sabato 18 settembre 2010

il Fatto 18.9.10
Clinton, Fidel. L’umanità dov’è?
di Massimo Fini

La Fiat trasferirà la produzione della nuova Panda da una fabbrica polacca a Pomigliano, cosa che se risolve i problemi dei lavoratori di Pomigliano ne creerà altri a quelli polacchi. Nel contempo la Fiat dislocherà da Mirafiori, portandola in Serbia, una nuova produzione, il che se farà contenti gli operai serbi, anche quando non dovesse portare alla disoccupazione di quelli di Mirafiori sicuramente renderà molto più difficile l'ingresso nel mercato del lavoro di migliaia di giovani italiani. Il capitale, essendo mobile, non conosce frontiere né amor di Patria, segue solo il suo interesse. Già cinque secoli fa Giovanni Botero ammoniva sul “pericolo che sorge per lo Stato quando la base della proprietà della classe dominante è costituita da beni mobili che in tempi di pubbliche calamità si possono portare al sicuro, mentre gli interessi dei proprietari terrieri sono legati indissolubilmente alla Patria”. Il capitale se nel Paese in cui è stato accumulato trova delle difficoltà va altrove. Sul Corriere della Sera Raffaella Polato ipotizza che se a Marchionne non fossero date le condizioni che chiede risponderebbe: “Il mondo è grande”. Ma se il denaro può andarsi a cercare liberamente il luogo della Terra dove ritiene di esser meglio remunerato, lo stesso dovrebbero poter fare gli uomini. A meno che non si voglia sostenere l'aberrante tesi che il denaro ha più diritti degli uomini. Invece è proprio ciò che accade. Mentre il capitale evoluisce liberamente per l'universo mondo, agli spostamenti delle popolazioni, soprattutto dei Paesi cosiddetti "sottosviluppati", che spesso sono state rese miserabili proprio dall'irruzione di quel capitale che, con le sue dinamiche, le ha sottratte alle "economie di sussistenza" su cui avevano vissuto e a volte prosperato per secoli, vengono posti limiti sempre più ferrei in attesa di prendere i "migranti" a mitragliate. Sulla globalizzazione ci sono solo due posizioni coerenti. Quella dei radicali italiani che sono per una totale libertà di movimento dei capitali ma anche per una altrettanto totale libertà di movimento degli uomini. E quella che sta all'estremo opposto, e che per ora è puramente concettuale, di chi dice no all'immigrazione ma rinuncia anche ad andare a piazzare le sue puzzolenti e devastanti fabbriche in Niger, in Nigeria, in Bangladesh, in Marocco o altrove. Tutto ciò che sta nel mezzo, sì alla globalizzazione dei capitali, no a quella degli uomini, è di una violenza inaudita e ripugnante. Eppure sia la destra che la sinistra sono a favore della globalizzazione. Bill Clinton a un forum del Wto del 1998 ha dichiarato: “La mondializzazione è un fatto e non una scelta politica” e Fidel Castro di rincalzo, nello stesso Forum: “Gridare abbasso la globalizzazione equivale a gridare abbasso la legge della gravità”. Ed è vero se al centro del sistema noi mettiamo l'economia: tutto deve adeguarsi ad essa. Ma sarebbe altrettanto vero se al centro del sistema mettessimo uno spillo, tutto dovrebbe girare intorno allo spillo. L'economia non è stata sempre al centro del sistema. In epoca preindustriale era inglobata nelle altre e molteplici esigenze umane al punto che era indistinguibile da esse, e non è un caso che l'economia politica, come scienza, o presunta tale, sia coeva alla Rivoluzione Industriale. Aver puntato tutto sull'economia, emarginando ogni altro bisogno dell'essere umano, si è rivelato un fallimento epocale come ognuno oggi, con gran ritardo, può vedere. È un Moloch che pretende sacrifici umani, massacri, alle popolazioni del Terzo e ora anche del Primo mondo. Io credo che al centro del sistema vada rimesso l'uomo e l'economia riportata al ruolo marginale che ha sempre avuto finché abbiamo avuto una testa per pensare.

Repubblica 18.9.10
Pd, con Veltroni 75 parlamentari "Vogliamo un partito più coraggioso"
Frenata sulla premiership. Bersani: io la bussola ce l´ho
di Giovanna Casadio

ROMA - Cancellata l´accusa al partito di Bersani che «non ha una bussola». Cassata anche la maiuscola a "movimento" per evitare, spiega Giorgio Tonini, «si pensi che vogliamo costruire l´embrione di un nuovo Pd». Ma per il resto, la critica alla «mancanza di coraggio» in cui il partito ormai navigherebbe, c´è tutta. Il documento che ha mandato in tilt i Democratici - voluto da Veltroni (il segretario-fondatore), Fioroni (uno dei leader dell´ex Ppi) e Gentiloni (ex rutelliano) - è stato firmato da 75 parlamentari (sui 319 del Pd), la metà peraltro dei 149 di "Areadem", ovvero della minoranza, che si è spaccata così in due.
Spiegano i "movimentisti": «Non intendiamo dare vita a una corrente, a uno strumento chiuso nella logica interna ma a un movimento di partecipazione civile e culturale». Concludono, rassicuranti: «La ragione del nostro impegno politico è nel Partito democratico e per il Partito democratico». Su facebook, Veltroni precisa che «l´unico obiettivo è quello di rendere più grande e più aperto questo Pd; è la nostra una posizione politica che come tale va rispettata». Mira, il "movimento", a ritrovare lo spirito fondativo del partito, a evitare le secche del «neo-frontismo» (tutti insieme in un´alleanza antiberlusconiana) e del vetero-centrismo (delegare all´Udc di Casini la riscossa). Insomma, fatto «per unire», si difendono gli autori, sotto il fuoco di fila delle polemiche. Franco Marini, storico leader dei Popolari, ieri in un´intervista a Repubblica, li ha chiamati «farisei», gente che dovrebbe sentire «sulle spalle un macigno» per il regalo che sta facendo a Berlusconi e al centrodestra al collasso. I "movimentisti" replicano: «È costruttivo, non un pacco dono al premier». Non tirano più in ballo la premiership, il "papa straniero", Bersani sì-Bersani no. Non vogliono però sentire anatemi. «Inaccettabili», rincara Tonini. E alcuni Popolari, tra cui Enrico Gasbarra e Paola Merloni rispondono a Marini: «Assistiamo a scomuniche, la nostra azione non è farisaica ma di coerenza».
Il segretario Bersani cerca di mantenere lo scontro negli argini del confronto politico: «La bussola? Ce l´ho alla grande. Per me la bussola è rimboccarsi le maniche, fare la nostra discussione nelle sedi giuste». E a chi gli chiede se i 75 sono una fronda ampia e se si tratti dell´annuncio di uno strappo come quello di Fini nel Pdl, ribatte: «A me va bene tutto... Noi non siamo un partito padronale, abbiamo un nostro modo di fare congressi e discussioni». Invita alla mobilitazione contro un governo che deve prendere atto della crisi o «sarà opposizione durissima». Alla festa del Psi nel Ferrarese, Bersani rilancia il Nuovo Ulivo e Nencini, il leader socialista, aderisce: «Veltroni ci emarginò».
Una bordata da Rosy Bindi, presidente del Pd: «Ben venga l´impegno di Veltroni, peccato che ora ha solo lacerato la minoranza e riproposto l´immagine distorta di un partito nella bufera». Per il Pd comincia una settimana di passione: prima della direzione fissata per il 23, si moltiplicano gli incontri: Franceschini ha convocato Areadem; si vedono i Ppi; oggi a Orvieto, Veltroni va all´assemblea di "Libertà eguale". Bindi chiama a raccolta (24-26) per parlare di lavoro, crisi economica e del berlusconismo a Milano Marittima con Camusso, Lerner, Gallino e Bosetti. A Strasburgo altro fronte aperto. Gianluca Susta lascia l´incarico di vice presidente del gruppo Asde e si sfoga: «Era meglio divisi».

Repubblica 18.9.10
Monta la rabbia contro Walter "Vuol fare lui il papa straniero"
Rischio-balcanizzazione. Dissidenti, assalto a Franceschini
Veltroni invia a Bersani la stesura definitiva del documento e chiede un incontro
di Goffredo De Marchis

ROMA - Il partito leggero di massa, così light da non contemplare nemmeno gli iscritti, adesso è diviso in quattro correnti: la maggioranza di Bersani-D´Alema, Area democratica di Franceschini, il movimento di Veltroni, la componente di Ignazio Marino. Più i piombini di Renzi e Civati, più i "giovani turchi" che criticano il bipolarismo, più un gruppo di parlamentari (e di elettori forse) che si getterebbero tra le braccia di Vendola domani mattina. Il Pd è rotto in molti pezzi, assomiglia alla Jugoslavia dopo la guerra, rischia una balcanizzazione a pochi mesi da probabili elezioni anticipate. Già ieri Veltroni si è mosso da capo della nuova corrente di deputati e senatori (un quarto della squadra complessiva) inviando in anteprima la stesura definitiva del documento a Pier Luigi Bersani. Gesto diplomatico accompagnato da un messaggio personale. La richiesta di un incontro a quattr´occhi per chiarire il senso, il modo e i tempi. Da fare prima della direzione.
Bersani non ha ancora risposto ma il suo umore nei confronti dell´ex segretario è pessimo. Veltroni costringe il partito a schiacciarsi in un dibattito tutto intestino «proprio quando cerchiamo una mobilitazione collettiva, lanciamo una campagna di comunicazione, organizziamo l´assemblea nazionale al Nord», spiega il leader. Insomma, siamo di fronte a un atto ostile. «Dicono che è un contributo positivo, uno stimolo. Ah sì? Non me ne ero accorto e non se ne sono accorti neanche i nostri militanti. Mi sembra una mossa deprimente, altro che stimolante», si è sfogato il segretario con i suoi collaboratori. Con l´eccezione di Follini e di quell´ala dalemiana che non vedeva l´ora di far venire allo scoperto Veltroni con una sua corrente per fare chiarezza, una bella fetta del partito considera il "manifesto" l´inizio di una guerra. Tutti contro tutti. Alcuni capi del movimento puntano a cacciare Dario Franceschini dalla poltrona di capogruppo. «Cercheranno di sottrargli il ruolo di leader della minoranza. E qualcuno proverà a colpire più in alto», è il sospetto di Ettore Rosato. Senza possibilità di riuscirci perché i numeri sono dalla parte di Franceschini. Ma l´ipotesi dà l´idea del clima.
Il capogruppo della Camera è sicuro che le ambizioni di Veltroni siano ben maggiori. Certo, avere la garanzia della ricandidatura per una pattuglia di uscenti. Certo, la ripresa di un ruolo più centrale nella politica del centrosinistra. Certo, più spazio nei telegiornali, il tramite fondamentale con l´opinione pubblica. Ma alla fine, dicono i fedelissimi di Franceschini, il traguardo è quello massimo: fare lui il Papa straniero. «Questo caos - ragionava ieri un franceschiniano - crea le condizioni per una vittoria netta di Vendola alle primarie. Bersani e Chiamparino si elimineranno a vicenda cercando di occupare la parte destra del campo e Nichi ce la farà. A quel punto si porrà un problema: può Vendola sfidare Berlusconi?». La classe dirigente del centrosinistra è convinta di no. «Perciò - dicono gli amici di Franceschini - si andrà da Veltroni a chiedere di riprovarci». In questo schema, secondo loro, anche D´Alema preferirebbe un´altra soluzione pur di escludere Vendola.
Sono ragionamenti, fughe in avanti, elaborate in una fase di choc, che sottovalutano per esempio il peso delle primarie. Gli ex popolari sono i più agitati perché non c´è dubbio che la bufera si sia abbattuta soprattutto su di loro. Proprio dagli "amici" (diciamo così) di Franceschini potrebbe venire la richiesta di un cambio alla presidenza dei deputati. E per evitare la deflagrazione della famiglia "democristiana" Pierluigi Castagnetti e Franco Marini hanno convocato una riunione con tutti gli ex, anche i promotori del documento. «L´hanno chiesta loro - racconta Castagnetti - Anche due dei 75. Dobbiamo ritrovare un bandolo comune». Ma Castagnetti da tempo osserva sconsolato il panorama democratica. «L´autoreferenzialità del ceto dirigente fa perdere il senso delle cose». Anche le elezioni, spesso.

Corriere della Sera 18.9.10
Un partito senza identità
di Angelo Panebianco

Seguendo le sorti del Popolo della Libertà anche il Partito democratico è sull’orlo di una implosione? La mossa di Walter Veltroni, l’aggregazione di un «movimento» di contestazione della segreteria, non è solo un episodio dell’annoso duello fra Veltroni e Massimo D’Alema. La gravità delle condizioni in cui versa oggi il Pd è tale che difficilmente l’esito potrà essere qualcosa di diverso da una frattura irreversibile. La ragione di fondo è che il Pd è un partito di opposizione che non riesce a trarre profitto, in termini di consensi, dalle gravi difficoltà della maggioranza di governo. E non può trarne profitto perché non è un corpo sano ma malato.
C’è qualcosa di drammatico, e di rivelatore sia dei limiti delle classi politiche sia delle tendenze profonde del Paese, nel fatto che tutti i tentativi di costruire grandi forze «riformiste» falliscano in Italia. L’operazione non riuscì negli anni Sessanta dello scorso secolo con l’unificazione socialista. Poi non riuscì a Craxi. Infine, non è riuscita al Partito democratico. Per un verso, non c’è, e non c’è mai stata, per così dire già «preconfezionata», una domanda di riformismo sufficientemente forte e ampia nell’elettorato di sinistra. Per un altro verso, ci sono limiti nella cultura politica delle classi dirigenti della sinistra che le hanno sempre rese incapaci di creare, con le loro azioni, le condizioni perché quella domanda crescesse e si diffondesse. Alla debolezza dal lato della domanda hanno sempre corrisposto la fragilità e l’incoerenza dal lato della offerta.
Si guardi a cosa è successo dopo le elezioni. Mandato via Veltroni, il Pd non è stato più capace di trovare un baricentro politico. Alla più conclamata che praticata «vocazione maggioritaria» di Veltroni (che commise il fatale errore dell’alleanza con Di Pietro) si è sostituita una sorta di rassegnata presa d’atto del carattere irrimediabilmente minoritario del Pd. Da qui la ricerca di alleanze purchessia, l’oscillazione fra velleitari progetti di Union sacrée contro Berlusconi (tutti dentro, da Di Pietro a Fini), tatticismi politici (alleiamoci con i centristi di Casini, magari offrendo loro anche la presidenza del Consiglio) e fumosi slogan (il nuovo Ulivo). Risultato: il Pd è oggi un partito senza identità, alla mercé degli incursori esterni, da Di Pietro a Vendola. Anziché elaborare proposte, costruirvi sopra una identità chiara, e solo dopo tessere le alleanze in funzione delle proposte e dell’identità, il Pd è partito dalla coda, dalle alleanze. Impantanandosi, non riuscendo a stabilire un rapporto forte con l’opinione pubblica. Dirlo è un po’ come sparare sulla Croce Rossa ma è un fatto che nulla può dare il senso della crisi di un partito di opposizione più della sua paura di nuove elezioni.
Si spezza il rapporto fra Berlusconi e Fini? La maggioranza è a rischio? Che altro dovrebbe allora fare il maggior partito di opposizione se non chiedere, a gran voce, elezioni immediate? E invece no. Per paura delle elezioni si trincera dietro il pretesto della urgenza di una riforma elettorale (dimenticandosi di spiegare perché, se era così urgente, non la fece quando aveva la maggioranza, all’epoca dell’ultimo governo Prodi).

Corriere della Sera 18.9.10
Sacconi apre ai «moderati del Pd in crisi»
«Uniti per andare oltre il Pdl». E scatena l’orgoglio anti Lega: riprendiamoci il Nord Est
di Francesco Alberti

CORTINA D’AMPEZZO (Belluno) — Pronti, via, pum: neanche il tempo di aspettare che la gente si accomodi sotto il tendone bianco dell’Audipalace, e parte la prima stoccata anti Lega. Destinatario, l’assente (non invitato) governatore del Veneto, il leghista Luca Zaia, al quale il capogruppo e il vice del Pdl regionale, Dario Bond e Piergiorg i o Cort e l l a z z o, c hi e dono energicamente dal palco «di rimettere il Tricolore sulla divisa della Protezione civile». Si dà infatti il caso che, con decisione passata inspiegabilmente sotto silenzio, qualche capetto leghista in Regione abbia avuto nei giorni scorsi la brillante idea di scucire lo scudetto tricolore dal petto dei vigili del fuoco, sostituendolo con il leone di San Marco, simbolo della Serenissima. «Un atto di disprezzo verso migliaia di volontari e verso l’unità nazionale» tuonano i due berlusconiani, aprendo i lavori con il botto.
Benvenuti nel weekend della riscossa. Dieci ministri (Tremonti, Frattini, La Russa, Alfano, Sacconi, Galan, Brunetta, Gelmini, Meloni, Matteoli), due capigruppo (Cicchitto e Gasparri) e chiusura domenicale affidata al premier Berlusconi (forse di persona, forse in video). Un pacchetto di mischia che più agguerrito non si può per un Pdl in cerca di benzina, autostima e orgoglio. «Siamo qui per rilanc i a r e l ’ a z i one del part i t o » chiarisce subito il ministro Sacconi. In tutte le direzioni. A Roma, innanzitutto, dove il tarlo finiano ha mandato all ’ ar i a c er t ezze poli t i c he e, quel che è più grave, pure la matematica parlamentare. Ma anche in Veneto, dove la forza della Lega di Zaia, dopo essere esplosa nelle urne, sta invadendo centri di potere e crocevia economici, relegando l’alleato berlusconiano in angoli sempre più angusti.
Tutti a Cortina, allora. Senza soggezioni verso nessuno, alleati compresi. Sacconi non si fa pregare e sfida Bossi sul campo del federalismo. «Non vogliamo — dice — uno Stato pesante a Roma, ma neanche fuori dalla porta di casa. Il Pdl non si accontenta dello spostamento dei poteri dal centro al territorio: pretende anche lo spostamento di poteri dal pubblico alla società, al no profit». E a chi vede un centrodestra con il fiato corto, costretto al pallottoliere in Parlamento e in calo di appeal, replica che mai come ora, alla luce della «crisi del Pd», vi sono le condizioni per «un’unità politica di tutti i moderati e riformisti, non solo per un ampliamento della maggioranza, ma anche per andare oltre il Popolo delle Libertà». Oggi, tra gli altri ministri, sbarcherà anche Giancarlo Galan, per 15 anni governatore di queste contrade. Le sue ruggini con Zaia hanno ormai fatto letteratura. Il ministro dirà che è giunta l’ora che «il Pdl riprenda in mano l’indirizzo politico del Veneto e del Nord Est» e che «non sempre l’alleato leghista è stato leale».
«Suonerà la carica» assicurano i suoi. Giorni fa, a Padova, lui, Sacconi e Brunetta convocarono una conferenza stampa a tre per far capire alla Lega che la riscossa del Pdl era iniziata. Che i generali erano scesi in campo. Resta da verificare se, dietro ai generali, c’è anche un esercito.

il Fatto 18.9.10
Sopravviverà il Pd fino al 2011?
Le particelle elementari. In 75 con Veltroni, l’ira di Bersani
di Paola Zanca

Uno dovrebbe mettersi le mani nei capelli solo leggendo questa frase: “Questa non è un’iniziativa contro Area democratica”. E chi caspita è Area democratica? Per i lettori meno attenti Area democratica è la corrente di minoranza interna al Pd, guidata da Dario Franceschini. E vabbè. Ma quella frase, pronunciata all'unisono dai deputati veltroniani Minniti e Tonini, dovrebbero rileggersela anche loro, per capire che a forza di guardarsi dentro stanno per finire a testa in giù. Perché se si parla con i 75 firmatari dell'appello, spiegano che la mossa di Veltroni serve ad arginare la fuga degli ex Margherita. “Se una ventina di parlamentari fossero con la valigia in mano pronti a uscire dal Pd sulle orme di Rutelli, Calearo, Binetti e via dicendo – spiega il deputato Walter Verini, braccio destro di Veltroni – se si sentono ospiti in una casa che pensavano fosse anche loro... Questo documento ha il merito di dire a questi democratici delusi: 'Fermatevi, stiamo insieme, c'è ancora spazio per voi nel partito’”.
COME RAGIONAMENTO “interno” non fa una piega. Ma il problema è che dal maggior partito dell'opposizione ci si aspetta che pensi all’esterno. La domanda è semplice: ma giovedì, i cittadini che hanno visto Veltroni prima al Tg1, poi al Tg2, e navigando nei meandri del digitale terrestre se lo sono trovato pure su RepubblicaTv, che cosa
avranno pensato? Che è successo qualcosa di grave a Bersani? “Inevitabilmente l'avranno presa con sorpresa e sconcerto – ammette Arturo Parisi, che il documento non l'ha firmato ma oggi sarà a Orvieto – Ma il punto è che la sorpresa è loro, e lo sconcerto è nostro. Disabituati come siamo al dibattito politico, nel giorno in cui quel dibattito si manifesta nella sua pienezza è inevitabile fare i conti con questi sentimenti”. Torneremo ad abituarci, quindi? “Sarà bene che si riprenda il gusto della democrazia in pubblico, che finisca la stagione dei caminetti, dove si entra con tutti che la pensano diversamente e si esce facendo finta che la pensino tutti uguale”. Sparargli addosso gli farà bene? “Non capisco perché un documento debba essere visto come una spaccatura – si stupisce Verini – Il nostro è un contributo di lealtà. Certo se poi qualcuno dice che è un'iniziativa che spacca, probabilmente qualcuno ci crede. Il disorientamento è indotto”. Ma quello che contestano a Bersani che ieri ha reagito al documento con un gelido “a me va bene tutto” non è tanto la gestione del partito, quanto i risultati che ha portato. “Perché – insiste Verini – davanti allo sfascio del berlusconismo, l'opposizione non cresce? Perché il Pd è al 24%, e se non ci fossero le regioni rosse ad alzare la media, sarebbe sotto il 20? Forse perché non è più percepito come quel partito che aveva dato una speranza. In questi due giorni ci sono arrivate almeno mille e duecento mail. E tante dicono: ‘Avevamo deciso di non votare più, vedendoti ci crediamo di nuovo’”.
MA VELTRONI, giurano, di candidarsi non ha nessuna intenzione. Si sente solo “in diritto” (visto che il Pd era anche un'idea sua) e “in dovere” “di rimboccarsi anche lui le maniche, come dice Bersani”, parafrasa Verini.
E per dimostrarlo, nel suo documento, ha tolto la maiuscola dalla parola “movimento” e cancellato pure la frase sul partito “che appare privo di bussola”. A Orvieto ci sarà anche il sindaco di Torino (in chiusura di mandato) Sergio Chiamparino. Da settimane chiede primarie aperte, va dicendo che “se serve non mi tiro indietro”, e ha scritto un libro che si intitola La sfida. Forse è arrivato il momento di sciogliere gli ormeggi. Vedremo oggi, “prima non parla”, dice il suo assistente. Meglio che l'ora delle urne non arrivi in fretta, viene da dire. Ma Parisi non è d'accordo: “Lei mi chiede di sospendere la democrazia in attesa delle elezioni? La democrazia è un esercizio permanente, non sono previste soste”. Brutto risveglio per il segretario che voleva dare un senso a questa storia.

il Fatto 18.9.10
Tagli su tagli, i tormenti de “l’Unità”
di Chiara Paolin

“S a qual è il problema? Nel 1999, quando l'Unità ha chiuso, tutto cominciò proprio da lì: Bologna e Firenze. Adesso che Soru ha deciso di sospendere le edizioni in quelle due regioni ci sembra di tornare pericolosamente indietro nel tempo”. Ninni Andriolo è un membro del Comitato di redazione all'Unità. Ne ha viste tante, ma stavolta è preoccupato davvero, perché i tagli corposi sono serviti a poco se le vendite calano (diffusione a 52 mila copie, venduto in edicola sotto 40 mila) e manca un progetto condiviso. Spiega Andriolo: “Nel 2008 Soru ci presentò un piano ambizioso, chiedendo qualche mese dopo una seria riduzione di personale. In un anno e mezzo abbiamo perso una cinquantina di posti, soprattutto giovani precari e colleghi anziani. Ci siamo fatti tutti la cassa integrazione a rotazione. Adesso arriva la doccia fredda dello stop alle edizioni di Emilia Romagna e Toscana dal 15 ottobre. Così altri 11 colleghi rischiano di perdere il lavoro. E soprattutto, taglio dopo taglio, qui non resta più niente”. Allora sciopero. Anche oggi – ed è il secondo giorno di fila – il giornale non è in edicola, niente aggiornamenti del sito. Tutti si fermeranno a pensare cosa non abbia funzionato nel progetto che doveva rilanciare una testata storica, ma anche dare più fisionomia al neonato Partito democratico in piena era Veltroni.
Di certo oggi il corpo redazionale è compatto nel chiedere una gestione attenta dei prossimi passi. Ristrutturazione, ipotesi di vendita ad altri editori (come gli Angelucci, in corsa da tempo): tutto può essere discusso ma senza far precipitare la situazione. Dal canto suo, l'editore Renato Soru autorevole esponente del Pd appare piuttosto freddo e determinato: ha chiesto alla Fieg (la Federazione degli Editori) di trasferirela vertenzaal ministero del Lavoro. E non ha smentito l'ipotesi di investire a breve in altre attività editoriali, magari nella sua Sardegna, confermando invece la sospensione delle edizioni emiliana e toscana. Scelta suicida secondo il sindacato unitario dei giornalisti: “In Emilia e in Toscana l'Unità vende il 40% delle copie, raccoglie il 50% degli abbonamenti e introita un terzo della pubblicità complessiva dice una nota Fnsi -. Si determina così una situazione di grave pericolo per l'occupazione e la stessa sopravvivenza del giornale”.
Ma oltre il danno (aziendale), si teme la beffa (politica). Se davvero ci si avvicina a elezioni anticipate, può il Pd entrare in campagna elettorale con un quotidiano che perde pezzi? L'ex ministro Cesare Damiano dice: “Ai giornalisti va il nostro pieno sostegno e l’auspicio che si arrivi a una positiva soluzione della vertenza in corso”, mentre il responsabile del partito per l'informazione Matteo Orfini osa un po' di più: “La speranza mia e del Pd è che l’editore possa tornare sui suoi passi”. Ai redattori de L’Unità è arrivata anche significativamente la solidarietà dei democratici sardi.

Repubblica 18.9.10
Dio e lo scienziato
Ciclicamente il sapere scientifico torna a farsi parte della riflessione sui fondamenti dell’essere, abbandonata invece dai filosofi
La formula della creazione
Quando gli scienziati vogliono occuparsi di fede
di Marco Cattaneo

In questo e altri passaggi, la scienza torna a farsi parte della riflessione ontologica, saltando a piè pari la mediazione dei filosofi, che negli ultimi tempi hanno accostato la scienza più sul fronte delle questioni etiche che su quello dei fondamenti. E questo è, a sua volta, un elemento di riflessione.
Qualcuno se ne è sorpreso, visto che nel bestseller da 9 milioni di copie Dal big bang ai buchi neri. Breve storia del tempo, pubblicato nel 1988, Hawking concludeva dichiarando che la scoperta di una teoria unificata della fisica ci avrebbe aiutato a "conoscere la mente di Dio". In verità il fisico britannico non si è mai sbilanciato più di tanto a proposito delle proprie inclinazioni religiose, anche se nel memoir che riassume la loro vita coniugale l´ex moglie lo definisce senza mezzi termini ateo.
In realtà nel libro, scritto con Leonard Mlodinow, Hawking fa riferimento al fatto che la teoria-M, l´ultima estensione della teoria delle stringhe, comporta che non esista un solo universo, ma una moltitudine di universi paralleli. E che l´emergere del nostro universo dal big bang non sia stato un atto creatore, ma una conseguenza inevitabile delle leggi della fisica, e nella fattispecie della gravità. In questa visione, anzi, lo spazio e il tempo non avrebbero né un inizio né una fine.
In fin dei conti, l´affermazione di Hawking e Mlodinow non è che un´estensione contemporanea del celebre aneddoto che si vuole abbia coinvolto Pierre-Simon de Laplace e Napoleone. Quando lo scienziato gli presentò la prima edizione della sua Esposizione del sistema del mondo, nel 1796, l´imperatore osservò: «Cittadino, ho letto il vostro libro e non capisco come non abbiate dato spazio all´azione del Creatore». Al che Laplace rispose seccamente: «Cittadino Primo Console, non ho avuto bisogno di questa ipotesi». Ma era il Secolo dei Lumi, e non era poi così insolito che qualcuno sostenesse la supremazia della ragione.
D´altra parte, un´affermazione tanto brusca da parte del più famoso fisico del mondo – a torto o a ragione – non poteva passare inosservata. Riattizzando eterne polemiche che covavano appena sotto le ceneri, e che, in un modo o nell´altro, hanno attraversato la storia della cultura moderna. Èun attimo tornare ai processi a Giordano Bruno e Galileo Galilei, come pure osservare l´ironico destino toccato ad alcuni degli scienziati più rivoluzionari della storia e al tempo stesso ferventi devoti. Niccolò Copernico era un mite presbitero della cattedrale di Frombork, in Polonia. Eppure toccò a lui, nel 1543, con il De revolutionibus orbium coelestium, togliere la Terra dal centro dell´universo, dove la collocavano le Scritture. E toccò a Charles Darwin – che pure era stato avviato dal padre a una carriera ecclesiastica e a bordo del Beagle ancora citava la Bibbia come una verità letterale – togliere l´uomo dal centro del Creato. Peggio ancora, i primi a dare fondamento alla teoria di Darwin furono gli esperimenti sui caratteri ereditari di Gregor Mendel, frate agostiniano al monastero di Brno.
A eccezione di Darwin, tuttavia, nessuno di questi colossi del pensiero scientifico sperimentò il tormento di non riuscire più a conciliare le proprie convinzioni religiose con il procedere delle scoperte. Né tantomeno Isaac Newton, il più celebre predecessore di Hawking alla cattedra lucasiana di Cambridge, trovò contraddizioni tra la sua fede e la scoperta di leggi che non si conciliavano con la lettera delle Scritture. Anzi, considerando Dio come un demiurgo, un creatore immobile e trascendente che aveva messo in moto l´universo, è stato indicato come un precursore del deismo settecentesco.
Più complesso è stato il rapporto con la divinità del massimo pensatore del Novecento, Albert Einstein. «Io credo nel Dio di Spinoza – disse – che si rivela nella ordinaria armonia di ciò che esiste, non in un Dio che si preoccupa del fato e delle azioni degli esseri umani». Ma al tempo stesso conservava una visione trascendente di Dio, e aveva in cordiale antipatia gli "atei fanatici" che, diceva, «non possono sentire la musica delle sfere».
Ai giorni nostri, il confronto tra religione e scienza sembrava essere confinato all´evoluzione, soprattutto negli Stati Uniti, dove i sostenitori del "disegno intelligente" tentano di controbattere al neodarwinismo cercando prove di finalismo nell´evoluzione delle specie. Una posizione che ha scatenato la controffensiva di molti biologi, soprattutto del più radicale evoluzionista ateo in circolazione, Richard Dawkins, autore tra l´altro del bestseller L´illusione di Dio. Non è un caso, dunque, che Dawkins sia stato tra i primi a esultare per la tesi sostenuta da Hawking.
A parte i fanatici del Museo della creazione di Petersburg, in Kentucky, che negano il big bang e l´evoluzione dell´universo, la fisica sembrava essere felicemente fuori da polemiche e scontri – forse perché il cammino della scienza in questo campo non intralciava più di tanto quello della fede, e viceversa – ma anche in questi anni Dio ricorreva periodicamente nell´immaginario dei fisici. Basta ricordare l´infelice nomignolo del bosone di Higgs, la particella di Dio, dall´omonimo volume di Leon Lederman. O lo splendido libro di Gian Carlo Ghirardi sulla meccanica quantistica intitolato Un´occhiata alle carte di Dio.
Eppure anche oggi c´è chi riesce a vivere serenamente una luminosa carriera nella scienza, accogliendone metodo e risultati dalla cosmologia all´evoluzione, e a conciliarla con una coscienza di credente. È il caso di Nicola Cabibbo, grande fisico romano scomparso un mese fa. E di George Coyne, gesuita e astronomo, direttore della Specola Vaticana per quasi trent´anni. Forse il segreto sta nell´accettare che la fede non diventi un pregiudizio sul cammino della conoscenza. E che la scienza non esca dall´alveo delle leggi di natura per discutere il soprannaturale. Hawking permettendo.

Repubblica 18.9.10
La grande e stupefacente diversità dei viventi è stata creata dalla vita stessa Non c´è alcun bisogno di ipotizzare l´intervento "esterno" di un creatore
Cari colleghi, è inutile cercare la prova dell´esistenza di Dio
di Francesco e Luca Cavalli Sforza

La ricerca contemporanea ha rovesciato questo punto di vista, mostrando come un organismo vivente sia al tempo stesso un orologio e un orologiaio. È una delle scoperte che più hanno rivoluzionato il modo di pensare negli ultimi centocinquant´anni. Si è capito che la grande diversità dei viventi è stata prodotta dalla vita stessa, attraverso meccanismi che ormai sono ben noti, grazie alla capacità di ogni organismo di autoriprodursi generando una copia pressoché perfetta di se stesso. Non vi è bisogno di ipotizzare un creatore esterno, per cui non troverete un libro di scienza che inizi dicendo: «In principio Dio creò il cielo e la terra», e nemmeno: «In principio Dio creò il Big Bang».
La scienza non è nuova a scoperte "controintuitive", che smentiscono le impressioni più superficiali. Oggi quasi tutti sappiamo che un corpo più pesante non cade più veloce di uno più leggero, come insegnava Aristotele, né il Sole gira intorno alla Terra, benché sembri farlo ogni giorno. Toccò proprio a Darwin, grande ammiratore di Paley, accorgersi per primo che gli organismi evolvono per proprio conto, non per mano di un progettista nascosto dietro le quinte. Queste osservazioni inaugurarono un lungo e doloroso travaglio interiore, che lo portò negli anni ad abbandonare la fede, con grande turbamento della moglie che temeva che il marito pregiudicasse il suo futuro ultraterreno.
I fisici si erano accorti ben prima dei biologi che il funzionamento del mondo si può spiegare senza bisogno di ipotizzare l´esistenza di un Dio. Già oggi, del resto, forse nemmeno i teologi pensano che Dio abbia creato le singole specie viventi, casomai che abbia creato l´antenato a tutte comune. Se in questo secolo, come è assai probabile, si riuscirà a generare la vita in laboratorio da materia non vivente, l´"ipotesi di Dio" dovrà fare un nuovo passo indietro. Certo, chi vuole credere all´esistenza di un Creatore supremo potrà dire che Dio vuole restare dietro le quinte per non interferire con la libertà dell´uomo. «La natura ama nascondersi», diceva Eraclito: ecco un´affermazione che l´uomo di scienza e l´uomo di religione possono interpretare in modi diametralmente opposti.
Non ci risulta che l´esistenza o meno di Dio possa essere provata logicamente. Anche fra gli scienziati si trovano persone di fede religiosa. Per la nostra parte, il fatto che dalla materia possa essere nata la vita e che la vita abbia dato forma a se stessa in centinaia di milioni di forme diverse nel corso della sua lunghissima storia, è non solo ragione di meraviglia, di ammirazione e stupore, ma ci suscita una curiosità inesauribile e la grandissima soddisfazione di esserne parte. Se ragioniamo sulla nostra specie, troviamo entusiasmante il fatto che ogni comportamento, ogni etica, ogni filosofia e scienza, ogni politica, sia una semplice creazione umana, sempre più così nel corso dei circa 100.000 anni di evoluzione dell´uomo moderno. E che non vi sia un parametro divino su cui misurarsi, né alcuna verità assoluta, solo la certezza di nascita e morte. Questo investe di responsabilità ogni nostro gesto. Delle sue azioni l´uomo ha da rispondere solo a se stesso, agli altri uomini e alla natura. Dipende da noi esseri umani fare della vita un paradiso o un inferno, del pianeta un giardino o un deserto. La personale responsabilità di ciascuno davanti a tutto e a tutti è la radice di una moralità vera, che ci apre la possibilità di sviluppare i migliori potenziali umani. Di dare, per così dire, forme nuove a noi stessi. Sarebbe così se fossimo stati formati con un "progetto" che ci precede?
Che vi sia o non vi sia un Dio, l´umanità ha mostrato di averne bisogno, per lo più, almeno nel corso degli ultimi millenni. L´incertezza del futuro, la paura del dolore e della morte, condizioni miserabili di vita, il trionfo perenne della violenza e dell´ingiustizia: proiettiamo la speranza di un riscatto al di fuori di noi e al di là delle schifezze della vita, quindi al di là della vita stessa, se questa non ha altro da offrire. La fede religiosa si può così rivelare un vantaggio, dal punto di vista evolutivo, perché la speranza di una vita migliore nell´aldilà attenua il terrore della morte e dà forza per andare avanti a vivere, per dura che sia, e la speranza di un giudizio divino che si abbatterà sui colpevoli conforta chi non spera più nella giustizia umana.
Se non aiutassero a sopravvivere e riprodursi, del resto, le religioni sarebbero scomparse da un pezzo dalla faccia della Terra. Soddisfano il bisogno di un padre e di una madre, di una guida per vivere, di sperare che la sorte ci riservi qualcosa di meglio e di speciale. Fantasie, che per millenni sono state quasi una necessità ma di cui il mondo moderno tende a fare progressivamente a meno. La moralità laica, di chi sa di dover render conto solo a se stesso e agli altri, ci sembra di gran lunga preferibile e più avanzata della moralità di chi agisce in base a criteri fissati da enti esterni, o magari per timore di punizioni post mortem.
Se vogliamo, la vera prova dell´inesistenza di Dio non viene dalla logica, ma dalla storia: è negli orrori, negli eccidi, nelle iniquità senza fine di cui si sono rese responsabili le religioni, le confessioni, le chiese. L´idea di Dio è naufragata nella marea di infamie compiute in suo nome, spesso promosse dai suoi sommi sacerdoti. «Gli uni lo chiamano Ram; gli altri lo chiamano Rahim; poi si ammazzano l´uno con l´altro». Così diceva Kabir, mistico indiano vissuto nel Quattrocento, dei musulmani e degli indù suoi contemporanei. In lingue diverse, sia "ram" sia "rahim" significano "amore".

Repubblica 18.9.10
Superstizione e aldilà sono il tema dell´ultimo film che il regista ha girato a New York: "Incontrerai uno sconosciuto alto e bruno" con Hopkins, Jones Watts, Brolin, dal 3 dicembre in Italia
Allen: "La religione? Per me non è credibile"
di Dave Itzkoff

Per me ciò che vedi è tutto ciò che hai. Per il resto sono un ignorante. Il vero divertimento è guardare una partita di football con una birra
Su Carla Bruni nel mio nuovo film hanno scritto un mucchio di falsità... Mi chiedo se lo fanno anche sull´Afghanistan

NEW YORK. Quando nei giorni scorsi gli è stato chiesto se fosse opportuno augurargli un "Felice Nuovo Anno Ebraico", Woody Allen ha risposto con una risatina, dal suo ufficio in una suite del Loews Regency Hotel: «No, no. Questo va bene per la tua gente - ha detto rivolto al sottoscritto - Io non seguo queste cose. Vorrei… mi sarebbero di grande aiuto nelle mie notti oscure».
A 74 anni Woody Allen, prolifico regista e newyorchese emblematico, non ha trovato ancora una propria religione. L´idea della fede in ogni caso impregna il suo ultimo film, Incontrerai uno sconosciuto alto e bruno, che Sony Pictures Classics farà uscire nelle sale Usa mercoledì (in Italia dal 3 dicembre, ndr.). Nel film, mentre una coppia londinese (Anthony Hopkins e Gemma Jones) va a rotoli, la moglie cerca conforto nel sovrannaturale con conseguenze imprevedibili sul matrimonio di sua figlia (Naomi Watts e Josh Brolin). «Per me», dice Allen, «non esiste differenza tra una cartomante, un biscotto della fortuna o una delle religioni ufficiali. Sono tutti sistemi validi o non validi, altrettanto utili».
Perché ha scritto un film su queste cose?
«Ho conosciuto persone che riponevano fede nella religione e negli indovini. Ho pensato che sarebbe stato interessante per un film: una donna che non ha mai trovato aiuto in nulla, ma che all´improvviso trova in una cartomante che le predice il futuro qualcuno in grado di aiutarla davvero. Il problema è che alla fine il suo risveglio è davvero brusco».
Trova plausibile l´idea che abbiamo vissuto altre vite o che Dio esista?
«Nessuna delle due mi pare plausibile. Io ho un approccio molto scientifico e convinto alla questione. Dal mio punto di vista ciò che vedi è tutto ciò che hai».
Che cosa ne pensa della vecchiaia?
«Beh, sono decisamente contrario alla vecchiaia (ride). Penso che non la si debba raccomandare a nessuno. Non si acquisisce maggiore saggezza con il passare degli anni. L´unica cosa che accade davvero è che il tuo corpo se ne va in pezzi. La gente cerca di darsi una verniciatina, di parlare con voce pacata. Si comincia a capire la vita e ad accettare le cose. Ma scambieresti tutto quello che hai pur di ritornare ad avere 35 anni. L´idea della morte mi dà un po´ i brividi. Questo è quanto accade ad Anthony Hopkins all´inizio del film: non sta a sentire sua moglie - molto più realistica di lui - che gli dice di non far questo o quello, perché non è più un giovanotto. Naturalmente, è lei ad avere ragione, ma nessuno vuole sentirsi dire cose del genere».
Questo è il suo ultimo film a New York perché, ha detto, girare lì è troppo costoso.
«La mia prima scelta sarebbe sempre New York. È il luogo che più amo e lavorare dove vivi è un lusso. Sono sicuro che vi girerò altri film. Ma i pochi dollari che ho spesso vanno a finire in altri posti. Città come Londra, Parigi, Barcellona, sono tutte cosmopolite e assomigliano a New York. Ma se avessi 15 milioni di dollari girerei sempre a New York».
Era preparato ad affrontare il polverone sollevato dai media per Carla Bruni-Sarkozy nel cast del suo prossimo film, Mezzanotte a Parigi?
«Sono sbalordito. Ha solo una particina. Ho girato con lei il primo giorno e tutti i giornali hanno scritto che era una pessima attrice e che avevo fatto 32 ciak con lei. Non sono arrivato neppure a dieci, invece. Erano soltanto voci. Poi hanno scritto che suo marito è venuto sul set ed era in collera con lei. In realtà, è venuto sul set una sola volta ed era felice e contento, soddisfatto che la moglie recitasse con grande naturalezza».
In ogni caso darà grande richiamo al film…
«Per qualche ragione la stampa voleva dire soltanto brutte cose su di lei. Non so se hanno qualcosa contro la coppia Sarkozy, o se si tratta tutto sommato di un espediente per vendere più giornali. In ogni caso, le invenzioni che hanno pubblicato erano talmente folli che mi sono chiesto: "È questo che accade quando ci parlano anche di Afghanistan, di economia, di argomenti davvero significativi per la nostra vita?". In fondo la questione era del tutto banale. Insomma: no, non ero affatto preparato ad affrontare tutto questo polverone».
Quando ha del tempo libero, come lo trascorre?
«Faccio le cose che fanno tutti. Porto i miei figli a scuola. Vado a passeggio con mia moglie, suono con la mia jazz band. E poi, naturalmente, ho il dovere di camminare sul tapis roulant, e fare i pesi, e tenermi in forma, così da non diventare più decrepito di quanto già non sia».
È andato a vedere le 12 ore di spettacolo dei Demoni di Peter Stein da Dostoevskij al Lincoln Center Festival?
«No. Sono ignorante. Leggo perché devo leggere. Per me divertimento è guardare una partita di football e bere una birra».
(copyright New York Times/La Repubblica - traduzione di Anna Bissanti)

il Fatto 18.9.10
Pedofilia. I preti peccano più dei fedeli
Studi Usa: la percentuale di pedofili tra i religiosi è molto superiore a quella della società civile
I sacerdoti denunciati in America sono oltre 4 mila, risarcimenti
per 3 miliardi di dollari
Decine di migliaia di casi: le cifre smentiscono il Vaticano
di Vania Lucia Gaito

Benedetto XVI vola in Gran Bretagna e torna a parlare dello scandalo della pedofilia clericale: “L’autorità della Chiesa non è stata sufficientemente vigilante, né sufficientemente veloce e decisa nel prendere le misure necessarie”. Un’affermazione che merita qualche riflessione, considerando che Channel 4, proprio in concomitanza con la visita papale, ha rivelato che, proprio in Inghilterra su 14 pratiche di sacerdoti colpevoli, sei procedure per la riduzione allo stato laicale sono in corso, tre sono state rifiutate o non processate per motivi di salute, un’altra è stata portata a termine e quattro addirittura non sono mai state aperte. I vescovi affermano di aver deferito i casi a Roma, come previsto dal documento del 2001 De delictis gravioribus, emanato proprio da Ratzinger quando era prefetto per la Congregazione per la Dottrina della Fede, e fanno intendere che se lungaggini e ritardi ci sono, non dipende da loro ma dal Vaticano. Queste rivelazioni sono state per me uno choc” ha affermato il pontefice, ma difficilmente si riesce a conciliare queste frasi con la prassi tenuta dal Vaticano sia prima che dopo l’esplosione dello scandalo. La portata del problema è stata costantemente minimizzata, prima tentando di far passare gli abusi come “casi isolati”, poi tentando di sminuire i numeri da pandemia sostenendo che l’incidenza della pedofilia fra i sacerdoti e religiosi sia uguale, se non minore, all’incidenza della pedofilia fra le persone comuni.
Crociata contro il “comitato d’indagine”
NEL MESSAGGIO inviato qualche tempo fa ai Cavalieri di Colombo, Benedetto XVI parla di attacchi “spesso scorretti e infondati” contro la Chiesa per quanto concerne le vicende legate alla pedofilia. Secondo monsignor Mariano Crociata, segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana, nell’ultimo decennio sono un centinaio i casi di sacerdoti italiani, accusati di abusi sessuali su minori, indagati dalla Congregazione per la Dot-
trina della Fede. Crociata non ha mai aggiunto alcun dettaglio sull’esito di tali procedimenti, sostenendo invece che in Italia non vi è alcun bisogno di creare un comitato speciale all’interno della Chiesa per affrontare i casi di molestie sessuali nei confronti di bambini. Di quel “centinaio” di preti pedofili indagati dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, inoltre, non si sa nulla: né quante siano state le loro vittime, né per quanto tempo siano durate le violenze, e meno che mai si chiarisce se altri sacerdoti o vescovi fossero a conoscenza delle violenze e da quanto tempo. Ma gli attacchi alla Chiesa sul tema della pedofilia sono davvero così infondati e scorretti? Basta esaminare i numeri, per rendersi conto che il problema è gravissimo, molto più di quanto finora non sia sembrato.
I casi italiani sono almeno 172
UN PRIMO DUBBIO riguarda la verosimiglianza del “centinaio di casi” cui fa riferimento monsignor Crociata. I casi di abusi sessuali ai danni di minori perpetrati dai sacerdoti italiani e riportati dalla stampa negli ultimi dieci anni, messi in colonna e sommati uno all’altro, riportano vicende di pedofilia e pedopornografia in cui sono coinvolti almeno 172 preti. Delle due l’una: o non tutti i sacerdoti accusati sono stati indagati dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, o monsignor Crociata è decisamente troppo ottimista. Fermo restando che il problema della pedofilia clericale non è di ordine statistico, ma di ordine morale, guardando più da vicino le cifre degli altri Paesi si può avere un’idea della portata del problema: 4.392 sacerdoti denunciati per pedofilia negli Usa; 1.700 preti accusati di violenze a danno dei bambini piccoli, orge e uso di droga in Brasile; 107 preti e religiosi condannati in Australia per abusi sui minorenni; 800 religiosi accusati di oltre 14000 casi di abusi in Irlanda. E poi centinaia di casi in Olanda, in Polonia, in Croazia, in Francia, in Inghilterra, in Alaska, in Messico. Finora, solo negli Stati Uniti, sono stati pagati risarcimenti per 3 miliardi di dollari. Oltre un miliardo di risarcimenti è stato chiesto dai sopravvissuti alle scuole industriali in Irlanda. Migliaia sono le vittime. Talvolta perfino bambini piccolissimi.
Stati Uniti: coinvolti il 4% dei prelati
UNA DISAMINA del fenomeno della pedofilia clericale, commissionata dai vescovi americani al John Jay College of Criminal Justice e noto appunto come “Rapporto Jay”, afferma che il 4% dei sacerdoti americani è coinvolto in accuse di pedofilia. Nel settembre del 2009 l'arcivescovo Silvano Tomasi, osservatore permanente della Santa Sede all'Onu a Ginevra, minimizzava il problema affermando che “nel clero cattolico solo tra l'1,5% e il 5% dei religiosi ha commesso atti di questo tipo”. Piccoli numeri? Percentuali irrisorie? Per nulla, se si confrontano queste percentuali con quelle della popolazione laica. La percentuale di pedofili fra i religiosi è dalle 20 alle 200 volte maggiore rispetto alla percentuale di pedofili fra le persone comuni. Affidare un bambino ad un religioso, significa esporlo ad un rischio almeno venti volte maggiore rispetto a quello di affidarlo a un insegnante, un vicino di casa, un amico di famiglia. Rispetto a quanto vuole far credere la Chiesa, cioè che il rischio sia lo stesso, basta fare due conti per realizzare che non è affatto così. Per capire meglio, è necessario guardare più da vicino i numeri, senza farsi ingannare da cifre astratte e non messe a confronto con altre.
A marzo di quest’anno, il portavoce della Santa Sede, padre Federico Lombardi, ha affermato: “In Austria sono 17 i casi di pedofilia che riguardano la Chiesa, ma ben 510 quelli al di fuori; quindi si deve prestare attenzione anche al di fuori della Chiesa e non puntare i riflettori solo su di essa”. Detto così, sembra che debba considerarsi più preoccupante il fenomeno degli abusi sui bambini al di fuori della Chiesa, ma è effettivamente così? Fermo restando che i casi di pedofilia al di fuori della Chiesa non legittimano di certo gli abusi sui bambini perpetrati dai sacerdoti, basta qualche banale calcolo matematico a rendersi conto che il problema non è così di poco conto come lo si vuole dipingere. In pratica: quanti sono in Austria i preti pedofili rispetto al numero dei sacerdoti, e quanti sono i pedofili “comuni” rispetto alla popolazione austriaca? In totale, i religiosi austriaci sono circa 6700 su poco meno di tre milioni e 400mila maschi adulti. Rapportando gli abusi alla popolazione di riferimento, 17 casi di pedofilia su 6700 sacerdoti e 510 casi di pedofilia su 3.400.000 austriaci maschi adulti, ci si rende conto che la percentuale dei religiosi pedofili, che sembrava piccola, è invece altissima. Tra i sacerdoti austriaci la percentuale di pedofili è 0.26% mentre tra i laici la percentuale di pedofili è 0.015%. In realtà, quindi, la percentuale dei pedofili fra i preti è pari a diciassette volte la percentuale di pedofili nella popolazione laica. Stesse conclusioni si traggono se si esaminano le statistiche di paesi come gli Stati Uniti. Secondo l’ultimo rapporto annuale dal Children’s Bureau, l’ufficio del Dipartimento della salute statunitense che si occupa di bambini e giovani, i casi di abusi sessuali su minori negli Stati Uniti sono circa 88.000 su una popolazione di 118 milioni di maschi adulti, lo 0.075%. Se anche la percentuale dei preti pedofili fosse l’1.5%, come suggerisce la stima più prudenziale di monsignor Tomasi, sarebbe venti volte superiore all’incidenza rilevata nella popolazione di non religiosi. Le statistiche che la stessa Chiesa va sciorinando, cercando di sminuire il fenomeno, sono invece assolutamente preoccupanti. Lo scenario irlandese è ancora peggio-
re di quello americano, perché agli abusi sessuali si sommano gli abusi fisici, quelli emotivi, i maltrattamenti. Almeno 14.000 vittime, 2500 testimonianze. Sostanzialmente la percentuale di pedofili tra religiosi si attesta sui dati statunitensi del rapporto Jay. Più difficile stabilire quale sia la percentuale di pedofili fra la popolazione, poiché i reati di questo genere denunciati ogni anno sono circa 160, mentre alle associazioni antipedofilia arrivano circa 2400 segnalazioni annue, su 1.7 milioni di maschi adulti. Le percentuali oscillano quindi, fra gli irlandesi “comuni” fra lo 0.01% e lo 0.14%. La percentuale di pedofili tra i religiosi risulta essere almeno trenta volte maggiore rispetto alla percentuale di pedofili fra la popolazione comune.
In Australia c’è un database
QUASI IDENTICHE a quelle austriache le percentuali in Australia: 107 sacerdoti condannati su poco più di 3800 sacerdoti, tra diocesani e ordinari, con un’incidenza del 2.82% di pedofili. Per quanto riguarda i pedofili “comuni”, l’Australia ha un database pubblico con nomi e foto dei children sexual offender e raccoglie oltre 1200 nominativi su una popolazione di otto milioni e mezzo di maschi adulti, con una incidenza di pedofili pari allo 0.014%. La percentuale di pedofili tra i preti risulterebbe quindi 200 volte quella rilevata nella popolazione. In diversi stati il numero di denunce e testimonianze riguardanti abusi sessuali commessi dai sacerdoti è considerevolmente aumentato in seguito alla istituzione di commissioni di indagine governative, come in Irlanda, o indipendenti, come negli Stati Uniti. La possibilità per le vittime di vedere riconosciuto il torto subito ha spinto migliaia di persone, abusate da sacerdoti durante l’infanzia, ad uscire allo scoperto e raccontare il proprio dramma. Alcuni stati americani istituirono il cosiddetto “anno finestra”, permettendo a moltissime vittime di denunciare, e veder perseguiti dalla giustizia statuale, abusi subiti anche decenni prima e caduti in prescrizione. Dunque, non si capisce come monsignor Crociata possa affermare che in Italia non vi sia necessità di una commissione d’indagine sulla pedofilia clericale. Non è chiaro per quale motivo l’Italia dovrebbe essere considerata un’isola felice, immune dallo scandalo.
Il “Bel Paese” che non tutela l’infanzia
SECONDO le percentuali rese note dall’arcivescovo Tomasi e considerando che in Italia ci sono circa 35.000 sacerdoti diocesani, potrebbero esserci tra i 500 e i 1750 sacerdoti coinvolti in casi di pedofilia. Senza contare la presenza di altri religiosi e dei sacerdoti ordinari, che farebbero “salire” le possibili stime. Ma perché nel nostro Paese lo scandalo non è ancora scoppiato? Essenzialmente per il timore delle vittime di non essere credute e di non vedere riconosciuti i torti subiti. Per una sorta di “sacralità”, la figura del sacerdote e, in generale, dell’ecclesiastico, viene reputata al di sopra di certe nefandezze e spesso l’opinione pubblica, quando una vittima denuncia, si schiera più dalla parte dell’accusato che non dell’accusatore. Senza contare che, nell’Italia dei cavilli legali, è facile vedere finire impunito il proprio abusatore, anche dopo averlo denunciato e, magari, anche dopo che la giustizia lo ha perseguito. L’infanzia è troppo poco tutelata, rispetto agli altri Paesi, e le autorità statuali sembrano preferire non affrontare il problema piuttosto che scontentare la Chiesa cattolica. Quindi perché esporsi, raccontare il proprio calvario, se la società e la legge non assicurano giustizia o almeno il vedere riconosciuta l’infamia subita? Dalle percentuali riportate sembra che in alcuni paesi l’incidenza dei child sexual offender nella popolazione sia maggiore che in altri. In realtà si tratta di un fenomeno facilmente spiegabile: nei paesi in cui la legge persegue con maggiore impegno ed efficacia il reato di abusi sessuali su minori, le denunce e le condanne sono superiori rispetto a quelli di altri Paesi in cui lo stesso crimine non è perseguito con altrettanta efficacia. In parole povere: le vittime sono più propense a sporgere denuncia quando sanno che c’è una possibilità concreta di ottenere giustizia.
Se una sola vittima non basta
MA È COSÌ diversa la situazione italiana da quella degli altri paesi? Anche a voler prendere per buone le stime di “un centinaio” di sacerdoti pedofili, come sostiene monsignor Crociata, qual è la percentuale di pedofili tra i preti italiani? Lo 0.29%. Di contro, la Caramella Buona, associazione antipedofilia recentemente costituitasi parte civile nel processo a carico di don Ruggero Conti, rivela che in Italia ci sono 1322 detenuti per pedofilia. Su una popolazione di oltre 20 milioni di maschi adulti, la percentuale è dello 0.006%. L’incidenza della pedofilia tra i sacerdoti italiani risulta essere 48 volte superiore a quella rilevata tra i comuni cittadini. Inoltre, è bene ricordare che difficilmente un pedofilo si ferma ad una sola vittima. Anche “solo” cento casi possono significare centinaia di vittime. Scorretto non è rendere pubblico un problema devastante come quello dei preti pedofili. Scorretto è semmai cercare di sminuire la portata di quel problema, offendere le vittime parlando di “chiacchiericcio”, insultare chi ha già subito l’insulto dell’abuso minimizzando le cifre e tentando di far credere che la vittima, in tutta questa sporchissima faccenda, sia la Chiesa. Quella Chiesa che ha tentato di far credere che gli abusi fossero tutti “casi isolati”, la Chiesa che ha dovuto essere trascinata in tribunale per riconoscere un risarcimento alle vittime, la Chiesa che ha ignorato chi le si rivolgeva per avere giustizia. La Chiesa che ha preferito continuare a proteggere i propri beni e i propri privilegi piuttosto che rinnegare se stessa, prendere la propria croce e seguire quel Cristo incarnato in ogni bambino abusato.

il Fatto 18.9.10
Braccato e minacciato
Il Papa a Londra, tra un attentato sventato e le continue polemiche sugli abusi del clero
di Marco Politi

L’allarme terrorismo scuote il pellegrinaggio di Benedetto XVI. Scotland Yard ha arrestato ieri mattina a Londra cinque attentatori. Gli agenti sono piombati all’alba, alle 5 e 45, in un negozio della capitale, dove i cinque – che sono netturbini – cominciavano il turno di lavoro. La polizia era armata, ma non è stato sparato un colpo. Gli estremisti islamici, tra i 25 e i 50 anni, sarebbero di provenienza algerina e senza cittadinanza britannica. Un sesto uomo è stato catturato nel primo pomeriggio. Si è temuto che volessero uccidere il Papa. Il luogo dove sono stati sorpresi si trova nella zona di Westminster, dove Benedetto XVI doveva recarsi nel pomeriggio. Condotti in commissariato, sono ora agli arresti per sospetto di “realizzazione, preparazione o istigazione di atti di terrorismo”. Durante gli interrogatori scattavano perquisizioni in due uffici e otto appartamenti della capitale, ma non sono state ritrovate né armi né esplosivi. “Non sono stati sequestrati oggetti pericolosi”, comunica sobriamente
Scotland Yard. Venerdì sera, tuttavia, un’informativa dei servizi segreti parlava di rischio “grave”. Jonathan Evans, capo del mitico MI5, aveva lanciato l’allerta di un “attacco alla Gran Bretagna”. È questo che ha spinto le forze di sicurezza ad agire con la massima rapidità e decisione.
Un’ombra segue il Pontefice
IL PROGRAMMA di Benedetto XVI non è cambiato. La polizia ha diffuso una dichiarazione tranquillizzante: “In seguito agli arresti sono state riviste le misure di sicurezza e siamo convinti che i piani adottati siano adeguati”. Rasserenante anche il commento del portavoce papale Lombardi: “Il Papa è felice del viaggio ed è calmo. La situazione non è particolarmente pericolosa. A Sarajevo (per Giovanni Paolo II nel 1997, ndr) lo era molto di più”. Papa Ratzinger, ha ricordato, è partito con “coraggio” per questa missione. Lombardi si è detto certo che la polizia abbia preso tutte le misure necessarie.
Ma non è la paura di attentati l’accompagnatrice abituale del pontefice, che incontrando il primate anglicano, ha esaltato la “profonda amicizia” tra le due chiese. L’ombra degli abusi accompagna Benedetto XVI nei suoi viaggi internazionali. È una presenza tragica e ingombrante che condiziona le sue missioni e lo costringe ogni volta, ad ogni inizio di viaggio a pronunciare un mea culpa. È come se l’opera della Chiesa in tutto il mondo improvvisamente si fosse ridotta al cumulo di orrori perpetrati dai preti pedofili. Come se fossero respinte sullo sfondo le iniziative che nei cinque continenti le istituzioni cattoliche intraprendono nella lotta alla povertà e all’emarginazione, come se fosse dimenticato il contrasto al razzismo perseguito sistematicamente a partire dalla situazione italiana, come se fosse archiviata la costante azione della Santa Sede per i diritti delle nazioni del Terzo Mondo e uno sviluppo globale dal volto umano, non determinato unicamente dagli interessi dei grandi monopoli del Primo Mondo. È da due anni che Benedetto XVI si trova su questa graticola. In volo per gli Usa, in volo per l’Australia, in volo per Malta, in volo per il Portogallo, non c’è volta che nell’incontro con la stampa non risorga, come l’ombra di Banquo per Macbeth, il fantasma dell’abuso clericale sui minori.
In gioco la fallibilità dell’Istituzione
È SOLO una congiura dei media, come tendono a credere alcuni collaboratori del Papa?
È una cospirazione di centrali anti-cattoliche, che vogliono creare panico, come scrisse su Avvenire il sociologo delle religioni Massimo Introvigne? È un Attacco a Ratzinger come titola il vivace libro di Andrea Tornielli e Paolo Rodari, appena apparso in libreria e seguito da un volume di eguale impostazione La verità del Papa. Perché lo attaccano, perché va ascoltato di Aldo Maria Valli?
Bisogna andare più in profondità e partire dalle stesse parole di Benedetto XVI, scandite giovedì scorso. “L’autorità della Chiesa (si noti: l’Autorità complessiva, non singoli vescovi da qualche parte, ndr) non era sufficientemente vigilante e non sufficientemente veloce, decisa, nel prendere le misure necessarie”. Chi scriveva queste cose già decenni fa, chi denunciava la “distrazione” delle Chiesa (“siamo stati distratti”, è scritto nell’editoriale di Avvenire di venerdì) veniva accusato di anticlericalismo. Ora che lo dice il Papa, aggiungendo – come ha dichiarato nella recente Lettera agli Irlandesi – che “le vittime non sono state ascoltate”, si apre una reazione a catena all’interno stesso della Chiesa cattolica.
Perché non sono in gioco i “peccati carnali” di alcuni preti cattivi: tesi minimalista spesso propagata dai difensori d’ufficio del papato e della gerarchia. È in gioco la “fallibilità” dell’istituzione nel suo complesso, che si è sempre presentata monarchica, in cui al vertice veniva attribuita di fatto il talento di avere sempre ragione mentre non è mai stata consentita finora l’esistenza di “stanze di compensazione” dove esaminare, discutere e valutare eventuali errori. È l’istituzione Chiesa che, come struttura, ha perso la credibilità. Papa Ratzinger lo intuisce, non a caso parla di necessaria “penitenza e umiltà”. Ma intuitivamente il mondo cattolico e l’opinione pubblica avverte che ciò non basta. Sono i meccanismi di governo assolutisti della Chiesa a non reggere più. E non funziona il rapporto con l’indispensabile canale con il pubblico credente e non credente, rappresentato dai media.
Un difficile rapporto con i mass media
IL VATICANO di Ratzinger dis-pregia i mass media. Li considera prevenuti o non all’altezza. Non li considera interlocutori. Ma non c’è altro termometro nella società contemporanea dell’informazione plurale, che denuncia storture, errori, insuccessi. Dove, se non nell’arena aperta dell’opinione pubblica può svolgersi quel dialogo tra fede e ragione, tra credenti e non credenti che Benedetto XVI ha caldamente auspicato anche ieri nella solenne cornice di Westminster Hall sotto il segno del martirio di Tommaso Moro? È sintomatico che Ratzinger, a differenza di Wojtyla, non accetti mai libere domande dai giornalisti. Lo scandalo della pedofilia riemerge continuamente perché sono i cattolici più fedeli a invocare rigore, coerenza e trasparenza. La ramificazione degli scandali e la “non-vigilanza” sistematica delle gerarchie hanno rovesciato gli schemi del passato. Agli occhi dei fedeli e dell’opinione pubblica non è più la Chiesa gerarchica a elargire indicazioni e concessioni. Tocca alla Chiesa, invece, “rispondere”. Rispondere di azioni e omissioni e di ciò che ancora oggi non fa. (Tanto per essere concreti: in Italia non c’è nemmeno una commissione d’indagine ecclesiastica come in Belgio o in Austria). La svolta della civiltà contemporanea sta nelle domande che salgono dal basso. Quando il Papa afferma che bisogna “reimparare la sincerità”, c’è poi un mondo che esige trasparenza. E se i vertici ecclesiastici non lo comprendono, le domande continueranno a piovere.
A Westminster Hall il Papa ha prospettato un’alleanza tra fede e ragione per dare saldi fondamenti etici alle società moderne. La ragione, però, esige che la Chiesa dia risposte alle domande della società.

Avvenire 18.9.10
«Dall’alleanza fede-ragione un’etica per la democrazia»
Il «giusto posto» del credo religioso nel processo politico al centro della riflessione del Papa nella Westminster Hall di Londra
di Joseph Ratzinger

Il modello: Tommaso Moro, lo statista che nel primato di Dio seppe radicare la sua libertà di coscienza e la dedizione al bene comune
Il processo democratico è fragile se i «principi morali» che lo sostengono si basano soltanto sul consenso sociale. È questa la «sfida reale» che Ratzinger ha additato rivolgendosi, ieri in Parlamento, al corpo diplomatico e agli esponenti della cultura, della società civile e dell’economia

Pubblichiamo il testo integrale del discorso pronunciato ieri pomerig­gio da Benedetto XVI nella Westmin­ster Hall di Londra all’incontro con gli esponenti della società civile, del mondo accademico, culturale e im­prenditoriale, con il corpo diploma­tico e con i leader religiosi.

Signor presidente, la ringrazio per le parole di benvenuto che mi ha rivolto a nome di questa distinta assemblea. Nel rivolgermi a voi, sono consapevole del privilegio che mi è concesso di parlare al po­polo britannico e ai suoi rappresen­tanti nella Westminster Hall, un edi­ficio che ha un significato unico nel­la storia civile e politica degli abitanti di queste Isole.
Permettetemi di manifestare la mia stima per il Parlamento, che da se­coli ha sede in questo luogo e che ha avuto un’influenza così profonda sullo sviluppo di forme di governo partecipative nel mondo, special­mente nel Commonwealth e più in generale nei Paesi di lingua inglese. La vostra tradizione di «common law» costituisce la base del sistema legale in molte nazioni, e la vostra particolare visione dei rispettivi di­ritti e doveri dello Stato e del singo­lo cittadino, e della separazione dei poteri, rimane come fonte di ispira­zione per molti nel mondo.
Mentre parlo a voi in questo luogo storico, penso agli in­numerevoli uomini e don­ne che lungo i secoli hanno svolto la loro parte in importanti eventi che hanno avuto luogo tra queste mura e hanno segnato la vita di molte ge­nerazione di britannici e di altri po­poli.
In particolare, vorrei ricordare la fi­gura di san Tommaso Moro, il gran­de studioso e statista inglese, am­mirato da credenti e non credenti per l’integrità con cui fu capace di seguire la propria coscienza, anche a costo di dispiacere al sovrano, di cui era «buon servitore», poiché a­veva scelto di servire Dio per primo. Il dilemma con cui Tommaso Moro si confrontava, in quei tempi diffici­li, la perenne questione del rappor­to tra ciò che è dovuto a Cesare e ciò che è dovuto a Dio, mi offre l’oppor­tunità di riflettere brevemente con voi sul giusto posto che il credo reli­gioso mantiene nel processo politi­co.
La tradizione parlamentare di questo Paese deve molto al senso istintivo di moderazione presente nella nazione, al desiderio di raggiungere un giusto equilibrio tra le legittime esigenze del potere dello Stato e i diritti di coloro che gli sono soggetti. Se da un lato, nella vo­stra storia, sono stati compiuti a più riprese dei passi decisivi per porre dei limiti all’esercizio del potere, dal­l’altro le istituzioni politiche della nazione sono state in grado di evol­vere all’interno di un notevole gra­do di stabilità. In tale processo storico, la Gran Bre­tagna è emersa come una democra­zia pluralista, che attribuisce un grande valore alla libertà di espres­sione, alla libertà di affiliazione po­litica e al rispetto dello Stato di dirit­to, con un forte senso dei diritti e do­veri dei singoli, e dell’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. La dottrina sociale cattolica, pur for­mulata in un linguaggio diverso, ha molto in comune con un tale ap­proccio, se si considera la sua fon­damentale preoccupazione per la salvaguardia della dignità di ogni singola persona, creata ad immagi­ne e somiglianza di Dio, e la sua sot­tolineatura del dovere delle autorità civili di promuovere il bene comune. E , in verità, le questioni di fon­do che furono in gioco nel pro­cesso contro Tommaso Moro continuano a presentarsi, in termi­ni sempre nuovi, con il mutare del­le condizioni sociali. Ogni genera­zione, mentre cerca di promuovere il bene comune, deve chiedersi sem­pre di nuovo: quali sono le esigenze che i governi possono ragionevol­mente imporre ai propri cittadini, e fin dove esse possono estendersi? A quale autorità ci si può appellare per risolvere i dilemmi morali?
Queste questioni ci portano diretta­mente ai fondamenti etici del di­scorso civile. Se i principi morali che L’ sostengono il processo democrati­co non si fondano, a loro volta, su nient’altro di più solido che sul con­senso sociale, allora la fragilità del processo si mostra in tutta la sua e­videnza. Qui si trova la reale sfida per la democrazia.
inadeguatezza di soluzioni pragmatiche, di breve ter­mine, ai complessi proble­mi sociali ed etici è stata messa in tutta evidenza dalla recente crisi fi­nanziaria globale. Vi è un vasto con­senso sul fatto che la mancanza di un solido fondamento etico dell’attività economica abbia contribuito a crea­re la situazione di grave difficoltà nel­la quale si trovano ora milioni di per­sone nel mondo. Così come «ogni decisione economica ha una conse­guenza di carattere morale» (Caritas in veritate , 37), analogamente, nel campo politico, la dimensione mo­rale delle politiche attuate ha con­seguenze di vasto raggio, che nessun governo può permettersi di ignora­re.
Una positiva esemplificazione di ciò si può trovare in una delle conquiste particolarmente rimarchevoli del Parlamento britannico: l’abolizione del commercio degli schiavi. La campagna che portò a questa legi­slazione epocale, si basò su principi morali solidi, fondati sulla legge na­turale, e ha costituito un contributo alla civilizzazione di cui questa na­zione può essere giustamente orgo­gliosa.
La questione centrale in gioco, dunque, è la seguente: dove può essere trovato il fonda­mento etico per le scelte politiche? La tradizione cattolica sostiene che le norme obiettive che governano il retto agire sono accessibili alla ra­gione, prescindendo dal contenuto della rivelazione. Secondo questa comprensione, il ruolo della religio­ne nel dibattito politico non è tanto quello di fornire tali norme, come se esse non potessero esser conosciu­te dai non credenti – ancora meno è quello di proporre soluzioni politi­che concrete, cosa che è del tutto al di fuori della competenza della reli­gione – bensì piuttosto di aiutare nel purificare e gettare luce sull’appli­cazione della ragione nella scoperta dei principi morali oggettivi.
Questo ruolo «correttivo» della reli­gione nei confronti della ragione, tuttavia, non è sempre bene accol­to, in parte poiché delle forme di­storte di religione, come il settari­smo e il fondamentalismo, possono mostrarsi esse stesse causa di seri problemi sociali. E, a loro volta, que­ste distorsioni della religione emer­gono quando viene data una non sufficiente attenzione al ruolo puri­ficatore e strutturante della ragione all’interno della religione. È un pro­cesso che funziona nel doppio sen­so.
Senza il correttivo fornito dalla reli­gione, infatti, anche la ragione può cadere preda di distorsioni, come av­viene quando essa è manipolata dal­l’ideologia, o applicata in un modo parziale, che non tiene conto piena­mente della dignità della persona u­mana. Fu questo uso distorto della ragione, in fin dei conti, che diede o­rigine al commercio degli schiavi e poi a molti altri mali sociali, non da ultimo le ideologie totalitarie del ventesimo secolo. Per questo vorrei suggerire che il mondo della ragio­ne ed il mondo della fede – il mon­do della secolarità razionale e il mondo del credo religioso – hanno bisogno l’uno dell’altro e non do­vrebbero avere timore di entrare in un profondo e continuo dialogo, per il bene della nostra civiltà.
La religione, in altre parole, per i legislatori non è un problema da risolvere, ma un fattore che contribuisce in modo vitale al di­battito pubblico nella nazione. In ta­le contesto, non posso che esprime­re la mia preoccupazione di fronte alla crescente marginalizzazione della religione, in particolare del cri­stianesimo, che sta prendendo pie­de in alcuni ambienti, anche in na­zioni che attribuiscono alla tolle­ranza un grande valore.
Vi sono alcuni che sostengono che la voce della religione andrebbe mes­sa a tacere, o tutt’al più relegata alla sfera puramente privata. Vi sono al­cuni che sostengono che la celebra­zione pubblica di festività come il Natale andrebbe scoraggiata, se­condo la discutibile convinzione che essa potrebbe in qualche modo of­fendere coloro che appartengono ad altre religioni o a nessuna. E vi sono altri ancora che – paradossalmente con lo scopo di eliminare le discri­minazioni – ritengono che i cristia­ni che rivestono cariche pubbliche dovrebbero, in determinati casi, a­gire contro la propria coscienza. Questi sono segni preoccupanti del­l’incapacità di tenere nel giusto con­to non solo i diritti dei credenti alla libertà di coscienza e di religione, ma anche il ruolo legittimo della reli­gione nella sfera pubblica. Vorrei pertanto invitare tutti voi, ciascuno nelle rispettive sfere di influenza, a cercare vie per promuovere ed inco­raggiare il dialogo tra fede e ragione ad ogni livello della vita nazionale.
La vostra disponibilità in que­sto senso si è già manifestata nell’invito senza precedenti che mi avete rivolto oggi, e trova e­spressione in quei settori di interes­se nei quali il vostro Governo si è im­pegnato insieme alla Santa Sede.
Nel campo della pace, vi sono stati degli scambi circa l’elaborazione di un trattato internazionale sul com­mercio di armi; circa i diritti umani, la Santa Sede e il Regno Unito han­no visto positivamente il diffonder­si della democrazia, specialmente negli ultimi 65 anni; nel campo del­lo sviluppo, vi è stata collaborazione nella remissione del debito, nel com­mercio equo e nel finanziamento al­lo sviluppo, in particolare attraver­so la International Finance Facility, l’International Immunization Bond e l’Advanced Market Commitment .
La Santa Sede è inoltre desiderosa di ricercare, con il Regno Unito, nuove strade per promuovere la re­sponsabilità ambientale, a benefi­cio di tutti. N oto inoltre che l’attuale Go­verno si è impegnato a de­volvere entro il 2013 lo 0,7% del reddito nazionale in favore degli aiuti allo sviluppo. È stato incorag­giante, negli ultimi anni, notare i se­gni positivi di una crescita della so­lidarietà verso i poveri che riguarda tutto il mondo. Ma per tradurre que­sta solidarietà in azione effettiva c’è bisogno di idee nuove, che migliori­no le condizioni di vita in aree im­portanti quali la produzione del ci­bo, la pulizia dell’acqua, la creazio­ne di posti di lavoro, la formazione, l’aiuto alle famiglie, specialmente dei migranti, e i servizi sanitari di base. Quando è in gioco la vita umana, il tempo si fa sempre breve: in verità, il mondo è stato testimone delle va­ste risorse che i governi sono in gra­do di raccogliere per salvare istitu­zioni finanziarie ritenute «troppo grandi per fallire». Certamente lo svi­luppo integrale dei popoli della ter­ra non è meno importante: è un’im­presa degna dell’attenzione del mondo, veramente «troppo grande per fallire».
Questo sguardo generale alla cooperazione recente tra Regno Unito e Santa Sede mostra bene quanto pro­gresso sia stato fatto negli anni tra­scorsi dallo stabilimento di relazio­ni diplomatiche bilaterali, in favore della promozione nel mondo dei molti valori di fondo che condivi­diamo. Spero e prego che questa re­lazione continuerà a portare frutto e che si rifletterà in una crescente ac­cettazione della necessità di dialogo e rispetto, a tutti i livelli della società, tra il mondo della ragione ed il mon­do della fede. Sono certo che anche in questo Paese vi sono molti campi in cui la Chiesa e le pubbliche auto­rità possono lavorare insieme per il bene dei cittadini, in armonia con la storica pratica di questo Parlamen­to di invocare la guida dello Spirito su quanti cercano di migliorare le condizioni di vita di tutto il genere u­mano.
Affinché questa cooperazione sia possibile, le istituzioni religiose, comprese quelle legate alla Chiesa cattolica, devono essere libere di a­gire in accordo con i propri principi e le proprie specifiche convinzioni, basate sulla fede e sull’insegnamen­to ufficiale della Chiesa. In questo modo potranno essere garantiti quei diritti fondamentali, quali la libertà religiosa, la libertà di coscienza e la libertà di associazione. Gli angeli che ci guardano dalla magnifica volta di questa antica Sala ci ricordano la lunga tradizione da cui il Parlamen­to britannico si è sviluppato. Essi ci ricordano che Dio vigila costante­mente su di noi, per guidarci e pro­teggerci. Ed essi ci chiamano a rico­noscere il contributo vitale che il cre­do religioso ha reso e può continua­re a rendere alla vita della nazione.
Signor presidente, la ringrazio ancora per questa opportunità di rivolgermi brevemente a questo distinto uditorio. Mi permet­ta di assicurare a lei e al signor pre­sidente della Camera dei Lord i miei auguri e la mia costante preghiera per voi e per il fruttuoso lavoro di en­trambe le Camere di questo antico Parlamento. Grazie, e Dio vi benedi­ca tutti!

il Fatto 18.9.10
Razzismo
I Rom: a Ovest li cacciano, a Est li isolano costruendo muri
di Carlo Biscotto

Michalovce, 109.000 abitanti, è una città della regione di Kosice nella Slovacchia orientale. È una regione povera, per lo più abitata da contadini e i Rom da queste parti sono sempre stati numerosi e generalmente ben integrati. Ma da qualche anno una iniziale ostilità si è lentamente, ma inesorabilmente, trasformata in xenofobia e poi in segregazione. Già due anni fa a Presov, terza città della Slovacchia, era stato eretto un muro intorno ad un campo che ospitava 2.000 Rom. L’anno passato il muro è stato costruito nella cittadine di Ostrovany e Trebisov e quest’anno è stata la volta del quartiere Rom di Michalovce, trasformato in un vero e proprio ghetto. Nel campo nomadi vivono 2.800 persone, per lo più donne e bambini. Il muro separa un quartiere popolare slovacco dalle misere abitazioni dei Rom.
MOLTI ROM vivono vendendo rottami di ferro raccolti in giro per la città. Irene, 50 anni circa, avanza faticosamente spingendo il suo carretto carico di ferraglie. “Ci odiano”, dice. “L’altro giorno mi hanno sparato con un fucile ad aria compressa. È stato un uomo appostato sul muro come un cecchino”. Mentre parla concitatamente si avvicina Milena, una slovacca sulla quarantina che porta a spasso un barboncino nero.
“Hanno fatto bene a costruire il muro”, afferma decisa. “Gli zingari defecavano negli androni dei nostri condomini, ci spaventavano, ci derubavano, la sera non potevamo uscire di casa. Rovistavano nei cassonetti dei rifiuti e spargevano la spazzatura dappertutto”. Mentre parla il barboncino alza la zampa vicino al muro e fa i suoi bisogni. La padrona non batte ciglio.
Si è formato un capannello di persone e tutti vogliono dire la loro. Eva, una Rom con i capelli biondi tinti e una improbabile tuta rosa, sovrasta le voci degli altri: “Lanciano bottiglie vuote contro i nostri figli a rischio di ferirli. Ci insultano continuamente. Il muro è uno scandalo. Per andare dal medico devo fare qualche chilometro a piedi. Prima ci mettevo cinque minuti; ora più di un’ora”. Milena, che ora appare più ragionevole ammette: “È vero. Anche noi che stiamo dall’altra parte del muro ci sentiamo come in prigione, ma non ce la facevamo piu’”.
Peter Horvath, primo Rom a diventare pope greco-ortodosso, cerca di portare un po’ d’ordine nella discussione che si sta facendo accesa: “a guardare le cose con gli occhi di un occidentale sembra proprio che il muro divida i buoni dai cattivi. Ma non è così. Alla televisione fanno vedere solamente scene di miseria e di degrado. In realtà in Slovacchia 350.000 Rom sono perfettamente integrati e vivono come tutti gli altri cittadini. Tra i Rom ci sono intellettuali, professori universitari, avvocati. Ma di questo nessuno parla.
SOLO 90.000 Rom vivono nei campi”. La parola tzigano indicava in origine gli zingari della zona danubiana. E ancora oggi in Ungheria è così che chiamano i Rom. Miskolc, Ungheria settentrionale, con i suoi 175.000 abitanti è la terza città del paese e ospita circa 15.000 tzigani tra i quali il tasso di disoccupazione è elevatissimo (70-80%). L’attuale sindaco, Sandor Kali, socialdemocratico, ha tentato di resistere alle forti pressioni xenofobe, ma il vento del nazionalismo sta travolgendo anche lui in vista delle prossime amministrative. Sono nate così – con il pretesto di ritardi nell’apprendimento – classi di soli bambini Rom in tutte le scuole di Miskolc. È una vera e propria apartheid educativa che pone le basi di un futuro di segregazione e taglia l’erba sotto i piedi di qualunque speranza di integrazione. I bambini praticamente non parlano ungherese e smettono di frequentare la scuola in giovane età. Morton Segedi, candidato sindaco di Miskolc per il partito xenofobo e nazionalista Jobbik (Movimento per una Ungheria migliore), diventato alle scorse politiche il terzo partito del Paese, parla chiaro ed è quasi certo di vincere le prossime amministrative con un programma che prevede la costruzione di campi “recintati”, sorvegliati dalla polizia e sottoposti al coprifuoco. D’altro canto il segretario del suo partito, Gabor Vona, lo ha detto alle scorse politiche con agghiacciante chiarezza: “la segregazione è il solo modo per educare questa gente!”.

venerdì 17 settembre 2010

Corriere della Sera 17.9.10
Due linee diverse e forse insanabili
di Massimo Franco e Alessandro Trocino

Fra Pier Luigi Bersani e Walter Veltroni si è aperta una dinamica simile a quella tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini. Con un processo imitativo involontario, il maggior partito d’opposizione sta seguendo e copiando lo smottamento del Pdl. Lo smarcamento deciso ieri dall’ex segretario segna l’inizio di un fuoco di sbarramento contro la candidatura di Bersani a Palazzo Chigi: un epilogo che, senza l’iniziativa della minoranza del Pd, sarebbe stato scontato o per convinzione o per forza di inerzia. Non è escluso che alla fine il centrosinistra si orienti comunque su questo leader, che ha ancora la maggioranza del partito. Ma certamente la scelta passerà attraverso momenti di tensione. Perfino il linguaggio polemico ricorda la rissa Berlusconi-Fini. Gli uomini di Bersani accusano Veltroni di avere fatto un autogol proprio mentre la maggioranza di governo è in grande affanno. I veltroniani replicano che con il loro movimento vogliono aiutare il partito, non romperlo. Il segretario si irrita e dice che il Pd non è il Pdl. E dunque Veltroni non può fare «come Fini» e dire «sto dentro e sto fuori». Sembra di ascoltare gli scudieri del Cavaliere che parlano del presidente della Camera. Anche se non è prevedibile una cacciata della minoranza come quella decisa contro i ribelli finiani: il Pd è effettivamente diverso. Ma il rischio di un incattivimento dei rapporti già è scritto.
Per paradosso, però, quanto sta accadendo nel centrosinistra non deve sorprendere: è la conseguenza speculare e prevedibile della crisi del centrodestra. Nel momento in cui la leadership di Silvio Berlusconi è rimessa in discussione, traballa l’intero sistema che il premier ha di fatto plasmato in questi anni; e dunque anche l’opposizione che sull’antiberlusconismo ha costruito le sue vittorie e ultimamente le sue sconfitte. L’offensiva veltroniana è resa possibile proprio perché tutti cercano una posizione di partenza privilegiata in vista di un eventuale voto. Sui motivi che hanno spinto l’ex segretario a riprendersi la minoranza del Pd, spostando la maggioranza degli ex popolari dalla sua parte, circolano molte ipotesi. Ma le più convincenti sono quelle che raffigurano un Veltroni impaziente di tornare in gioco e rompere lo schema non solo bersaniano, ma di Massimo D’Alema: il tentativo di compattare il Pd su un’identità socialdemocratica, come se fosse un Pci postcomunista; tentare di agganciare l’Udc e comunque quanti si oppongono al bipolarismo e vogliono una riforma elettorale che ne riduca la portata; e dopo eventuali elezioni anticipate far pesare il ruolo del maggior partito d’opposizione in uno schema diverso, ed in un Parlamento che ritorna il cuore delle alleanze. Non a caso Veltroni vuole un «Papa esterno» che si candidi come Romano Prodi nel 1996 e nel 2006. E Bersani, invece, si percepisce come «nuovo Prodi».
Sono due logiche diverse ed in contraddizione insanabile: aggravate da una buona dose di risentimento veltroniano per il modo in cui è stato defenestrato dalla leadership dei democratici; e dalla determinazione di Bersani a far valere le regole della maggioranza del Pd, e ad accreditare Prodi come «il Papa più interno» che l’Ulivo abbia avuto. Ma il segretario sa bene che da ieri la minoranza ha messo un macigno sulla sua marcia verso la candidatura a presidente del Consiglio; e che il prossimo terreno di scontro saranno le mitiche primarie chiamate a benedire la leadership da opporre a Berlusconi se si va a votare.
Ma Bersani è anche consapevole che un’eventuale caduta di questo governo cambierebbe tutto. E spera in Umberto Bossi, in Gianfranco Fini: in chiunque tolga il Pd ed il centrosinistra dalla subalternità nella quale si è cacciato negli ultimi anni.


Corriere della Sera 17.9.10
Scatta l’assedio agli ex popolari L’arma delle liste per trattenerli
di Maria Teresa Meli

Marini li convoca, D’Antoni forse «premiato». E torna la tentazione dei gruppi autonomi

ROMA — Non ci voleva quasi credere, Walter Veltroni, quando ha letto le parole di Pier Luigi Bersani sulle agenzie: «Perché tutto questo fastidio per il pluralismo? È una sindrome che scatta quando si è in difficoltà. E che avrei dovuto dire io che ho ricevuto una quantità incredibile di contumelie? Non ho capito ma mi sono adeguato».
Già, l’ex segretario è basito perché in questa ennesima polemica in casa Pd ci si è dimenticati che i documenti che l’hanno scatenata sono due. E il primo, in ordine di tempo, non è quello di Veltroni, Fioroni e Gentiloni. È un altro il trio che ha dato il via alle danze: quello composto dal bersaniano di ferro Stefano Di Traglia e dai dalemiani Matteo Orfini e Roberto Gualtieri. I tre hanno promosso il documento dei cosiddetti «giovani turchi», i quarantenni del Pd di rito ortodosso. Nato per rispondere a Matteo Renzi, per strada si è trasformato in un attacco a Veltroni. È stata questa offensiva nei suoi confronti che ha spinto l’ex leader a rompere gli ultimi indugi.
E ora che lo accusano di voler candidare alle primarie un «papa straniero» e che c’è chi crede di averlo individuato nel presidente della Confindustria siciliana Ivan Lo Bello, a Veltroni non resta che reggere botta. A lui, e agli altri. Soprattutto a Beppe Fioroni, perché è sugli ex popolari che si scatena la vera offensiva. Se la maggior parte di loro andasse con l’ex leader e con il responsabile del Welfare sarebbe un guaio: la dimostrazione che, alla fine della festa, il partito di Bersani non è il Pd, ma, piuttosto, qualcosa di più simile ai Ds, con una spruzzatina di cattolici. E allora ecco che partono gli sms: Franco Marini e Pierluigi Castagnetti convocano una riunione di ex popolari, Dario Franceschini li contatta uno a uno. Fioroni non sa se ridere o piangere: «Quando mai è stato convocato un incontro simile quando Bindi e Letta si sono schierati contro Franceschini? Allora l’unità degli ex ppi evidentemente non valeva, ora stranamente sì».
Le pressioni sono fortissime. Si comincia con l’accusa di tradimento, a cui replica Enrico Gasbarra: «Noi siamo coerenti e stiamo sempre dalla stessa parte, al contrario di qualcuno che per opportunismo si è spostato». Il riferimento è a Franceschini. Si prosegue con il far ventilare a Fioroni l’ipotesi che Bersani, per premiare gli ex ppi buoni che sono passati con lui, possa nominare come responsabile dell’organizzazione Sergio D’Antoni. Mettere in un posto chiave l’ex sindacalista della Cisl significa cercare di svuotare il pacchetto di consensi cattolici di Fioroni. Si finisce con la più forte arma di pressione: le candidature. Visto che si andrà alle elezioni con l’attuale legge elettorale sarà Bersani a decidere chi mettere in lista e chi invece bocciare. Questo discorso viene fatto in modo nemmeno tanto velato a molti ex ppi. Nell’offensiva che si è scatenata è lo strumento più efficace. E infatti le firme al documento che in teoria dovevano essere 80, potrebbero essere di meno. «Si vuole spaventare la gente — dice Fioroni —, ma che Pd è un Pd che mette paura, invece di essere un partito aperto dove si discute normalmente?».
Già, che Pd è? Se lo chiede più di un esponente vicino all’ex segretario. E il desiderio di costituire dei gruppi parlamentari autonomi aumenta. Anche perché adesso le parti si sono rovesciate. Prima erano i veltroniani a volersene andare, ora sembra quasi che siano gli altri a creare le condizioni perché se ne vadano. «Eppure io non ho rotto le scatole a nessuno», si lamenta l’ex segretario. Non la pensa così Bersani, che voleva correre da premier, ma che adesso quasi certamente non potrà più farlo. E ormai nel partito è lotta senza quartiere contro i veltroniani e gli ex popolari di Fioroni.

Corriere della Sera 17.9.10
Da rifare la procedura per Sgarbi sovrintendente
di Pierluigi Panza

La Corte dei Conti ha eccepito sull’iter seguito dal ministero per i Beni culturali per portare alla nomina di Vittorio Sgarbi a sovrintendente del Polo museale di Venezia. La Corte non ha contestato i titoli di Sgarbi a ricoprire il ruolo, bensì la procedura: per la Corte si sarebbe dovuto prima fare un concorso di pubblica evidenza per i candidati interessati al ruolo. Specie i candidati «interni». Poi ricorrere all’esterno con i requisiti richiesti. Dunque, dopo tre mesi dal suo insediamento in Laguna, tutto è da rifare. Almeno formalmente. Perché, dal canto suo, il ministro ha già telefonato ieri al critico ferrarese ribadendogli la fiducia e compiacendosi del fatto che la Corte non abbia discusso il suo merito e i suoi titoli per ricoprire il ruolo. Il ministero fa saper di aver preso atto e deciso di voler procedere rapidamente alla regolarizzazione della nomina di Sgarbi, seguendo le indicazioni della Corte dei Conti sul piano procedurale e della legittimità formale. Ma per «regolarizzare» bisognerebbe passare dalla valutazioni anche degli «interni» interessati a ricoprire il ruolo, e per fare tutto questo ci vorranno, in teoria, un concorso e almeno 20-30 giorni di iter. Durante i quali la sovrintendenza al polo museale entrerà in una sorta di «vacanza». Sgarbi, nonostante le minacce anonime ricevute, appare contento. «Io ne esco a testa alta», afferma, «perché la Corte ha totalmente confermato la mia legittimità nell’incarico, discutendo soltanto quella della procedura adottata dal Mibac per la nomina. Adesso spetta al ministero mettere a posto le carte e la telefonata di Bondi era proprio per confermarmi che lo faranno. Restano da chiarire — ha concluso — i tre mesi di attività che ho svolto senza ricevere lo stipendio». Secondo Sgarbi, il ministero potrebbe scrivere alla Corte dichiarando di voler procedere alla nomina di un esterno e di averlo già individuato, senza stare a procedere a concorso. Ma su questo valuteranno gli avvocati del ministero. Nei tre mesi d’azione alla sovrintendenza veneziana, Sgarbi rivendica l’apertura di Palazzo Grimani e l’incremento delle visite alla Ca’ d’Oro.

giovedì 16 settembre 2010

l’Unità 16.9.10
La scuola e le due Italie
di Marco Rossi-Doria

La posta in gioco per l’istruzione in Italia è altissima. Per capire la partita in corso, bisogna partire dal fatto che accade sempre che due modi di considerare la scuola si confrontano. Da un lato c’è la scena educativa concreta, la vita vera a scuola. Dall’altro ci sono le cornici sistemiche: rapporto tra bisogni e organici, spesa, organizzazione generale. Sono due mondi, con due linguaggi che in ogni sistema d’istruzione vanno messi in una relazione virtuosa. E’ proprio questa relazione “il governo della scuola”. E poiché ogni contesto locale tende a auto-centrarsi, è bene che vi sia il contraltare di una visione generale. Per esempio i temi della verifica dei risultati delle scuole, l’esigenza di una semplificazione degli indirizzi, l’opportunità di decentrare le decisioni sono cose che chiamano a fare i conti con vincoli, doveri di verifica, assunzione di responsabilità diretta. Ma l’anomalia politica che ha luogo in Italia è che da anni la destra fa una propaganda vergognosa e ripete che le forze di centro-sinistra non hanno accolto questa prospettiva. E’ una menzogna. Questi temi sono, anzi, stati posti dal centro-sinistra: stabilimento del fabbisogno generale e proposta di allocazione delle risorse con risparmi veri ma anche sostenibili in termini di tenuta educativa delle scuole (libro bianco), piano di rientro dei precari al fine di riprendere i concorsi pubblici, piano per la sicurezza delle scuole, avvio del sistema di valutazione. La verità è un’altra. La destra non mette in relazione la vita vera delle scuole e il sistema, ha una visione dirigista del sistema e, soprattutto, lo fonda sul risparmio come unico criterio.
Perciò la destra va battuta con la ripresa della priorità educativa rispetto a quella fondata sul budget. E poi ci si misura sul come reperire i fondi. Questo approccio, nella storia italiana, ha una forte tradizione. Ne hanno fatto parte, in modi diversi, la destra storica, Giolitti, per certi versi lo stesso fascismo, i governi centristi del dopoguerra e, con un salto in avanti, il primo centro-sinistra che, con la scuola media unica, applicò la Costituzione e aprì la via al successivo difficile cammino, ancora in corso, dell’istruzione per tutti e ciascuno. Il governo Prodi, con l’elevamento dell’obbligo, stava in questo solco. In questa tradizione ci sono stati anche errori e limiti. Da correggere. Ma è questo il solco delle politiche pubbliche unitarie del Paese. L’attuale governo rappresenta una grave frattura in questo indirizzo di responsabilità verso le nuove generazioni di tutte le classi sociali. Infatti, la priorità assoluta data ai tagli rivela qualcos’altro. Rivela un’idea di scuola in cui chi è protetto perché ha a casa persone istruite può permettersi poco tempo-scuola e gli altri faranno quel che possono con quel tempo. Così, la scelta di indirizzo fondata solo su criteri di bilancio sancisce il principio di ineguaglianza: dare poche cose uguali a chi uguale non è. E smentisce l’articolo 3 della Costituzione che chiama la Repubblica a rimuovere le cause dell’ineguaglianza. Nessuna riparazione per chi sta indietro. Inoltre il criterio del risparmio fa sì che l’educare non è più una funzione della scuola.
Che è limitata all’istruire e dunque i grandi temi della comunità a scuola, della relazione scuola-famiglia, della gestione delle difficoltà dell’adolescenza sono “esternalizzati”, non finanziabili se non con risorse altre. Chi le trova bene, chi no è lasciato solo. Si tratta di una politica che consolida la divisione, nel Paese, tra popolazione protetta e poveri e tra Nord e Sud. E che sta portando alla chiusura delle scuole di montagna, all’accorpamento nelle mani di pochi dirigenti di molte scuole, con relativo annullamento delle funzioni di coordinamento pedagogico a favore di quelle meramente burocratiche, all’affollamento ingestibile delle classi, al decadimento pericoloso del patrimonio edilizio. E’ l’approccio contrario a mettere insieme scuole e sistema.
L’alternativa a questa politica sulla scuola pone, invece, l’intelaiatura di sistema al servizio di chi fa scuola, di chi deve mantenere le promesse della scuola perché risponde ogni mattina alle persone e ai compiti educativi: trovare risposte, caso per caso, classe per classe, alla crisi dei modelli educativi e alla caduta generale delle regole, affrontare la grande fragilità di un’ adolescenza sottoposta ai richiami di consumo e di comportamento dominanti e promuoverne, al contempo, le immense vitalità, integrare davvero i bambini e ragazzi stranieri, fare i conti con il fatto che i modi di apprendere nella rete e nei media vanno ricondotti a un senso, contrastare gli effetti, spesso devastanti, della povertà e dell’illegalità in intere aree del Paese dove la scuola è il solo presidio democratico. Dunque: l’agenda sulla scuola ce la fornisce la vita vera e complessa che già avviene a scuola. Altro che l’aritmetica delle ore cattedra per risparmiare! Ma la situazione si è così aggravata che, per rimettere in piedi una politica per la scuola, un governo alternativo dovrà affrontare, insieme, le questioni di cosa e come si impara e le due prime emergenze, che sono: fornire le condizioni necessarie per una scuola del ventunesimo secolo e dare di più a chi parte con meno. Dunque, mettere in sicurezza le scuole oggi non a norma e degradate e fornirle dei mezzi per garantire manutenzione ordinaria, mense e luoghi comunitari aperti tutto il giorno, palestre, laboratori scientifici, multimedialità costantemente aggiornata. C’è da fare – federalisticamente! – un grande patto stato-regioni su questo. E poi: dare subito di più a quel 20 percento di bambini poveri, ovunque e soprattutto nel Sud. Più asili nido nelle aree metropolitane del Mezzogiorno. Fornire le scuole d’infanzia di un monte ore ulteriore per la mediazione con le famiglie povere e soprattutto con le mamme delle zone a forte rischio che chiedono sostegno a una genitorialità difficile. Dare il tempo lungo e un organico funzionale a tutto la scuola del nuovo obbligo, fino ai sedici anni, ma a partire dalle aree più difficili, sul modello delle zone di educazione prioritaria francese, assicurando l’effettiva alfabetizzazione irrinunciabile – in primis solide basi precoci in italiano e matematica che non possiamo garantire, in quei contesti, con il tempo corto e l’organico ridotto. Fornire scuole di seconda occasione per chi è già “disperso” a dodici o tredici anni. Il governo dell’alternativa è queste cose qui, da verificare con rigore.

Repubblica 16.9.10
Scuola, la grande protesta
Verso un autunno di fuoco prof e presidi, migliaia in assemblea
Rossi agli studenti: "La crisi impedisce di volare"
di Gaia Rau

Migliaia di lavoratori della scuola hanno invaso il Saschall, ieri mattina, per l´assemblea provinciale indetta dai sindacati. Insegnanti, presidi, custodi, personale amministrativo: tutti in prima linea contro i tagli all´istruzione per un appuntamento che si annuncia come il primo di un autunno bollente. Con loro anche gli assessori Di Fede e Di Giorgi, mentre il presidente toscano Rossi ha inviato un messaggio agli studenti: «La scuola deve ritrovare le ali»
Le prime stime parlano di 3 mila persone. Ma per i sindacati sono stati molti di più - sette, ottomila, dicono dalla Cgil - i lavoratori della scuola che ieri mattina hanno invaso il Saschall per l´assemblea provinciale indetta da Cgil, Cisl, Gilda e Cobas. Quindicimila quelli che hanno partecipato a riunioni analoghe in tutta la Toscana. Insegnanti di ruolo e precari dalle materne alle superiori, presidi, bidelli e personale amministrativo in arrivo da ogni parte del territorio a bordo dei pullman organizzati dai sindacati per un appuntamento che si annuncia come il primo di un autunno bollente. Insieme a loro anche gli assessori all´istruzione della Provincia Giovanni Di Fede («siamo al fianco degli insegnanti, e pensiamo che da questo governo non ci possiamo attendere niente di buono», ha detto dal palco) e del Comune Rosa Maria Di Giorgi, la quale si è rivolta agli insegnanti: «La vostra lotta è assolutamente la nostra lotta».
«Un´esperienza fantastica, evidentemente abbiamo colto il bisogno delle persone che lavorano nella scuola di veder rappresentato il loro disagio - commenta a caldo Alessandro Rapezzi della Cgil - Adesso dobbiamo fare i conti con una responsabilità spaventosa, quella di dare seguito a tante aspettative». Mentre a chi ha criticato la scelta di un´assemblea proprio il primo giorno di scuola risponde Antonella Velani, della Cisl: «In pochi l´hanno giudicata inopportuna, a giudicare dai numeri che ci sono qui». In effetti l´affluenza è tale che, a metà mattina, nel teatro non c´è più un posto libero: c´è chi siede per terra, in tanti sono costretti ad ascoltare gli interventi dai giardini, attraverso gli altoparlanti.
Tanti i richiami alla carta costituzionale. A cominciare dallo striscione «Rispettare la Costituzione, garantire il diritto allo studio», appeso sotto al palco, insieme a un altro con una frase di Derek Bock: «Se pensate che l´istruzione sia costosa, provate l´ignoranza». Ma l´articolo 34 sul diritto all´istruzione è stato citato anche in tanti interventi che si sono alternati nell´arco della mattinata. «La nostra è un´assemblea per la legalità», dice dal palco un´insegnante di Signa, travolta dagli applausi. «Gelmini e Tremonti vogliono una scuola della miseria, ma noi abbiamo la forza per reagire», le fa eco Alidina Marchettini dei Cobas. Al centro delle critiche i provvedimenti del ministro all´istruzione: in tanti ne chiedono le dimissioni, altri invocano «l´abrogazione di tutte le controriforme che hanno fatto tagli alla scuola». Una delle richieste centrali è il ritorno a una protesta unitaria: «Docenti e non docenti, ma anche studenti, universitari e famiglie, come nel 2008». A tutti i presenti, infine, i sindacati hanno distribuito un «Vademecum della legalità» con le norme relative, ad esempio, alla sicurezza negli edifici, al limite di affollamento nelle aule, agli orari di lavoro. Fra le prossime iniziative un´assemblea dei precari, il 5 ottobre e un´altra, il 21, con le rsu delle scuole di tutta la provincia. Mentre i Cobas propongono uno sciopero per il 15.
Intanto il presidente della Regione Enrico Rossi ha inviato un messaggio agli studenti toscani: «La scuola, che dovrebbe volare e aiutare a volare, è costretta a fare i conti con una crisi che ne frena il volo - ha scritto - Ma le ali vanno ritrovate, o ricostruite, proprio nei giorni di depressione economica: e uno fra i modi migliori per ritrovarle è proprio puntare sulla scuola perché è anche grazie alla scuola che si dà concretezza ai principi della nostra Costituzione».

l’Unità 16.9.10
Dall’inizio 2010 le vittime sono 23, che si aggiungono alle 19 registrate l’anno scorso
Ancora suicidi in France Telecom Cinque nelle ultime due settimane
di Luca Sebastiani

Le vittime non si conoscevano e lavoravano in posti differenti, indistinguibili tra i centomila dipendenti complessivi del gruppo. La riforma che innalza l’età pensionabile è vista come un sopruso tra i lavoratori.

I cambi al vertice nel colosso delle tlc e i piani antistress non hanno interrotto la catena

Ancora suicidi, e ancora France Telecom. Cinque solo nelle ultime due settimane. Nonostante lo sdegno dei francesi, i cambi al vertice dell’azienda e l’interessamento del governo, un anno di piani per migliorare le condizioni di lavoro nel colosso della telefonia non sono stati in grado di arrestare il virus strisciante dello stress che dall’inizio dell’anno ha già fatto 23 vittime. Più delle 19 dell’anno prima, quello che ha acceso i riflettori su France Telecom. Terribile bilancio. Evidentemente hanno ragione i sindacati, che denunciano una situazione stagnante, con una direzione che non ha fatto abbastanza. «Nessuno è vicino ai lavoratori più fragili», dicono.
Delle ultime cinque vittime si sa poco. I familiari, l’azienda, ma anche i sindacati hanno voluto mantenere il riserbo su nomi e biografie. Di loro si sa solo che non si conoscevano e lavoravano in posti differenti: uno nella regione di Parigi, due nei pressi di Rennes, uno a Lille e un altro a Tolosa. Ai cinque angoli della Francia, lavoratori indistinguibili tra i centomila di France Telecom. Lavoratori più fragili degli altri però, che i piani antistress non sono riusciti a salvare. Anche loro deboli come Michel Deparis, il dipendente che lo scorso anno prima di levarsi la vita aveva scritto una lettera in cui accusava l’azienda dei nuovi capitani, che arrivati alle redini del colosso delle telecomunicazioni hanno piegato l’azienda ad un’esclusiva logica finanziaria.
Da ormai un decennio il mercato delle tlc è tra i più concorrenziali e gli azionisti (tra cui il principale è lo Stato col 27% del capitale) reclamano sempre più dividendi: a loro bisogna rispondere e dunque bisogna fare profitti riducendo la massa salariale. In pochi anni la realtà degli impiegati di FT è diventata un inferno. Obiettivi di produttività irraggiungibili, valutazioni continue e richiami, concorrenza sfrenata tra colleghi e individualizzazione.
PRESSIONE
I manager fanno pressione e gestiscono i servizi col solo fine di ridurne gli effettivi. Bersaglio privilegiato, il grosso del personale, proprio quei cinquantenni entrati ai tempi del monopolio pubblico. Nel 2005 l’ex amministratore delegato Didier Lombard fissa in 22mila la quota di posti da tagliare. Inizia una girandola di riorganizzazioni e razionalizzazioni senza fine: decine di siti vengono chiusi in Francia, 15mila lavoratori sono obbligati alla mobilità e spostati verso i settori prioritari (Adsl, cellulari, funzioni commerciali). Le missioni diventano sempre più brevi e l’ex impiegato abituato alla sicurezza del posto viene sballottato in una flessibilità estrema che sembra fatta apposta per spingerlo ad andarsene. Molti infatti decidono di farlo, e oggi i dirigenti di FT si possono vantare che per ridurre di 16.800 unità l’organigramma del colosso non hanno fatto ricorso a piani cruenti. Chi ha voluto è stato riaccompagnato alla porta con appositi piani di sostegno. Sul tappeto però sono rimasti i lavoratori intrappolati tra il rifiuto ad andarsene e la ferocia dei manager.
Lo scorso anno di questi tempi la stampa aveva acceso i riflettori sul problema e allo sdegno dei francesi era seguita la sostituzione dei vertici. Lombard, ad che ha sempre sostenuto che le cause dei suicidi vanno trovate fuori dell’azienda, aveva dovuto lasciare il posto a Stephane Richard. Quest’ultimo si era dato da fare e a luglio si era spinto fino a riconoscere il suicidio di Michel Deparis come incidente di lavoro. Ma il morale a FT è sempre basso, dicono i sindacati. Nonostante un dividendo di 11 miliardi le prospettive lavorative non sono rosee; Lombard è ancora presidente, e la riforma sarkozista che innalza da 60 a 62 l’età pensionabile è vista come un sopruso dai lavoratori diFT,il 50%deiquali hapiùdi 50 anni e aspettava con ansia il momento di andarsene.

Europa 16.9.10
Se il Nuovo Ulivo esclude i Radicali
di Pier Paolo Segneri

Il più grande pregio per un politico è saper ascoltare. Avere la forza, la pazienza, l’intelligenza di ascoltare gli altri e anche ciò che accade tutto intorno. Soprattutto nell’apparente caos della politica italiana, oggi, in mezzo a tanto rumore e inutili schiamazzi, chi sa ascoltare è un po’ un piccolo principe. Chi più riesce a sentire quel che accade oggi, più riesce a vedere ciò che accadrà domani o sta per succedere tra pochi minuti. Infatti, l’attenzione verso l’individuo e la collettività, verso la persona e il rispetto delle persone, nei confronti degli altri e verso l’insieme, è spesso un modo per partecipare attivamente al dialogo, al contraddittorio, all’azione. Agire senza agire. Mentre tutti si agitano, chi sa ascoltare è poi l’unico a muoversi davvero, a cogliere la memoria che vive nel presente e si muove verso il futuro. Perché ascoltare è un modo per vedere oltre.
Insomma, bisogna saper ascoltare il vento che tira, il suono e la voce della fase politica che stiamo vivendo. Bisogna saper ascoltare, se si vuole cogliere la trasformazione già avvenuta e quella in corso. Mentre sono in molti, ancora, anche nel Pd, a non aver compreso che la Terza Repubblica è già iniziata. Si parla di Nuovo Ulivo e giustamente si dimenticano i Radicali di Emma Bonino che hanno sempre avuto, negli ultimi quindici anni, un progetto politico differente. Anzi, hanno sempre proposto un progetto in dichiarata antitesi con quello dell’Ulivo.
Si sta lavorando, quindi, al Nuovo Ulivo che non prevede l’alleanza con i Radicali e con la lista del più antico partito italiano, quello di Marco Pannella. È questo il grande progetto per il futuro? Un progetto anti-liberale? Se questi sono i presupposti, c’è da essere molto preoccupati. L’Ulivo è un progetto del passato, appartiene alla Seconda Repubblica. Se l’Ulivo fosse un progetto politico “nuovo”, che bisogno vi sarebbe di aggettivarlo come “nuovo”? Un’idea è nuova quando non ha bisogno di definirsi come tale. Bisogna saper ascoltare, se si vuole prevedere il futuro. Bisogna saper ascoltare, se si vuole governare il cambiamento.
Bisogna saper ascoltare chi non ha voce, chi non ha parola, chi non ha potere, chi vive costretto nel silenzio, chi ha scelto di stare zitto, chi viene silenziato, chi non ha soldi, chi non ha spazio, chi ha paura, chi è emarginato, chi è rimasto ammutolito, chi trema, chi viene imbavagliato. Bisogna saper ascoltare, se si vogliono promuovere soluzioni, idee, proposte. Bisogna far circolare orecchie capaci di sentire l’oltre e l’alterità che i politici ignorano o disdegnano, invece che continuare a rompere i timpani con grida ormai spente. Forse chiamiamo caos ciò che non sappiamo comprendere del nostro tempo politico e che non riusciamo ad ascoltare, quindi a capire. La Terza Repubblica è già qui, ma i dirigenti del Pd non lo hanno ancora capito. E il Cavaliere nemmeno. Naviga a vista.


Repubblica 16.9.10
L’internazionale della paura
di Adriano Prosperi

Uno spettro si aggira per l´Europa: un altro. Non quello rosso del comunismo che nel 1848 allarmò la Santa Alleanza. Oggi lo spettro veste gli stracci colorati e si muove sui carrozzoni di un popolo di nomadi. È questo lo spettro che ha spinto Sarkozy a rispondere sgarbatamente alla commissaria europea Viviane Reding e che gli ha guadagnato l´immediato appoggio di Berlusconi.
Oggi nasce in Europa una nuova internazionale: quella della paura. Ne tengano conto gli storici del futuro. Abbiamo avuto finora diverse Europe, quella cristiana, quella degli umanisti, quella illuministica. È stato battuto il tentativo di dar vita a un´Europa nazifascista nel segno della romanità antica e della svastica che nel 1934 portò a Roma per annunciarne la creazione l´ideologo del razzismo nazista Alfred Rosenberg. Ci fu, invece di quella, l´Europa rinata dalle rovine grazie all´intelligenza e al coraggio di uomini come Federico Chabod che concluse le sue lucidissime lezioni sulla storia dell´idea d´Europa lasciando Milano per unirsi alla Resistenza in Val d´Aosta.
Ma quella che oggi ha preso forma nelle dichiarazioni di Sarkozy e per la quale il nostro presidente del Consiglio si è affrettato a dichiarare che esiste «una convergenza italo-francese» è un´Europa dominata dalla paura, dalla volontà di chiudere le porte agli immigrati e di cacciare via i rom.
Notiamo di passaggio la differenza di stile tra le due dichiarazioni, quella di Sarkozy e quella di Berlusconi. Quella di Sarkozy è una rispostaccia pubblica, da litigio di condominio: quella di Berlusconi è un avvertimento di metodo: di queste cose si deve parlare privatamente. Ma ambedue partono da un unico presupposto: quello che i rom siano spazzatura. Anzi, qualcosa di meno. Sul mercato internazionale della spazzatura il prezzo dei rimpatri francesi dei rom - 300 euro un adulto, 100 un bambino - è decisamente a buon prezzo se confrontato con quello dei residui speciali che attraversano l´Europa su carri blindati per andare a nascondersi in qualche miniera abbandonata o a farsi bruciare negli impianti tedeschi.
Accomuna le due dichiarazioni lo stesso disprezzo per gli esseri umani in gioco. Ci si chiede se siamo giunti davvero al punto di dover riconoscere che l´Europa ha dimenticato l´epoca in cui i trasferimenti forzati di popolazione e l´eliminazione fisica degli indesiderati presero avvio proprio dai rom. Sbaglieremmo a trascurare le ragioni di questa rapida convergenza dei due presidenti nella costruzione di un´Europa della paura.
Il ministro Maroni ci aveva già informato all´inizio dell´estate che stava preparando la sua campagna d´autunno col rilancio del tema degli immigrati. E non è certo da oggi che la politica della paura costituisce la risorsa alla quale si appella una dirigenza politica senza idee e senza risultati da presentare al paese. È una ricetta a suo modo infallibile. Ma la censura della commissaria europea Viviane Reding ha fatto suonare l´allarme in casa leghista e ha spinto Berlusconi a coprirsi dietro le spalle di Sarkozy per la semplice ragione che la Francia è sempre la Francia.
Sarà bene che l´opinione pubblica democratica si svegli: non si dimentichi che si sta discutendo della sorte di esseri umani mercificati e venduti a un tanto il chilo. Che cosa contino sul mercato di una coalizione che si presenta a mani vuote davanti al paese in cerca di rilanci elettorali lo abbiamo capito dal commento del governo all´episodio della sparatoria partita da navi vedetta italiane in mani libiche: pensavano forse che si trattasse di immigrati clandestini? Perché evidentemente in questo caso si sarebbe trattato di una causa giusta. Che i libici, con l´aiuto e l´avallo dell´Italia, sparino sui pescherecci dei disperati o li chiudano nei campi di concentramento viene considerato un successo politico del nostro paese.
Comunque il risultato è quello di una brusca svolta storica: nell´idea d´Europa, nella immagine della Francia paese della libertà e rifugio per chi non trova libertà in casa sua; anche nella realtà storica di un´Italia che, pur nella fragilità delle sue istituzioni statali, aveva trovato nel solidarismo cristiano e in quello socialista le risorse ideali e pratiche per assicurare assistenza e conforto ai diseredati.

Repubblica 16.9.10
L'ombra della pedofilia sul viaggio del Papa
di Marco Ansaldo

Oggi Benedetto XVI in Inghilterra e Scozia tra le polemiche. Il cardinale Kasper rinuncia alla visita, è giallo
Gaffe dell´alto prelato che aveva detto: arrivi a Heathrow ed è Terzo Mondo
L´appello sul Corano: il rispetto della libertà religiosa prevalga sulla violenza

CITTÀ DEL VATICANO - Comincia oggi il difficile viaggio di Benedetto XVI in Inghilterra e Scozia. Quattro giorni di discorsi, riunioni e momenti di riflessione nei quali il Pontefice affronterà argomenti delicati, fra l´incontro ecumenico con la Chiesa anglicana e il colloquio con la Regina. Ma nei media e tra alcuni intellettuali è il caso della pedofilia nella Chiesa a tenere banco.
Addirittura Foreign Policy in un articolo-provocazione si chiede: «Può la Gran Bretagna arrestare il Papa?». L´onda delle polemiche sullo scandalo, corroborata dalle ultime rivelazioni sugli abusi compiuti da alcuni preti belgi, si allunga impietosamente sul viaggio. In Irlanda - dove pure Benedetto XVI non andrà - è ancora viva l´impressione dei due rapporti governativi Ryan e Murphy che alzarono il velo sulle violenze compiute per decenni da religiosi, e portarono il Pontefice a scrivere una lettera ai fedeli irlandesi. Le tappe nelle diverse città del Regno Unito verranno costantemente affiancate da proteste e iniziative, fino a una marcia per le vie del centro di Londra sabato 18 settembre. Nel mirino non c´è solo la pedofilia. Chi accusa contesta anche la posizione di Joseph Ratzinger sui preservativi nella prevenzione dell´Aids, oltre ai milioni di sterline che il governo di Londra ha stanziato per la visita proprio mentre varava un programma di tagli e sacrifici durissimo. È molto probabile comunque che Benedetto, così come fece negli Stati Uniti, in Australia e a Malta, incontri durante questo soggiorno alcune vittime di quello che lui stesso ha definito «un odioso crimine ma anche un grave peccato che offende Dio». Il viaggio ha conosciuto alla vigilia anche un «giallo». Il cardinale tedesco Walter Kasper, che doveva far parte del seguito papale, si è infatti ritirato dalla visita. Motivazione ufficiale: ragioni di salute. I media britannici legano però la rinuncia del porporato, ex presidente del Pontificio Consiglio per l´Unità dei cristiani, a una sua intervista al settimanale tedesco Focus in cui parlava dell´«aggressivo nuovo ateismo» del Regno Unito, aggiungendo che «quando atterri a Heathrow sembra di arrivare in una nazione del Terzo Mondo. Se indossi una croce sulla British Airways vieni discriminato». Ragioni negate dalla Sala stampa vaticana il cui direttore, padre Federico Lombardi, ha spiegato che la rinuncia è «assolutamente per motivi di salute e non c´entra nulla con l´intervista». Il Papa ieri non è tornato a parlare del viaggio, come aveva accennato all´Angelus di domenica scorsa. Ma ha affrontato il tema degli assalti alle chiese e alle scuole cristiane avvenuti in vari Paesi asiatici dopo le profanazioni del Corano negli Stati Uniti. «Il rispetto della libertà religiosa - ha detto all´udienza generale - e la logica della riconciliazione e della pace prevalgano sull´odio e sulla violenza. Seguo con preoccupazione gli avvenimenti verificatisi in questi giorni in varie regioni dell´Asia meridionale, specialmente in India, in Pakistan e in Afghanistan. E prego per le vittime».

Repubblica 16.9.10
E ora Londra lo accusa di non aver rimosso gli "orchi" della Chiesa
La rabbia delle vittime: i preti condannati ancora al loro posto
di Enrico Franceschini

Molti biglietti per le messe che dirà durante il viaggio sono andati invenduti
Alcuni dei sacerdoti condannati ricevono ancora ospitalità e assistenza dal clero

LONDRA - Un nuovo scandalo accoglie il papa al suo arrivo in Gran Bretagna. Un documentario di Channel Four, uno dei canali privati televisivi nazionali, anticipato ieri dal quotidiano Guardian in prima pagina, accusa il Vaticano e la chiesa cattolica inglese di non avere mantenuto le promesse di fare pulizia tra i preti colpevoli di pedofilia in Inghilterra e in Galles. L´inchiesta della tivù esamina gli effetti del rapporto Nolan, un´indagine sugli abusi commessi da religiosi cattolici nel Regno Unito pubblicata nel 2001. In quel documento, i vertici cattolici inglesi si impegnavano a privare del sacerdozio i preti condannati per abusi sessuali, ma Channel Four ha scoperto che invece più di metà di essi continuano a fare parte del clero. Alcuni ricevono perfino ospitalità e assistenza finanziaria dalla chiesa. Messe di fronte all´evidenza, le autorità della chiesa cattolica d´Inghilterra affermano che in alcuni dei casi contestati il procedimento punitivo è stato avviato, ma spetta al Vaticano emettere la decisione di estrometterli dal sacerdozio: e tale decisione non è ancora arrivata. Come se non bastassero l´indifferenza della popolazione (solo il 14 per cento dei britannici guardano con favore alla sua visita), i biglietti invenduti per le messe che dirà durante il viaggio, le critiche dei media (un editoriale del Guardian riconosce che è dubbio se sia lecito stendere il tappeto rosso per il papa, ma poi osserva che "tutti i tipi di tiranni sono stati accolti a Londra" e dunque lo si può fare anche per "il più grande autocrate della terra"), la visita di Benedetto XVI incontra così un nuovo ostacolo già in partenza: ancora prima degli incontri "segreti" in programma tra il pontefice e un selezionato gruppo di vittime dei preti pedofili, ancora prima della possibile iniziativa di associazioni laiche di incriminarlo per complicità nella vicenda degli abusi sessuali e delle coperture per insabbiarli, come chiede un celebre avvocato e difensore dei diritti civili, Geoffrey Robertson, nel libro "The case against the pope" (Il caso contro il papa), che la Penguin, maggiore casa editrice britannica, ha pubblicato proprio in coincidenza del suo arrivo, anche questo è un apparente segno di ostilità al pontefice.
L´inchiesta di Channel Four rivela che 14 dei 22 preti inglesi condannati a un anno o più di prigione per pedofilia sono tuttora parte del clero cattolico d´Inghilterra e Galles; 10 di loro compaiono nell´elenco ufficiale dei sacerdoti cattolici del Regno Unito. Soltanto 8 dei 22 sono stati esclusi dal sacerdozio. Uno dei preti pedofili ancora in attività smascherato dal documentario è padre John Coughlan, arrestato e incarcerato nel 2005. Sebbene non conduca più la messa, padre Coughlan è ancora un prete e vive in una casa di proprietà della chiesa, presso la diocesi di Westminster amministrata dall´arcivescovo Vincent Nichols, la più alta autorità cattolica in Gran Bretagna. Richiesto di spiegare la sua permanenza nella chiesa a dispetto delle norme stabilite quasi dieci anni fa dalla commissione Nolan, padre Coughlan dichiara di essere "in un limbo" e afferma che altri preti sono nella sua stessa situazione. Nel difendersi dall´accusa di avere violato gli impegni presi, un portavoce della chiesa cattolica d´Inghilterra dà l´impressione di volersi "lavare le mani" da ogni responsabilità: «Un vescovo deve rivolgersi a Roma per ricevere l´autorizzazione a laicizzare un prete e né la durata, né il risultato di questa richiesta sono sotto il controllo del vescovo». La responsabilità, lascia capire, è dunque di Roma. E intanto le associazioni delle vittime della pedofilia affermano che gli incontri con il papa hanno solo l´obiettivo di "manipolare" le vittime e spingerle a esprimere sostegno al pontefice.

Repubblica 16.9.10
Il ruolo dell’irrazionalità nelle ideologie e nell’azione pubblica
Quando la politica affronta il caso
In Machiavelli emerge lo sforzo per fronteggiare la Fortuna
di Carlo Galli

Al caso, all´accadere, è stata prevalentemente opposta la necessità; all´instabilità della contingenza la stabilità di un ordine, all´imprevedibilità la prevedibilità, alla molteplicità l´unità, al non senso il senso. È la ragione che ha avuto il ruolo principale nello sforzo di neutralizzare l´intrattabilità del caso.
Soprattutto nell´ambito politico la ricchezza dell´esperienza è stata percepita come minacciosa, come caos; e così nella potente prosa di Machiavelli è scolpito lo sforzo di fronteggiare con la Virtù – con l´operare efficace – la non umanità e la non razionalità del mondo, la Fortuna; lo sforzo di elevare argini contro quel fiume in piena che è il corso degli eventi, e la consapevolezza che prima o poi verranno travolti, nonostante l´intelligenza e il coraggio che si possano profondere (il che peraltro è raro) nell´attività politica. Ma il lucido e appassionato disincanto di Machiavelli – la sua lotta a viso aperto contro la Fortuna e contro la sua intrinseca necessità – non è il mainstream del pensiero moderno. Che si è invece adoperato – a partire da Hobbes – per eliminare, per uniformare e disciplinare, ogni evento abnorme, ogni contingenza. Se il caso è necessariamente costitutivo della natura e della natura umana, gli si deve opporre una necessità non naturale ma costruita dall´uomo: quell´artificio indispensabile che è l´ordine politico moderno, che vuol essere una sorta di compagnia assicurativa contro gli incerti della vita. Un ordine che non lascia nulla al caso, e che anzi tende a eliminarlo come anomalia, irrazionalità, mostruosità.
Nel corso della modernità l´effetto-necessità è progressivamente aumentato: il bisogno moderno di sicurezza non si concepisce come avventura della ragione, come esso stesso contingente, ma come necessario, inevitabile e garantito: ha così generato le ideologie, sistemi di pensiero – e di pratiche – che fanno della politica lo spazio di realizzazione di un ordine necessario, già scritto nella natura, nella storia, nella tradizione o, più spesso, nel progresso. E anche quando, giunta agli estremi della sua efficacia, la politica moderna riscopre la forza della contingenza, la crucialità del caso, lo pone pur sempre al servizio di un progetto d´ordine, lo iscrive dentro le logiche di una statualità lanciata oltre la propria forma razionale: Carl Schmitt, con la teoria della sovranità come decisione sul caso d´eccezione, costituisce il migliore esempio di una riscoperta del caso che al contempo ne sfigura la potenziale ricchezza.
Certo, l´età moderna ha anche conosciuto altre modalità di trattazione del caso: da quella di Spinoza – che elimina la nozione stessa di contingenza per affermare la necessità di tutte le modalità dell´essere – a quella di Nietzsche, con la sua gioiosa accettazione del destino, col suo dire Sì all´eterno ritorno, a quella di Heidegger, con la sua sottolineatura della dimensione della possibilità, della rischiosa fuoriuscita dallo spazio metafisico della "salvaguardia". Si deve inoltre aggiungere la vitalità letteraria dell´occasione, cuore della poetica di Montale, e anche l´avventura, che continua a permeare l´immaginario occidentale. Eppure, la dimensione dell´avventura fatica a farsi autonoma, e si riduce ad un´esistenza marginale, a fuga, a compensazione del meccanismo moderno della necessità.
Invece che esserne la contestazione, il caso scaturisce piuttosto dall´interno della stessa necessità, come intrinseca irrazionalità, come mostruosità, della moderna razionalità ordinativa. È la casualità dei meccanismi della politica totalitaria che travolge ogni vita come inutile e deviante; è l´incomprensibilità del mondo della tecnica e dell´economia, che da guscio protettivo della soggettività è diventato – e ne facciamo quotidianamente esperienza – un ambiente ostile e selvaggio, una giungla in cui può succedere di tutto, in cui i progetti di vita invece che essere liberamente e razionalmente perseguibili sono davvero affidati al caso (e a quel caso particolare che è la nascita in questo o quello strato sociale, in questa o quella parte del mondo). È questa vita nella casualità – a cui si aggiunge la morte nella casualità, a opera del terrorismo o di qualche bomba intelligente – l´altra faccia della moderna lotta razionale contro il caso; una casualità che si presenta come cieca necessità, come Fortuna bendata che fa vivere o fa morire individui che non hanno più alcun controllo razionale sulle proprie vite. Ma questo nuovo e paradossale connubio fra caso e necessità ha un nome ben decifrabile: ingiustizia. Il che lo mostra non necessario, e anzi contingente. E, chissà, forse anche rimovibile, in una nuova appassionata lotta contro il ripresentarsi, dopo la necessità del caso, della casualità della necessità. Una lotta in nome, questa volta, della libertà e della contingenza; un´Avventura alla ricerca non della Ragione ma delle molteplici ragioni dell´umanità.

Repubblica 16.9.10
La società dell’incertezza
di Zygmunt Bauman

Oggi, nell´epoca liquida, ci sono infinite ragioni, più che 50 anni fa, per sentirsi insicuri
La maggior parte di noi non possiede le risorse per innalzarsi al rango di individui di fatto

La modernità è arrivata come una promessa, ben determinata a sfidare e conquistare l´incertezza, a condurre contro quel mostro policefalo una guerra totale di logoramento. I filosofi dell´epoca spiegavano l´improvvisa abbondanza di crudeli e terrificanti sorprese - prodotte dalle forze sprigionate da lunghissime guerre di religione, fuori controllo e tali da sfuggire alla presa e al freno di pesi e contrappesi - con il fatto che Dio si era ritirato dalla supervisione diretta e dalla gestione quotidiana della Sua creazione, oppure con il cattivo funzionamento della creazione in quanto tale, ossia con i capricci e i ghiribizzi cui la Natura è soggetta finché, non venendo imbrigliata dall´ingegno umano, resta aliena e sorda rispetto ai bisogni e ai desideri degli uomini. Vi potevano essere differenze tra le spiegazioni preferite, tuttavia gradualmente emerse un ampio accordo relativo al fatto che l´attuale amministrazione degli affari mondani non reggeva alla prova e che il mondo aveva bisogno di essere urgentemente sottoposto a una nuova gestione (umana, questa volta) indirizzata a chiudere i conti una volta per tutte con i più terribili demoni dell´incertezza: la contingenza, la casualità, la mancanza di chiarezza, l´ambivalenza, l´indeterminazione e l´imprevedibilità. (...)
Quando tale compito sarebbe stato portato a compimento, gli esseri umani non sarebbero più stati dipendenti dai "colpi di fortuna". La felicità umana non sarebbe più stata un dono del fato, ben gradito, ma non richiesto, bensì il regolare prodotto di una programmazione fondata sulla conoscenza scientifica e sulle sue applicazioni tecnologiche.
In realtà la gestione umana non è stata in grado di corrispondere alle aspettative popolari, alimentate dalle assicurazioni generosamente concesse dai suoi dotti progettisti e dai suoi poeti di Corte. È vero che molti dispositivi ricevuti in eredità e accusati di saturare d´incertezza la ricerca umana erano stati smantellati e gettati via, ma il volume d´incertezza prodotto dai modelli che li avevano sostituiti non era inferiore al precedente. (...)
Per i primi cento o duecento anni della guerra contro l´incertezza si è minimizzato il fatto che non si fosse registrata una convincente vittoria. I sospetti che l´incertezza potesse essere una compagna permanente e inseparabile dell´esistenza umana tendevano a venire negati come essenzialmente sbagliati, o quanto come non sufficientemente dimostrati, dunque prematuri: nonostante le crescenti prove in contrario, era ancora possibile pronosticare che, dopo aver corretto questo o quell´errore e dopo aver superato o aggirato questo o quel rimanente ostacolo, si sarebbe potuta conseguire la certezza. (...)
Durante gli ultimi cinquant´anni, tuttavia, si è fatto largo un drastico cambiamento nella nostra visione del mondo, che ne condiziona adesso parti ancor più fondamentali rispetto alla concezione che avevano i nostri antenati riguardo al ruolo della contingenza negli itinerari congiunti della storia umana e della vita degli individui, e alle loro idee di come si poteva mitigarne l´impatto grazie al progresso della conoscenza e della tecnologia. Nelle nuove narrazioni delle origini e dello sviluppo dell´universo, della formazione del nostro pianeta, delle origini e dell´evoluzione della vita sulla Terra, così come nelle descrizioni della struttura e del movimento delle unità elementari di materia, gli eventi casuali – cioè eventi essenzialmente imprevedibili, indeterminati o del tutto contingenti – sono stati promossi e innalzati dal grado di marginali "fenomeni di disturbo" a quello di attributi primari della realtà e sua principale spiegazione.
La moderna idea di ingegneria sociale fondava la sua affidabilità sull´assunzione di ferree leggi che governavano la Natura e avrebbero reso l´esistenza umana ordinata e pienamente regolata, una volta spazzate via le contingenze responsabili delle turbolenze. Negli ultimi cinquant´anni, però, si è arrivati a mettere in questione e sempre più a dubitare dell´esistenza stessa di tali "ferree leggi" e della possibilità di concepire ininterrotte catene di causa-effetto. Oggi ci stiamo rendendo conto che contingenza, casualità, ambiguità e irregolarità sono caratteristiche inalienabili di tutto ciò che esiste, e pertanto sono irremovibili anche dalla vita sociale e individuale degli esseri umani. (…)
Detto questo, si noti che nella nostra epoca liquido-moderna ci sono infinite ragioni, più che cinquant´anni fa, per sentirsi incerti e insicuri. Dico "sentirsi", perché il volume delle incertezze non è aumentato: lo hanno fatto invece volume e intensità delle nostre preoccupazioni e ansie, e ciò è accaduto perché le lacune tra i nostri mezzi per agire efficacemente e la grandiosità dei compiti che ci troviamo di fronte e siamo obbligati a gestire sono divenute più evidenti, più ovvie e in verità più minacciose e spaventose rispetto a quelle di cui hanno fatto esperienza i nostri padri e i nostri nonni. A farci sentire un´incertezza più orrenda e devastante che in passato sono la novità nella percezione della nostra impotenza e i nuovi sospetti che essa sia incurabile. (…)
Man mano che il potere di agire in modo efficace gli è scivolato via dalle dita, gli Stati, indeboliti, sono stati costretti ad arrendersi alle pressioni dei poteri globali e ad "appaltare" alla cura e alla responsabilità degli individui un numero crescente di funzioni in precedenza da loro erogate. Come ha mostrato Ulrich Beck, oggi ci si aspetta che siano donne e uomini singolarmente a cercare e trovare risposte individuali a problemi creati socialmente, ad agire su di essi utilizzando le loro risorse individuali e ad assumersi la responsabilità delle loro scelte, nonché del successo o insuccesso delle loro azioni. In altri termini, oggi siamo tutti "individui per decreto", cui si ordina, presupponendo che ne siamo capaci, di progettare le nostre vite e di mobilitare tutto ciò che serve per perseguire e realizzare i nostri obiettivi di vita. Per la maggior parte di noi, tuttavia, questa apparente "acquisizione di capacità" è in tutto o quanto meno in parte una finzione. La maggior parte di noi non possiede le risorse necessarie per innalzarsi dalla condizione di "individui per decreto" al rango di "individui di fatto". Ci mancano la conoscenza necessaria e la potenza richiesta. La nostra ignoranza e la nostra impotenza nel trovare e attuare soluzioni individuali a problemi socialmente prodotti hanno come esito perdita di autostima, vergogna per essere inadeguati di fronte al compito e umiliazione. Tutto ciò concorre all´esperienza di un continuo e incurabile stato di incertezza, cioè l´incapacità di assumere il controllo della propria vita, venendo così condannati a una condizione non diversa da quella del plancton, battuto da onde di origine, ritmo, direzione e intensità sconosciuti.
Traduzione di Daniele Francesconi

Corriere della Sera 16.9.10
L’analisi del cervello entra nel diritto
A convegno sul rapporto fra biologia e comportamento
di Luigi Ferrarella

Finirà che i condannati a morte americani guarderanno a Milano-Pavia come alla loro Mecca? Forse. Il Tribunale di Milano e il «Centro europeo per il diritto, la scienza e le nuove tecnologie» dell’Università di Pavia assumono domani, con il convegno «Le neuroscienze nella pratica giuridica europea e nordamericana» (nel Palazzo di giustizia milanese dalle 9 alle 17.30), il coordinamento internazionale degli studi che scienziati e giuristi soprattutto di Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania, Olanda e Belgio stanno conducendo sulle ricadute giuridiche delle nuove tecniche di analisi del cervello volte a definire le basi neurologiche delle attività e degli stati mentali.
Con la promessa di riuscire a correlare sostrato biologico e attività mentale, le neuroscienze applicate al diritto si candidano a stabilire un nesso anatomico (solo in termini di «predisposizione» a determinati comportamenti in presenza di specifiche condizioni ambientali) tra l’attivazione di una determinata area cerebrale e una certa elaborazione mentale giuridicamente rilevante.
Ancora fantascienza? Non proprio: a Udine due anni fa un condannato per omicidio si è visto ridurre in Appello la pena di un anno perché un’indagine genetica, proposta dai consulenti di parte, ha riscontrato alcuni polimorfismi genetici idonei a rendere l’imputato più incline a manifestare aggressività se provocato o socialmente isolato. E negli Usa, in Illinois, un processo per un omicidio del 1983 è stato deciso con una condanna a morte anche sulla base di una tecnica che ha misurato l’afflusso di sangue al cervello, misurazione peraltro contestata perché tarata qui e ora ma su un fatto di 27 anni fa.
Di questi due casi discuteranno già questa sera alle 21, in un divulgativo «Caffè scientifico dell’Ateneo» a Pavia nel Cortile dei Tassi, alcuni dei relatori del convegno milanese del giorno dopo, quali gli americani Nita Farahany (consulente di Obama) e Kent Kiehl, il giudice di Corte d’Appello milanese Amedeo Santosuosso, il professor Gilberto Corbellini, la studiosa pavese Barbara Bottalico.