, non parlo della Fgci... "Giovanni Berlinguer è uno che capisce: aperto, vivace. Anche Natta ci aiuta. Abbiamo avuto un dibattito con lui molto libero. Ripete sempre che bisogna andare fino in fondo, che bisogna parlare, confessarci di più - non dal prete con la cotta - togliersi di dosso tutti i residui di intolleranza. Gli altri non so, sono arrivato da pochi giorni a Roma. Certo l' età conta, ognuno forma la propria cultura in un momento storico preciso. Non è facile affrontare un tema come quello della pedofilia ad esempio, cioè del diritto dei bambini ad avere una loro sessualità, ad avere rapporti tra loro, o con gli adulti - tema ancora più scabroso - e trattarne con chi la sessualità l' ha vista sempre in funzione della famiglia e dalla procreazione. Le donne, da questo punto di vista, sono notevolmente più sensibili. Ma il Pci non è un organismo matriarcale". - di STEFANO MALATESTA
Bonino rassicura il Pd "Resto candidata ma continuo il digiuno"
E difende la par condicio anti-talk show
di Edoardo Buffoni
E il ministro Zaia chiede di bilanciare anche le presenze dei giornalisti nei talk show
ROMA - Emma Bonino non abbandona la campagna elettorale per il Lazio. Anzi: rivendica un rapporto mai così buono con il Pd, grazie a Bersani. Ma la leader radicale non ha alcuna intenzione di fermare lo sciopero della sete e della fame. Ieri ha risposto a più di 300 messaggi nel videoforum di Repubblica Tv, con la consueta determinazione nonostante non mangi e non beva da lunedì sera.
Il suo slogan elettorale è "Ti puoi fidare". Resta in corsa per il Lazio, o bisogna dar retta a Pannella quando ipotizza un suo ritiro?
«La battaglia per la raccolta delle firme per me è un problema di coscienza. Dopodiché so che entrano in gioco altre responsabilità, gli impegni che ho preso, il fatto di non correre da soli. Il mio sciopero non vuol essere una minaccia per nessuno».
Ma così lei si comporta più da leader di partito che da guida di una coalizione.
«Con tutto il rispetto, per me non c´è solo il Lazio. Noi Radicali siamo una formazione piccola, anomala, ma nazionale e antica. Da leader nazionale mi pongo il problema della presentazione delle liste del mio partito».
Comunque, non si sfila
«Ci tengo agli impegni. È vero, faccio difficoltà a dire di sì, ma poi quando li prendo, li onoro. Qualche prova l´abbiamo data, noi Radicali, o no? O a 60 anni devo ancora stare qui a fare giurin-giurello?».
Le è mancato un sostegno da parte del Pd?
«Di quale Pd parliamo? E´ vero, alcuni non hanno visto di buon occhio l´appoggio che è arrivato da Bersani. Con la nuova segreteria del Pd c´è finalmente un rapporto chiaro, di rispetto. È la prima volta che accade. Ed è una grande novità».
Non tutto il Pd però la pensa così
«Invece devo dire che in giro, dai mercati alla provincia, l´impegno e l´entusiasmo dei militanti democratici sono un patrimonio importante. Il Pd non è solo Rosy Bindi, ma anche le tante persone sconosciute che stanno in silenzio».
Proprio la Bindi le ha chiesto di concentrarsi di più sulla campagna elettorale.
«Ma io faccio campagna elettorale. Incontro tutti, dagli agricoltori ai disabili. Sono stata a Fondi, Viterbo, Rieti, Frosinone, ovunque. La faccio anche con lo sciopero della fame. Le due cose vanno insieme. Senza legalità anche il nostro magnifico programma rischia di essere travolto».
Ma comportandosi da Radicali non si consegna la vittoria alla Polverini?
«Molti cittadini perbene del centrodestra possono sentire questa battaglia come una cosa loro. Sono confusi dalle mille promesse non mantenute, dalla retorica del fare che si riduce a malaffare. La sete di legalità è di tutti».
Lo sciopero della fame non è un modo vecchio di fare politica?
«Se avete altre idee per contrastare l´arroganza del Governo, ditele».
Sul regolamento della par condicio, si sono sollevati tutti.
«Meglio le sfide tra candidati governatori che i soliti ospiti di Ballarò. E poi forse così eviteremo la solita scena in cui Berlusconi, a pochi giorni dal voto e a reti unificate, annuncia il programma per gli italiani».
Dario Franceschini ha detto che non l´avrebbe candidata. Lei rappresenta una minaccia per i moderati cattolici?
«Quello del voto cattolico è un evergreeen del politichese. I cattolici non sono un pacco di voti che si sposta. Chi ha una fede poi sceglie in base a programmi, persone e idee. Comunque Franceschini se aveva un candidato lo poteva anche dire».
Repubblica 26.2.10
"Meno sprechi e più assistenza per i giovani e le famiglie"
In quattro punti il programma del Pd per la Bonino
Ma i vari partiti della coalizione di centrosinistra chiedono maggiori quote per i candidati in lizza
di Laura Mari, Giovanna Vitale
le riunioni sono andate avanti fino a tarda sera. Ma per sapere con certezza i nomi del listino che accompagneranno la candidatura di Emma Bonino alle elezioni regionali bisognerà aspettare fino a questa mattina. Motivo del prolungarsi delle consultazioni, la "guerra delle quote" per decidere quanti nomi per ogni partito della coalizione avranno spazio nel listino. Tra le ipotesi più plausibili, la presenza nel listino di cinque nomi legati al Pd, tre all´Idv (anche se entrambi i partiti in realtà chiedono maggior peso), due ai Radicali e uno a testa per Sinistra Ecologia e Libertà, Federazione della Sinistra, Verdi e Psi.
Intanto ieri il Pd capitolino ha presentato i quattro punti del programma che sosterrà la candidatura della Bonino. Parole d´ordine, meno sprechi, più assistenza agli anziani e, soprattutto, maggiori aiuti alle famiglie piegate dalla crisi e ai giovani. «Un programma semplice, fatto di pochi punti ma concreti» ha spiegato il segretario della federazione romana del Pd, Marco Miccoli. Un documento che affronta quattro temi fondamentali: la sanità, lo sviluppo del territorio con particolare attenzione all´ambiente, il sostegno alle fasce deboli e la razionalizzazione amministrativa.
Quattro impegni, da parte del Pd, per dare un contributo al programma elettorale della Bonino. «Per quanto riguarda la sanità, crediamo sia fondamentale radicarla nel territorio ampliando i turni dei medici di famiglia e aprendo gli ambulatori anche il sabato e la domenica - ha spiegato il capolista del Pd alle elezioni regionali, Esterino Montino - e vogliamo inoltre creare, per i malati cronici e gli over 75, un canale di accesso prioritario ai servizi sanitari».
Sul versante dello sviluppo, l´impegno del Pd si basa principalmente sul potenziamento delle ferrovie regionali e sull´elaborazione di un piano straordinario per l´efficienza energetica, installando pannelli fotovoltaici sugli edifici pubblici. «Bisogna poi premiare le aziende che stabilizzano i precari - sottolinea Montino - ed è necessario sostenere le fasce deboli finanziando ulteriormente il reddito minimo garantito, sostenendo le giovani coppie per l´acquisto della prima casa e destinando una quota dei nuovi alloggi di edilizia pubblica in affitto calmierato agli under 25».
E poi assegni per l´infanzia e l´istituzione di taxi rosa. Sul fronte della razionalizzazione amministrativa, il Pd romano punta poi ad abbassare i vitalizi e i compensi dei consiglieri regionali e dei manager, nonché a ridurre le società regionali. «La trasparenza - ha detto Esterino Montino - è alla base della buona politica».
il Riformista 26.2.10
Bindi sbaglia. Io difendo la Bonino
di Goffredo Bettini
GOFFREDO BETTINI. Il dirigente del Pd difende nel merito lo sciopero della fame e della sete della candidata alla Pisana: «Pone la questione del funzionamento del- la democrazia». È «offensivo» dire - come ha detto il vicepresidente del partito, senza poi smentire le sue parole - che «ha tradito il mandato della coalizione».
In queste ore la salute di Emma Bonino, donna appassionata e fragile, si sta aggravando. Una vita di battaglie testimoniate anche con il proprio corpo, la rende particolarmente esposta alle conseguenze della mancanza di cibo e di una normale idratazione. Spero con tutto il cuore che la situazione si sblocchi. IlPartito democratico sta operando in questa direzione. Pier Luigi Bersani si è comportato in modo molto serio.
Tuttavia la decisone della Bonino, candidata di un'ampia coalizione per la presidenza della Regione Lazio, ha suscitato più di un commento politico. L'obiezione che, in modo civile, qualcuno ha sollevato riguarda il pericolo che così facendo Emma Bonino ritorni dentro un cliché minoritario, d'estremismo radicale, sottomesso alle logiche del suo partito; perdendo quel profilo espansivo di donna competente, di governo, ferma nei valori ma pacata, misurata, pragmatica. Non sono d'accordo.
Certo lo sciopero della fame e della sete è uno strumento tipico della lotta radicale, della storia e del vissuto di quel partito. E un metodo che può apparire solitario ed estremo. Ma anche ad esso dobbiamo tante conquiste civili e di libertà che hanno migliorato e arricchito la Repubblica.
Ma poi, la vera, questione riguarda il merito della battaglia, più che il metodo. Il merito non ha nulla di partitico, di fazioso; non si riferisce a interessi particolari, a poltrone, a posizioni di potere, o a crociate ideologiche unilaterali. Tutte cose che nutrono ampiamente la politica di cui ci cibiamo. Anzi: la Bonino pone la questione delle regole, del funzionamento della democrazia, della possibilità dei singoli cittadini di essere informati proprio in quanto cittadini e non animatori di lobby.
C'è nella denuncia qualche elemento eccessivo? Pazienza: se sono in gioco lo stato di diritto e quella "religione" della Repubblica, oggi così indifesa sotto i colpi dei più forti, dei più furbi, dei più ricchi, i quali spesso dimenticano che il rispetto delle minoranze, fa grande una democrazia.
Accanto, però, a obiezioni intelligenti e comunque politiche, sono apparse sulla stampa affermazioni polemiche francamente offensive: Emma Bonino avrebbe addirittura tradito il mandato della coalizione; a conferma di una candidatura sbagliata, stravagante, sleale. In particolare Rosy Bindi ha voluto esternare queste critiche, senza smentirle nelle ore successive.
Il mio sentimento va in una direzione completamente opposta: non mi sento affatto tradito da una battaglia che certamente ha lo scopo anche di aiutare il Partito radicale a presentarsi in tutte le regioni, ma che ha, vivaddio, al centro valori, passioni e idee alte e che aiuta un po` tutti a respirare l'aria di una buona politica.
Mi sento molto più tradito (e quanta indulgenza abbiamo invece in questi casi!) per un dilagare, in qualche situazione, al di là della decenza: di pratiche politiche particolaristiche, di lotte furibonde attorno alle liste, di campagne per le preferenze che hanno inondato le nostre città di facce con i simboli di partito, ben prima che si decidessero le liste nelle sedi collettive e democratiche.
Per questo, dico, teniamoci la Bovino ben stretta, e cerchiamo di far pulizia di certi comportamenti che talvolta ci fanno somigliare ai nostri avversari.
il Riformista 26.2.10
Bonino-Pd, lite sul Listino. E Berlusconi interviene in quello della Polverini
di Matteo Valerio
C'è un caso Bonino nel centrosinistra. Ma anche una caso Udc nel centrodestra. La definizione dei "listini" nel Lazio provoca fibrillazioni a tutto campo. Sia Renata Polverini che Emma Bonino sono alle prese con la difficile trattativa nelle rispettive coalizioni per compilare la lista dei 14 che, in caso di vittoria, avrebbero un posto assicurato sugli scranni della Pisana, senza doversi sottoporre alla prova delle preferenze. Ti caso più scottante si è consumato a destra. L'Udc, ancora ieri impegnato in una serie di tentativi di mediazione, avrebbe addirittura minacciato la sospensione della campagna elettorale al fianco dell'ex leader Ugl. Motivo del malcontento, l'assegnazione di tre nomi per i centristi nel listino, quando invece gli accordi sottoscritti nel Lazio ne avrebbero previsti quattro. Sul tutto pesa l'ombra del premier Silvio Berlusconi. Sarebbe stato lui in persona a dare uno stop all'accordo sottoscritto da Polverini. L'allarme Udc, però, pare rientrato in giornata, tanto che il coordinatore regionale Luciano Ciocchetti, afferma soddisfatto al Riformista: «Abbiamo rinunciato ad un nostro nome, in modo responsabile, per favorire la chiusura dell'accordo». Diversa la versione nel Pdl: «Sono ben contenti di avere ottenuto tre nomi». Riguardo invece l'intervento diretto di Berlusconi, Polverini ieri smentiva con poche parole: «Non mi risulta». La scarsa propensione a dare spiegazioni e/o rassicurazioni, però, non ha fatto che confermare la situazione ancora indefinita: «Siamo ancora in alto mare, e non sappiamo se arriveremo ad un accordo», ripetevano ieri nei corridoi. E chi ha partecipato attivamente alla trattativa smentisce le parole della candidata: «Negli ultimi giorni c`è stato un ctteto "sliding doors", c'era gente che entrava e gente che usciva in continuazione. Berlusconi ci ha messo le mani, la Polverini ha fatto ulteriori modifiche alla luce di quelle osservazioni». Scongiurata la minaccia dell`Udc, il problema ora resta tutto interno al Pdl: «Sono in mille per undici posti», sintetizzano i bene informati. Allo stato attuale, l'accordo dovrebbe chiudersi con un leggero favore per gli ex fornisti, e con gli ex Anche cedono un minimo di terreno, avendo una propria espressione nella candidata in persona. Detto in soldoni, degli undici posti rimanenti escludendo quelli riservati all`Udc, sette andranno agli ex Fi, tre agli ex An ed uno sarà indicazione diretta del presidente della Camera Gianfranco Fini. In tutto questo, però, si chiuderebbero gli spazi per La Destra, sebbene Storace sia tranquillo: «Io ho fatto un accordo con Berlusconi, abbiamo indicato il segretario generale Vittorio Messa». Non va meglio neanche alla candidata Bonino, che per la compilazione del listino sembra abbia posto due condizioni: le metà dei nomi, 7 su 14, dovrà sceglierli lei, pescando soprattutto nella società civile. Inoltre l'esponente radicale vuole che i candidati del listino siano il più possibile espressione omogenea dei territori. Il problema è che anche il Pd chiede 7 posti. Una richiesta che fa sballare i conti, dato che così facendo non resterebbe niente agli altri alleati: Sinistra e Libertà, Federazione delle Sinistre e Idv. Questi ultimi, ad esempio, avevano già chiuso l`accordo su due nomi; la federazione delle Sinistre aveva espresso Silvia Garambois, mentre anche a Set spetterebbe la scelta di un suo esponente di riferimento. I radicali, comunque poco propensi a cedere rispetto alle posizioni di partenza, interpretano così la situazione: «Stiamo vivendo un vero e proprio arrembaggio al listino da parte dei partiti. Evidentemente si sono resi conto anche loro che Emma è assai meno soccombente di come tanti la dipingono». La stretegia del Pd, invece, per ora suona così: «Noi chiediamo sette posti, e pensiamo siano esattamente quelli che ci spettano. Abbiamo una serie di sensibilità diverse da rappresentare. Non è detto, d'altronde, che le sette personalità scelte da Bonino debbano provenire tutte dalla società civile: qualcuno potrebbe essere scelto tra le fila dei partiti». Per ora, comunque, i nomi quasi certi per il Pd sono quelli di Luisa Laurelli e Luigina Di Liegro. Si parla anche di Mirko Coratti e Fabrizio Scorzoni, mentre è in forse Patrizia Prestipino. L'unico punto di caduta possibile, comunque, «dovrebbe prevedere un piccolo passo indietro sia del Pd che della Bonino, onde evitare che si arrechino danni alla tenuta della coalizone», dice chi sta seguendo la trattativa.
l’Unità 26.2.10
Il Pd aderisce, così Idv, Sel, Fed e Verdi. Sul palco niente politici, parla anche Genchi
Tornano i Viola tre mesi dopo
Ora c’è anche l’opposizione
di Natalia Lombardo
A piazza del Popolo domani alle 14,30 il Popolo Viola contro la legge sul legittimo impedimento: «Basta, la legge è uguale per tutti». Stavolta il Pd sarà in piazza, anche Idv, Sel, Fed e Verdi. Non aderiscono Udc e Api.
A tre mesi dal successo del NoB Day, il tam tam del Popolo Viola chiama domani in piazza del Popolo, dalle 14,30. Il logo è una Mafalda rosa che grida un «Basta! La legge è uguale per tutti», scritta che campeggerà sul palco lungo 14 metri. Una manifestazione nazionale «contro l’approvazione del legittimo impedimento» e le leggi ad personam «per chiedere il rispetto della Costituzione e affinché si risolva il conflitto di interessi». Sarà trasmessa in diretta su RaiNews24 (già messa in croce dalla destra il 5 dicembre) con «finestre» nel Tg3.
Promossa dal Popolo Viola di Roma, Bo.Bi Boicotta il Biscione, San Precario, Libera Cittadinanza, sarà una seconda prova di coesione in piazza per la rete del malessere civile che si dirama nei blog. Il Popolo Viola prende corpo però «non ci saranno liste Viola», chiarisce subito una delle promotrici. L’adesione di tutti i partiti del centrosinistra c’è, stavolta anche quella del Partito Democratico, che il 5 dicembre a San Giovanni si affidò solo alla partecipazione individuale. Orgogliosamente Gianfranco Mascia, pashmina viola al collo, spiega: «Abbiamo fatto tutto in un mese», dall’idea lanciata su Facebook, «finora abbiamo raccolto 26mila euro di sottoscrizione on line, arriveremo a 40mila». E, soddisfazione maggiore, «ai partiti non abbiamo chiesto niente», né al sindacato, neppure l’aiuto logistico avuto al NoB Day.
I PARTITI CI SONO
«Per la prima volta un'iniziativa di autoconvocati riscuote l’adesione delle forze dell'intero arco costituzionale», dice Mascia, che poi precisa ridendo, «volevo dire dell’intera opposizione, con l’unica defezione dell’Udc». Anzi, Casini, il cui partito si è astenuto sul legittimo impedimento, critica il Pd: «Si fa un regalo a Berlusconi». Diserta anche l’Api di Rutelli. Il segretario del Pd Bersani questa volta ha aderito senza riserve; non ci sarà perché è in campagna elettorale fuori Roma (così Franceschini); in piazza ci sarà ancora Rosy Bindi, poi Andrea Orlando, Giovanna Melandri, Paola Concia. Giorgio Merlo si distingue: «Va bene, ma dev’essere chiaro il nostro no al giustizialismo». Hanno aderito l’Italia dei Valori (richiamata sul blog di De Magistris), Sinistra e Libertà, la Federazione delle sinistre, i Verdi, la Cgil.
I promotori viola incrociano le dita e confidano in un altro «successo»; 200mila le adesioni: Articolo21, Micromega, Libertà e Giustizia, l’Anpi, Un’Altra Storia di Rita Borsellino; pronti a partire 200 pullman. Sul palco ci saranno i lavoratori di Termini Imerese, dell’Ispra, i precari, i presidi de L’Aquila, Nessun politico né candidato avrà il microfono. Dalla giustizia al lavoro, alla difesa degli articoli 1, 3 e 21 della Costituzione; interverranno, fra gli altri, Alberto Asor Rosa, Paolo Flores D’Arcais, Guido Scorza per la libertà del web, Norma Rangeri. E Gioacchino Genchi, dopo la puntata al congresso Idv. Proiettati video di Giorgio Bocca e Marco Travaglio.
L’entusiasmo non manca, e dal 3 febbraio, quando alla Camera è passato il legittimo impedimento, un camper presidia piazza Montecitorio. Qui hanno consegnato le «patenti» viola a chi non l’ha votato, ultimi a Massimo D’Alema e Beppe Fioroni; il 9 marzo il ddl è in aula, ai senatori un provvisorio «foglio rosa». Ma, spiegano alcune «viole»: «È tanta la gente che si ferma al presidio, segno del disagio e della voglia di difendere la Costituzione». ❖
il Fatto 26.2.10
Piazza del Popolo domani si tinge di viola
di Federico Mello
Tutto è pronto per sabato, a Piazza del Popolo, nel centro di Roma. “Le legge è uguale per tutti” ribadirà il Popolo Viola nella sua giornata di protesta contro le leggi ad personam. Al No B. Day del 5 dicembre fino alla vigilia risultava ancora imprevedibile il successo della piazza viola; questa volta i manifestanti sono sicuri: la piazza sarà bella, colorata, con tanta gente e non solo: “L’adesione migliore che abbiamo avuto è stata quella del sole, che ha assicurato la sua presenza” scherza Vittoria Pagliuca, una degli organizzatori, durante la conferenza stampa di presentazione. Sono pronti il palco, gli interventi, la scaletta. Manca solo il popolo, viola e no, sabato a partire dalle 14:30. Questa volta i viola hanno fatto tutto da soli: nessun sostegno dai partiti ma una sottoscrizione online che ha funzionato; sono stati raccolti finora 23.000 euro (“pubblicheremo tutti i rendiconti sul Web” assicurano) sui 26.000 necessari. Tutti soldi arrivati via donazioni Web (PayPal) su 27febbraio2010.org. “Ma ancora dobbiamo capire quanti sono i contributi arrivati con il conto corrente bancario” aggiunge Emanule Toscano, del Popolo viola Roma. Le donazioni sono varie “C’è chi dona due euro, e chi ne ha versati 600”. La media è intorno ai venti euro”.
In questi giorni, oltre alla pagina Facebook dove tutto è cominciato, anche il presidio permanente che staziona da 20 giorni a Montecitorio, si è trasformato in un’occasione per pubblicizzare l’iniziativa di domani. I militanti che si radunano intorno al camper viola, sono stati protagonisti anche di sapidi siparietti con gli onorevoli che passano davanti alla Camera. Hanno funzionato le “Patenti viola a punti” rilasciate ai deputati che hanno votato contro la legge sul legittimo impedimento. Mercoledì, in mattinata, è stato arpionato dai militanti anche Massimo D’Alema che, suo malgrado, si è avvicinato al banchetto e ha ricevuto l’attestato: “Non aveva molta voglia, un po’ se la tirava” dice irriverente Francesca, una militante presente. “Granata invece no, è stato gentile”. Parla proprio di Fabio Granata, il deputato finiano del Pdl, che anche in questa occasione non ha perso occasione per distinguersi dai suoi colleghi di partito: è stato il primo esponente della maggioranza ad avvicinarsi al presidio. “A lui però abbiamo dato una patente con cinque punti in meno, sulla fiducia: alla votazione era assente” dicono i viola. Ormai sono numerosi i politici che hanno preso la patente: Antonio Di Pietro, naturalmente, ma anche Ignazio Marino, Vincenzo Vita, Paola Concia e Paolo Ferrero tra gli altri.
“Le patenti viola sono una cosa seria – dice Gianfranco Mascia uno dei protagonisti del No B. Day – perché con queste gli onorevoli si impegnano anche a mettere all’ordine del giorno dei lavori del Parlamento, entro sei mesi, una proposta di legge contro il conflitto d’interessi. Di leggi depositate ce ne sono numerose ma non vengono mai messe in calendario. Faremo su questo un controllo democratico”.
Ma per ora si pensa a sabato. Hanno aderito le personalità più disparate della cultura e dello spettacolo: Mario Monicelli, Dario Vergassola, Francesco Guccini, Dario Fo e Franca Rame, Daniele Silvestri e decine di altri.
Sul palco due donne smisteranno gli interventi: l’autrice satirica Francesca Fornario e la giornalista di Rai Tg 24 Maria Laura Carcano (il canale all news seguirà anche l’evento in diretta).
Apriranno le danze Daniele e Valentina, del Popolo viola. Seguirà l’avvocato Guido Scorza, punto di riferimento italiano sulle libertà digitali; quindi Alberto Asor Rosa, Genchi, Norma Rangeri del Manifesto, Gianni Minà, Paolo Flores d’Arcais e Oliviero Beha. Giorgio Bocca e Marco Travaglio saranno presenti con un intervento video. Grande spazio anche alle testimonianze civiche e di lotta: i lavoratori Ispra, gli operai Fiat di Termini Imerese, i comitati di precari, i rappresentanti dei cittadini de L’Aquila.
Obiettivo non è solo quello di chiedere le dimissioni di Berlusconi: “Abbiamo deciso di rappresentare sul palco le
problematiche relative agli articoli 1, 3 e 21 della Costituzione” dicono gli organizzatori. “Art 1: forma della democrazia e la tutela del lavoro; Art. 3: l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge; art. 21: il diritto ad essere informati, il dovere di informare”.
Repubblica 26.2.10
Il Popolo Viola alla piazza-bis arriva anche il sì della Cgil
E il finiano Granata prende la "patente" del movimento
Riuscita la colletta online per coprire i costi della manife-stazione di domani a Roma
di Alessandra Longo
ROMA - Fanno tutto da soli, questa volta. Cercano e trovano i soldi, si procurano i gadget e le bandiere, discutono l´organizzazione del palco, la scaletta degli interventi, il sottofondo in musica. A poche ore dalla manifestazione a difesa della Costituzione, i viola vanno a pieno ritmo e senza appoggiarsi ai partiti che pure, nella prima loro uscita pubblica, quella del 5 dicembre scorso, li avevano supportati e parzialmente finanziati. «Ma due mesi fa - dice Gianfranco Mascia, uno dei protagonisti di questo mondo nato all´ombra della Rete - non eravamo nessuno. Ora siamo i viola!». Ora li conoscono, sanno che possono portare domani, a Roma, in piazza del Popolo, decine di migliaia di persone. Un clic e la gente, in carne ed ossa, arriva. Un clic e i tanti italiani «stanchi del marcio e del marciume», donano il loro contributo alla causa. Chi due euro, chi seicento. Tutto visibile online, massima trasparenza, nel Paese dell´opacità.
Guglielmo Epifani, segretario della Cgil, manda gli auguri per un evento «che sia bello e sereno», con la solennità che si usa quando si riconosce il ruolo dell´interlocutore: «I temi che vi portano a manifestare suscitano in noi la stessa vostra preoccupazione». Articoli 1, 3 e 21 della Carta. Lavoro, uguaglianza davanti alla legge, libertà di stampa... Anche il Pd ci sta con molto più calore della volta precedente. «La nostra spinta, la nostra energia - dice Mascia - servono anche a loro. E il fatto che non ci siamo presentati con una nostra lista viola alle elezioni, evitando così un errore a mio avviso mortale, ha sciolto pregiudizi e diffidenze». Non sono un pericolo, semmai un aiuto.
Si dichiarano fuori dai giochi, dalle "gelatine" della politica. Il loro "libretto rosso" è la Costituzione. Sempre Mascia, pashmina viola al collo: «Per la prima volta una iniziativa di autoconvocati riscuote l´adesione dell´intera opposizione, dal Pd all´Italia dei Valori, da Sel alle altre forze di sinistra, con l´unica defezione dell´Udc». Una certa simpatia per questi outsider la nutre anche Fabio Granata, deputato, uno degli uomini più vicini a Fini. Ieri si è presentato al camper che i viola hanno posteggiato davanti a Montecitorio. «Ho spiegato ai ragazzi che sono molto contrario al processo breve ma considero la legge sul legittimo impedimento il male minore». Gli hanno consegnato, previa firma, la «patente viola», ma con quattro punti di penalità. Lui sorride e dice: «Non condivido la loro ossessione per Berlusconi ma trovo che siano un´area dialogante». Prima di Granata, la patente viola se l´erano messa in tasca D´Alema e Fioroni. Assicura Mascia: «Siamo pronti a ritirargliela se voteranno una qualunque delle leggi ad personam».
A domani, dunque. Con lo striscione-guida che dice: «Basta! La legge è uguale per tutti». E a incorniciare il palco una frase di Alain Touraine (pronunciata in un´intervista al manifesto) che rende onore alla sfida dei viola: «Sono uomini e donne disposti a mettersi in cammino».
il Fatto 26.2.10
“Non toccare il mio amico” Sos contro il razzismo in Italia
Lo scrittore Khouma: “Primo pericolo l’indifferenza”
di Stefano Citati
Sì, l’Italia sta diventando più razzista grazie alle parole di alcuni e all’indifferenza degli altri.
Per questo l’associazione Sos racisme, storica organizzazione che da 25 anni combatte in Francia contro la xenofobia e l’associazione gemella Sos razzismo italiana ha lanciato una campagna e una sottoscrizione di firme di personalità e comuni cittadini per tenere alta la guardia.
Tra i firmatari Pap Khouma, scrittore senegalese diventato cittadino italiano che descrive l’effetto combinato dell’offensiva verbale (e non solo) e la sempre maggiore indifferenza con la quale la società civile sembra reagire.
“A forza di sentir ripetere parole come quelle degli esponenti della Lega sempre più persone si possono sentire autorizzate a pensare in modo razzista; è come se il linguaggio di alcuni politici avesse sdoganato delle idee che un tempo erano tabù. Con la scusa della libertà d’espressione si finiscono con dire cose gravissime alle quali sempre più persone mi pare reagiscano con rassegnazione. È come se l’indignazione fosse finita, contingentata e a furia di ripetere certi discorsi non ci fosse più la capacità, la volontà, di reagire. Spesso ormai chi non è d’accordo si rifugia nel ‘lasciamo perdere, intanto se lo dice Calderoli...’. Ma non stiamo parlando di comici che provocano, stiamo parlando di politici che hanno il potere di fare le leggi. Non è possibile non dare importanza a queste provocazioni, o smettere di dargli importanza perché ormai sono trite e ritrite.
Lo sciopero annunciato da parte degli immigrati che si terrà lunedì può esser e un modo per sottolineare la situazione e ridare peso e importanza alla questione?
Chi subisce gli attacchi razzisti quasi sempre non ha voce; quella di lunedì è almeno un modo per dare voce, per unire le voci, della parte più debole del Paese. Quando un immigrato viene attaccato non si può reagire con il silenzio, dobbiamo prendere per primi noi coscienza e condividere la nostra condizione: il 1° marzo lo sciopero produrrà danni solo simbolici ma sarà una prima volta e sottolineerà che noi immigrati non siamo solo un allarme sociale, una massa indistinta da usare e poi colpire, uno strumento solo per raccattare voti. È facile colpire noi, come sparare sulla Croce Rossa, ci vuole solo pelo sullo stomaco. Certo gli immigrati, i clandestini, sono esattamente come il resto della società civile: sono individui, buoni o cattivi, bravi o meno, come i politici che siedono in Parlamento ma truffano, hanno le stesse debolezze e la stessa dignità. Ma dobbiamo arrivare a far capire a tutti, italiani ed europei, che proprio la terra e i popoli che hanno creato il multiculturalismo, che sono partiti e sono andati a vivere nel resto del mondo, adesso non vogliono più quello che hanno creato, ora che il multiculturalismo l’anno in casa loro”.
l’Unità 26.2.10
Il caso Fisichella
Abortoomicidio la «pia frode» e il Vaticano
di Maurizio Mori
La richiesta di dimissioni di mons. Rino Fisichella dalla presidenza della Pontificia Accademia per la Vita avanzata da cinque membri della stessa Accademia difensori della stretta ortodossia attraverso uno Statement reso pubblico il 16 febbraio scorso è un fatto significativo.
Di solito i più ortodossi si sono sempre attenuti alla via gerarchica e riservata. Ora invece rompono gli argini con una carica di nomina papale e non elettiva, per cui scontata era la reazione vaticana: «stupisce e appare non corretto che a tale documento venga data una circolazione pubblica» prima di averlo trasmesso a chi di dovere. Prima era la “sinistra” che ricorreva all’azione pubblica, adesso anche la “destra” scrive a chiare lettere che «c’è una ragionevole speranza che il Santo Padre riconoscerà l’esigenza di assegnarge a Fisichella un’occupazione più adatta alle sue capacità» visto che «non capisce cosa comporta il rispetto assoluto per le vite umane innocenti». Questo scambio delle parti è di per sé interessante. Ma ci si deve chiedere: è un segno di forza o di debolezza per la dottrina più tradizionale?
Il problema è posto dal caso della bambina brasiliana di 9 anni incinta di due gemelli per i ripetuti stupri del patrigno, risolto lo scorso anno con l’aborto terapeutico legale in caso di stupro e/o di alto rischio di vita. È irrilevante discettare se il rischio fosse davvero alto: il caso è tanto estremo e tragico da far credere che almeno lì l’aborto terapeutico era giustificato. Invece il vescovo Sabrinho lanciava la scomunica dando grande pubblicità al caso e suscitando polemiche. Su L’Osservatore Romano del 15 marzo 2009 Fisichella suggeriva un comportamento più prudente e mite teso più alla comprensione che alla condanna: per i critici l’eccezione buonista che apre la classica crepa che fa crollare la diga.
Era dai tempi di Pio XII che non veniva più esplicitamente ripetuto che l’aborto non è mai lecito neanche quando necessario per salvare la madre da morte. Per Fisichella questa tesi doveva restare sottotono essendo incomprensibile ai più, mentre per gli altri va riaffermata e proclamata senza timori. Questa divergenza è un altro segno dei tempi. È la prima volta che un vescovo afferma sia meglio glissare sul divieto assoluto di aborto terapeutico, quasi riconoscendo l’impossibilità di risalire la china diffusa. Inoltre, così facendo emergerebbe che l’aborto è una violazione dell’“ordine creaturale” ma non una forma di omicidio, col rischio che diventi palese che l’attuale condanna dell’aborto come omicidio è una sorta di “pia frode” diffusa per tamponare la diga della sacralità della vita ormai in via di smantellamento. ❖
l’Unità 26.2.10
Intervista a Shirin Ebadi
«Il regime è violento ha paura dell’altro Iran»
La Nobel per la pace: «Il movimento di protesta è un moto popolare non ha ideologie ma chiede diritti. E le donne sono in prima fila»
di Gabriel Bertinetto
Al telefono da Ginevra, dove partecipa a un convegno della «Federazione internazionale per i diritti umani» (Fidh) Shirin Ebadi, premio Nobel per la pace, paladina dei diritti umani in Iran. Signora Ebadi, da tempo lei gira il mondo patrocinando la causa dei diritti umani e civili violati in Iran. Ha l’impressione che oggi i popoli ed i governi comprendano meglio quanto accade nel suo Paese? «Credo di sì. Precedentemente quando si parlava di Iran, l’immagine prevalente era quella di uomini dalla lunga barba e donne velate vestite di nero. Ma le proteste pacifiche seguite al voto ed ai brogli hanno aiutato la comunità internazionale a crearsi un’idea diversa degli iraniani, come di cittadini amanti della democrazia». La Repubblica islamica ha una lunga storia di violazioni dei diritti umani. La situazione attuale è, a suo giudizio, solo la continuazione di un male endemico, oppure presenta caratteri originali?
«Credo che stiamo assistendo ad un peggioramento. Ciò che pero mi rallegra è che oggi in Iran ci sono molti più difensori dei diritti umani rispetto a prima. In passato di fronte alle violazioni commesse dal governo erano pochi a reagire ed a manifestare. Pochi osavano anche solo sollevare l’argomento. Ma ora cresce il numero di coloro che protestano e reclamano il rispetto dei più elementari diritti che ci vengono negati».
Questo indurimento nella repressione deriva dal desiderio che il regime ha di mostrare che non teme la contestazione, oppure al contrario è figlia della paura che si diffonde tra i dirigenti di fronte alla protesta popolare?
«Un regime che goda di un solido appoggio popolare non perpetrerebbe mai atti di violenza contro i cittadini. Dunque ritengo che il comportamento del regime dipenda dalla paura. E da cosa altro potrebbe scaturire la decisione di vietare alla gente di manifestare e di reprimere la libertà di associazione? Temono che i cittadini si riuniscano e agiscano assieme».
Neda Soltan, è diventata il simbolo della pacifica lotta degli iraniani per la libertà. Come spiega che così spesso in Iran le donne siano in prima linea,
sia come vittime dell’oppressione che come protagoniste della resistenza? «Lo trovo piuttosto normale. È logico che coloro che sono le prime a patire per la negazione dei diritti, siano poi anche all’avanguardia nella battaglia per ottenerne il rispetto». Il giorno dell’Ashura alcuni militari si sono rifiutati di sparare sulla folla. Singoli episodi di pietà, o la punta emergente di una rivolta etica che scuote gli stessi apparati di sicurezza? «Potrei dire in generale che molti esponenti del regime non condividono l’oltranzismo di Ahmadinejad. C’è chi valuta che osando troppo sul cammino della violenza si possa danneggiare il regime e provocarne la caduta. Molti sanno che se ciò avvenisse, sarebbero i primi a rimetterci. Ecco perché si oppongono ad esagerazioni ed estremismi».
Cosa distingue l’onda verde da precedenti mobilitazioni per la libertà e la giustizia? La dimensione numerica, la maggiore determinazione, la chiarezza degli obiettivi? «Credo sia evidente una cosa. Coloro che partecipano alle dimostrazioni sono mossi dalla volontà di perseguire obiettivi molto chiari: democrazia politica e rispetto dei diritti umani. Ma c’è anche un’altra differenza tra questo movimento ed altri del passato, ed è che l’iniziativa appartiene alla società. Il movimento è diretto dal popolo, non da Mirhossein Mousavi o Mehdi Karroubi. I leader non sono alla testa dei cittadini, piuttosto ne accompagnano l’iniziativa. Questa è una importante novità».
La Repubblica islamica sta agonizzando? «Posso solo dire che è molto indebolita. Ma da qui a dire che sia in agonia, ne passa. Non voglio spingermi così lontano. Penso che sia un dibattito prematuro. È troppo presto per emettere un verdetto così drastico». Si vede però che molte figure preminenti del cosiddetto establishment prendono le distanze dal capo di Stato Ahmadinejad e dalla Guida suprema Khamanei. Non è il segno di un crescente isolamento dei vertici?
«Sì, è vero che il sistema sta perdendo l’appoggio popolare, e contemporaneamente pezzi sempre più grandi di società se ne distaccano. Le massime autorità hanno meno sostenitori, sono più sole».
Lo Shah fu rovesciato anche in nome dell’Islam. Che ruolo ha oggi il sentimento religioso nel contesto dello scontro sociale e politico in atto? Gioca a favore dell’onda libertaria o è strumento della repressione?
«Direi che il sentimento religioso oggi in Iran è un po’ attenuato anche a causa degli arbitri e delle violenze che sono stati commessi facendosi scudo della fede. Non voglio dire che la gente sia meno devota di prima, ed anzi le convinzioni musulmane rimangono salde. Ma credo che sempre di più si imponga la coscienza che lo Stato e la religione devono essere due sfere distinte e separate».
Prevale dunque nell’opposizione chi rifiuta le basi ideologiche stesse della Repubblica islamica rispetto a chi denuncia nell’autoritarismo dittatoriale il tradimento dei valori fondanti del khomeinismo?
«Posso solo dire che l’onda verde non è un movimento ideologizzato. È una grande iniziativa popolare a carattere democratico. Fra coloro che manifestano nelle strade, hanno spazio le opinioni più diverse». La comunità internazionale sta agendo bene nei confronti dell’Iran? «Sarebbe opportuna una maggiore diffusione di informazioni, anziché limitarsi al contenzioso sul programma nucleare. Occorrerebbe occuparsi di più dei diritti umani violati e delle speranze di cambiamento degli iraniani. Quello che chiedo poi alla comunità internazionale sono atti concreti per vietare certi tipi di transazioni commerciali. Bisognerebbe astenersi dal firmare contratti che consegnano ai dirigenti di Teheran gli strumenti per opprimere i loro concittadini. Mi riferisco in particolare agli accordi raggiunti con aziende come Nokia e Siemens che forniscono allo Stato iraniano la tecnologia per controllare, censurare, bloccare le comunicazioni via Internet e la telefonia mobile.
Dunque lei approva le sanzioni contro l’Iran? «Dico sì a sanzioni che impediscano la vendita di strumenti d’oppressione, come le armi o i gas lacrimogeni».
Da quasi un anno lei non torna in patria. Cosa teme? La prigione, violenze fisiche? «Non ho paura. Sono i miei colleghi a Teheran che mi suggeriscono di non tornare. Dicono che la situazione è terribile e sarebbe estremamente difficile per me svolgere qualunque attività a casa, mentre all’estero posso fare molto di più per trasmettere i messaggi di denuncia e di proposta dei connazionali. In Iran mi sarebbe impedito parlare e comunicare. Ma non appena mi diranno che hanno bisogno di me, e posso essere più utile là di quanto non lo sia all’estero, non esiterei un momento a rientrare».
I suoi familiari hanno subito ritorsioni per causa sua da parte del potere. Come stanno adesso? «Mio marito fu messo in prigione per alcuni giorni e poi rilasciato con il divieto però di espatriare. Mia sorella è stata arrestata e poi rimessa in libertà dopo tre settimane. Né l’uno né l’altra hanno mai svolto attività politiche o sociali di qualunque tipo. Il fermo fu loro motivato così: se non siete in grado di far cessare le sue attività a Shirin Ebadi, sarete voi a patirne gli effetti. Evidentemente si sono poi resi conto che quel ricatto non funzionava, ed io avrei continuato la mia attività. E li hanno lasciati andare».❖
l’Unità 26.2.10
Il destino crudele di Chopin
L’anniversario Duecento anni dopo la sua nascita il compositore ancora sconta la sua dannazione: essere considerato un romantico per forza, amato dalle signore dei salotti bene. E invece era un grande rivoluzionario
di Giordano Montecchi
Gran brutta storia per un musicista nascere nei giorni del Festival di Sanremo. Puoi diventare famoso o importante più del padreterno, ma se c’è il Festival di mezzo, in Italia il tuo compleanno non se lo fuma nessuno. Pare proprio che la stampa italiana, così pronta a festeggiare i più arzigogolati anniversari quando c’è qualche comitato d’affari che spinge o quando la tv non offre carnazza da mettere in pagina, si siano dimenticati di quella creaturina gracile nata il 22 febbraio del 1810 e che prese nome di Fryderyk Franciszek Chopin. A dire la verità non è proprio esatto che ci si sia scordati di questo compleanno, solo che la concomitanza di un evento canoro di portata addirittura principesca ha spinto tutti quanti a risolvere ipso facto quel dubbio che gli studiosi ciancicano da duecent’anni: se Chopin sia nato il 22 febbraio come dice il certificato di battesimo, oppure il 1 marzo come lui era solito dire. Dubbio caprino se si vuole, ma comunque risolto grazie alla tv: per l’Italia Chopin è nato il 1 marzo. Scommettiamo?
Duecent’anni, ma lui non arretra. Chopin rimane, tanto roccioso nella vita postuma, quanto cagionevole nella travagliatissima sua esistenza; presenza costante e salvifica nei programmi da concerto, nei cd che stazionano tanto nei negozi specializzati sopravvissuti, quanto nei gironi infernali degli ipermercati; e anche negli spartiti adagiati sulle miriadi di pianoforti che adornano le case del pianeta (ornamento così raro dalle nostre parti).
Eroe indiscusso Chopin, forse insuperato, di quella specialissima categoria che Paolo Castaldi definì i musicisti «amati dal pubblico». La sua è una longevità inattaccabile, superiore a chiunque altro, fors’anche a Mozart la cui enorme recente fama è in fin dei conti un fenomeno mediatico. Chopin, lui, c’era già prima di Amadeus e nessuno potrà mai fare ombra ai suoi Walzer e ai suoi Notturni, e neppure ai suoi Preludi, Polacche, Studi, Scherzi, Ballate... E visto che ci siamo lasciatemi spendere una parola per quelle Mazurke che restano a modesto avviso di chi scrive i suoi gioielli più luminosi.
IL SUO MODELLO? BACH
Destino curioso o crudele per questo musicista diventare l’icona stessa del romanticismo più esteriore e senza controllo, lui che ebbe come suo modello Bach, che scansò rigoroso tutte le romanticherie alla moda della sua epoca, e che inveiva quando un editore marchiava qualche sua pagina con quei titoli che rimanevano poi indelebili, come tatuaggi indesiderati, fra Cadute di Varsavia, Tristezze, Gocce d’acqua ecc. (fatevi un giro su wikipedia e rabbrividite!).
Troppo evocatrice, emozionante e insieme sperimentale era la sua poesia sonora: intuizioni folgoranti scaturite dal muoversi stesso delle dita sulla tastiera; melodie che il più sublime operista gli avrebbe invidiato senza mai riuscire a eguagliarle; costruzioni così anomale eppure miracolosamente in equilibrio.
Così come le rivoluzioni vere sono quelle che sfuggono ai più, Chopin fu autentico rivoluzionario e come tale avversato non dal pubblico, che ne sentiva la tremenda nuova e conturbante bellezza e verità, ma dai colleghi e dai critici che, infastiditi dal suo lessico, dipinsero la sua musica come il paradigma dello sfascio morale, della malinconia, del morboso, di tutto ciò con cui signorine e giovani per bene non avrebbero mai dovuto avere a che fare. Fu così che Chopin divenne l’eroe ante litteram della décadence, finì tra mani che senza ritegno vi pomparono lacrime e svenimenti, deliqui ed assenzi, kitsch e feticismi.
IN MEZZO I FURBETTI
La reazione fu inevitabile: ai cesellatori dello Chopin d’antan si oppose chi volle spazzare via tutto questo fradiciume basso-romantico e ripristinare la purezza adamantina della sua musica. E siamo a oggi. Ma Chopin non è né l’uno né l’altro. E non sta neppure in mezzo, che in mezzo ci stanno solo i furbetti.
Semmai Chopin sta sopra: colui per il quale l’arte del puro comporre e l’arte di toccare nel profondo sono esattamente, miracolosamente la stessa cosa. Maestro immenso Chopin, monito perenne sia per chi si crede artista sfrucugliando le note come fosse un sudoku, sia per i piazzisti di easy listening o per gli spacciatori di mélo basso corporeo.
Repubblica 26.2.10
Dubai, licenza d'uccidere per la vendetta del Mossad
di Vittorio Zucconi
Alle 21 del 19 gennaio, in un lussuoso hotel di Dubai, un alto esponente di Hamas è stato assassinato. A portare a termine l´omicidio è stato un commando dei servizi segreti israeliani Una missione perfetta, svelata dalle telecamere dell´albergo Ma forse i killer avevano previsto anche questo
La vittima è stata soffocata e tenuta immobile perché la morte sembrasse naturale
Le note languide e inevitabili di Casablanca avevano appena cominciato a diffondersi dal pianoforte a coda Kawai nella hall dell´albergo, quando il morto entrò nell´hotel Al Bustan, «il giardino», di Dubai, reggendo il sacchetto con le scarpe nuove appena acquistate.
Lo vediamo voltarsi all´indietro un paio di volte, nelle immagini registrate dalle telecamere di sorveglianza a circuito chiuso, il morto che ancora non sapeva di essere morto, per l´abitudine nervosa del cospiratore, del terrorista, del killer quale lui era, senza vedere che fra i turisti con le racchette da tennis, le coppie in viaggio di nozze, gli uomini d´affari che circolavano sotto le grandi volte del «Giardino», c´erano coloro che pochi minuti dopo l´avrebbero soffocato con un cuscino in faccia.
Erano le 20 e 24 di martedì 19 gennaio. Dieci anni di un´operazione «bagnata», come l´avrebbe classificata il vecchio Kgb sovietico, cominciata nel 2000, avrebbero eliminato quel giorno Mahmoud Al Mabhouh, palestinese, capo della sezione omicidi e rapimenti di Hamas e bersaglio designato per la vendetta senza confini e senza scadenza dei servizi israeliani.
Le note languide e inevitabili di Casablanca avevano appena cominciato a diffondersi dal pianoforte a coda Kawai nella hall dell´albergo, quando il morto entrò nell´hotel Al Bustan, "il giardino", di Dubai, reggendo il sacchetto con le scarpe nuove appena acquistate.
Lo vediamo voltarsi all´indietro un paio di volte, nelle immagini registrate dalla telecamere di sorveglianza a circuito chiuso, il morto che ancora non sapeva di essere morto, per l´abitudine nervosa del cospiratore, del terrorista, del killer quale lui era, senza vedere che fra i turisti con le racchette da tennis, le coppie in viaggio di nozze, gli uomini d´affari che circolavano sotto le grandi volte del "Giardino", c´erano coloro che pochi minuti dopo l´avrebbero soffocato con un cuscino in faccia.
Erano le 20 e 24 di martedì 19 gennaio. Dieci anni di un´operazione "bagnata", come l´avrebbe classificata il vecchio Kgb sovietico, cominciata nel 2000, avrebbero eliminato quel giorno Mahmud Al Mabhouh, palestinese, capo della sezione omicidi e rapimenti di Hamas e bersaglio designato per la vendetta senza confini e senza scadenza dei servizi israeliani. Aveva prenotato la cena in uno dei dieci ristoranti dell´albergo, il Benihana, una catena americana che offre finta cucina giapponese e asiatica con grande sfoggio di cuochi prestigiatori e acrobazie di coltelli, ma la vendetta del Mossad non gli avrebbe concesso neppure quell´ultimo pasto.
Alle 21, mentre i cuochi del Benihana si preparavano ad affettare e arrostire per lui scampi, capesante, melanzane e cipolle davanti alla sua sedia vuota, il morto era già morto.
La ragnatela che per dieci anni un ragno implacabile aveva cominciato a tessere attorno a lui, al palestinese che aveva osato non soltanto sfidare la collera di David, ma vantarsene pubblicamente sulle emittenti arabe come al Jazira, citando i soldati israeliani che aveva rapito e ucciso, aveva impigliato la mosca nella propria rete di inganni, di "false flags", di bandiere e documenti falsi, come si dice nel gergo delle spie. Un tessuto di informatori, di agenti con licenza di uccidere chiunque ovunque nel segno della legge del taglione, che tutti sanno, e nessuno ammette, fanno capo al Mossad, all´"Istituto", come banalmente e burocraticamente si chiama il braccio spionistico dello Stato d´Israele, e all´ancor più misteriosa sezione per gli "affari bagnati", gli assassini, leggendariamente conosciuta come la Kidon, "la baionetta".
Al Mabhouh, che pure doveva sapere di essere da tempo sul podio più alto dei candidati alla vendetta d´Israele, si comporta con straordinaria leggerezza, nelle ultime ore della sua vita, forse cullato dalla lussuosa illusione di quell´emirato arabo. Era partito il giorno prima da Damasco, sul volo EK 912 della compagnia aerea degli Emirati, naturalmente in business class, come si conveniva a un dirigente, politico o terroristico non importa, con un biglietto già pagato per proseguire - non sappiamo perché - verso Pechino. Dubai non era una scelta necessaria, ma una gradita sosta, una pausa per ristorarsi e fare ciò per cui milioni di persone sbarcano nei suoi alberghi: shopping. Al Bustan è l´oasi preferita per viaggiatori che vogliano evitare la pacchianeria di alberghi più vistosi, accogliente, moderato nei prezzi e nel décor, affidato a colori tenui, a toni di beige, di azzurri e di marrone, come le sabbie della Penisola araba e la acque del Golfo. Si era concesso, con i soldi di Hamas, una junior suite, una stanza grande con un ampio letto matrimoniale e una zona soggiorno, separata da un tramezzo con l´inevitabile televisore piatto. La stanza 230. L´ultima maglia della ragnatela.
Di fronte a lui, nella stanza 237, era scesa una coppia di turisti con passaporto inglese, in apparente viaggio di nozze, una giovane donna con lunghi capelli bruni, chiamata «Gill», e un uomo, entrambi assolutamente trascurabili nell´aspetto, come vuole la regola dello spionaggio ben diversa dalla favole degli 007: persone delle quali ti dimentichi nel momento stesso in cui le vedi. Gill, che indossa una parrucca, e il suo compagno, anche lui con passaporto inglese falso, non erano gli assassini, erano gli "spotters", le civette, i pali. Un´essenziale maglia della rete, che l´occhio delle telecamere ci mostra mentre vagano, apparentemente senza scopi precisi, nella hall e nel corridoio del piano, fra la stanza 237 e gli ascensori.
Quando il morto arriva, a sera, loro se ne vanno. Al loro posto, appaiono le due coppie di assassini con licenza di uccidere, quattro uomini vestiti da turisti trasandati, i soliti squallidi cappellucci da baseball in testa, t-shirt, felpe, scarpe da ginnatica ai piedi e borse in mano.
In totale, ma ancora la polizia del Dubai che ha riscostruito sequenza per sequenza l´assassino non ha definito un numero conclusivo, almeno 25 persone avevano tessuto la ragnatela. Uomini e donne con passaporti falsi intestati a persone vere, inglesi, francesi, tedeschi, australiani, innocenti cittadini israeliani con doppia cittadinanza che hanno scoperto, a cadavere ormai freddo, di essere stati usati, senza saperlo, per un´esecuzione. Con l´immediata collera diplomatica dei governi coinvolti, ormai a cose fatte. Venticinque fra uomini e donne che nelle ventiquattr´ore finali del piano avviato nel 2000, si muovono freneticamente. Atterrano tutti lo stesso giorno in cui sbarca il bersaglio, Al Mabhouh, e gli occhi delle telecamere li individuano mentre passano la frontiera. Sono stati informati della partenza e dell´arrivo della preda da informatori palestinesi di Al Fatah, l´organizzazione che Arafat creò e che odia Hamas, ricambiata. I reciproci tradimenti e odi fra arabi, che invariabilmente si giurano in pubblico solidarietà e fratellanza mentre affilano i coltelli in privato, sono una delle certezze del puzzle mediorientale.
Si muovono come palline da flipper, cambiando alberghi più volte per confondere le tracce, si disperdono negli immensi shopping center dove pedinare qualcuno è impossibile, prenotano stanze che non occupano. Al mattino del 19, il giorno del delitto, fissano per telefono la stanza 237. Vagolano con racchette da tennis. Salgono e scendono ai piani dell´hotel Al Bustan, giustificati dall´avere una stanza lì. E due di loro forzano le serratura elettronica della suite vuota di Al Mabhouh, ingannando il computer centrale che registra gli accessi, con una tessera magnetica e un apparecchio che registra la combinazione, come le truffe ai bancomat. Sono l´avanguardia dell´assassinio.
Nella suite dove il bersaglio entra poco prima della nove di sera, si nascondono dietro il tramezzo fra la zona soggiorno e il letto. Quando Al Mabhouh arriva con il suo sacchetto in mano, lo paralizzano con una scarica elettrica dei loro "taser", che scaricano centinaia di volt ma non lasciano tracce evidenti. Al Mabhouh collassa. Le seconda coppia di assassini entra e, secondo il nuovo esame autoptico all´ospedale Al Rashid, lo soffoca sul lettone con il cuscino, immobilizzandolo sopra le lenzuola di magnifico lino italiano perché non le scompigli troppo e la morte sembri una morte naturale. Se ne vanno tutti e quattro insieme, gli ultimi rimasti della grande squadra, e davanti all´ascensore che li accoglie accennano a qualche cerimonia per chi deve passare per primo, forse per grado e rango. Meno di ventiquattr´ore dopo, quando il cadavere viene scoperto, si sono tutti dissolti, decollati verso Hong Kong, Londra, Francoforte e molti verso il Sudafrica, la nazione africana che più di ogni altra ha una lunga storia di collaborazione e di complicità con Israele.
Un´operazione perfetta. Un ballo degli assassini magnificamente coreografato per eliminare un assassino, se non fosse stato condotto sotto quegli occhietti delle telecamere e se la polizia di Dubai non fosse riuscita a individuare, in ore e ore di registrazione, gli agenti.
Un errore da troppa sicurezza? Una scelta deliberata, per mostrare al mondo che i nuovi "maccabi", i guerrieri vendicatori che lavorano per l´"Istituto", possono colpire chi vogliono, quando vogliono e ignorare le proteste di governi anche amici? Nulla, in Medio Oriente, è mai quello sembra ed è difficile immaginare che il Mossad non sapesse che tutto viene visto e registrato. Un mistero: dove sono finite le scarpe nuove che il morto lasciò cadere sulla moquette color paglia della stanza 230?
Repubblica 26.2.10
Una "talpa" ha dato il via alla fase finale del blitz
Nel complotto anche palestinesi
di Fabio Scuto
Il Mossad, così come altri servizi di intelligence, finisce per attirare l´attenzione soltanto qualcosa va decisamente storto o quando si rende protagonista di uno spettacolare successo operativo e vuole mandare un segnale forte e chiaro ai suoi nemici. L´eliminazione del comandante di Hamas Mahmud Al Mabhouh ne è la dimostrazione più evidente.
È ai primi di gennaio che l´operazione Dubai entra nella sua fase operativa. Nella Ha-Midrasha ("l´accademia"), la sede del servizio segreto a nord di Tel Aviv - un complesso che tutti chiamano «Il dito di Dio» per via delle altissime antenne che svettano sui tetti - arriva il primo israeliano Benjamin Netanyahu per incontrare Meir Dagan, il capo del Mossad. È qui, secondo la stampa israeliana, che l´ex generale che da sette anni guida l´"Istituto" illustra al premier i termini dell´operazione: spetta a lui l´ultima parola, la decisione finale. Dagan spiega che l´operazione è già stata "provata" in un grande hotel del lungomare di Tel Aviv, senza avvertirne la direzione, e che tutto è andato come previsto. I due, dopo un colloquio a quattr´occhi, si trasferiscono in un´altra stanza dove il premier incontra alcuni degli agenti operativi che saranno coinvolti nel caso. «Il Paese conta su di voi. Buona fortuna!», è la frase di commiato che scioglie la riunione.
I ventisei agenti che dovranno andare a Dubai, ventuno uomini e sei donne, sono "in vacanza" nell´Unione europea. Il segnale arriva per loro il 18 gennaio: una "talpa" da Damasco avverte che l´"obiettivo" ha comprato su internet un biglietto aereo per Dubai per quel giorno e ha prenotato una stanza al Bustan. Da Zurigo, Roma, Parigi e Francoforte i 26 arrivano all´aeroporto dell´Emirato, tutti con voli a cavallo della mezzanotte. Scendono in sei diversi hotel. A operazione conclusa l´indomani, nell´arco di tre ore, tutto il team lascia il piccolo Emirato sciogliendosi in dieci rotte diverse, chi va a Hong Kong, chi a Amsterdam, chi a Zurigo.
Non si porta a termine un´operazione in grande stile come questa senza una solida fonte nel cuore del nemico, e nel gioco doppio e triplo il Mossad non è secondo a nessuno. Portano a Gaza le tracce della "Palestinian connection", a una casa anonima, quella della famiglia Massud. Tre fratelli, tutti miliziani di Hamas, dai nomi di battesimo singolari: Nehru, Tito e Nasser, dati in onore dei leader terzomondisti molto popolari fra i palestinesi negli anni Sessanta. A essere impelagato nell´affaire, che ha scatenato veleni e accuse reciproche di complicità fra gli eterni rivali Hamas e Fatah, è Nehru, fedelissimo del giro di Khaled Meshaal (il numero uno di Hamas, che vive a Damasco) finito in galera in Siria e sospettato di essere la "talpa" che ha passato le informazioni sugli ultimi decisivi spostamenti di Al Mabhouh.
Ma ci sono altri due palestinesi coinvolti, arrestati in Giordania e ora in cella a Dubai. Si chiamano Ahmad Hasnain e Anwar Shekhaiber. Entrambi sono ex funzionari degli apparati della sicurezza dell´Anp di Gaza. Due figure di medio rango che dopo il fallito contro-golpe del 2007 di Mohammed Dahlan, ex delfino di Arafat, per rovesciare Hamas nella Striscia di Gaza, sono fuggiti a Dubai, dove si sono rifatti una vita da businessmen. Nelle ore dell´omicidio di Al Mabhouh i due hanno lasciato in gran fretta Dubai. Uno di loro, secondo la polizia dell´Emirato, ha incontrato brevemente uno degli uomini del commando del Mossad. «È la prova del profondo coinvolgimento dell´Anp nell´assassinio di un nostro fratello», dice al telefono Fawzi Barhum, portavoce di Hamas nella Striscia. «Hamas farebbe bene a guardarsi dalle infiltrazioni nelle sue fila», ribatte secco da Ramallah Adnan Demeiri, capo dei servizi di sicurezza dell´Anp. «Le due versioni non sono contrastanti, anzi potrebbero essere complementari», spiega a Repubblica un esperto di un servizio di sicurezza arabo: «se il Mossad li avesse usati entrambi?».
L´armiere di Hamas ucciso, i due principali gruppi palestinesi che si accusano reciprocamente di tradimento, nessun uomo lasciato sul terreno, tracce che si perdono in dieci diversi aeroporti nel mondo. Sembra la realizzazione del motto del Mossad: «Per mezzo dell´inganno faremo la guerra».
Repubblica 26.2.10
Le grandi intuizioni arrivano in gioventù ma per l´accademia contano solo gli anziani
A quanti anni si diventa geni
Il Wall Street Journal: cresce l'età dei ricercatori, ora l'innovazione è a rischio
di Alessandra Retico
La meglio gioventù della scienza. Un tempo era roba da ragazzi, le scoperte migliori le facevano loro. Tra un appuntamento galante e giornate pazze con gli amici. Il 24enne James Watson andava parecchio dietro alle donne, poi con medesima passione tornava in laboratorio a Cambridge, lavorava allegro. Chissà se è stata quella spensieratezza a fargli individuare la struttura del Dna, su cui scrisse un anno dopo, nel ‘53, uno dei più importanti studi insieme ai compagni di felicità Crick e Wilkins. Il trio nel ‘62 vinse anche il Nobel per la scoperta sulla struttura molecolare degli acidi nucleici. Altro che bruciata, era una gioventù infuocata di intelligenza.
Isaac Newton di anni ne aveva 23 quando cominciò a studiare quello che diventerà il teorema binomiale (la formula per elevare a una qualsiasi potenza un binomio) e il calcolo infinitesimale; Albert Einstein pubblicò i suoi migliori scritti a 26 anni, e 24 compiuti erano quelli di Heisenberg quando formulò l´idea della meccanica matriciale, meccanica quantistica in nuce, che sette anni dopo gli valse il Nobel per la fisica. Il mondo era diverso, ma l´anagrafe no, tutti loro erano ragazzi e per molti versi immaturi.
La primavera della vita e la creatività sono state a lungo associate: lo sguardo senza esperienza come visione senza pregiudizi, più fresca e acuta sulle cose. Jonah Lehrer, neuroscienziato di successo ad appena 28 anni, autore del recente Come decidiamo (Codice Edizioni), affronta l´equivalenza giovane=creativo sul Wall Street Journal, mettendola alla prova dell´oggi: l´innovazione è a rischio perché il numero degli scienziati giovani è drammaticamente in calo. Nel 1980, spiega Lehrer, la maggior percentuale dei finanziamenti del National Institutes of Health americano è andato a ricercatori trentenni, nel 2006 ai 40enni. Un anno dopo, proporzionalmente, hanno preso più soldi i 70enni che non gli under 30. Una curva che segue solo in parte l´invecchiamento della popolazione mondiale e in particolare dei baby boomers, dall´altra tradisce il conservatorismo delle accademie. Anche se qualcosa sta cambiando in America, molte no-profit e fondazioni "rischiano" ma sanno di innovare finanziando solo i giovani. Una chimera in Italia.
Ma poi: è vero che esiste nella vita un picco di creatività che spesso si raggiunge molto presto? Lehrer cita molti studi sul tema, in particolare quelli ultra decennali dello psicologo Dean Simonton dell´Università della California, che ha dimostrato come i fisici facciano le scoperte più importanti entro i vent´anni, da cui il detto che se il Nobel non arriva prima del matrimonio allora non ci si speri più. Solo un´altra professione è altrettanto performativa della fisica, dice Simonton: la poesia. Entrambi ostili ai luoghi comuni, aperti alle sorprese, interessati a combattere lo status quo. Teorie sulla creatività per niente oziose, molti economisti le fanno proprie. Come Paul Romer, della Stanford, che studia il ruolo che hanno le idee nel generare crescita: «Gli anziani guidano, i giovani fanno fatica a fare qualcosa di veramente differente». La gerontocrazia come tappo al cambiamento. Certo, di per sé l´età non è un valore, e molti hanno prodotto capolavori da anziani (Tiziano, Goya, Beethoven). Ma che non sia un alibi. La meglio gioventù, aspettando, peggiora.
Repubblica 19.3.10
IL GAY DELLA FGCI
intervista di Stefano Malatesta
ROMA - Nichi Vendola ha 26 anni, è pugliese. Qualche giorno fa è stato eletto membro della segreteria nazionale della Fgci, la Federazione giovanile comunista. Ha un viso gradevole. In testa calza un berretto blu con visiera, da studente svedese. Intorno al collo è annodata una sciarpa di lana bianca. Porta al lobo sinistro un orecchino d' oro. Nichi Vendola è un gay, il primo attivista omosessuale entrato a far parte della dirigenza comunista. Dice senza asprezza polemica: "Sono sicuro che parlerai dell' orecchino d' oro. Ho già dato un' intervista in cui raccontavo un po' di cose, fatti personali e politici. Dopo ho avuto dei timori, credevo che ci fossero reazioni a Roma, nel partito. Invece i compagni sono stati benevoli. Mi hanno però avvertito: stai attento a non farti ingabbiare nel clichè, il gay alle Botteghe Oscure, eccetera. Prima c' erano i funzionari infagottati nei doppipetti grigi tagliati male, con le cravatte stonate in raso. Adesso l' omosessuale con l' orecchino. Al congresso giovanile avevo un magnifico, luminescente papillon sopra una camicia a righe. Dì, vuoi che ti stringa la mano sotto il tavolo?". Rispondo che il passaggio sotto le forche del commento becero è obbligato: cosa si vuole aspettare, finezze anglosassoni? L' umorismo in Italia, e anche altrove, è spesso di genere caserma, dovrebbe esserci abituato. Però mica posso far finta di essere venuto per le sue preclare virtù politiche di cui tutta l' Italia parla. Sono venuto perchè Vendola è il primo dirigente comunista gay dichiarato. Nel 1948 il Pci non ha espulso Pier Paolo Pasolini per indegnità morale? "Sono passati esattamente 37 anni. Sai cosa ho detto al congresso giovanile? Per noi comunisti non si tratta di difendere la grande dignità e i valori dell' omosessualità, ma di acquisire la diversità come elemento di ricchezza per chi vuole ancora trasformare il mondo. E' stato il passo più applaudito nel mio intervento". Mi ricordo di un altro intervento, più volte citato, fatto da Enrico Berlinguer quando era segretario della Fgci, su Maria Goretti: la additava ad esempio per le future generazioni dei comunisti. "Era il dopoguerra. I comunisti venivano descritti come bestie. L' accusa di essere intellettual-frocio-comunista, senza molta distinzione tra i termini, ugualmente vituperati, è stata merce corrente fino a non troppo tempo fa. Da parte del Pci si tentava di difendersi, di proporre dei modelli di moralità sotto quell' alluvione di vituperi. Il difetto stava nel prendere in prestito i modelli dalla cultura cattolico borghese". Ma c' era anche molta grettezza moralistica e bacchettona all' interno del partito. Chi conviveva con una ragazza veniva convocato e avvertito con l' usuale frase: "Compagno, è ora che regoli la tua posizione". E Togliatti ebbe dei problemi quando iniziò la sua relazione con Nilde Jotti. Secchia non scherzava. "Lo stesso Secchia, una volta caduto in disgrazia, fu accusato, non tanto larvatamente, di essere un finocchio, accusa infamante e degradante. Ma erano tempi diversi, il partito continuava a vivere in stato di allarme, non ci si potevano concedere lassismi personali con il nemico o con la sindrome del nemico alle porte. Però Pasolini, tra il ' 60 e il ' 70, già poteva scrivere liberamente anche di omosessualità su "Vie Nuove"". Pasolini era uno scrittore celebre, un poeta, "un' artista". Anche Visconti non venne mai attaccato: Togliatti ne ha fatto sempre grandi elogi. Ma era un' eccezione. L' aristocratico decadente se lo poteva permettere, proprio perchè aristocratico e decadente. L' operaio in fabbrica no. Diciamo la verità: i compagni lo avrebbero preso a calci nel sedere. "Su Visconti posso essere d' accordo. Ma lui non faceva professione di omosessualità, come non la fa Zeffirelli. In questo senso non sono "scandalosi". Invece Pasolini era provocatorio, almeno per quegli anni e il fatto che scrivesse su "Vie Nuove" è significativo. Però è vero che l' omosessuale in fabbrica, tra i compagni, non aveva vita allegra. Mio padre, comunista da sempre, un uomo magnifico, dolce, andava a fare le spedizioni per picchiare "i froci". Una volta mi ha detto: se ti ammazzassi, noi tutti potremmo riacquistare una dignità. Mi ha molto amato, ma per lui, come per tanti altri, gli omosessuali erano solo i turpi individui che adescavano i bambini nei giardinetti. Ma di queste cose non ne voglio più parlare". Non ho l' intenzione di continuare ad insistere su certi ritardi e manchevolezze del Pci. Ma qui, come in altre occasione, l' azione dei radicali mi sembra sia stata decisiva. Gli altri hanno seguito, anche con riluttanza: tutto questo non gli interessava, soprattutto non faceva parte della loro cultura. "I radicali hanno avuto dei meriti, creando movimenti, flussi, attraverso un' ottica garantista. Ma con qualche casella o piccolo spazio in più di libertà non cambi le regole del gioco, che sono rimaste quasi le stesse. Il "Fuori" voleva creare la cittadella gay, dove gli omosessuali si potessero sentir protetti. I comunisti sono sempre stati contro l' ideologia del ghetto: in ritardo, magari, però decisi a risolvere le questioni, non solo a presentarle, che è molto più facile. D' altronde basta andarsi a rileggere le centinaia di lettere che arrivavamo all' "Unità" e a "Rinascita"" durante gli anni 70: un dibattito libero". Mi dicono però che alti dirigenti del partito non siano stati particolarmente soddisfatti dell' elezione di un omosessuale nella segreteria della Fgci: Chiaromonte ad esempio. "Francamente nel Pci non ho mai avuto problemi, come li ho avuti in famiglia. Credo che oggi comunista significhi anche rispetto dell' altro, essere condannati ad una contaminazione attraverso il rapporto umano: un rischio che bisogna accettare. Lo sguardo inquietante di un altro uomo può farti crollare il tuo castello di certezze, ma è inutile e stupido fuggire. Sono i liberali che hanno sguardi paralleli, che non s' incrociano mai: l' idea del rapporto come due monologhi. Questa è mummificazione dell' esistente. Libertà comunista è dinamismo, è contaminazione, con le nostre coscienze e i nostri corpi, è buttarsi nella mischia. Io l' ho fatto, sono diventato coscientemente omosessuale, per poi recuperare l' eterosessualità, per poi trovar la sessualità, senza aggettivi. Vorrei che ci capissimo, non sto parlando di membri e di apparati genitali, altrimenti torniamo alla caserma". Io credo di capire, ma non so quanti siano in grado di farlo nel Pci, non parlo della Fgci... "Giovanni Berlinguer è uno che capisce: aperto, vivace. Anche Natta ci aiuta. Abbiamo avuto un dibattito con lui molto libero. Ripete sempre che bisogna andare fino in fondo, che bisogna parlare, confessarci di più - non dal prete con la cotta - togliersi di dosso tutti i residui di intolleranza. Gli altri non so, sono arrivato da pochi giorni a Roma. Certo l' età conta, ognuno forma la propria cultura in un momento storico preciso. Non è facile affrontare un tema come quello della pedofilia ad esempio, cioè del diritto dei bambini ad avere una loro sessualità, ad avere rapporti tra loro, o con gli adulti - tema ancora più scabroso - e trattarne con chi la sessualità l' ha vista sempre in funzione della famiglia e dalla procreazione. Le donne, da questo punto di vista, sono notevolmente più sensibili. Ma il Pci non è un organismo matriarcale". - di STEFANO MALATESTA