sabato 24 giugno 2006

Repubblica 24.6.06
Malumori su economia e politica estera. Ma Bertinotti frena: il governo non è un pranzo di gala
E Rifondazione orfana di Fausto ora teme di perdere l'anima
L'allarme della Gagliardi: si può stare nell'esecutivo con il senso della sfida
Curzi: "Molti vogliono farci fuori, non facciamo sciocchezze escludendoci da soli"
di Goffredo De Marchis


ROMA - «Il governo non è un pranzo di gala». Fausto Bertinotti lo ripete a tutti i compagni che lo chiamano in questi giorni. E sono tantissimi perché Rifondazione comunista fatica a emanciparsi dal segretario che l´ha guidata per undici anni, tra strappi, traversate nel deserto, ricuciture e alleanze, fino all´avventura piena del governo con ministri, sottosegretari e il presidente della Camera, lui. «Fausto, andava bene l´intervista?». «Questa è la mia dichiarazione sulla Rai, Fausto. Te la leggo?». Prc si è retta a lungo su una sorta di «paternalismo democratico». Ma il "padre" si sta rifacendo una vita. C´è quindi un contraccolpo doppio: l´uscita di Bertinotti e lo sbarco nell´esecutivo. Il neosegretario Franco Giordano si è ritrovato a gestire una delle fasi più delicate del partito, quella in cui molti dubitano della sua tenuta, della sua capacità di scongiurare il pericolo del frazionismo. Bertinotti però replica: «Io non sono preoccupato».
E lo ripete anche a Prodi, nella telefonata quotidiana. Eppure non basta quello squillo a tranquillizzare il Professore e con lui, il ministro dell´Economia (e del rigore) Tommaso Padoa Schioppa. Persino il pragmatico Pierluigi Bersani, che lavora gomito a gomito con il sottosegretario bertinottiano Alfonso Gianni, ha qualche timore. Proprio lui, che il giorno della vittoria di Nichi Vendola in Puglia aveva commentato: «È un´ottima notizia, è giusto che Rifondazione sia messa alla prova del governo. Vedrete che alla prima crisi industriale Vendola si comporterà come un vero amministratore pubblico e non come un estremista». Adesso ha qualche certezza in meno. Non su Vendola, ma su Rifondazione in generale.
La manovra bis («la cosiddetta manovrina», ironizza Gianni), la mini-scissione di Marco Ferrando, la minaccia di un no alla fiducia sulla missione in Afghanistan che coinvolge ben quattro senatori della minoranza interna, Luigi Malabarba in testa. Rifondazione ha subito di fronte un bivio: come stare nella maggioranza senza perdere l´identità. E l´anima. In fondo l´allarme lanciato tre giorni fa da Rina Gagliardi sul giornale di casa, Liberazione, aveva anche molti referenti interni.
Attenzione, scriveva la Gagliardi, qualcuno vuole sostituirci con l´Udc. Quindi, sottinteso, non prestiamo il fianco. O come sintetizza Sandro Curzi, già direttore dell´organo di Prc, oggi consigliere d´amministrazione della Rai «molti vogliono che ci togliamo dalle palle. Noi non dobbiamo fare stupidaggini escludendoci da soli». Bertinotti, e Giordano naturalmente, cercano la «sintesi» tra posizioni che fanno a pugni sotto lo stesso tetto. La prima la illustra Ramon Mantovani, deputato vicino ai no global, terzomondista: «Il rischio per Rifondazione è aderire alla cultura governista, vedere il mondo a partire dalle compatibilità di governo. Per noi il governo dev´essere una questione secondaria, il progetto politico conta molto di più. Per fortuna gli antidoti a quella cultura non mancano: la scelta di stare vicino ai movimenti, l´adesione alle parole d´ordine no global». La seconda, antitetica, viene spiegata da Curzi, fedelissimo di Bertinotti e uomo di mondo: «Il 2 giugno c´ero anch´io alla sfilata delle forze armate. In mezzo alla gente. E tanti mi salutavano con affetto perché il popolo di Rifondazione era anche lì. Chi confonde l´estremismo con il nostro elettorato commette un grande errore. In Afghanistan siamo su mandato dell´Onu e nessuno vuole far cadere Prodi. Come il vecchio Pci, dobbiamo combattere su due fronti: contro chi è troppo cedevole e contro chi è troppo estremista».
In mezzo alle posizioni di Mantovani e Curzi, c´è Paolo Ferrero. Perché è al governo come ministro della Solidarietà sociale e perché meglio degli altri può dire come si sta nella squadra e nella maggioranza di Prodi. «Il compito di Rifondazione è disturbare moltissimo e sempre il manovratore, cioè il governo, cioè anche me» è la sua premessa che conferma le ansie del premier. «Non moderazione, ma trasformazione. Dialettica con le dinamiche sociali, capacità di contrattualizzare e determinazione del terreno di gioco. Questo è il problema egemonico della nostra politica». Ferrero indica anche la strada che non va presa: «Quella del conflitto spettacolare con la destra, basato tutto sulle paure: immigrazione, sicurezza, droga, Islam. Lì noi ci smarriamo e la ruote della bicicletta di Prodi si sgonfiano. Se invece il Professore segue il programma riformatore costruito insieme, ha lunga vita». Il ministro parla di «crisi di crescita» per Prc, di «un di più di elaborazione necessario. Per noi, ma anche per i Ds, anche per la Margherita in cui ha tanta parte il cattolicesimo democratico». A fibrillare, a «discutere, discutere, discutere», come dice Gianni parafrasando Borrelli, dovranno essere tutti i partiti dell´Unione, se non vogliono semplicemente governare. Però incalzano i passaggi parlamentari, i voti, le mozioni e i tempi si stringono. Ieri il consiglio dei ministri non ha preparato la mozione sul rifinanziamento delle missioni, su richiesta di Giordano. Slitta alla prossima settimana e in pochi giorni Prc chiede all´Unione di ridisegnare la nostra politica estera, di spostare l´asse da Washington all´Africa alla questione mediorientale secondo la linea «due popoli due stati».
Tutto questo dovrebbe esserci nel decreto, con l´esclusione di nuovi soldati a Kabul, per evitare il voto di fiducia. «Avviare un processo di cambiamento, lasciare esprimere le forze attive della pace, fare un bilancio delle nostre missioni. Così si costruisce una politica condivisa - spiega la Gagliardi - . E il partito non è allo sbando. Esiste, è vivo. Paga qualche prezzo perché ha perso il capo indiscusso, Bertinotti, e perché la ricollocazione non è facile. Ma nella sua essenza è una realtà». La sua essenza però non è quella del governare e basta. «La cultura di governo non riesco ad averla - dice la Gagliardi - . Si può stare nell´esecutivo in un altro modo: maturando la responsabilità e il senso della sfida». E investendo sul futuro, sull´allargamento dell´area radicale, sull´esperimento della Sinistra europea, su una «confederazione» dei non riformisti, alla quale pensa Bertinotti, e che potrebbe aprirsi ai delusi del Partito democratico, come il correntone ds. Il senatore Malabarba avverte il governo e Prodi, che lega la sua sorte a questa maggioranza e all´asse tra lui e Bertinotti: «Se si fa una politica più vicina al centrodestra è normale che arrivino i voti dell´Udc e non i nostri». Ma il presidente della Camera è sicuro di poter gestire quello che definisce «un certo fermento, che è anche la valorizzazione della pluralità d´espressione. L´Unione è forte solo se è forte anche la nostra area». A Repubblica ha detto: «La sinistra radicale non si farà zittire». E quindi non perderà la sua identità. Garantisce lui.

un lancio ANSA che cita Left
ANSA (POL) - 23/06/2006 - 14.19.00
AMNISTIA: PRC-RNP, SI'A INTESA SU PROVVEDIMENTO; DL PIU'CAUTI DOPO 'CASO' LEFT, NE DISCUTONO CAPEZZONE, MIGLIORE E REALACCI (ANSA)

ROMA, 23 GIU - ''Nessuno puo' pensare che la privazione della liberta' possa portare ad una privazione della dignita' umana. Vedendo la situazione delle carceri italiane occorre al piu' presto un atto di clemenza in tempi breve''. Gennaro Migliore, capogruppo di Rifondazione alla Camera, prende come esempio il caso di Eyasu Habeteab, eritreo di 36 anni morto, ufficialmente per suicidio, nel carcere di Civitavecchia dopo un mese di detenzione divenuto protagonista della storia di copertina del settimanale Left, per sottolineare - nel corso di una conferenza stampa a Montecitorio - ''l'esigenza che in Parlamento si lavori per trovare un'intesa, visto che occorre una maggioranza dei due terzi, sui provvedimenti di amnistia e indulto da calendarizzare al piu' presto nei lavori dell'Aula''. D'accordo con Migliore e' anche Daniele Capezzone della Rosa nel Pugno, in sciopero della fame da 17 giorni e tra i piu' accaniti sostenitori delle battaglie per denunciare la situazione nelle carceri italiane. ''Oggi le carceri sono diventate una questione di classe - osserva il presidente della commissione Attivita' produttive - cosi' come esiste un'amnistia di classe che si chiama prescrizione, il resto delle persone rimane invece senza possibilita' di riscatto. Chiediamo che ci sia al piu' presto un incardinamento parlamentare''. Pur non essendo del tutto d'accordo sulla strada da seguire, Ermete Realacci presidente della commissione Ambiente ed esponente della Margherita sottolinea come ''la sicurezza dei cittadini non e' in contrasto con la civilta' delle carceri''. Secondo l'esponente Dl, pero': ''Bisogna evitare di suscitare aspettative che, se deluse, possono provocare disperazione''. (ANSA). KWR 23-GIU-06 14:18 NNN

primadanoi.it 24.6.06
Bellocchio con ‘Il regista di matrimoni’ oggi al Flaiano Film Festival al Cinema Massimo


Sabato 24 giugno il Flaiano Film Festival propone al Cinema Massimo in Sala 1 alle ore 20,45 in concorso l’ultimo film di Marco Bellocchio, interpretato da Sergio Castellitto, “Il regista di Matrimoni”: un regista, Franco Elica, è messo in crisi dal matrimonio della figlia con un fervente cattolico e dalla necessità di dover girare ancora una volta una versione dei Promessi sposi. Decide così di partire per la Sicilia alla ricerca dell’ispirazione che sembra aver perso. Lì ritrova un suo amico di vecchia data, anche lui regista, che si spaccia per morto nella speranza di raggiungere la fama che finora gli è stata negata. Incontra anche un uomo che vive realizzando le riprese dei matrimoni. Conosce anche il principe Gravina di Palagonia, un nobile spiantato che gli propone di dirigere le riprese del matrimonio della figlia Bona. Franco si innamora subito della giovane e bellissima ragazza e si propone di riuscire a evitarle di contrarre un matrimonio di convenienza. (...)

http://www.premiflaiano.it/cinema.html

Repubblica 24.6.06
Fabri Fibra, il rap su Omar
"Canto di un ragazzo normale che scelse la ragazza sbagliata"
di Carlo Moretti


ROMA - «Io sono uno spiantato. Come milioni di ragazzi oggi in Italia. Questo alla lunga ti può far impazzire. La gente sta male e io sono la cartina di tornasole di questa cosa». Autobiografia di Fabri Fibra, 30 anni da Senigallia. «Scrivere mi fa stare bene: non mi preoccupo se piace o disturba».
Cuore di latta parla di Erika e Omar. Lei si immedesima in Omar.
«Metto a confronto i drammi che accadono in Italia, dove se hai un problema nessuno ti aiuta, sei solo il diverso da scansare. Omar per me è più che normale se lo paragoni alla mamma che lancia il figlio dal davanzale. È un ragazzo che un giorno commette un omicidio. Una spiegazione? Non c´è. Si è trovato nel posto sbagliato con la ragazza sbagliata. Gli ho voluto dar voce, ho voluto parlare dei tabù che abbiamo in testa per le dinamiche in cui veniamo cresciuti, a cominciare dalla pressione cattolica sulla famiglia, tanto che a 35 anni siamo tutti a casa con i genitori. La cronaca lancia segnali del disagio nelle famiglie, dov´è tutto un soffocarsi».
Omar ha commesso un omicidio.
«Di più, ha dato 97 coltellate alla madre della fidanzata, s´è fatto tirare in mezzo. Ma io non studio i crimini. Ho pensato a uno che non si rende conto dell´omicidio e forse nessuno glielo fa capire».
Non teme che chi la ascolta possa subire il fascino di Omar?
«A Erika e Omar in carcere già arrivano lettere di ammirazione. Io provoco, accendo la miccia dei dialoghi e delle conclusioni».
Il giudice Pomodoro vorrebbe incontrarla.
«Il mio cd parla per me. Dunque non sono strumentalizzabile. E non ho tempo per incontrare nessuno».

stessa pagina
"Fermate il rap su Erika e Omar"

Il presidente dei tribunale dei minori di Milano: propone un mito criminale, radio e tv farebbero meglio a non trasmettere la canzone
Il giudice Pomodoro a Fibra: vorrei confrontarmi con te
di Luca Fazzo

MILANO - Livia Pomodoro è da 14 anni presidente del Tribunale dei minorenni di Milano. Del mondo dei giovani conosce asprezze e ingenuità, codici e contenuti. Non è abituata a dare giudizi brutali. Ma davanti ai quattro fogli col testo di «Cuore di latta», il rap di Fabri Fibra, che spopola su radio e tv, la Pomodoro appare disarmata. Legge e rilegge il testo che porta in versi la storia di Erika e Omar, la ragazzina di Novi Ligure che ammazzò madre e fratellino e del suo giovane complice. E alla fine esprime un giudizio che si riassume in una parola. «Spazzatura. Spazzatura che andrebbe fermata. Radio e tv dovrebbero interrogarsi sull´opportunità di mandarla in onda».
Una sentenza un po´ brusca. Fibra ha un sacco di successo.
«Non ne dubito. Questa è spazzatura che va alla grande, perché l´incultura che passa tra i giovani italiani è questa. Ma resta spazzatura. E, in questo caso, è spazzatura pericolosa».
Lei sta chiedendo di censurarla?
«No, ci mancherebbe. Non posso farlo né ci penso. Ma è una canzone che parla della realtà. Di una realtà che conosciamo tutti bene. Fin troppo bene, direi: la vicenda di Erika e Omar è stata amplificata, è diventata emblematica di un modo estremo di vivere la vita familiare e i suoi inevitabili disagi. Ed il problema è che, ci piaccia o no, per molti giovani Erika è diventata un modello. Ce lo dicono le lettere che le arrivano, come arrivavano a Pietro Maso e ad altri prima di lui. E´ terribile. Ma proprio per questo mi domando che senso ha stimolare questi istinti con uno strumento immediato come un rap».
Qual è il messaggio che le fa paura?
«La mancanza di rispetto. Ai giovani passa il messaggio che se non fai la carogna non sei nessuno. E´ la banalizzazione del crimine».
Siamo messi bene, se i ragazzi si fanno influenzare da un rap.
«Ma qui siamo su un terreno minato: perché il mito del criminale sta inevitabilmente nell´immaginario del giovane, è l´avventura , è il riconoscimento all´esterno. E i giovani che io mi vedo passare davanti, proprio di questo soffrono: carenza di identità. Temo che pur di darsi una identità possano fare qualunque cosa. E le conclusioni possono essere ancora più devastanti se questi giovani si trovano ad agire in una società dove la mancanza di rispetto viene comunicata ad ogni gesto e ad ogni occasione. Intendiamoci: io penso e spero che i tanti milioni di ragazzi che non fanno notizia siano desiderosi di dare alla loro vita un senso diverso da quello della canzone. Ma poi ci sono i suggestionabili, è a loro che questo messaggio arriva per primi»
Fabri Fibra potrebbe replicare che ormai Erika è un personaggio, le sue foto alla partita di pallavolo hanno fatto il giro d´Italia.
«Si aggiunge un errore a un errore. Io penso che quelle immagini siano state un grave sbaglio: per il messaggio che mandavano all´esterno, perché normalizzavano e banalizzavano un delitto, e per il messaggio che mandavano alla stessa Erika. Chi ha permesso quella pubblicazione ha fatto un grave danno anche a lei».
Vuole lanciare un appello al cantante?
«Sì. Mi piacerebbe incontrarlo. È un ragazzo come i tanti che vedo ogni giorno. Vorrei confrontarmi con la sua intelligenza e il suo buon senso, se ne ha. Cercherei di spiegargli perché credo abbia sbagliato».

Repubblica 24.6.06
Un saggio di Roberto Gualtieri su 50 anni di storia
Dc & Pci vite parallele
di Miriam Mafai


Simul stabunt, simul cadent: la Dc e il Pci, i due grandi partiti che, dopo aver condotto il paese fuori dalla guerra, ne hanno promosso la ricostruzione e lo sviluppo e garantito un welfare di tipo europeo (sia pure inquinato da insufficienze e clientelismo), quei due grandi partiti, protagonisti della nostra storia, sono stati travolti, sia pure in momenti e con modalità diverse, dalle macerie del Muro di Berlino. Crollava il sogno del socialismo che era stato a lungo, con il «legame di ferro» con l´Urss, ragione, non unica ma essenziale, di tenuta e successo del Pci. Ma, sotto quelle macerie, finiva anche la dura contrapposizione bipolare, la «guerra fredda» che aveva fatto del nostro paese una terra di frontiera, vigilata e garantita dalla Chiesa e dalla Dc. Con il crollo del Muro insomma, i due grandi partiti, contrapposti e nemici, hanno visto esaurita la loro necessità storica. Simul stabunt, simul cadent.
Ci voleva un giovane storico di formazione gramsciana, oggi vicedirettore dell´Istituto Gramsci, per tentare una ricostruzione del cinquantennio repubblicano in questa chiave, mettendo cioè in luce le analogie, i reciproci condizionamenti tra la le due più grandi forze politiche del nostro paese. (Roberto Gualtieri, L'Italia dal 1943 al 1992 - Dc e Pci nella storia della Repubblica, Carocci, pagg. 300, euro 23.50). In questa chiave viene riesaminato il peso del cosiddetto «vincolo esterno» sulla vita e le scelte dei due maggiori partiti italiani. Un vincolo che, contrariamente a quanto generalmente sostenuto, non fu né solo né prevalentemente negativo.
La forza della Dc e del Pci, sostiene Gualtieri, fu certamente esito anche della forza della Chiesa e degli Usa da una parte e, dall'altra della forza e del prestigio dell´Urss e del suo legame con le Botteghe Oscure. Tutto questo certamente ci fu. Ma non basta a spiegare il successo dei due partiti che seppero sempre ricavarsi, sia pure a fatica, un sufficiente spazio di autonomia nella definizione delle proprie scelte politiche. Da una parte come dall'altra, dalla parte di Togliatti cioè come dalla parte di De Gasperi ci fu, al di là delle reciproche accuse di tipo propagandistico (che volevano Togliatti servo di Stalin, e De Gasperi servo degli Usa) la capacità di interpretare e gestire i vincoli derivanti dai loro legami internazionali rendendoli funzionali a un concreto e condiviso percorso di costruzione della democrazia in Italia. Cosa che in effetti avvenne, con il superamento, da parte del Pci, delle residue spinte eversive ancora presenti nel paese nell'immediato dopoguerra e, da parte della Dc, con il pieno inserimento nello Stato delle masse cattoliche fino allora estranee o escluse.
La figura e il ruolo di De Gasperi emergono, in questa ricostruzione di Gualtieri, in tutta la loro complessità, largamente positivi. Per la capacità del leader democristiano di resistere alle pressioni della destra confindustriale e a quelle, ancora più stringenti, del «partito romano» che da Oltretevere spingevano la Dc su posizioni clerico-moderate (e ne avremo l'esempio più clamoroso nel 1952 con la «operazione Surzo»). Per la sua capacità di operare scelte capaci di traghettare sul terreno democratico un elettorato ancora ferocemente conservatore, intriso di umori monarchici e fascistoidi. Per la sua capacità, infine, di impegnare il suo partito e l'azione del suo governo sulla strada di un pur cauto ma concreto riformismo, che gli consentirà, nei primi anni '50 di definire la Dc, un "partito di centro che marcia verso sinistra". Ma soprattutto resta fondamentale e lungimirante il ruolo di De Gasperi sul piano della politica europea. Al leader trentino infatti si deve, secondo la ricostruzione di Gualtieri, «la individuazione chiara e precoce del nesso tra integrazione europea, sviluppo economico e possibilità di realizzare in Italia un compromesso sociale inedito tra capitale e lavoro, e tra Stato e mercato» (un problema, a ben vedere, ancora attuale e non compiutamente risolto). Siamo, insomma, in questa ricostruzione della figura e del ruolo di De Gasperi quanto mai lontani sia dalla vulgata che nel vecchio Pci dipingeva spregiativamente il leader trentino come «il Cancelliere», sia da un famoso testo scritto da Togliatti in sua memoria a due anni dalla sua morte.
Tutta la storia successiva della Repubblica, fino al 1992 che ne segna la fine, porterà, secondo la ricostruzione di Gualtieri, il segno di quella ambivalenza definita a ridosso del dopoguerra. A ben vedere anche la fase storica assai più recente, del cosiddetto «compromesso storico» porta il segno, dall´una come dall´altra parte, di quelle scelte iniziali e delle relative difficoltà.
Berlinguer versus Moro, come Togliatti versus De Gasperi. In quella fase, probabilmente, ambedue i leader, pur sentendone il peso, non riuscirono a liberarsi dai rispettivi condizionamenti internazionali. Ci provarono, ma non ci riuscirono. Ma questa è un'altra storia.

Repubblica 24.6.06
Democrazia e corruzione
Anticipazione / Un colloquio con Vittorio Foa sul "caso Chelsea"
di Marianella Sclavi

Era dominata dalle cosche ma i cittadini sono riusciti a riconquistare la normalità
Esce un libro che racconta la vicenda della metamorfosi della città del Massachusetts
L'opportunità è l'altra faccia della crisi solo a patto che si sappia affermare le differenze e perseguire l'unità
Chiedersi come si crea uno spazio pubblico e politico più vasto sta diventando una priorità per tutti

La storia di Chelsea, Massachusetts, è interessante per i lettori italiani per tre motivi. Prima di tutto perché è la storia di un'intera città che passa dal consenso alle cosche, al consenso democratico. E non è poco. In secondo luogo, perché questo passaggio avviene attraverso un intervento congiunto di magistratura, riforma istituzionale e partecipazione dei cittadini alla stesura di un nuovo statuto della città. Il commissario dello Stato del Massachusetts, dopo aver favorito in vari modi il ricambio quasi totale dei dirigenti della pubblica amministrazione, della Polizia e dei principali Servizi, ha deciso, avendone la facoltà, che un nuovo governo post-commissariale sarebbe sopravvissuto solo a patto di essere creato direttamente dai cittadini. La bancarotta economica e il fallimento politico, sociale e culturale sono diventati la leva per iniziare un processo radicale di riscoperta e rigenerazione della democrazia, perseguito con grande determinazione e contro innumerevoli tentativi di farlo deragliare. Trovo affascinante il processo con il quale queste persone, in disaccordo fra loro quasi su tutto, sono riuscite ad arrivare a delle soluzioni sempre creative e a volte sagge. Ed è qui che ho pensato immediatamente a Vittorio Foa.
Una città dalla quale non si vedeva l'ora di scappare è rifiorita fino a essere definita «il paradiso per chi ama la vita urbana». In Italia, l'idea che l'opportunità è l'altra faccia della crisi è assente, specie nel mondo politico.
«L'opportunità è l'altra faccia della crisi solo a patto che si sappia al tempo stesso affermare le differenze e perseguire l'unità. Questa è una lezione che ho appreso molti anni fa proprio all'Assemblea Costituente. Avevo trentacinque anni e il clima all'Assemblea Costituente era molto teso. Al mattino si discuteva di politica e i contrasti apparivano insolubili, ma al pomeriggio, quando si era impegnati a scrivere la Costituzione, tutto diventava più facile, ci si rispettava e si cercava un pensiero comune. Ho riflettuto a lungo su questo contrasto e ho capito che non c'era contraddizione fra l'essere di parte e l'essere capaci di trovare un'intesa al di sopra delle parti. Anzi: se non avessimo litigato, come avremmo potuto cercare insieme? Ricordo un dibattito molto elevato a proposito della presenza di Dio nella Costituzione fra il cattolico La Pira e il comunista Togliatti. Vi era un profondo rispetto reciproco».
Su questo punto l'ha spuntata Togliatti, no?
«Veramente l'ha spuntata De Gasperi, è lui che ha proposto la mediazione. Era di una bravura eccezionale. Per De Gasperi tener fuori la Chiesa e Pio XII dalla Costituzione era altrettanto importante, anche se per ragioni diverse, che per Togliatti».
Anche nella «costituente» di Chelsea il primo scontro apparentemente insolubile è fra chi vuole nominare Dio nel preambolo e la rappresentante degli atei che è assolutamente contraria...
«Quando si è in una stretta, in una fase di crisi e cambiamento, bisogna rispondere allargando la democrazia e la partecipazione, questo è il principio che mi ha accompagnato nella vita sindacale, anzi è il motivo per cui ho amato lavorare in una organizzazione come il sindacato che questo richiedeva».
Il fatto che ai cittadini super scettici di Chelsea sia stato chiesto innanzitutto quali sono gli ideali di Buon Governo che hanno a cuore, è stato fondamentale per consentire l'impegno successivo. Perché la convergenza sugli ideali è molto più facile che non sui valori o sugli obiettivi contingenti. Una volta creato «capitale sociale», fiducia, si può passare agli ulteriori ostacoli e alle ulteriori sfide in uno spirito di collaborazione.
«Oggi il dato prevalente è la sfiducia, la rassegnazione, la preoccupazione per il futuro. Molti giovani lavoratori non sanno più cosa sia il loro futuro. Hanno di fronte una prospettiva di orario spezzato, lavoro diviso e precarietà, solo lavori precari».
Bisogna sapere che esiste una modalità di ascolto non giudicante che è fondamentale sia per capire i problemi comuni che per trovare delle soluzioni mutualmente soddisfacenti. Nella esperienza di Chelsea una serie di abitanti indicati dagli altri come persone di cui ci si fida vengono addestrati a fare i facilitatori alle riunioni. Compito principale dei facilitatori, oltre a redigere un buon rendiconto di ogni incontro, è far valere un clima e un atteggiamento di ascolto attivo, nel quale si assume che tutti coloro che intervengono, pur sostenendo tesi opposte, aiutano a capire meglio la situazione.
«Questa capacità dei facilitatori è decisiva! Si crea il clima della cooperazione. Ti guardi attorno e vedi cose terribili che stanno succedendo alle quali è difficile dare risposta di ascolto. Un sindacalista che ho incontrato di recente mi raccontava cos'è oggi la vita nel Veneto, la chiusura delle fabbriche. Il padrone dice: "Devo andare via, non posso stare qui, devo andare in Romania, altrimenti chiudo, fallisco, non posso vendere le mie merci" e tu operaio, tu sindacalista, che cosa fai? Tutti i problemi nascono lì, come fai a risolvere il problema. perché non sai più neppure quale è il problema! Io mi domando se questa insicurezza non diventi oggi il problema che bisogna affrontare non solo nel campo specifico del lavoro, ma in un quadro più generale su cui io non saprei dare delle risposte».
Il sociologo Ulrich Beck parla di «cosmopolitismo banale», per indicare che la nostra vita quotidiana sta diventando cosmopolita a ritmo accelerato e sempre più lo diventerà, non come risultato di scelte consapevoli, ma di una molteplicità di effetti collaterali: conseguenza della produzione e consumo globalizzati, dei flussi migratori, delle minoranze non omologabili, della civiltà che mette in pericolo se stessa...
«Per affrontare questo ordine di problemi bisogna pensare a un nuovo concetto e ruolo del "pubblico", che non è più lo Stato, ma è la pluralità degli attori presenti nella società impegnati a indagare e risolvere un problema comune. Per parafrasare Beck, il chiedersi come si crea uno spazio pubblico e politico più vasto sta diventando una domanda "coatta", imposta dalla realtà anche a chi non vuole pensarci. Mi chiedo se non si debba mettere al centro di questa nuova dimensione della scelta pubblica la figura dell'immigrato, come persona reale che vive fuori casa e vede abitudini che non capisce ecc., ma anche come metafora. In un certo senso siamo tutti "delocalizzati" e tutti abbiamo il problema di costruire uno spazio pubblico comune».
Il perno di tutto quello che abbiamo fin qui detto è questa nuova concezione dell´agire e del protagonismo politico, nel quale i partiti mantengono un ruolo fondamentale, ma molto diverso dal passato, un ruolo di iniziatori e garanti di processi di democrazia multi-attoriale, partecipativa, inclusiva.
«Il consenso non può essere chiuso in un momento, è un processo vivente. Ti dirò di più: il consenso di chi accetta le differenze e cerca l'unità è un processo vivente che chiede alla società di coltivare e apprezzare l´indisciplina. Per rimanere vivente ha bisogno di una costante lotta contro il conformismo».
La cittadina di Chelsea prima del commissariamento sembrava totalmente rassegnata al malgoverno e Susan Podziba racconta che la gente rideva di lei quando parlava di coinvolgere i cittadini in un processo di stesura del proprio statuto, ridevano e l'accusavano di essersi montata la testa, di aver perso il buon senso e forse anche la ragione.
«Pensare con la propria testa è particolarmente importante oggi perché il giudizio sulla realtà non è delegabile più a nessun singolo punto di vista, anche se esperto e autorevole. La comprensione della realtà, che è in continuo cambiamento, richiede una prospettiva plurima. Credo profondamente nell'unità come processo. Non come una realizzazione che si conquista una volta per tutte, ma come processo continuo che noi dobbiamo svolgere, per essere contemporaneamente non soltanto noi stessi ma anche gli altri, per vedere e capire le loro buone ragioni».

Il Sole 24 Ore 22.6.06
I sessant'anni dell'amnistia Togliatti
di Gianluigi Torchiani


Nonostante le parole spese nei giorni scorsi sulla necessità di un atto di clemenza per i carcerati, in pochi hanno ricordato la prima amnistia dell'Italia repubblicana.
Esattamente sessanta anni fa, il 22 giugno del 1946, Palmiro Togliatti, ministro della Giustizia del primo governo De Gasperi, varò la cosidetta "amnistia Togliatti". L'intenzione del leader comunista era quella di pacificare il paese, ma il provvedimento finì per tradursi in un vero e proprio colpo di spugna per migliaia di fascisti, compresi i responsabili dei crimini più efferati. Ne abbiamo parlato con lo storico Mimmo Franzinelli, autore del libro "L'Amnistia Togliatti", edito da Mondadori.

Perchè Togliatti decise di varare l'amnistia?
I motivi sono essenzialmente due: prima di tutto per l'esistenza di un ampio fronte politico favorevole all'amnistia, che comprendeva monarchici, Dc, Uomo Qualunque. L'unico partito che si opponeva dichiaratamente al provvedimento era il Partito d'Azione, che però era uscito con le ossa rotte dal voto del 2 giugno. In secondo luogo perchè Togliatti aveva un progetto politico: il Pci veniva da oltre 15 anni di clandestinità e voleva trasformarsi in partito di massa, e aveva la necessità di rompere il ghiaccio con quei settori della società italiana che avevano servito il regime. Ecco perchè Togliatti, che in un primo momento era tutt'altro che entusiasta del provvedimento, si decise a varare l'amnistia.

Gli effetti dell'amnnistia andarono oltre quelli previsti da Togliatti. Come fu possibile?
Il segretario comunista aveva varato un'amnistia "bipartisan", che avrebbe dovuto comprendere anche i reati commessi dai partigiani ed ecludere i reati peggiori, ma in realtà pochissimi uomini della resistenza beneficiarono del condono, mentre moltissimi criminali furono liberati. Il motivo? Togliatti, laureato in giurisprudenza, aveva scritto personalmente la legge, senza neanche farla correggere dagli specialisti. Questo errore di presunzione lasciò molto campo all'interpretazione estensiva della magistratura, perloppiù composta da uomini anziani e che avevano fatto carriera sotto il regime fascista. Grazie alla fomula dell'amnistia che prevedeva l'esclusione "degli autori di sevizie particolarmente efferate", i giudici poterono agevolmente interpretare il provvedimento in senso estensivo. Infatti la Corte di Cassazione di Roma amnistiarono persino chi aveva stretto nelle morse i genitali degli antifascisti perchè la tortura non era durata particolarmente a lungo.

Quante persone beneficiarono dell'amnistia? Che fine hanno fatto negli anni successivi?
Difficile quantificare il numero esatto delle persone. Diciamo che siamo nell'ordine delle diecimila unità. Le prime persone a beneficiare del provvedimento furono i gerarchi di più alto grado, che avevano i soldi a disposizione per pagare i migliori avvocati e per oliare i meccanismi della macchina giudiziaria. Per quanto riguarda invece il dopo-amnistia, bisogna ricordare come negli anni seguenti i 2/3 della base parlamentare del Msi sarà costituito da parlamentari amnistiati. Questo perchè in Italia, a differenza di altri paesi europei, l'amnistia non previde l'esclusione dalle cariche pubbliche per i collaborazionisti, come erano di fatto i gerarchi della RSI.

La storiografia comunista cercò di addossare le colpe dell'amnistia Togliatti a tranelli della Dc. Dove sta la verità?
Togliatti scrisse personalmente la legge, ma fece l'errore di sottovalutare il ruolo della magistratura e la forte reazione di protesta della base comunista. Ecco perchè, appena venti giorni dopo il varo del provvedimento, Togliatti scaricò la patata bollente al compagno di partito Fausto Gullo, rinunciando all'incarico di ministro della giustizia nel nuovo governo De Gasperi. Da lì in poi ci fu il tentativo della storiografia comunista di discolpare il "Migliore" che, al momento di lasciare Palazzo Piacentini, portò via con sè le carte sull'amnistia. Per tutti questi anni i documenti furono dati per dispersi, sino a quando non li ho ritrovati nell'archivio dell'Istituto Gramsci.

Esiste una qualche somiglianza tra l'amnistia del '46 e quella di cui si parla oggi?
Anche allora come oggi esisteva un problema di sovraffollamento delle carceri, che era anzi ben più drammatico di quello attuale. Accanto alle migliaia di detenuti per così dire politici, vi erano anche moltissimi criminali comuni perchè la guerra aveva fatto moltiplicare il numero di reati e di banditi. I motivi alla base di quella amnistia furono diversi; studiare quei momenti però mi ha fatto pensare come, anche oggi, l'talia sia un paese in cui manchi la certezza del diritto. Un paese dove a pene severissime in primo grado seguono revisioni, condoni e amnistie a cadenza periodica che portano a rapide liberazioni.

Repubblica 21.6.06
E Togliatti salvò i fascisti
A sessant'anni dall'amnistia Il decreto fu firmato il 22 giugno del 1946 e suscitò molte polemiche tra gli ex partigiani Mimmo Franzinelli ha dedicato un libro all'evento che liberò anche aguzzini e fucilatori
di Nello Ajello


Nenni, che era un giornalista oltre che un leader politico, registrò il malcontento esteso a macchia d' olio - Ci furono persino dei compagni che minacciarono il segretario del Pci di ritorsione elettorale

«Oggi Consiglio dei ministri per elaborare il testo dell' amnistia», annotava Pietro Nenni nel suo diario il 19 giugno 1946. E continuava: «Tendenza di De Gasperi: "mettere fuori tutti i fascisti"; tendenza di Togliatti: "mollarne il meno possibile". Due modi di intendere la Repubblica». Il dibattito centrato intorno a questo dilemma ideale non andò per le lunghe se, appena tre giorni più tardi, il 22 giugno - sessant' anni fa, esatti - il decreto presidenziale venne ufficialmente emanato. Quel testo fu subito definito «l' amnistia Togliatti», dal cognome del segretario del Pci che nel primo governo De Gasperi rivestiva la carica di Guardasigilli. Lo stesso titolo porta il volume che alla vicenda ha dedicato lo storico Mimmo Franzinelli (Mondadori, pagg. 382, euro 19), corredandolo di un sottotitolo esplicitamente polemico: "22 giugno 1946, colpo di spugna sui crimini fascisti". Nel segno della fretta si svolsero, di fatto, i primi atti della magistratura chiamata ad attuare il decreto. In appena quattro giorni, la Corte d' Assise di Roma scarcerò ottantanove fascisti accusati di «collaborazionismo o di atti rilevanti». Fra gli umori, che Nenni immaginava contrastanti, del leader democristiano e del capo comunista, furono i primi a prevalere. Nel giro d' un paio di anni, sarebbero tornati in circolazione molti personaggi che all' indomani della caduta del fascismo erano stati condannati, a volte perfino con troppo spirito punitivo. «Condanne eccessive», annota Franzinelli, vennero trasformate in «strabilianti proscioglimenti». Se si dovesse assegnare a quell' amnistia un valore di simbolo, non ci sarebbe da trarne motivi di esultanza per il «nuovo corso». Essa valse a confermare lo scetticismo che, fin dagli albori dell' epurazione, aveva pervaso le personalità antifasciste che venivano chiamate a gestirla. L' ipotesi che l' epurazione stessa fosse nata un po' deforme - è qui il caso di ricordarlo - aveva trovato alimento nel fatto che il primo suo fautore, Pietro Badoglio, mancava di ogni requisito per ergersi a moralista. Fin da allora, 1944, venne contraddetto, nei fatti, il proposito di punire i responsabili di vertice, evitando di prendersela con certi «poveri diavoli di gerarchetti», cioè con «i nostri fratelli sciocchi» (così li chiamava Carlo Sforza, primo Alto Commissario all' Epurazione). Lo stesso Nenni, insignito a sua volta della carica dopo la nascita del governo Parri, trovò difficile attuare la direttiva di «colpire in alto e indulgere in basso». E concluse che «nel campo dell' epurazione» si era «raggiunto il risultato di scontentare tutti». Gli scontenti dell' amnistia si contavano ora in gran numero fra gli antifascisti e gli uomini della Resistenza, cioè in un ambiente che comprendeva i militanti del partito di cui proprio Togliatti era a capo. A mano a mano che la Cassazione tornava, con intenti assolutori, sulle sentenze che erano state emesse dalle Corti d' Assise Straordinarie nell' immediato dopoguerra, specie nell' Italia del nord, la protesta saliva di livello. Falliva così l' intenzione di procedere a una pacificazione nazionale. «L' associazionismo partigiano», scrive Franzinelli, «considerò l' amnistia come uno schiaffo». Tornavano alla vita civile collaborazionisti e delatori, complici dei nazisti e confidenti dell' Ovra, gerarchi che si erano distinti nelle diverse reincarnazioni del regime littorio, bastonatori, aguzzini, fucilatori, teorici ed esecutori della «soluzione finale», componenti degli organi di giustizia della Repubblica sociale, giornalisti dediti all' apologia del regime. Nei territori da loro amministrati, i prefetti registravano quelle reazioni esacerbate. Le associazioni delle vittime del fascismo indirizzavano ai governanti documenti sdegnati, nei quali campeggiavano slogan del tipo: «Evviva la Repubblica! Abbasso l' amnistia!». Nei volantini spiccava la minaccia di «riprendere le armi per la seconda lotta di liberazione». Nei diari dei capi progressisti (ancora una volta in quello di Nenni, giornalista ancor prima che leader politico) dominano le annotazioni riguardanti «la macchia d' olio dell' agitazione» e si citano focolai di rivolta estesi dal Piemonte in tutto il nord. «A Milano», registra il capo socialista, «sono comparsi camion di partigiani in armi». Nelle aule di giustizia, imputati fascisti in procinto di venir perdonati vengono sottratti con fatica al furore del pubblico. A Casale, settembre ' 47, durante il processo contro gli autori dell' assassinio di alcuni partigiani fu necessaria la mediazione del segretario della Cgil Giuseppe Di Vittorio - con la garanzia che il presidente della Repubblica non avrebbe firmato le istanze di grazia - perché tornasse fra gli astanti un minimo di ordine, dopo che una dozzina di carri armati erano entrati a presidiare la città. Nell' occasione il questore di Torino, l' azionista Giorgio Agosti, interpretò, in un colloquio con il ministro dell' Interno Mario Scelba, il sarcasmo d' un pubblico indignato di fronte al perdonismo «strisciante»: «Se si vogliono accordare le grazie», osservò, «si abbia il coraggio di dirlo chiaro, così che tutto il Paese sappia che i seviziatori e i massacratori neri hanno salvato la vita grazie al tenero cuoricino di De Nicola». Fra le carte della «scrivania di Togliatti», custodite nell' archivio romano della Fondazione Gramsci, i fascicoli relativi al ' 46 rigurgitano di appelli, petizioni, lettere, telegrammi di protesta. Nella missiva d' un gruppo di parenti di fucilati per mano fascista emerge la minaccia di ritorsioni elettorali. «Continuando detto stato di cose», vi si legge, «faremo attiva propaganda contro il comunismo». E' forse esagerato presumere che, proprio a causa di queste difficoltà, dopo la caduta del primo governo De Gasperi (13 luglio ' 46), Togliatti non accettò l' incarico di Guardasigilli nel secondo. Doveva comunque averlo infastidito nel profondo quella contingenza che - così si esprime Franzinelli - aveva trasformato «il capo rivoluzionario in un ministro borghese». Egli peraltro negò che l' amnistia fosse stata «una cosa disastrosa», sostenendone la necessità: «Dovevamo farla e l' abbiamo fatta». Deplorò, nella «base», «manifestazioni scomposte», dovute ad «eccesso di nervosismo», e fece risalire gli «sbandamenti» verificatisi nel partito a «mancanza di fermezza politica». In termini politici generali Togliatti attribuì la colpa di certe incongruenze «perdoniste» agli alleati di governo e sottolineò la responsabilità dei magistrati filofascisti - perché tali erano rimasti - desiderosi di mettere in difficoltà le sinistre. Non sfuggiva tuttavia, anche in ambito comunista, il fatto che il decreto di amnistia era stato costruito in maniera tecnicamente manchevole e a tratti incongruente, offrendo ai giudici una palestra per acrobazie concettuali, sottili disquisizioni, ragionamenti tortuosi, considerazioni capziose e settarie. Colpisce la varia gamma di umori che Franzinelli registra ai vertici del Pci. Luigi Longo scorge nel Guardasigilli l' ovvia intenzione di «conquistare» al partito «i fascisti sinceramente onesti». Per Terracini l' errore è consistito nell' «affidare ai giudici un ambito di discrezionalità inusitato». Pietro Secchia è convinto che Togliatti sia stato «fregato» dalla burocrazia del ministero. L' autore del volume, assai severo in sede storica, trova poco convincente quest' ultima ipotesi, basata sulla sprovvedutezza del capo comunista, il quale, osserva, disponeva fra i suoi consulenti di tecnici agguerriti. E trova dunque verosimile che, dato il suo «carattere volitivo», egli, «raggiunta una convinzione, poco si sia curato del parere dei collaboratori». I socialisti furono tra i più decisi nel deplorare l' amnistia. Nilde Iotti colse sulle labbra di un militante del «partito fratello» un proposito che la sconcertò. Riferendosi agli ex fascisti liberati dalle carceri, egli assicurava: «Quelli escono e poi ci pensiamo noi». Sandro Pertini disegnò sconsolato il quadro che l' amnistia lasciava dietro di sé: «Abbiamo visto uscire coloro che hanno incendiato villaggi, che hanno violentato donne... ». Saragat consigliò: «Nella questione dell' amnistia dobbiamo dissociare la nostra responsabilità da quella dei comunisti». Fra gli azionisti, Calamandrei definì il decreto togliattiano «il più insigne monumento all' insipienza legislativa» ed Ernesto Rossi vi scorgerà «una dimostrazione di imbecillità e di incoscienza». In pagine risentite, Franzinelli descrive nominativamente il corteo degli alti dignitari del fascismo che torna in circolazione dal ' 46 in poi. Si va da Grandi a Federzoni, da Bottai a Scorza, da Alfieri a Caradonna, da Acerbo ad Ezio Maria Gray, da Renato Ricci a Giorgio Pini, da Teruzzi a Junio Valerio Borghese, da Cesare Maria de Vecchi ai collaboratori della banda Koch. E poi Mario Appelius, Telesio Interlandi, Concetto Pettinato, Bruno Spampanato. Molti fra loro detteranno le proprie memorie. Parecchi militeranno nelle file del Msi. Più d' uno, incredulo del miracolo che gli tocca, emigra in Sud America, per prevenire un ripensamento della democrazia. Un' epigrafe adatta a suggellare l' intera vicenda si trova in un' autobiografia che Giorgio Almirante pubblicò nel 1974: «Sarebbe ingeneroso non ricordare l' amnistia voluta da Togliatti per i fascisti».

venerdì 23 giugno 2006

Liberazione -lettere - 23.6.06
Dibattito
I gay? Persone normali


Caro direttore, vorrei provare a fare alcune considerazioni in merito alla lettera di Orio “Io omosessuale disperato” (“Liberazione”, mercoledì 21, ndr). L’omosessualità non è un orientamento standard, i gay non sempre sono persone straordinarie, sensibili, colte, ecc. o meglio sono questo ma anche il contrario, hanno gli stessi pregi e difetti degli eterosessuali. Dalla disperazione di Orio emerge una notevole omofobia introiettata, un disagio per una condizione più subita che accettata, un maledettismo che vuole la sessualità vissuta con inutile morbosità, come acqua spruzzata su un fuoco che divora. Ma siamo sicuri che questo modo di vivere i rapporti sessuali sia prerogativa delle persone che amano persone dello stesso sesso? Non sarebbe meglio abbandonare facili nostalgie per quando si era soltanto giovani, allegri, promiscui? Non è il momento di rifiutare il trito luogo comune della trasgressione frocesca? Pasolini era uno scrittore, un poeta, un regista, un intellettuale e anche un omosessuale, ma la sua disperata vitalità non è necessariamente un modello per i gay. Venga domani al Pride di Roma, Orio, e scoprirà la vitalità solare, la gioia di lesbiche, gay, bisessuali, transessuali, queer, persone normali ma senza le maschere delle convenzioni, cittadine e cittadini determinati a vivere liberi e rispettati, con uguali doveri e diritti
Saverio Aversa Roma
La Stampa, 17.06.06
Déjà-vu, quando il tempo si ferma
Federico Vercellone


E’ ancora vera l'affermazione secondo la quale la filosofia è una scienza che si sofferma con rigore sulle cose ultime? Indubbiamente l'essere, la sostanza e l'eterno campeggiarono nelle menti dei nostri antenati come una sorta di refrain che veniva loro inflitto, durante l'anno scolastico, tre volte alla settimana per circa quaranta settimane all'anno. Difficile dirimere con precisione perché si trattasse di una tortura. Forse perché gli uomini non erano o non sono interessati all'eterno? Al contrario: lo erano e lo sono eccome; a poche cose infatti sono più legati che all'idea dell'esistenza post mortem che difendono o attaccano con pari accanimento. Non si tratta di questo, ma del fatto che, oggi ancor più di ieri, si ha forse bisogno di un'altra dimensione dell'eterno meno perentoria e più familiare, qualcosa che conosciamo già da sempre e che non abbiamo bisogno di immaginare con sforzi che ci conducono in territori troppo impervi, che sono preclusi alla nostra immaginazione o che, al contrario, possono addirittura suscitare effetti orrifici. Allora c'è sicuramente necessità di parlare dell'eterno ma «in un certo modo». La filosofia continua a essere un' indagine rigorosa sul senso ma più domestica come ci dimostra anche l'ultimo affascinante libro di Remo Bodei, Piramidi di tempo che si sofferma sul tema del déjà-vu. A tutti noi è accaduto di vivere una situazione e di aver l'impressione di averla già vissuta. Anche con il déjà-vu abbiamo così a che fare con una ripetizione del tempo, con un arrestarsi del suo scorrere inesorabile verso la fine, con un'esibizione dell'irrefrenabile caducità dell'essere che per un attimo tuttavia si sofferma sul crinale del presente e lo ravviva di un'eco surreale. L'impressione di rivivere qualcosa che si è già vissuto accompagna talora in modo lievemente distonico lo svolgersi della nostra esistenza, ma stabilisce al tempo stesso una relazione di continuità con il passato meno drammatica e imponente di quella che è costituita dal rapporto con l'archetipo eterno. Proprio qui - ci ricorda Bodei - sta l'attualità filosofica di un tema come quello del déjà-vu che avrebbe altrimenti esclusivamente in psicologia la sua naturale collocazione. L'accelerazione moderna del tempo ha provocato un sempre maggiore divario tra passato e presente ma anche - aggiungerei - tra la morte e la vita. Il passato non costituisce più da questo punto di vista un orientamento per il presente, un'auctoritas; la storia non è cioè più magistra vitae. Per altro verso il presente non trova nel passato modelli che gli consentano di stabilire con quest'ultimo una relazione di continuità, un sicuro tessuto di senso che accompagni gli individui nel fare quotidiano. Questo diviene così un rarefatto terreno di occasioni: ci si inoltra al suo interno con l'intento di non farsi sfuggire le rare possibilità di benessere o felicità offerteci per esempio dall'amicizia e dall'amore.
Il fenomeno del déjà-vu entro il quale Bodei ci accompagna attraverso un lungo e variegato percorso teorico e storico che contempla poeti e artisti da Shakespeare a Dante Gabriele Rossetti (e la moglie Elizabeth Eleanor Siddal) a Verlaine e a Ungaretti, per venire a filosofi come Nietzsche, Bergson, Benjamin e Ernst Bloch, a scienziati e psicologi, ci obbliga a fare i conti con questo tutto sommato felice disturbo della personalità. Che si tratti infatti di un disturbo della personalità non v'è infatti dubbio. Al contrario dell'esperienza onirica che ci fa prendere il sogno per realtà il déjà-vu produce un'allucinazione di segno opposto: esso ci fa prendere la realtà per sogno. E' come se Dio o un demone si riaffacciassero sulla superficie appannata del presente allontanandolo da noi, ne smentissero la pretesa di essere l'unico assoluto dotandolo di una surreale provenienza, schiudendo un'altra volta quella faglia nell'oggi che amiamo chiamare senso.

Remo Bodei
Piramidi di tempo Storie e teoria del déjà-vu
il Mulino, pp.152, e12
SAGGIO












La Stampa, 17.06.06
Le Muse parlano sempre al plurale
Marco Vozza


I filosofi sono un po' come i bambini che, talvolta in modo petulante, domandano sempre il perché delle cose, dei nomi e di ciò che accade. Il compito del filosofo sembra essere quello di protrarre in età adulta lo stupore infantile. Nel libro Le Muse, presentato nella bella collana diretta da Claudio Parmiggiani, un eminente filosofo contemporaneo come Jean-Luc Nancy pone questa domanda: «Perché ci sono più arti e non una sola?». Per rispondere a tale domanda è inevitabile il confronto con Hegel, per il quale l'arte è una rappresentazione inadeguata - perché limitata all'esperienza sensibile - dell'Idea, e con Heidegger, per il quale l'arte è la messa in opera della verità. L'arte, per l'appunto, non le arti. L'evidenza empirica che esistono più arti contiene rilevanti implicazioni teoriche che Nancy riesce sapientemente a dipanare. Nancy muove dunque dall'affermazione che non vi è una sola Musa o una sola Arte ma molte Muse e dunque molte arti: la questione estetica concerne quindi il singolare plurale dell'arte e, per estensione, la pluralità dei mondi come principio della realtà. La pluralità artistica non permette di considerare l'arte come l'espressione simbolica di un'unica realtà, idea, sostanza o soggetto; pertanto essa è sempre in eccesso o in difetto rispetto al proprio concetto filosofico che vorrebbe sussumerne la pluralità incoercibile. In realtà, le arti si intrecciano senza risolversi mai nell'interiorità, disposte in una estensione totalmente esteriore, partes extra partes. La legge e il problema delle arti è il singolare plurale, inteso come il senso dei sensi nel loro differenziarsi sensibile. La sensualità dell'arte, sentita e senziente, come momento dell'esteriorità sensibile, evidenzia il primato del toccare; determinando la prossimità della distanza, il toccare fa corpo, è il corpus dei sensi. Le arti mostrano l'essere del mondo, l'esteriorità e l'esposizione di un essere al mondo: l'a priori e il trascendentale dell'arte è che il mondo sia dislocato in mondi plurali, in pluralità irriducibili all'unità-mondo, attuando una distribuzione differenziale dei sensi che non sopravviene ad una unità organica ma che costituisce l'unità stessa del mondo nella sua originaria differenza singolare-plurale, che apre alla molteplicità di zone del toccare, alla proliferazione delle differenze di tocco. L'evidenza dell'essere è l'esistenza come infinita molteplicità del mondo, qualificato come eterogeneità di mondi in cui consiste l'unità del mondo. La filosofia ha invece ricondotto la pluralità delle arti all'unità di una pura produzione del senso e alla dislocazione sensibile del senso, rendendo intelligibile la sua recettività singolare-plurale, attribuendo all'arte il compito della presentazione sensibile dell'Idea, una visibilità sensibile di una invisibilità intelligibile. La sussunzione sistematica delle arti sotto la poesia è l'effetto dell'interpretazione filosofica dell'arte, come una «riunione senza esteriorità dell'intelligibile e del sensibile» (così per Hegel come per Heidegger). Ma la creazione è l'apertura del singolare plurale dell'arte, la sua eterogeneità: come scrive Pessoa, «le cose non hanno significato, hanno un'esistenza. Le cose sono l'unico senso occulto delle cose». La semplice «patenza» del mondo è manifestata e non fondata dalla pluralità delle arti, dalla presentazione plurale del singolare plurale, delle occorrenze d'esistenza. Le opere d'arte espongono, e non rappresentano, questa «transimmanenza» esistente del mondo. La tecnicità dell'arte la sottrae ad ogni assicurazione poetica che costituisce la tentazione ricorrente del Romanticismo, anche del suo epigono Heidegger: svelare la physis nella sua verità. La concezione dell'Arte come techné dell'esistenza, come sua ostensione, rende inoperosa questa fondazione filosofica della natura. Anche l'epoca del nichilismo compiuto mantiene l'arte nella sua subordinazione all'idea filosofica, mutandola però di segno rispetto all'idealismo: l'arte si presenta nel concetto vuoto di Nulla che è il risvolto dell'Idea. Invece, qualora si manifesti soltanto nel dominio sensibile, l'Idea si ritira in quanto Idea, cancellando la propria idealità. Questo ritiro o ritrarsi del senso - secondo Nancy - è il compito residuale dell'arte: presentare il visibile in quanto tale, non come idealità invisibile da visualizzare, immagine visibile dell'invisibile. Il visibile diventa «vestigia», orma, altrimenti che immagine, il visibile o il sensibile stesso in molteplici schegge, vedute senza visione.

Jean-Luc Nancy
Le Muse
trad. di Chiara Tartarini a cura di Alessandro Serra Diabasis, pp.180, e16,50
SAGGIO











La Stampa, 17.06.06
Danzare sull’orlo della melanconia
Le immagini che ritornano, dalla menade greca alla ninfa rinascimentale alla malata isterica, sono «storie di fantasmi per adulti»: così definiva il suo lavoro Aby Warburg, psicostorico dell’arte, testimone (e vittima) del «pensiero che rende folle», ricostruito in un formidabile saggio di Didi-Huberman
Marco Belpoliti


ABY Warburg è diventato con il passare degli anni un personaggio mitico. Nato nel 1866, e morto nel 1929, il suo nome è legato alla nascita dell'iconologia oltre che alla prestigiosa biblioteca da lui messa insieme in cambio della rinuncia all'eredità di una ricchissima famiglia di banchieri tedeschi. Disposta secondo il criterio del buon vicinato, e seguendo una sequenza originale e inconsueta, la biblioteca si è salvata in Inghilterra diventando fonte essenziale per successivi studi. I due più famosi esponenti dell'Istituto Warburg, suoi successori, sono Ernst H. Gombrich e Erwin Panofsky. Il primo è stato per lungo tempo il più celebre studioso d'arte, ha operato a Londra e ha scritto una biografia del fondatore. Panofsky, invece, rifugiatosi in America dopo l'avvento del nazismo, ha influenzato profondamente gli studi accademici di storia dell'arte. Entrambi gli autori hanno dato di Warburg e della sua lettura dell'arte una visione pacificata ed edulcorata, omettendo gli aspetti più inquieti e disorientanti del suo lavoro: l'eccentricità disciplinare, l'incollocabilità, la vertigine epistemica che la sua opera edita, e inedita, apre. In un libro formidabile, arduo ma importante, Georges Didi-Huberman, oggi il più significativo filosofo e storico dell'arte europeo, L’immagine insepolta, riapre il confronto con Warburg, non solo illuminando punti salienti del lavoro e della vita dello studioso, ma soprattutto usando il «metodo Warburg» per leggere lo stesso studioso tedesco, per rivitalizzare il discorso sull'arte che le accademie e i divulgatori vorrebbero chiudere per sempre, per lasciar vivere la mediocrità di gran parte degli studi di storia dell'arte attuali nel mare pacifico della filologia, o al massimo dell'expertise. Libro vivace dal punto di vista intellettuale, ma anche dal punto di vista politico - la cultura che non può fare a meno della politica, e viceversa - L’immagine insepolta dialoga, anche polemicamente, con alcuni dei libri e degli studiosi più interessanti in Europa e in America, quelli usciti dalla fucina di «October» (si veda l'altrettanto importante libro di Hal Foster, Il ritorno del reale, tradotto in Italia con dieci anni di ritardo da Postmedia). In cosa consiste il «problema» di Warburg? In una questione abissale. Warburg ha gettato uno sguardo nella schizofrenia dell'Occidente «attraverso il riflesso autobiografico delle sue immagini». Psicostorico dell'arte, come si era battezzato, ha raccolto in una doppia figura questa «malattia»: da un lato l'eccitazione estatica raffigurata dalla Ninfa danzante rinascimentale, la menade dei Greci, e dall'altro la forma depressiva che si raccoglie nell'immagine della divinità fluviale in lutto, che, per semplificare, è stata poi studiata da alcuni dei suoi discepoli: la melanconia dell'artista meditabondo e corrucciato. Warburg ha analizzato il modo in cui nelle immagini sopravvivano, di secolo in secolo, temi e questioni che fanno parte non solo della cultura figurativa, letteraria o filosofica, ma della vita stessa. In questo modo, sulla scia di Nietzsche, lo studioso tedesco ci ha fatto scoprire un tema diventato negli ultimi decenni decisivo: la pluralità del tempo, ovvero l'esistenza di temporalità multiple, ramificate, parallele, contrapposte alla visione riduttiva dell'unica freccia del tempo che scorre dal passato verso il futuro. Il modo con cui Warburg definiva il suo lavoro era «storie di fantasmi per adulti». I fantasmi sono appunto le immagini che ritornano nel campo visivo. Tra il 1921 e il 1924 Warburg fu ricoverato in una casa di cura per malattie nervose. Lo curava Ludwig Binswanger, il più famoso psichiatra del Novecento, corrispondente di Freud, fondatore della fenomenologia psicologica, in dialogo con Heidegger (le cartelle cliniche e le lettere si leggono ora in La guarigione infinita, Neri Pozza). La follia s’impadronì dello studioso e lo tenne prigioniero per 3 lunghi anni. Fu come se tutti i temi agitati dalla sua ricerca, gli sguardi gettati nelle profondità psichiche della cultura occidentale, lo avessero posto dinanzi a problemi insolubili sul piano concettuale. Didi-Huberman parla di lotta con il mostro, di dramma psichico e di nodo e complesso e dialettico; Warburg voleva trovare il bandolo della matassa e cercare di illuminare con la ragione questioni che non si lasciano ridurre ad essa, ma pescano nel mondo dell'irrazionale: il pensiero può anche rendere folli. Prima del suo ricovero nella clinica, si era recato in America, presso gli indiani Pueblo, alla ricerca della chiave di interpretazione della celebre statua di Laooconte e dei suoi figli, avvolti nelle spire dei serpenti. Lì scoprì un rito dei serpenti che avvalorava le sue ipotesi sulla psicostoria delle immagini. Alla fine del suo periodo di cura, davanti a un pubblico di infermieri e dottori, Warburg tenne una conferenza in cui cercava di descrivere i legami tra questi due «oggetti» visivi così differenti (Il rituale del serpente, Adelphi). L'altra grande avventura di questo uomo dall'apparenza altoborghese fu la costruzione di un grande atlante della memoria (Mnemosyne. L’atlante delle immagini, Aragno) in cui cercava di legare immagini di un affresco fiorentino e simbologie antiche, reperti archeologici e immagini contemporanee. Come argomenta Didi-Huberman, Mnemosyne è «un oggetto d'avanguardia che decostruisce l'album-souvenir storicistico delle influenze dell'Antichità per sostituirgli un atlante della memoria erratico, regolato sull'inconscio, saturo di immagini eterogenee, invaso di elementi anacronistici e immemoriali». Warburg lavora con il montaggio attivando ciò che in quegli stessi anni stava facendo l'arte d'avanguardia. Tra Bracque, Schwitters, Rodcenko e Warburg non c'è diretta comunicazione, tuttavia, come spiega l'autore, il paradigma di pensiero che li sostiene è il medesimo: «Le immagini portatrici di sopravvivenze non sono altro che montaggi di significazioni e di temporalità eterogenee». Detto altrimenti, Warburg, al pari delle avanguardie e di Walter Benjamin, fa esplodere il modo di pensare il passato della tradizione. Gli autori che il volume mette in campo accanto allo storico dell'arte tedesco sono Nietzsche, Darwin, Freud, Lacan descrivendo un campo di pensiero che la cultura contemporanea ha espulso ma che, come i fantasmi e il rimosso psichico, immancabilmente torna per mettere in crisi asserti, convinzioni, definizioni e cronologie assegnate. L'arte (ma anche la letteratura) è un grande campo di battaglia dove si combatte una lotta che è insieme culturale e politica, in cui la lettura delle forme non è mai fine a se stessa e la posta in gioco è la possibilità di modificare insieme presente e passato, e dunque il futuro. Warburg è stato il solitario sismografo, come si definì, fabbricato con pezzi provenienti dall'Oriente, dalla Germania del Nord e dall'Italia: «Lascio uscire da me i segni che ho ricevuto».


Georges Didi-Huberman
L’immagine insepolta
trad. di Alessandro Serra Bollati Boringhieri pp. 552, e48
SAGGIO















La Gazzetta del Sud, 21.06.06
Valeria Palumbo: «La perfidia delle donne». Storie, virtù e peccati dell'"altra metà del cielo"
L'angelo del focolare riluce di seduzione
Le "cattive" da Erodiade a Elisabeth Nietzsche con un occhio a Cleopatra
Maria Gabriella Scuderi


Il giudizio comune sul «femminile» contiene un'intrinseca contraddizione, ascrivibile tanto alla naturale ambiguità della donna, tanto a una difesa messa in atto dall'esterno al fine di neutralizzarne la ben nota astuzia. Perché ognuna di esse è sì «angelo del focolare», capace cioè di scaldare il cuore con un abbraccio; ma anche – in particolari circostanze – creatura fortemente determinata in spietatezza e crudeltà. Non potendo vantare un «diritto innato» al comando, o ricorrere direttamente alla violenza per imporre i suoi diritti, o ancora – come avveniva ni passato – aspirare in prima persona a cariche di prestigio, molte donne sono riuscite e riescono tutt'oggi a gestire con la sola arma dell'inganno un potere analogo a quello degli uomini. La necessità di «non esporsi» per non suscitare la reazione altrui ha contribuito, dunque, ad affinare l'ingegno e la destrezza nel non commettere distrazioni ed errori.
Ma la «seduzione», da sempre irresistibile arma femminile, non è l'unica qualità messa in campo nel processo di autoaffermazione. Tenacia, determinazione, ferma volontà, buon senso, sono armi ugualmente efficaci per vincere il pregiudizio che da sempre ha circondato qualsiasi impresa femminile, dalla più banale alla più illustre, capace di modificare il corso della storia.
Tuttavia, laddove il potere della donna si è realizzato, la storiografia è intervenuta a modificare il significato degli eventi con la sua penna mistificatrice, svilendo di proposito la portata dell'impegno e della capacità femminile.
Quando la storia è fatta da donne, infatti, le fonti antiche sono spesso intrise di giudizi negativi, gravati da una pesante misoginia che, resistendo attraverso i secoli, ignora puntualmente le scoperte della moderna storiografia. Leggendo di imprese al «femminile» è importante, quindi, cercare di reperire tra le righe quegli aspetti di verità celati, che costituiscono spesso la parte fondamentale e più intrigante delle vicende. Al fine di restituire adeguata dignità alle imprese femminili che hanno «fatto storia», anche attraverso l'esercizio dell'astuzia o della malvagità, Valeria Palumbo, giornalista e autrice di numerosi scritti a sfondo storico-politico sulla donna, nel suo ultimo lavoro dal titolo «La perfidia delle donne» (Sonzogno - pp. 376 - euro 17) si fa interprete di una narrazione il più possibile «fedele» ai fatti accaduti. La scrittrice cerca di svestire le donne narrate da pregiudizi e stereotipi comuni, mettendo in primo piano le condizioni storiche e sociali in cui esse hanno agito. A fronte di tante donne giudicate a torto «cattive», la storia ce ne fa vedere diverse che perfide lo sono state davvero. La loro vicenda, ritratto psicologico del male al femminile, è testimonianza di quanto la necessità di schivare pericoli, aggirare le leggi, mentire e usare inganni e sotterfugi abbia plasmato, attraverso le generazioni, una forma di intelligenza femminile infida e inarrestabile.
Nell'originale e intrigante galleria di ritratti di donne la Palumbo parte dall'epoca biblica e, attraverso l'età antica approda al Medioevo e al Rinascimento, periodo storico più denso di «famose perfide» giungendo fino all'era moderna e contemporanea. Inaugura la fitta rassegna di «cattive» Erodiade la decapitatrice, madre della giovane e bella Salomè, descritta nel Vangelo secondo San Matteo come una conturbante danzatrice. La giovane piacque tanto a Erode da prometterle tutto ciò che gli avesse chiesto. Salomè, istigata dalla madre, pretese e ottenne la testa di Giovanni il Battista. Altro ritratto femminile complesso ma per certi aspetti «attuale» è quello di Fulvia, terza moglie di Marco Antonio. Plutarco la descrive come una vear «dominatrice», molto abile nell'arte del comando. Ella oltre a filare la lana e occuparsi della casa esercitava un forte potere sul marito, dimostrandosi capace di «governare un governante», un uomo che comandava gli eserciti. Cleopatra le fu sempre riconoscente per averle consegnato un uomo avvezzo a subire del tutto la signoria di una donna.
Nell'età imperiale spiccano, invece, le figure di Agrippina minore e Giulia Maesa, la prima artefice dell'ascesa al trono del figlio Nerone, la seconda mandante dell'omicidio del nipote Eliogobalo. Prima di essere uccisa da Nerone Agrippina ne fu complice e guida. Donna coraggiosa, volitiva e spietata, non ha mai avuto dalla storia un momento di riscatto, e la sua stessa vicenda dimostra quanto l'ingratitudine possa essere talvolta enorme, arrivando persino a colpire a morte chi del successo altrui è il principale artefice.
Tuttavia l'emblema delle donne spietate può essere considerata Lady Macbeth, immortalata da Shakespeare, che l'ha descritta come persona indenne da emozioni e animata da crudeltà pura e fredda. Esasperando l'aspetto malefico delle sue qualità, il drammaturgo la rese un personaggio indimenticabile.
Arrivando a tempi più recenti, tanti e diversi sono i volti della cattiveria femminile; tra cui Elisabeth Nietzsche, la «narificatrice», fondatrice di una colonia per la purezza della razza. Per non parlare delle nefaste mogli dei dittatori Franco e Mao Tze-tung. La seconda fu soprannominata dai cinesi «il demone dalle bianche ossa», perché ricordava in crudeltà un personaggio della mitologia che cambiava continuamente forma e sesso per attirare vittime da divorare nella sua grotta.
Il testo di Valeria Palumbo scritto in uno stile ricco e coinvolgente raggiunge l'obiettivo prefissato dall'autrice, andando oltre il tratteggiamento storiografico, per toccare la psicologia più autentica dei personaggi, e il suo evolversi attraverso le vicende della società che fa da sfondo. Le varie personalità di donna che emergono da fatti narrati, tuttavia, nella loro perfidia mostrano anche un tratto di pura fragilità, come base motivazionale da cui partono le loro azioni. C'è sempre una necessità di riscatto che le induce tutte ad aguzzare l'ingegno fino ad approdare all'unica scelta possibile: la cattiveria, come strumento di sopravvivenza. Con un possibile slogan caratterizzante, che l'autrice opportunamente rintraccia nei dialoghi di un vecchio film. «Non sono un angelo», in cui Moe West afferma: «Quando sono buona sono fantastica. Ma quando sono cattiva, sono meglio».


dal sito Internet dell'editore Sonzogno
Valeria Palumbo, La perfidia delle donne, Dall'antichità al '900 20 storie di malizia, astuzia e crudeltà femminile, Sonzogno editore 2006
€: 17.00 pp: 378

Il loro emblema l’ha immortalato Shakespeare. È Lady Macbeth, animata da crudeltà pura, gelida e indenne da emozioni.
Sono le donne perfide, quelle figure assetate di potere che hanno intelligentemente sfruttato la propria determinazione e la propria mancanza di scrupoli per imporsi. Se ne trovano in ogni civiltà e in ogni fase della Storia.
In questa nuova, intrigante galleria di ritratti femminili, Valeria Palumbo parte dall’epoca biblica quando Erodiade non solo istiga la figlia Salomè a chiedere a Erode la testa di Giovanni Battista, ma successivamente trama affinché il marito sottragga al fratello l’ambito titolo di re di Giudea. Attraversa poi l’età antica fra matrone armate come Fulvia che trafisse la lingua di Cicerone, e spietate cospiratrici alla corte imperiale quali Agrippina minore e Giulia Maesa, la prima artefice dell’ascesa al trono del figlio Nerone, la seconda mandante dell’omicidio del nipote Eliogabalo. Per approdare al Medioevo e al Rinascimento, in cui non c’è Regno al mondo che non annoveri una grande perfida: dall’imperatrice Irene di Bisanzio che per mantenere il potere fece accecare il figlio, a Isabella di Castiglia, fautrice del Tribunale dell’Inquisizione. Anche nell’era moderna sono tanti e diversi i volti della cattiveria femminile, come quelli di Francisca de Zubiaga, la più celebre e chiacchierata donna d’armi durante gli ottocenteschi moti rivoluzionari in Sudamerica; di Elisabeth Nietzsche, “nazificatrice” delle opere del fratello e fondatrice di una colonia per la purezza della razza; e delle nefaste mogli dei dittatori Franco e Mao Tze-tung. E che dire di Elsa Maxwell, la giornalista americana che nella prima metà del ’900 distrusse una generazione di attrici con la sua penna al cianuro?
Approfondito, ricco di interpretazioni innovative che sfatano pregiudizi della storiografia e scritto in uno stile coinvolgente, La perfidia delle donne è un’affascinante cavalcata nello spazio e nel tempo alla scoperta di personalità forti e spesso misconosciute. Una lettura che ci tuffa nella Storia e, insieme, ci illumina sui complessi percorsi attraverso cui si è formata ed evoluta l’identità femminile.

NOTE BIOGRAFICHE
Valeria Palumbo, giornalista, ha cominciato in televisione, ha lavorato a lungo nella redazione di Capital, per diventare poi caporedattore attualità e cultura di Amica e in seguito di Global FP.
Attualmente è caporedattore de L’Europeo, conduce le video-chat su Internet della Rcs libri e di Ok La salute prima di tutto, dirige la rivista letteraria Rottanordovest.com e collabora con diverse testate. Laureata in Scienze politiche con una tesi in storia delle donne, ha frequentato il Master in giornalismo della Rizzoli-Corriere della Sera e sarà tutor per il nuovo Master di giornalismo dell’Università statale di Milano.
Ha pubblicato nel 2003 un saggio, Prestami il volto (edizioni Selene), sulle compagne di artisti famosi. Nel 2004 è uscito Lo sguardo di Matidia (edizioni Selene) sulla suocera dell’imperatore Adriano; nel 2005 Le donne di Alessandro Magno (Sonzogno), inedito ritratto del più famoso condottiero della Storia raccontato dalle donne che lo hanno amato. Sempre nel 2005 ha pubblicato Donne di piacere per Sonzogno; l’ultimo saggio è La perfidia delle donne, sempre Sonzogno. Sta già scrivendo un nuovo volume: ancora le donne protagoniste… ma sotto altra veste (lo scopriremo).
















La Stampa - TuttoScienze 21.6.06
Gli scienziati studiano i bimbi che ricordano le loro vite precedenti
IL DIRETTORE DELLA CLINICA DI PSICHIATRIA INFANTILE ALLA VIRGINIA UNIVERSITY «MOLTISSIMI I CASI ACCERTATI. UN FENOMENO PRESENTE SOLO TRA I 2 E I 6 ANNI»


SE avete un figlio che improvvisamente inizia a parlare della sua vita precedente, la persona da cui portarlo è Jim Tucker, direttore della clinica psichiatrica infantile all'Università della Virginia nonché autore del libro «Life Before Life: A Scientific Investigation of Children's Memories of Previous Lifes», ovvero il risultato di anni di ricerche condotte sui bambini che affermano di ricordare vite vissute nel recente passato. Come nasce il libro «Vita prima della vita»? «Dai casi che sono stati studiati negli ultimi 45 anni di ricerche, qui all'Università della Virginia, e che riguardano bambini che ricordano dettagli precisi di vite precedenti, vissute nel passato, prima di nascere». Chi sono questi bambini? «Provengono da ogni angolo del Pianeta e da ogni tipo di famiglie. Da quando abbiamo inaugurato il nostro sito Internet abbiamo trovato 100 nuove famiglie solo negli Stati Uniti. Il dottor Ian Stevenson, che inizò questa ricerca, ha già pubblicato un libro sui casi europei ed ora io ho fatto lo stesso su quelli americani». Stevenson ha studiato anche dei casi italiani? «Nel suo libro si parla di Luigi Gioberti, nato a Venezia nel 1958: all'età di tre anni iniziò a dire di sognare di essere un aviatore ed a 11 anni diceva di essere un pilota britannico di nome John Graham, abbattuto su Montecassino dall'artiglieria tedesca. Ma le ricerche fatte a Londra non hanno fino ad ora confermato l'esistenza di un pilota con quel nome». Come svolgete la ricerca: siete stati voi a trovare le famiglie o sono state loro a farsi avanti? «L'uno e l'altro». Che cosa intende dire quando afferma che questi bambini «ricordano una vita precedente»? «E' una situazione nella quale un bambino, spontaneamente e in genere attorno all'età di 2-3 anni, inizia a parlare di che cosa rammenta della famiglia precedente, come il luogo dove ha vissuto, i nomi di conoscenti e le circostanze della morte». Come fate a sapere che un bambino di 2 o 3 anni sta dicendo la verità? «Verifichiamo. In molti casi i ricercatori sono andati di persona nei posti indicati dai bambini ad incontrare le persone di cui avevano parlato, riscontrando che avevano detto la verità». I bambini sono consapevoli di parlare di vite precedenti o siete voi ad affermarlo? «I bambini non usano l'espressione “vita precedente”, ma parlano con chiarezza di ciò che gli è avvenuto in passato». Può fare l'esempio di un caso dove avete verificato che la memoria corrispondeva ad eventi realmente avvenuti? «Certo. Un bambino turco diede molti dettagli alla sua famiglia sulla città di Istanbul, che si trovava molto lontano da dove abitava, aggiungendo i particolari di parenti avuti in passato con nomi armeni assieme ai relativi indirizzi di casa. Ricordava anche i nomi della moglie e dei figli. In un'altra occasione una bambina indiana ha iniziato a parlare del suo passato, quando aveva 3 anni, descrivendo la vita passata in una città di 200 mila persone e lontana 40 chilometri da dove è nata. Uno dei suoi zii prese nota delle affermazioni della bambina e volle accertarsi se erano vere prima ancora di contattarci. Ebbene, appurò che la bambina aveva detto con precisione i nomi del figlio e del nipote, il fatto che lavorava con il martello, che vicino alla casa c'era uno stagno». Perchè alcuni bambini ricordano le vite passate ed altri non lo fanno? «E' una buona domanda. Si può rispondere però tenendo presente che nel 70% dei casi i bambini ricordano morti avvenute in circostanze non naturali, incidenti o episodi traumatici, improvvisi». Che spiegazione dà a questo tipo di fenomeno? «Ci sono occasioni in cui memoria ed emozioni sopravvivono e ciò porta a dire che la coscienza non è un prodotto del cervello, ma piuttosto un'entità distinta, capace di sopravvivere anche dopo la morte del corpo». Ciò significa spingersi fino a giustificare la teoria della reincarnazione delle anime? «Preferisco non usare il termine “reincarnazione” per la connotazione che ha assunto nel corso del tempo. Meglio è affermare che esistono prove concrete sulla sopravvivenza delle emozioni umane in presenza di alcune circostanze specifiche». Ma lei personalmente crede nella reincarnazione? «Non sono un buddhista nè un induista e non seguo altri credi simili. Passo il mio tempo a fare ricerca e verificare l'esistenza di prove scientifiche, concrete. Sulla base di quanto finora abbiamo trovato la reincarnazione non può essere esclusa del tutto». Vi siete mai imbattuti in adulti che ricordano vite precedenti? «Può avvenire di trovare casi di adulti che ricordano di aver parlato di vite precedenti quando erano bambini, ma in genere questo tipo di memorie svaniscono passata l'età di 6 o 7 anni». Come reagiscono le persone che vengono a contatto con i vostri studi? «In modo differente. Nel mondo della scienza, della medicina, prevale ancora lo scetticismo, ma con il passare degli anni sta aumentando il numero di chi considera le nostre ricerche con maggiore interesse, anche all'interno nelle principali associazioni mediche degli Usa». {Testo} Jim B. Tucker, psichiatra, è autore di «Life Before Life: A Scientific Investigation of Children's Memories of Previous Lives»: il saggio è una sintesi di oltre 40 anni di ricerche sui bambini e i loro ricordi di vite precedenti condotti all’università della Virginia, presso il dipartimento dei «Personality Studies». IL SITO INTERNET http://www.wie.org/bios/jim-tucker.asp LA TEORIA ESTREMA Se Tucker è lo scienziato, Ervin Laszlo è il filosofo: ha elaborato una nuova teoria sulla reincarnazione nel saggio «Science and the Akashic Field: An Integral Theory of Everything» (Inner Traditions, 2004). Sostiene l’esistenza di un «campo di informazioni» (chiamato Akashic field o Quantum field o, ancora, Zero-Point Field), nel quale si raccolgono le esperienze degli esseri viventi: uomini e anche animali sarebbero in grado di «consultare» le informazioni in questa sorta di banca dati universale e, in particolare, i bambini prodigio avrebbero la capacità di leggere ricordi remoti.
Maurizio Molinari















AprileOnLine, 23.06.06
Tra Mussi e Ruini prove di dialogo?
Incontri. Ministro e cardinale al IV Simposio europeo dei docenti universitari, dopo il ritiro della firma italiana sulla ricerca in Europa anche con l’utilizzo di cellule staminali
Emiliano Sbaraglia



La Sala della Protomoteca del Campidoglio di Roma è affollata oltre ogni limite di capienza; ma il motivo di tale attenzione non è tanto il IV Simposio dei Docenti Universitari organizzato dall’Università cattolica del Sacro Cuore, seppure il tema scelto, “L’impresa e la costruzione di un nuovo Umanesimo” sia senza dubbio stimolante e di sicuro interesse. La ressa di pubblico, giornalisti, fotografi e telecamere, è dovuta soprattutto all’incontro “ravvicinato” tra il Ministro dell’Università e della Ricerca Fabio Mussi, e il Vicario Generale della Diocesi di Roma e Presidente della Cei, il Cardinale Camillo Ruini, entrambi relatori nel corso della Cerimonia inaugurale tenutasi nella serata di ieri.

Dopo i rituali onori di casa, come sempre impeccabilmente espletati dal Sindaco Walter Veltroni, e la presentazione del programma dei lavori (22-25 giugno) illustrato dal professor Cesare Mirabelli, presidente del Comitato dei Docenti Universitari, l’arrivo (in ritardo) del Cardinal Ruini ha scatenato i flash e agitato l’intero uditorio, oltre che provocare l’applauso dei numerosi rappresentanti del mondo cattolico presenti. Occupato il posto a lui riservato, è stato proprio il ministro Fabio Mussi a prendere la parola, specificando come religione e Chiesa non facciano parte soltanto di una sfera individuale e privata, ma quanto piuttosto influiscano nel quadro di un più ampio dibattito pubblico.
Passando al tema specifico del Simposio, Mussi ha ricordato l’importanza delle finalità di una economia globalizzata, posta di fronte all’esigenza di una nuova regolamentazione dei rapporti tra “homo faber” e impresa, laddove il soggetto umano si consideri, come deve essere considerato, un valore imprescindibile e inalienabile dell’impresa stessa, non sostituito ma anzi valorizzato dalle enormi potenzialità che le nuove tecnologie sono già in grado di esprimere.
Mussi si è poi soffermato a riflettere sul concetto di “sapere”, quale elemento imprescindibile nel lavoro e nell’impresa, per un coerente sviluppo nazionale ed europeo di una moderna società della conoscenza. Industria ed ecosistema sono le coordinate di riferimento con le quali il ministro ha concluso il suo intervento, ricordando l’impressionante velocità sostenuta dall’essere umano nei recenti decenni, nel modificare il sistema planetario durante questo ultimo e breve ciclo storico, rispetto ai tempi consueti delle ere geologiche: un problema che dobbiamo affrontare tutti con priorità assoluta, supportati da un rinvigorito impegno nella ricerca e nella scienza, che potrebbe garantire quel “salto di qualità” oggi più che mai necessario.

“Impresa e umanesimo cristiano” è stato invece il titolo dell’intervento di Camillo Ruini, nel quale l’alta personalità religiosa ha ribadito alcune sue perplessità sulla definizione di “nuovo Umanesimo”, ricordando le varie tipologie di “umanesimi cristiani” dipanatisi nel corso della storia, tutti riconducibili alla “pulsione unitaria” rappresentata dalla figura di Gesù Cristo, ma tutti naturalmente esposti alla possibilità di modifiche e trasformazioni, sempre mantenendo l’idea contenuta anche nell’enciclica “Centesimus annus”, secondo Ruini ancora tra le più aderenti al mondo contemporaneo, dove viene scritto che “l’uomo stesso è la principale risorsa dell’uomo”.
Un passaggio, questo, che è sembrato avvicinare le posizioni del Cardinale a quelle precedentemente espresse dal ministro soprattutto quando, subito dopo, Ruini si è lasciato andare alla considerazione che, in tema di nuove tecnologie, bisogna tener conto delle necessarie richieste provenienti dal mondo in cui viviamo, “a prescindere o meno dalla nostra volontà”.
Nei termini invalicabili della libertà religiosa, l’intero genere umano ha dunque il compito di farsi trovare pronto per queste prossime sfide.

Che l’interesse fosse tutto rivolto al “duello” Mussi-Ruini, si è ben compreso tra la fine della Cerimonia inaugurale e l’inizio della sessione d’apertura (che verosimilmente avrà registrato ben pochi spettatori). La stretta di mano tra i due protagonisti è stata visibilmente la scena che tutti attendevano, salvo poi cercare di strappare ai due interlocutori qualche dichiarazione in più.
E a chi ha provato a chiedere al ministro se quel passaggio del Cardinale sulle nuove tecnologie non potesse essere colto come una timida apertura, rispetto agli attriti delle scorse settimane su staminali e metodi di ricerca scientifica in genere, Mussi ha risposto: “In effetti ho seguito con particolare interesse l’ultima parte dell’intervento del Cardinale Ruini, ma non chiedetemi di interpretare oltre quanto Sua Eminenza ha inteso dire…”.
Se si trattino o meno di timidi tentativi di dialogo, lo scopriremo nel corso dei prossimi incontri, meglio se incentrati su questioni “tecniche” attinenti il reale motivo del contendere






















Le Scienze, 22.06.2006
Arriva lo zapping contro l'emicrania
L'impulso magnetico disattiverebbe alcuni circuiti neuronali iper-reattivi


Un’apparecchiatura elettronica messa a punto dai ricercatori del Dipartimento di medicina della Ohio State University consentirebbe ai pazienti che soffrono di emicrania di evitare lo scatenarsi della crisi. L’apparecchiatura, chiamata TMS, deve essere utilizzata nel periodo appena precedente, quello che viene detto di “aura”, durante il quale molti pazienti provano sensazioni particolari, descritte come la “visione” di stelle che esplodono, lampi di luce, linee a zig-zag, confusione, ecc. Il TMS produce un intenso campo magnetico, opportunamente tarato, della durata di un millisecondo: questo impulso – per usare un’immaginifica espressione dei ricercatori – costringe il cervello a fare “zapping” per sfuggire dal canale dell’emicrania su cui si sta sintonizzando. Classicamente si considera che un attacco emicranico inizi con una vasocostrizione dei vasi cerebrali, che darebbe origine all’aura, seguita da una vasodilatazione, che rappresenterebbe l’attacco vero e proprio. A questa spiegazione da alcuni anni se ne è aggiunta un’altra – non necesssariamente in opposizione – che individua la causa prima in una ipereccitabilità di alcuni circuiti neuronali cerebrali. Basandosi su questa ipotesi i ricercatori hanno sviluppato il TMS, che – secondo quanto riferito al congresso della American Headache Society in corso a Los Angeles, avrebbe dato buoni risultati preliminari. "Nel nostro campione, il 69 per cento di quanti sono stati trattati con TMS non ha avuto attacchi o solo attacchi leggeri nelle due ore successive all’applicazione, contro il 48 per cento del gruppo di controllo.”
© 1999 - 2006 Le Scienze S.p.A.












Le Scienze, 23.06.2006
Il neuropeptide S interviene nei disturbi psicotici
Stimola anche lo stato di veglia e allevia l'ansia



Un anno fa un gruppo di ricercatori dell’Università della California a Irvine individuò una proteina, battezzata neuropeptide S (NPS), che viene prodotta da alcuni gruppi di cellule all’interno del tronco cerebrale. I recettori per l’NPS si trovano in diverse aree specializzate per la regolazione del ritmo sonno-veglia, dell’appetito, dell’ansia, ma anche dell’apprendimento e della memoria. In esperimenti su animali, la somministrazione di NPS ha mostrato di stimolare lo stato di veglia, e di alleviare l’ansia. Ulteriori ricerche - pesentate al Congresso internazionale di Neuroendocrinologia in corso a Pittsburgh – hanno ora dimostrato che lo spettro d’azione di questo neuropeptide è molto più vasto. In particolare, trattando con NPS animali da esperimento dopo che a essi erano stati somministrati farmaci in grado di indurre comportamenti simili a quelli caratteristici di una crisi psicotica, questi ultimi non si sviluppavano, né si manifestavano caratteristiche alterazioni neurochimiche legate al disturbo. Il responsabile della ricerca, Rainer K. Reinscheid, ha sottolineato che sebbene questi studi siano ancora in uno stadio preliminare e la possibilità di utilizzare farmaci che agiscano su questo mediatore cerebrale per alleviare i sintomi della schizofrenia nell’uomo sia tutta da verificare, lo sviluppo di farmaci in grado di agire sugli stati di ansia e sulla narcolessia appare più vicino.
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Le Scienze, 19.06.2006
Un fattore di rischio per la degenerazione del sistema nervoso
Molti dei pazienti intervistati mostrano i sintomi del morbo di Parkinson



Circa i due terzi dei pazienti affetti da disturbo del comportamento nel sonno REM (noto anche con l’acronimo RBD) sviluppano malattie degenerative del sistema nervoso circa 11 anni dalla diagnosi di tale disturbo. È quanto annunciato dai ricercatori della Mayo Clinic al convegno SLEEP 2006, che si tiene a Salt Lake City, negli Stati Uniti.
Nel disturbo RBD, i pazienti mettono in atto ciò che stanno sognando, spesso anche ferendo se stessi e chi sta loro vicino. Si tratta dell’effetto del venir meno della normale paralisi muscolare che avviene nei soggetti sani. In quest’ultimo studio della Mayo Clinic, 39 pazienti che hanno ricevuto una diagnosi di RBD tra il 1988 e il 1995 sono stati intervistati per accertare le loro condizioni di salute. Dei 23 soggetti che hanno accettato di partecipare allo studio, 5 sono ora affetti da morbo di Parkinson mentre altri 10 hanno riferito sintomi che suggeriscono l’insorgenza di demenza o di Parkinson.
“Il nostro studio – ha spiegato Maja Tippmann-Peikert neurologa che ha guidato la ricerca – mostra come l’RBD porti, nella gran parte dei casi, alle cosiddette sinucleinopatie. Se i nostri risultati verranno confermati, bisognerà considerare i pazienti affetti dal disturbo del sonno REM come a rischio per tali malattie.”
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Le Scienze, 19.06.2006
Tutte le melodie di un profumo
I singoli composti chimici volatili sono come note di una sinfonia


Ricercatori del Duke University Medical Center hanno scoperto, in studi sul topo, che i neuroni del bulbo olfattivo – la prima stazione cerebrale a cui arrivano le informazioni provenienti dai recettori olfattivi – non percepiscono una complessa mistura di odori come una singola entità, ma identificano i singoli composti chimici che la costituiscono. Parti del sistema olfattivo cerebrale li classificano e ricombinano in un profumo riconoscibile. Secondo i ricercatori il cervello agisce come se individuasse le linee melodiche all’interno di una sinfonia.
Gli scienziati hanno dibattuto a lungo sulle modalità con cui il cervello si districa fra le migliaia di composti chimici volatili che arrivano al nostro organo dell’olfatto: singole cellule rispondono a più composti che concorrono a un odore, o il cervello ricostruisce un odore specifico a partire da elementi di base che assembla come un puzzle? A quanto risulta dalla ricerca apparsa sull’ultimo numero di Neuron, la seconda è la risposta esatta
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giovedì 22 giugno 2006

Agenzia stampa Il Velino 21 giugno 2006
Freud ritradotto
1. Reitani: una versione piena di errori


Roma, 21 giu (Velino) - Un'accesa controversia, con complessi strascici giudiziari, infuria da alcuni giorni nel mondo della psicoanalisi italiana. Oggetto della querelle: la nuova traduzione con cui la casa editrice Bollati-Boringhieri ha deciso di rilanciare la sua vecchia edizione dell'opera completa di Sigmund Freud, che è da circa trent'anni il titolo forse più prestigioso del suo catalogo. Occorre però precisare che la nuova traduzione, della quale sono per ora usciti soltanto due volumi (Scritti di metapsicologia e Storia della Psicanalisi), si presenta in effetti come una revisione, affidata a Michele Ranchetti, della precedente versione, in undici grossi volumi, curata a suo tempo, sotto la direzione di Cesare Musatti, da Renata Colorni. La quale, non ritenendo necessaria una revisione del suo lavoro, e comunque giudicando inammissibile che la revisione sia stata decisa senza il suo preliminare consenso, ha denunciato per plagio la Bollati-Boringhieri, con relativa richiesta di un risarcimento adeguato alla gravità del danno subito.
Sul delicato argomento Il VELINO ha interpellato alcuni esperti. Fra i quali, in primo luogo, il germanista Luigi Reitani, che nella nuova versione ha riscontrato errori madornali. "Uno fra i tanti - dice - è quello che spicca all'inizio di 'Lutto e malinconia', dove il traduttore, volgendo 'Unter den nämlichen Einwirkungen' in 'con le stesse ripercussioni' (III, p. 80), dimostra di confondere la causa con l'effetto. Vere perle si trovano poi nelle note. Il presidente di Corte d'appello Schreber diventa 'presidente del Senato' (III, p. 174), e il narratore austriaco Anzengruber un 'favolista' (III, p. 210). Abbaglio ancora più clamoroso quello che trasforma il piccolo Hans, il bambino di cinque anni del celebre 'caso' omonimo, in un ragazzo di quindici anni (V, p. 156)!". Ma la vera sconvenienza, secondo Reitani, "è che la cosiddetta ‘nuova’ traduzione è in gran parte derivata dalla precedente senza che questo sia detto. Da qui la fondata accusa di plagio. Dove invece il testo è stato mutato, il risultato è a mio avviso disastroso, perché ai vecchi e nuovi fraintendimenti si aggiunge la perdita completa dell'eleganza della prosa di Freud. E poi c'è il problema della mutata terminologia. Ammetto che si possano proporre soluzioni nuove, ma non si può cambiare da un giorno all'altro tutta la nomenclatura freudiana senza spiegarne le ragioni e motivare le scelte fatte. Trovo che tutta l'operazione sia di una leggerezza sconcertante, a cominciare dalla scelta dei testi inseriti nei due volumi. Il proposito principale del curatore era quello di 'contestualizzare' Freud, ma il risultato è invece quello di smembrare i suoi scritti. Non si capisce per esempio perché dal volume degli Scritti di Metapsicologia sia escluso 'Al di là del principio del piacere', che a detta dello stesso Ranchetti di quegli scritti rappresenta il vertice speculativo. L'esito della nuova traduzione - prosegue Reitani - è contraddittorio e confuso. La 'Besetzung' di Freud, finora tradotta in italiano con 'investimento', il termine più vicino alla sua connotazione militaresca ed economica, diventa 'caricamento', con effetti talvolta bizzarri. Il termine 'Melancholie', che in Freud designa una situazione patologica e non uno stato d'animo, è appiattita nel comune 'malinconia' (contro il più preciso 'melanconia' della precedente traduzione). Il termine 'Einfall', usato per esprimere l'importante concetto di 'associazioni libere', si trasforma in 'idee spontanee' (III, p. 34) o 'libere idee spontanee' (V, p. 146). 'Repräsentanz' è stato tradotta non proprio limpidamente con 'vicario', con qualche acrobazia nei composti, per cui l'espressione 'psychische (Vorstellungs) repräsentanz' è resa con 'vicario psichico (in forma di rappresentazione)' (III, p. 33). 'Fixierung' diventa 'ancoraggio' (e non più 'fissazione'), non so con quale coerenza rispetto al principio di un lessico che si vorrebbe più vicino al linguaggio quotidiano (III, p. 13). La distinzione tra 'Befriedigung' e 'Erfüllung' è sostanzialmente annullata dal traduttore Franchini, che talvolta, invertendo quanto aveva fatto Musatti, sceglie 'appagamento' per il primo e 'soddisfacimento' per il secondo (III, p. 121), mentre altre volte usa invece per entrambi i termini 'soddisfacimento' (III, p. 122), o impiega 'esaudire' per il verbo 'erfüllen' (III, p. 121), per poi ritornare ancora ad 'appagamento' per 'Erfüllung'. 'Versagung' diventa di volta in volta 'fallimento' (III, p. 183), 'rifiuto' (III, pp. 69 e 199) e persino 'fiasco' (III, p. 145), ma permane ancora la scelta musattiana di 'frustrazione' (III, p. 27). 'Selbstgefühl' è banalizzato in 'amor proprio' (III, 80), salvo a riproporlo altrove come 'sentimento di sé' sulla scia di Musatti (III, 193). Questa preoccupante oscillazione nella resa degli stessi termini non è rara, come prova ancora il caso dell'espressione 'halluzinatorische Wunschpsychose', che ora è tradotta con 'psicosi allucinatoria conforme al desiderio' (III, p. 81), ora semplicemente con 'psicosi allucinatoria di desiderio' (III, p. 121)". Reitani ammette che "sarebbe sbagliato pretendere una resa sempre uniforme degli stessi termini (neppure l'edizione di Musatti lo faceva), ma ciò non giustifica l'arbitrio e la casualità delle soluzioni". Ragion per cui non esita a dichiarare di preferire assolutamente la vecchia edizione. A proposito della quale gli piace ricordare che "la traduzione e la cura editoriale di Renata Colorni sono state a ragione additate a livello internazionale come un esempio straordinario di intelligenza ermeneutica e di affidabilità nella lettura. Naturalmente questo non significa che non possano esserci punti in cui oggi si possono proporre soluzioni alternative. Ma questo dovrebbe avvenire sulla base di solide argomentazioni, cosa che l'edizione Ranchetti evita appunto di fare". Ai suoi critici Ranchetti obietta che "Freud non è il genio che ha capito tutto una volta per sempre, va riletto e rimesso in discussione, situato nel suo contesto". Ma Reitani giudica questa affermazione "così incontestabile da risultare banale. Quale pensatore non va continuamente riletto e rimesso in discussione? Non capisco come Ranchetti possa far passare la sua edizione come un invito a leggere Freud liberandolo dalla crosta di una lettura istituzionale. Al contrario trovo che la sua scelta di testi e le sue scelte di traduzione siano molto più dogmatiche, perché vincolano l'interpretazione assai più di quello che faceva l'edizione Musatti, che dava conto delle proprie scelte e offriva così la possibilità di metterle in discussione".
Per concludere abbiamo chiesto a Reitani quale tipo di lettura proporrebbe per l'opera di Frued. "Consiglierei - risponde - di leggere L'interpretazione dei sogni come un grande romanzo. E non smembrarlo, come vuol fare Ranchetti, considerando la sola parte più sistematica e teorica, che è forse oggi la meno interessante. E poi rileggere l'avventura scientifica e umana di Freud attraverso i grandi carteggi, che purtroppo l'editore Bollati Boringhieri non ha voluto sempre pubblicare (l'epistolario con Ferenczi è ad esempio uscito da Cortina)". (sog) 16:40


Agenzia stampa Il Velino 21 giugno 2006
Freud ritradotto
2. Verdiglione: una versione ideologica


Roma, 21 giu (Velino) - Su questa nuova disputa sull'opera di Freud Il VELINO ha raccolto anche il parere di Armando Verdiglione, che fin dall'inizio degli anni Settanta, come psicoanalista della scuola lacaniana, aveva denunciato gli equivoci di “una interpretazione italiana” della dottrina freudiana. "Dal 1973 - dice - incominciammo a tradurre Freud contestando in maniera radicale, anche attraverso congressi internazionali, la traduzione Colorni-Musatti edita da Boringhieri: non per una parola o per due ma in quanto totalmente ideologica. È una traduzione che non ha nulla di scientifico. I testi di Freud furono presi a pretesto per trarne affermazioni ideologiche conformi alle idee di coloro che l'avevano concepita. Gli errori sono enormi. E sono strutturali. Nessuna frase corrisponde al testo". Colpiti dalla posizione 'apocalittica' di Verdiglione, gli abbiamo chiesto quale fu, a suo parere, il motivo del carattere ideologico di quella famosa traduzione. "Il fatto - spiega - è che Freud ha fatto scandalo. Nonostante i tanti libri usciti in Italia, il vero significato di testi fondamentali come Interpretazione dei sogni e Psicopatologia della vita quotidiana rimane essenzialmente sconosciuto. Il Freud che è passato in Italia - commenta - è un Freud ridotto a una misura compatibile con l'ideologia nazionale. Non è più scandaloso. Tutto ciò che atteneva alla sessualità è stato molto sfumato perché diventasse accettabile. Questo è avvenuto anche in altri Paesi come l'Inghilterra e la Francia". Quindi Verdiglione ricorda che uno degli obiettivi della Fondazione Spirali, da lui fondata, e delle annesse attività editoriali, è appunto il lavoro teorico volto a restituire, per così dire, Freud a se stesso attraverso un'interpretazione rigorosa dei suoi testi. "Nel catalogo dei libri della nostra casa editrice figurano circa cinquecento testi che riguardano la psicanalisi. Ma ogni volta che ci imbattiamo in un brano di Freud, andiamo a tradurlo direttamente dal tedesco. Non ci siamo mai fidati dell'edizione Boringhieri. Al momento non ci siamo ancora interessati alla traduzione di Michele Ranchetti. È probabile che sottoporremo anch'essa a un'analisi rigorosa". Quale soluzione ipotizza dunque Verdiglione? "La soluzione seria sarebbe leggere Freud in tedesco. Ma per chi non può o non vuole farlo, presto si presenterà un'altra possibilità: fra tre anni scadono i diritti dell'opera freudiana, ragion per cui la traduzione di Freud sarà libera, e l'impresa, per l'editoria di tutto il mondo, diventerà davvero una scommessa. Ciascun editore potrà cimentarsi nel tradurlo". E a tal riguardo Verdiglione anticipa al VELINO che ne sta già preparando una per quella data. (sog) 16:44


Agenzia stampa Il Velino 21 giugno 2006

Freud ritradotto
3. Ricci: le peggiori sono quelle inglesi


Roma, 21 giu (Velino) - Sull'argomento ha da dire qualcosa anche lo psicanalista milanese Giancarlo Ricci, che da anni studia le traduzioni di Freud. Secondo Ricci, la traduzione della Colorni-Musatti resta una delle migliori in Europa. Anzi, a suo parere, anche se per alcuni aspetti può sembrare datata e un po' troppo ideologica, in complesso merita di esser considerata eccellente. "Il polverone di questi giorni - afferma - riguarda più una questione di plagio che di traduzione. Invece le traduzioni inglesi hanno comportato seri problemi, lasciando emergere troppo spesso un intento 'medicalizzante', ossia il proposito di ridurre la psicoanalisi presentandola come una teoria e una pratica medicali''. Su questo punto abbiamo fra l'altro trovato alcune importanti dichiarazioni che Bruno Bettelheim (Vienna 1903 - Silver Spring, Maryland 1990), direttore per quasi trenta anni dell'americana Orthogenic school per bambini psicotici, raccolse in un libro pubblicato in Italia da Feltrinelli (1991) con il titolo Freud e l'anima dell'uomo. Ecco alcuni passi: "Le traduzioni inglesi degli scritti di Freud sono per molti e importanti aspetti gravemente insufficienti e hanno portato alla formulazione di conclusioni erronee per quanto riguarda non soltanto l'uomo Freud ma anche la psicanalisi come disciplina (?) Dalle conversazioni avute con alcuni amici è risultato chiaro che molti di essi, come me emigrati negli Stati Uniti in età adulta da paesi di lingua tedesca, erano assolutamente insoddisfatti del modo in cui le opere di Freud sono state tradotte in inglese (...) Dal momento che Freud attribuiva tanta importanza alla ricerca del mot juste, le goffe sostituzioni e le improprietà dei suoi traduttori hanno un effetto devastante sulle sue idee".

Per meglio illuminare la vastità e complessità dei problemi linguistici che possono sorgere per i traduttori di Freud, Giancarlo Ricci infine ricorda che lo stesso Freud, in un lettera all'amico Fliess del 1900, enunciò un sarcastico giudizio sulla lingua parlata dai tedeschi del suo tempo, così esprimendo, implicitamente, un profondo scetticismo circa la possibilità che le sue opere potessero essere adeguantamente comprese e tradotte dalle generazioni future. Ecco le sue parole: “Mi sono rassegnato a vivere come una persona che parla una lingua straniera o come il pappagallo di Humboldt! Essere l'ultimo della propria stirpe o il primo o forse l'unico, sono situazioni che si assomigliano molto”.

"Il pappagallo di Humboldt - spiega Ricci - corrisponde (nella lingua) a ciò che Freud chiama l'ombelico (omphalos) del sogno: “Ogni sogno ha perlomeno un punto in cui esso è insondabile, quasi un ombelico il quale è congiunto con l'ignoto (Unerkanntes. Ossia ciò che non può essere riconosciuto, ciò su cui non si possono tenere gli occhi aperti)". (sog) 16:59

testi ricevuti da Federico Tulli