sabato 18 agosto 2018

il manifesto 15.8.18
Mary Shelley, il dono di dare e togliere la vita
Scaffale. Nel bicentenario della scrittrice che creò Frankenstein esce, per la prima volta in traduzione italiana, l'ultimo suo romanzo, «Il segreto di Falkner» (Edizioni della Sera). Insieme a una nuova biografia di Fiona Sampson, uscita per Utet
di Andrea Colombo

Due uomini, non privi di somiglianze tra loro, sono all’origine della non ancora del tutto superata sottovalutazione che incombe da sempre, ovunque ma in Italia più che altrove, su Mary Godwin, figlia del filosofo William Godwin e della pioniera del femminismo Mary Wollstonecraf: uno, reale, è il marito, il poeta romantico Percy Shelley, l’altro, partorito dalla fantasia di Mary, è l’altrettanto romantico scienziato Victor Frankenstein. Il personaggio più noto, creato dalla scrittrice inglese, quando aveva appena 19 anni, conosciuto da tutti soprattutto grazie alle infinite trasposizioni sullo schermo, tra le quali solo quella di Kenneth Branagh rende giustizia allo spessore del romanzo, ha finito, in tandem con l’altisonante matrimonio, per cancellare o quasi tutta la produzione successiva di una delle più moderne e complesse autrici inglesi del XIX secolo.
IL BICENTENARIO della nascita (30 agosto 1797) ha cambiato qualcosa anche da noi. Una nuova biografia della scrittrice, per opera della poetessa inglese e studiosa di Shelley Fiona Sampson, uscita nel 2017, è stata tradotta anche in italiano da Utet: La ragazza che scrisse Frankenstein. Vita di Mary Shelley (pp. 320, euro 22, traduzione di Eleonora Gallitelli). È stato finalmente pubblicato da Edizioni della Sera, per la prima volta in traduzione italiana, l’ultimo grande romanzo dell’autrice, Il segreto di Falkner (pp. 529, euro 19.50), tradotto, curato e introdotto dalla giovane e brillante Elena Tregnaghi, con una postfazione di Elisabetta Marino che non è un orpello ma si rivela invece utilissima per inquadrare il libro nell’opera complessiva e nella biografia della scrittrice. Peccato che per il bicentenario non sia tornata in libreria la biografia, a suo modo definitiva, di Mary Shelley firmata dalla scrittrice Muriel Spark, tradotta in italiano negli anni ’80 ma oggi introvabile.
La scrittrice considerava Falkner il suo libro migliore e conclusivo. Infatti lo pubblicò nel 1837 e nei 14 anni successivi, prima di morire a 54 anni nel 1851, non scrisse più narrativa. I fili che collegano quest’ultimo romanzo con quello famosissimo d’esordio, pur se non sempre espliciti, sono moltissimi, a partire dal nome della protagonista, Elizabeth.
Mary Shelley
IN FRANKENSTEIN Mary aveva nascosto dietro il velo gotico e «fantascientifico» temi più laceranti: la responsabilità nel dare e togliere la vita e quella del prendersene cura, la colpa, riflessi della situazione della stessa giovanissima autrice. Dopo vent’anni tumultosi e tragici, Mary torna sugli stessi temi. Falkner, personaggio al quale hanno prestato tratti sia il padre della scrittrice che l’amico Lord Byron, che con la sorellastra di Mary aveva avuto un figlio, ha adottato Elizabeth ed è a tutti gli effetti più di un padre. Il conflitto tra lui e il ragazzo di cui Elizabeth è innamorata, Gerard, rinvia a quello reale tra Godwin e Shelley, prima che la scrittrice, allora diciassettenne, fuggisse con lui e con la sorellastra Claire per girare l’Europa senza un soldo. Il senso di colpa di Falkner per aver provocato la morte della donna amata riecheggia a sua volta quelli della stessa Mary, non solo per la morte di parto della madre ma anche per il suicidio di Harriet Grove, la moglie che Shelley aveva lasciato per lei, e della sorellastra Fanny Inlay, che Mary Wollstonecraft aveva avuto da una relazione extramatrimonale.
Come Victor Frankenstein né Falkner né Gerard Neville sono capaci di riportare ordine e serenità nella tempesta emotiva che minaccia di distruggerli. Ma a differenza di Elizabeth Lavenza, fidanzata e poi moglie sfortunata di Frankenstein, che non era in grado di salvare lo scienziato, questa nuova Elizabeth lo è.
È LEI A RISOLVERE la situazione, potenzialmente non meno tragica di quella del romanzo più famoso, e a ricostituire intorno ai due maschi, ai due uomini della sua vita, il padre e il fidanzato, un’armonia certamente convenzionale ma reale. Lo fa mettendo in campo la dote che secondo la stessa autrice è la vera chiave del romanzo: la fedeltà, intesa come dote complessiva, fedeltà agli amati senza doverne scegliere uno, fedeltà a se stessa, fedeltà alla propria idea di felicità, tanto solida da aver ragione delle difficoltà e delle fragilità dei maschi.
MARY SHELLEY, come i suoi genitori, era stata una radicale, nelle idee e nei comportamenti, nelle scelte e nello stile di vita. I passi citati da Elisabetta Marino nella postfazione, pieni di disprezzo e delusione per gli attivisti politici del suo tempo, dimostrano che la Mary adulta era cambiata. Non era impermeabile ai valori della nascente età vittoriana e probabilmente, dopo un’esistenza tanto anticonvenzionale e travagliata, aveva bisogno di un maggior ordine. Ma senza abdicare a se stessa.
Come le vere eroine vittoriane, Elizabeth intervenire sul mondo che la circonda, guidando, indirizzando, ricomponendo. La sua radicalità non era affatto scomparsa. Si era solo affinata.

il manifesto 14.8.18
Tunisia, l’eredità delle donne e il Corano
Tunisia. Il presidente della Repubblica Béji Caid Essebsi accoglie sull'eredità delle donne le raccomandazioni della Commissione delle libertà individuali e dell’eguaglianza (Colibe) lasciando però libertà di scelta alle famiglie, la proposta spiazza gli islamisti di Ennadha, le femministe tunisine festeggiano ma sarà battaglia in Parlamento
di Giuliana Sgrena

La legge sulla parità nell’eredità sarà discussa dal parlamento tunisino. L’annuncio è stato dato ieri, 13 agosto, dal presidente della repubblica Béji Caid Essebsi in occasione del 62.mo anniversario della promulgazione del Codice dello statuto personale di Bourghiba.
«Annuncio la revisione del Codice di statuto personale poiché il nostro riferimento resta la Costituzione e non il testo coranico…. Questo nuovo progetto di legge lascia la libertà a coloro che vogliono applicare la parità nell’eredità ma anche a quelli che vi si oppongono e vogliono applicare il testo religioso», ha spiegato il presidente.
A un anno dalla nomina della Commissione delle libertà individuali e dell’eguaglianza (Colibe), il presidente accoglie, per ora, i suggerimenti in merito al tema dell’eredità, questione centrale, del rapporto della Colibe presentato il 12 giugno.
Il rapporto ha suscitato una reazione dura da parte dei religiosi e di tutti i conservatori che basano la loro ostilità sull’undicesimo versetto della Sura delle Donne del Corano che recita: «Ecco quello che Allah vi ingiunge a proposito dei vostri figli: al figlio una parte equivalente a quello di due figlie». Infatti in tutti i paesi musulmani le donne ereditano la metà del maschio perché nessuno osa toccare un precetto coranico. Lo stesso Bourghiba quando varò nel 1956 un codice della famiglia progressista (che aboliva la poligamia, garantiva il divorzio a maschi e femmine e ammetteva l’aborto), aveva rinunciato alla parità nell’eredità per il veto opposto dagli ulema.
Tuttavia, su un tema così controverso, il presidente ha accettato il compromesso suggerito dalla Colibe che prevede per chi lo stabilisce in anticipo di poter fare riferimento ai dettami della Sharia.
Il 13 agosto in Tunisia è anche la festa della donna. Le donne tunisine, che da anni si battono per la parità nell’eredità, ieri sono scese in piazza, anzi nella centrale Avenue Bourghiba per ribadire il loro sostegno e chiedere la realizzazione delle raccomandazioni contenute nel rapporto della Colibe, che oltre all’eredità riguardano l’abolizione della pena di morte, del crimine di blasfemia, la depenalizzazione dell’omosessualità, l’uguaglianza dei genitori nella tutela e custodia dei figli, la libertà di coscienza e di opinione. «Questo rapporto è un atto di civilizzazione, una rivoluzione», ha dichiarato a Jeune Afrique Monia Ben Jemia, già presidente dell’Associazione tunisina delle donne democratiche (Atfd).
Con le magliette rosse con la scritta «Donna tunisina = Donna di valore» le tunisine hanno sfidato gli oppositori della legge che nella stessa Avenue Bourghiba si sono dati appuntamento il 3 agosto per una preghiera. Il Coordinamento nazionale di difesa del Corano, della Costituzione e dello sviluppo equo aveva invece organizzato sabato scorso una marcia che si era conclusa in piazza del Bardo davanti al parlamento e che aveva avuto l’adesione anche di diversi esponenti del partito islamista di Ennahdha. Il presidente del Coordinamento nazionale di difesa del Corano, Noureddine Khadmi, ex ministro degli affari religiosi del governo islamista – che chiede anche una fatwa – ha lanciato gli slogan con l’hashtag #non à la fitna (no alla guerra civile, che lascia intendere la portata dello scontro): «No alla distruzione della famiglia, no all’attentato alla religione e no all’infrazione della Costituzione».
Ma il presidente Beji Caied Essebsi ieri, nel suo discorso, ha voluto ribadire che lo stato non è garante dei precetti dell’islam. «Il secondo capitolo della Costituzione è chiaro e stabilisce che la Tunisia è uno stato di diritto basato sulla cittadinanza, la volontà del popolo e la supremazia della legge», ha affermato Essebsi.
Lo scontro tra sostenitori e oppositori della legge sulla parità dell’eredità si farà più duro in vista del dibattito parlamentare, quando i partiti dovranno uscire allo scoperto. La portavoce del presidente Saida Garrach ha rivelato che Ennandha ha inviato una lettera a Beji Caied Essebsi in cui respinge la proposta di legge sulla parità nell’eredità. Posizione facilmente comprensibile ma non facilmente gestibile.
Ennahdha, primo partito in parlamento con 68 deputati contro i 56 dell’alleato Nidaa Tounes (il partito del Presidente, che ne ha persi diversi a causa di varie scissioni), l’unico a sostenere a spada tratta il premier Youssef Chahed, cerca di accreditarsi nel passaggio da movimento religioso a partito politico, percorso riconosciuto ieri anche dal presidente tunisino. Il modello di Rachid Ghannouchi, leader del partito islamista, è il presidente turco Erdogan che tuttavia in questi momenti si trova in ben note difficoltà.
La proposta fatta ieri da Beji Caid Essebsi, sebbene prevedibile, imbarazza Ennahdha che per poter vantare una sua evoluzione dovrebbe mostrarsi più disponibile rispetto alle raccomandazioni della Colibe, ma questo scontenterebbe la base del partito e, viste le perdite già subite nelle ultime elezioni, non è una soluzione praticabile. Dunque lo scontro appare inevitabile.

Il Fatto 15.8.18
l caso Brizzi e le montature: ora nessuna donna sarà più creduta
“Archiviate” - Il risultato della campagna lanciata “Le Iene” è che il regista passa per martire e sarà più difficile denunciare molestie
di Selvaggia Lucarelli

L’ultima immagine televisiva di Fausto Brizzi risale ad aprile: un’inviata de Le Iene che lo insegue per strada, nel centro di Roma, e gli chiede “Perché non denuncia le attrici per diffamazione se quello che dicono è falso? Eh, perché? Perché? Perché?”. Il pitbull non è più Dino Giarrusso, perché Dino Giarrusso, quello che “l’archiviazione del caso Brizzi è una sconfitta per tutte le donne”, era così legato a questa inchiesta che ha mollato Le Iene e l’inchiesta per candidarsi con i Cinque Stelle e riuscire a diventare uno dei pochi grillini trombati, per poi riciclarsi come responsabile della comunicazione della Lombardi, per poi tentare l’ingresso nel Cda della Rai, per poi entrare nello staff del ministero dello Sviluppo.
Il fatto che chi ha “creato” il caso, lo abbia anche mollato lì per cambiare addirittura mestiere, può sembrare un’inezia in questa intricata vicenda, ma non lo è. Perché racconta come questa vicenda sia stata un raffazzonato, caotico intruglio di scoop, accuse, titoloni, toto-nomi e mostro in prima pagina, in cui alla fine nessuno era quello che sembrava. Giarrusso non era un giornalista, Brizzi (fino prova contraria) non era uno stupratore, le tre denuncianti non erano state molestate, le poche attrici italiane note che si sono esposte non erano Rose McGowan: hanno difeso Brizzi. O, proprio per non fare la parte di quelle che “i reggiseni sporchi si lavano in famiglia”, hanno scritto una letterina dicendo che anche loro dicono basta alle molestie. Che, come intensità del messaggio, è un po come “basta al tartaro sui denti!”.
Fin qui il sunto del “prima”. Ma veniamo al dopo-archiviazione (anzi, richiesta di archiviazione ancora), perché si sono dette molte cose, quasi tutte inesatte. Intanto sarà anche vero che sei mesi per denunciare sono pochi, ma è vero che sono il doppio che per una buona parte dei reati. Non è vero invece che, come dichiarato dal curatore de Le Iene Davide Parenti e dallo stesso Giarrusso “delle tre denunce presentate da altrettante ragazze solo una è stata presa in considerazione perché la legge italiana prevede che la vittima di reati sessuali o presunta tale abbia sei mesi di tempo per sporgere denuncia”. O meglio, è vero, ma chi ha chiesto l’archiviazione si è espresso anche sulle due denunce presentate fuori tempo massimo. E ha escluso la sussistenza di molestia anche per quelle. Che è come dire: anche se presentate entro sei mesi, non sarebbero arrivate a un processo.
Parenti ha la stessa difficoltà ad ammettere un errore che Fonzie davanti al suo jukebox (“Su stamina noi abbiamo solo raccontato”, si giustificò), ma un po’ di onestà intellettuale non guasterebbe. Quelle tre denunce, con gli sms teneri di alcune ragazze dopo le presunte molestie, non reggevano. Questo non vuol dire che l’inchiesta fosse una farsa. Non credo ci sia stato un complotto ai danni di un unico regista. Non credo che Brizzi sia in coda per la beatificazione dopo Paolo VI. Credo però che l’affannata e mediatica ricerca del mostro abbia fatto commettere errori nella modalità con cui si è condotta l’inchiesta e nella verifica delle fonti.
Il risultato è disastroso: ora le donne sono inaffidabili e Fausto Brizzi è un martire. Le Iene volevano un altro Harvey Weinstein e hanno ottenuto un Gesù sulla croce. A inquinare ulteriormente le acque, è di pochi giorni fa un lungo messaggio della regista finlandese Anne Riitta Ciccone (ex assistente di Nanni Loy) apparso su Facebook in cui la donna si rivolge direttamente a Dino Giarrusso con parole piuttosto dure: “Noi ragazze dell’associazione 100autori eravamo spesso infastidite dai tuoi racconti di prodezze diciamo così sentimentali, a me ha irritato molto una sera in pizzeria dopo una riunione (lo ricorderai, forse, e se non lo ricorderai temo sia peggio), tu eri seduto accanto a me e alle due Claudie e mi hai detto di avermi sognata, facevamo sesso e io ce l’avevo tutta depilata, mi hai chiesto se fossi davvero così (…). La cosa mi ha messo a disagio, l’ho gestita con le due Claudie che possono testimoniare. Come sempre dobbiamo fare noi donne con gli uomini che si sentono liberi di fare queste battute abbiamo fatto muro, ma a me ha dato fastidio perché mi ha ricordato il disagio della prima molestia a 13 anni, un tizio che mi ha chiesto ‘se fossi bionda pure sotto’ e quella sera te l’ho anche detto. Tu però non mi sei parso sofferente e colpito. Mi accusi di essere bugiarda perché donna? O sono io e quelle due ragazze che magari ti abbiamo provocato? (…)”.
C’è poi un particolare inquietante, che non è stato ancora approfondito. Secondo fonti vicine a Fausto Brizzi, oltre ai fatti narrati, esiste un verbale di sommarie informazioni con la testimonianza di una ragazza spagnola che, tra un servizio e l’altro de Le Iene, ha riferito cose sconcertanti: una delle ragazze italiane andata a volto scoperto a Le Iene per denunciare di aver subito molestie da Brizzi, l’ aveva contattata al telefono per dirle che se avesse voluto un po’ di fama in Italia, sarebbe stato sufficiente andare in tv a dichiarare di aver subito molestie dal regista Fausto Brizzi nel corso di un provino (le due si erano conosciute a Ibiza l’estate precedente ed erano rimaste amiche). Ha aggiunto che questa proposta era stata fatta anche ad altre ragazze che avevano però accettato. La ragazza italiana fu molto insistente, quando si rese conto che la spagnola non avrebbe accettato le intimò di non rivelare a nessuno la proposta fattale.
Nei giorni successivi la spagnola ricevette telefonate anche da un interlocutore maschile che si raccomandò di non farne parola con nessuno. C’era uno scouting per trovare ragazze che supportassero la denuncia mediatica di poche coraggiose così da rendere più solida l’inchiesta? Questa ragazza spagnola è una mitomane? Non lo sappiamo, fatto sta che non è una ragazza incappucciata di spalle, ma una ragazza che in un verbale, con nome e cognome, ha raccontato una sua verità. C’è poi un’altra vicenda, ancora più strana: una delle tre ragazze che ha denunciato Brizzi, denunciò in passato un altro presunto tentativo di violenza sessuale che però non arrivò mai in tribunale. Arrivò invece in tv, perché la madre – indovinate un po’? – ne andò a parlare in alcuni noti programmi nazional popolari, a volto coperto e con la voce modificata.
Più si scava e più si trova un’unica verità: l’unica alternativa al tribunale, in questa vicenda così confusa, doveva essere il silenzio. E non per imbavagliare le donne, ma per consentire alla prossime che parleranno di essere credute, senza pessimi precedenti.

Il Fatto 15.8.18
Centri commerciali aperti a Ferragosto: si sciopera
I sindacati chiedono al ministro di mantenere la promessa e cancellare la liberalizzazione
Centri commerciali aperti a Ferragosto: si sciopera
di Roberto Rotunno

Lo sciopero di Ferragosto contro le aperture selvagge di outlet e centri commerciali è una costante da sei anni. Quello di oggi, però, è il primo da quando al governo c’è una forza politica che aveva promesso di regolamentare il lavoro festivo, liberalizzato nel 2012 da Mario Monti.
I sindacati speravano fosse arrivata la volta buona. Invece almeno in questi primi due mesi e mezzo il ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio non ha considerato prioritario l’intervento sulle aperture. Da Nord a Sud, quindi, oggi sarà ancora un 15 agosto di lavoro nella grande distribuzione. Le catene con le serrande alzate da mattina a sera (anche se non in tutti i punti vendita) saranno quasi tutte: Esselunga, Carrefour, Auchan, Lidl, Ikea, Rinascente e diversi outlet. Una scelta che ormai è dettata più che altro da ragioni di concorrenza. Gli scioperi sono stati proclamati in tre Regioni: Lazio, Toscana e Puglia. In altre quattro – Veneto, Emilia Romagna, Abuzzo e Molise – le sigle del commercio hanno solo invitato i lavoratori ad astenersi dal servizio, invocando il diritto alla volontarietà del turno nel giorno festivo. C’è anche una sentenza del Tribunale di Milano che ha riconosciuto questo principio: tutti hanno diritto a onorare le festività, perciò nessuno può essere obbligato a lavorare nei giorni rossi del calendario. La pratica, però, come al solito è un po’ diversa. Innanzitutto, ci sono molte aziende che in questi ultimi anni – dopo le liberalizzazioni – hanno inserito nelle lettere di assunzione l’obbligo di prestare lavoro anche la domenica e nei giorni festivi. I lavoratori, in quanto contraenti deboli, hanno accettato la clausola e ora difficilmente possono far valere il diritto al riposo. Poi c’è la solita questione del boom di contratti precari o part time: “Chi ha un contratto da poche ore – sostiene il segretario Fisascat Cisl David Guarini – o che scade tra qualche mese preferisce eseguire l’ordine per sperare di ottenere il rinnovo e migliori condizioni”.
Secondo i sindacati, quindi, la questione deve essere risolta dalla politica. Fabrizio Russo della Filcams Cgil ricorda che Di Maio si è più volte espresso in favore delle chiusure nei festivi. “Quando il ministro ha fatto quelle dichiarazioni – osserva – è stato abbastanza temerario. Sulla base di quello che ha detto noi abbiamo inviato all’inizio del mese scorso una richiesta di incontro, ma ancora non ci ha risposto”. Comunque, tra i sindacati resta un certo ottimismo sulle intenzioni di questo governo. Ancora non è chiaro quando arriverà il provvedimento sulle aperture, ma sembrano già delineati i contorni.
La liberalizzazione resterà per le zone turistiche, mentre per le altre sarà prevista una turnazione. In pratica, in ogni giorno festivo potrà essere aperto il 25% dei negozi di ogni settore. Ogni anno ci sarà un massimo di 12 giorni festivi di apertura. Anche alcune associazioni di imprese, come la Confcommercio, sono d’accordo sul reintrodurre vincoli perché a quanto pare la deregolamentazione non ha dato i risultati sperati in termini di fatturato.

Il Fatto 15.8.18
La nuova versione di Vanni: “Ce l’ha ordinato il medico”
Anche Lotti, il terzo “compagno di merende”, rivela che un dottore pagava Pacciani per procurarsi i lembi di seno e di vagina delle vittime È Narducci, ripescato nel lago
di Davide Vecchi

“Io andavo a fa’ delle merende, si faceva delle merende”. Lotti, Pacciani e Vanni apparivano credibili come autori dei delitti del mostro? Gli identikit e i giornali raccontavano di un medico dotato di un’intelligenza non comune, capace di sfuggire agli inquirenti per oltre due decenni. Quei tre personaggi improbabili al massimo potevano essere semplici guardoni o la manovalanza guidata da altre menti. Seconde file. Comparse.
I panni perfetti da indossare anche per l’opinione pubblica li confeziona involontariamente Vanni. Durante il processo nei confronti di Pacciani come responsabile dei delitti, l’ex postino viene interrogato come suo amico. Quando il pubblico ministero gli chiede quale fosse la sua occupazione, Vanni risponde: “Io sono stato a fa’ delle merende co’ Pacciani, no?”. Da allora i tre diventano i compagni di merende. Durante i successivi numerosi interrogatori l’ex postino non dirà molto altro. E sarà condannato insieme a Lotti come complici di Pacciani nei delitti al mostro. I compagni di merende, appunto. Ma dov’è il chirurgo? E perché sui conti correnti postali del contadino di Mercatale erano stati compiuti versamenti consistenti sempre pochi giorni dopo i duplici delitti? Da chi arrivavano quei soldi?
Nonostante le condanne a carico dei tre, seppur poi Pacciani otterrà la revisione del processo e morirà prima che sia nuovamente celebrato, la loro responsabilità come unici autori ha sempre lasciato dubbi. In primis negli stessi inquirenti che non hanno mai interrotto le indagini ipotizzando un livello superiore. Nel 1997 è una testimonianza sempre di uno dei compagni di merende a fornire indicazioni. Giancarlo Lotti nel corso di un’udienza, dopo aver ammesso tra mille reticenze e contraddizioni di aver partecipato a 4 degli 8 duplici omicidi, scandisce: un dottore pagava Pacciani per procurarsi i lembi di seno e vagina strappati alle vittime. Non aggiunge molto. Dice di aver visto questo dottore soltanto una volta in piazza a San Casciano e da lontano mentre parlava con Vanni e che fu proprio Vanni a dirgli che quello era “il dottore che pagava Pacciani” quando decidevano di “fare un lavoretto”.
Il pm fiorentino Paolo Canessa e gli uomini della squadra mobile hanno ritenuto sin da subito fondata l’ipotesi, sulla base, dissero già allora, di numerosi riscontri. Ma sarà il pm di Perugia Giuliano Mignini a individuare il nome di un dottore e di altri suoi complici ritenendoli il “secondo livello”. Si chiama Francesco Narducci, è un medico annegato nel Lago Trasimeno l’8 ottobre 1985, un mese dopo il duplice omicidio degli Scopeti: l’ultimo del mostro.
Nel 2002, nel corso di un’indagine della squadra mobile di Perugia sul mondo dell’usura, gli inquirenti ascoltano una intercettazione strana. Gli strozzini cercano di convincere una donna a versare quanto deve. Se non paghi, le dicono, “ti facciamo fare la fine del dottore del lago”. Mignini svolge alcune indagini e ritiene fondato il collegamento con i delitti del mostro: Narducci viene riconosciuto da molti a San Casciano. Alcuni raccontano di una sua familiarità con il farmacista del paese, Francesco Calamandrei. Il pm di Perugia si confronta con il collega fiorentino da sempre impegnato sui delitti delle coppiette, Paolo Canessa. E a dare man forte alle nuove indagini c’è un nuovo superpoliziotto, Michele Giuttari, a capo di un’altra squadra speciale dedicata ai delitti: il Gides che si insedia all’hotel il Magnifico alle porte di Firenze, una mega opera iniziata per i mondiali di Italia 90 ma, come spesso accade, non terminata in tempo e lasciata inutilizzata. Diventa il quartier generale delle ennesime indagini sul mostro. Che hanno continui nuovi impulsi, soprattutto dal fronte perugino. Perché la vicenda di Narducci sembra un romanzo.
Il medico l’8 ottobre 1985 si allontana con la sua barca nel lago Trasimeno senza mai fare ritorno. Sarà ritrovato cadavere cinque giorni dopo. Ma dalle testimonianze rese all’epoca e da altre nuove si scopre che la ricostruzione in base alla quale la morte è stata liquidata come suicidio è decisamente lacunosa. Non è stata fatta alcuna autopsia, il cadavere non è stato portato in obitorio ma a casa, è stato immediatamente tumulato e dalle foto fatte il giorno del ritrovamento sul pontile di San Feliciano, dove viene riportato, c’è una ressa di autorità che neanche alla festa della Repubblica: questore e prefetto di Perugia, generali, comandanti. Il medico legale dice di aver subìto pressioni affinché non disponesse l’autopsia. Mignini decide di riesumare Narducci e ritiene che ci sia stato uno scambio di corpi: quello ripescato non è del medico. Così indaga per occultamento e sostituzione di cadavere tutti quelli che erano sul pontile e i familiari di Narducci. Nel frattempo la procura di Firenze, dopo accertamenti svolti da Giuttari, ricostruisce il presunto secondo livello e indaga Francesco Calamandrei, il farmacista di San Casciano, come mandante.
Pochi mesi dopo, nel giugno 2005, anche la procura di Perugia invia un avviso di garanzia a Calamandrei: è accusato di aver ordinato l’omicidio di Narducci. Il farmacista, secondo gli inquirenti, insieme al medico, “guidava” i compagni di merende, ma dopo l’ultimo duplice omicidio, Narducci non voleva fermarsi come le altre volte, stava diventando un pericolo. Per questo lo ha fatto eliminare fingendone l’annegamento nel Lago. Una ricostruzione suggestiva. Ma con pochi riscontri. Infatti finisce in nulla. A Perugia vengono tutti assolti. Anche a Firenze le accuse cadono. Calamandrei viene assolto nel maggio 2008 perché “il fatto non sussiste”.
(6. continua)

Corriere 15.8.18
Il mestiere di scrivereRileggendo le bozze dell’autobiografia, un pensiero: nulla pare corrispondere alla vita
L’invenzione più vera della verità che può mettere ordine nel Caos
di Raffaele La Capria

Correggendo le bozze di un mio libro autobiografico non avrei mai creduto di entrare in un giro di pensieri come questo che cercherò di descrivere. Mentre vedevo scorrere sulle pagine eventi e momenti della mia vita sentivo che nulla era veramente corrispondente a quel che la mia vita era stata.
Ciò che era accaduto era confuso e disordinato e, a ripensarlo, immerso in una specie di caos, forse perché mentre la si vive la vita corre, ti trascina e non ti dà il tempo di guardarla e nemmeno di giudicarla. Invece ciò che avevo scritto mi sembrava avere un senso e un significato, ed essere più vero del veramente accaduto.
Mi domandai come mai, e la ragione era che la mia narrazione io l’avevo inventata, ricostruendo tutto e dando a tutto un ordine, un senso che non aveva nella realtà, e così quell’invenzione era diventata più vera della verità, più vera degli sparsi elementi estratti dal caos da cui era nata. Insomma avevo scritto una favola cui ora credevo. Ma, azzardai, non era anche una favola l’inizio del Libro dei Libri?
«In principio Dio creò il cielo e la terra», così comincia il libro scritto dall’Ispirato. Prima, prima del principio, «la terra era una cosa deserta e vacua, e tenebre erano sopra la faccia dell’abisso». In principio c’era il Nulla, poi arriva Dio e dal Nulla crea il mondo. Il Nulla è qualcosa che nessuno riesce a concepire, così come Dio, così come il Principio. Ma con queste tre entità inconcepibili comincia la favola, la narrazione.
Questa favola, questa narrazione, è un’invenzione, perché cosa poteva sapere l’Ispirato che l’ha scritta, del Nulla del Principio e di Dio? Dunque è un’invenzione, un’ispirazione, che però mette ordine nel Caos originario.
«E Iddio separò la luce dalle tenebre... Così fu sera, poi fu mattina, che fu il primo giorno», come si legge nella Bibbia del Diodati, bellissima e poetica. Che prosegue con la separazione delle acque che son sopra e quelle che son sotto, e Iddio nominò quelle che son sopra cielo. Insomma Dio mette ordine, ed è quest’ordine che fa esistere il mondo che conosciamo, la natura e tutte le cose. A questo punto una voce entra in campo e mi dice: «Di che parli? Vuoi mettere in dubbio la parola del Signore, la Bibbia in cui crediamo, dicendo che chi l’ha scritta non poteva saper nulla di quello che scriveva?»
Ma no, non parlo della Bibbia, parlo della Narrazione, parlo della Favola, parlo di quella narrazione e di quella favola che ogni religione racconta, di quella invenzione che è il racconto, che rende vero quel che dice per il modo in cui lo dice. Parlo dei miti e delle saghe in cui i popoli si riconoscono e dove trovano la propria identità.
Cosa sarebbe un cristiano senza la narrazione del Vangelo, quale sarebbe il suo concetto del bene e del male se non fosse confortato dall’esempio di Gesù che la narrazione degli evangelisti ci ha lasciato?
Io rispetto i credenti di ogni religione e il racconto in cui si riconoscono, e penso che il racconto, se ben inventato e ben congegnato può fare a meno della ragione. Senza un racconto cui possiamo aggrapparci l’umanità sarebbe smarrita e forse in preda a sogni devastanti.
Non è il sonno della ragione che crea i mostri ma l’esercizio della ragione in una sfera che non le appartiene. Credo anche che la letteratura abbia questa funzione di creare invenzioni che rendono più vera la realtà, che a dir la verità è cosa inconoscibile anche quando sembra a noi vicina e a portata di mano.

Repubblica 15.8.18
Renzo Piano
“Genova è fragile ma nessuno la cura”
Intervista di Francesco Merlo

Renzo Piano era a Ginevra, a lavorare a un progetto per il Cern, quando hanno interrotto la riunione e gli hanno detto che a Genova era crollato il ponte Morandi: «Al di là del legame sentimentale con Genova ho provato una grande sofferenza, di quelle che arrivano all’improvviso e ti sconvolgono. A me prendono allo stomaco. Ho pensato subito alle vittime, e solo dopo alla mia città ferita, a Genova e alle sue catastrofi. Ho immaginato quella gente che passava di là a metà agosto, i camion e i furgoncini per lavoro, gli altri per vacanza, le famiglie allegre e innocenti, ho pensato agli occhi che, quando si passa su un ponte, sono ancora più aperti, perché c’è l’alto e c’è il basso, c’è la sospensione nel mezzo cielo».
E invece proprio il ponte, che accorcia le distanze, dà ordine e bellezza al paesaggio e mette allegria, è crollato di botto.
Pioveva quando la linea retta si è spezzata e dunque niente polvere: macerie senza sassi e mattoni perché il cemento non rovina a terra come in una frana, ma collassa. Sembra una catastrofe chirurgica.
«Non esagero, ma è una morte ingiusta e orribile. E di che cosa sono vittime? Non è certo colpa della casualità né della topografia della fragile Genova. Io non so cos’è accaduto, non voglio sembrare arrogante, non ho elementi e non faccio certo polemiche. Posso dire però che non credo al fatalismo che considera incontrollabile l’anarchia della natura, dei fulmini e della pioggia. I ponti non crollano per fatalità. Nessuno dunque venga a dirci che è stata la fatalità».
Cattiva manutenzione?
«L’ho sempre visto sotto controllo, quel ponte, che ha una lunga storia di manutenzione e di stretta sorveglianza».
Però ha ceduto. E non è il primo in Italia.
«I ponti sono anche simboli. È orribile che crollino e che il crollo uccida. Ma un ponte che crolla, con quella fisica ha sempre una dimensione simbolica e dunque, quando crolla, è come se crollasse due volte».
Già, si alzano i muri e crollano i ponti. Una volta stabilito che non è fatalità, perché è crollato?
«All’opposto della fatalità c’è la scienza. L’Italia è un paese di grandi costruttori, progettisti geniali, scienziati umanisti. E però non applicano quella scienza che viene prima della manutenzione e si chiama diagnostica. In medicina nessuno fa niente senza una diagnosi. Che manutenzione puoi fare del tuo corpo se non sai di che cosa soffri? Come si stabilisce se hai bisogno di una cura di farmaci oppure di un’operazione chirurgica o magari di un po’ di riposo? Solo la precisione della diagnosi garantisce l’efficacia dell’intervento. E i ponti, le case e tutte le costruzioni vanno trattati come corpi viventi. In Italia produciamo apparecchiature diagnostiche sofisticatissime e strumentazioni d’avanguardia che esportiamo in tutto il mondo. Ma non li usiamo sulle nostre costruzioni. Perché? E non è un discorso di tecnica e basta. Solo con un approccio diagnostico si esce dal campo delle opinioni e si entra in quello delle certezze scientifiche».
La scienza non se la passa tanto bene, e forse vale per i ponti quel che vale per i vaccini.
La catastrofe può insegnarci qualcosa?
«Io spero che il maledetto crollo di questo ponte ci faccia riflettere e ci faccia uscire dall’oscurantismo culturale del “secondo me si fa così”. Per esempio con la termografia possiamo determinare lo stato di salute di un muro senza neppure bucarlo, proprio come avviene con il corpo umano: si comincia col misurare le temperature delle sue varie parti».
Quel ponte vivente era un corpo affaticato.
«Io credo che la manutenzione non sia mai mancata. Ma Genova è una città fragile, divisa in due, ed è lunga 20 chilometri. Quel ponte è stato sollecitato all’inverosimile».
Adesso che è crollato forse la città di Genova ha bisogno di una diagnosi. Che succederà?
«Genova è una città portuale che deve trasferire il suo traffico pesante in tutte le direzioni. Non si può caricare la viabilità a dismisura sulla gomma. Non so cosa succederà. Per tenere assieme Levante e Ponente forse dovrebbero pensare a un incremento del trasporto sul ferro e sull’acqua. Ma questo è il momento del cordoglio e del lutto».
Ancora una volta per ragionare Genova ha bisogno del lutto?
«Difficile e straordinariamente bella, è una città molto fragile, stretta com’è tra il mare e le montagne subito alte. Ho già raccontato che i rivali veneziani nel Medioevo dicevano che Genova era una città sfortunata: montagna senza alberi e mare senza pesci. È verticale, ripida, rocciosa, con il fondale profondo e il mare agitato. Ma la topografia, come il cattivo tempo, non può diventare il capro espiatorio di ogni cosa».
Genova sa reagire?
«Ha già dimostrato di saper tenere la testa alta. Una città che passa attraverso le catastrofi ha bisogno di ritrovare subito competenze e amore. Altrimenti, come sta avvenendo in qualche parte d’Italia, si degrada e va in malora lo stare insieme: diventano peggiori gli uomini e anche gli animali. Le alluvioni, per esempio, hanno avviato un lungo lavoro di rinascita idrogeologica. Anche ieri, quando è crollato il ponte, pioveva, ed è normale che piova. Genova è una città dove l’acqua, dolce e salata, arriva da tutte le parti. Come sai, da bambino con la sabbia di Pegli costruivo castelli. Non è facile: bisogna scavare una buca, portarci l’acqua per impastare e rendere malleabile la sabbia e poi fare il castello in modo che l’onda, quando arriva, lo circondi ma non lo invada, lo bagni ma non lo inzuppi. Ci vuole molta intelligenza per governare l’acqua.
Genova ha l’intelligenza per governare tutta se stessa e anche il proprio dolore. Sa usare le catastrofi per cambiare. Ha l’orgoglio di essere superba».
La superbia non era un peccato?
«Genova è superba non nel senso del gran peccato cattolico.
Addossata sulla collina alpestre, Petrarca la battezzò Superba dal latino “super”: stare sopra. Dunque è fisicamente, prima che in metafora, che Genova ha l’orgoglio di essere superba».
Anche dopo il crollo del ponte?
«Purtroppo Genova, che sa reagire, non sa ancora prevenire. Ma spero che ora cominci la revisione del suo sistema dei trasporti. E mi auguro che parta dal crollo di questo ponte una seria riflessione sulla cultura diagnostica del patrimonio italiano. Solo conoscendo con esattezza lo stato di salute di tutte le nostre costruzioni possiamo proteggere e salvare, con i ponti, la nostra stessa civiltà».






mercoledì 15 agosto 2018

il manifesto 15.8.18
Mary Shelley, il dono di dare e togliere la vita
Scaffale. Nel bicentenario della scrittrice che creò Frankenstein esce, per la prima volta in traduzione italiana, l'ultimo suo romanzo, «Il segreto di Falkner» (Edizioni della Sera). Insieme a una nuova biografia di Fiona Sampson, uscita per Utet
di Andrea Colombo


Due uomini, non privi di somiglianze tra loro, sono all’origine della non ancora del tutto superata sottovalutazione che incombe da sempre, ovunque ma in Italia più che altrove, su Mary Godwin, figlia del filosofo William Godwin e della pioniera del femminismo Mary Wollstonecraf: uno, reale, è il marito, il poeta romantico Percy Shelley, l’altro, partorito dalla fantasia di Mary, è l’altrettanto romantico scienziato Victor Frankenstein. Il personaggio più noto, creato dalla scrittrice inglese, quando aveva appena 19 anni, conosciuto da tutti soprattutto grazie alle infinite trasposizioni sullo schermo, tra le quali solo quella di Kenneth Branagh rende giustizia allo spessore del romanzo, ha finito, in tandem con l’altisonante matrimonio, per cancellare o quasi tutta la produzione successiva di una delle più moderne e complesse autrici inglesi del XIX secolo.
IL BICENTENARIO della nascita (30 agosto 1797) ha cambiato qualcosa anche da noi. Una nuova biografia della scrittrice, per opera della poetessa inglese e studiosa di Shelley Fiona Sampson, uscita nel 2017, è stata tradotta anche in italiano da Utet: La ragazza che scrisse Frankenstein. Vita di Mary Shelley (pp. 320, euro 22, traduzione di Eleonora Gallitelli). È stato finalmente pubblicato da Edizioni della Sera, per la prima volta in traduzione italiana, l’ultimo grande romanzo dell’autrice, Il segreto di Falkner (pp. 529, euro 19.50), tradotto, curato e introdotto dalla giovane e brillante Elena Tregnaghi, con una postfazione di Elisabetta Marino che non è un orpello ma si rivela invece utilissima per inquadrare il libro nell’opera complessiva e nella biografia della scrittrice. Peccato che per il bicentenario non sia tornata in libreria la biografia, a suo modo definitiva, di Mary Shelley firmata dalla scrittrice Muriel Spark, tradotta in italiano negli anni ’80 ma oggi introvabile.
La scrittrice considerava Falkner il suo libro migliore e conclusivo. Infatti lo pubblicò nel 1837 e nei 14 anni successivi, prima di morire a 54 anni nel 1851, non scrisse più narrativa. I fili che collegano quest’ultimo romanzo con quello famosissimo d’esordio, pur se non sempre espliciti, sono moltissimi, a partire dal nome della protagonista, Elizabeth.
Mary Shelley
IN FRANKENSTEIN Mary aveva nascosto dietro il velo gotico e «fantascientifico» temi più laceranti: la responsabilità nel dare e togliere la vita e quella del prendersene cura, la colpa, riflessi della situazione della stessa giovanissima autrice. Dopo vent’anni tumultosi e tragici, Mary torna sugli stessi temi. Falkner, personaggio al quale hanno prestato tratti sia il padre della scrittrice che l’amico Lord Byron, che con la sorellastra di Mary aveva avuto un figlio, ha adottato Elizabeth ed è a tutti gli effetti più di un padre. Il conflitto tra lui e il ragazzo di cui Elizabeth è innamorata, Gerard, rinvia a quello reale tra Godwin e Shelley, prima che la scrittrice, allora diciassettenne, fuggisse con lui e con la sorellastra Claire per girare l’Europa senza un soldo. Il senso di colpa di Falkner per aver provocato la morte della donna amata riecheggia a sua volta quelli della stessa Mary, non solo per la morte di parto della madre ma anche per il suicidio di Harriet Grove, la moglie che Shelley aveva lasciato per lei, e della sorellastra Fanny Inlay, che Mary Wollstonecraft aveva avuto da una relazione extramatrimonale.
Come Victor Frankenstein né Falkner né Gerard Neville sono capaci di riportare ordine e serenità nella tempesta emotiva che minaccia di distruggerli. Ma a differenza di Elizabeth Lavenza, fidanzata e poi moglie sfortunata di Frankenstein, che non era in grado di salvare lo scienziato, questa nuova Elizabeth lo è.
È LEI A RISOLVERE la situazione, potenzialmente non meno tragica di quella del romanzo più famoso, e a ricostituire intorno ai due maschi, ai due uomini della sua vita, il padre e il fidanzato, un’armonia certamente convenzionale ma reale. Lo fa mettendo in campo la dote che secondo la stessa autrice è la vera chiave del romanzo: la fedeltà, intesa come dote complessiva, fedeltà agli amati senza doverne scegliere uno, fedeltà a se stessa, fedeltà alla propria idea di felicità, tanto solida da aver ragione delle difficoltà e delle fragilità dei maschi.
MARY SHELLEY, come i suoi genitori, era stata una radicale, nelle idee e nei comportamenti, nelle scelte e nello stile di vita. I passi citati da Elisabetta Marino nella postfazione, pieni di disprezzo e delusione per gli attivisti politici del suo tempo, dimostrano che la Mary adulta era cambiata. Non era impermeabile ai valori della nascente età vittoriana e probabilmente, dopo un’esistenza tanto anticonvenzionale e travagliata, aveva bisogno di un maggior ordine. Ma senza abdicare a se stessa.
Come le vere eroine vittoriane, Elizabeth intervenire sul mondo che la circonda, guidando, indirizzando, ricomponendo. La sua radicalità non era affatto scomparsa. Si era solo affinata.

il manifesto 14.8.18
Tunisia, l’eredità delle donne e il Corano
Tunisia. Il presidente della Repubblica Béji Caid Essebsi accoglie sull'eredità delle donne le raccomandazioni della Commissione delle libertà individuali e dell’eguaglianza (Colibe) lasciando però libertà di scelta alle famiglie, la proposta spiazza gli islamisti di Ennadha, le femministe tunisine festeggiano ma sarà battaglia in Parlamento
di Giuliana Sgrena


La legge sulla parità nell’eredità sarà discussa dal parlamento tunisino. L’annuncio è stato dato ieri, 13 agosto, dal presidente della repubblica Béji Caid Essebsi in occasione del 62.mo anniversario della promulgazione del Codice dello statuto personale di Bourghiba.
«Annuncio la revisione del Codice di statuto personale poiché il nostro riferimento resta la Costituzione e non il testo coranico…. Questo nuovo progetto di legge lascia la libertà a coloro che vogliono applicare la parità nell’eredità ma anche a quelli che vi si oppongono e vogliono applicare il testo religioso», ha spiegato il presidente.
A un anno dalla nomina della Commissione delle libertà individuali e dell’eguaglianza (Colibe), il presidente accoglie, per ora, i suggerimenti in merito al tema dell’eredità, questione centrale, del rapporto della Colibe presentato il 12 giugno.
Il rapporto ha suscitato una reazione dura da parte dei religiosi e di tutti i conservatori che basano la loro ostilità sull’undicesimo versetto della Sura delle Donne del Corano che recita: «Ecco quello che Allah vi ingiunge a proposito dei vostri figli: al figlio una parte equivalente a quello di due figlie». Infatti in tutti i paesi musulmani le donne ereditano la metà del maschio perché nessuno osa toccare un precetto coranico. Lo stesso Bourghiba quando varò nel 1956 un codice della famiglia progressista (che aboliva la poligamia, garantiva il divorzio a maschi e femmine e ammetteva l’aborto), aveva rinunciato alla parità nell’eredità per il veto opposto dagli ulema.
Tuttavia, su un tema così controverso, il presidente ha accettato il compromesso suggerito dalla Colibe che prevede per chi lo stabilisce in anticipo di poter fare riferimento ai dettami della Sharia.
Il 13 agosto in Tunisia è anche la festa della donna. Le donne tunisine, che da anni si battono per la parità nell’eredità, ieri sono scese in piazza, anzi nella centrale Avenue Bourghiba per ribadire il loro sostegno e chiedere la realizzazione delle raccomandazioni contenute nel rapporto della Colibe, che oltre all’eredità riguardano l’abolizione della pena di morte, del crimine di blasfemia, la depenalizzazione dell’omosessualità, l’uguaglianza dei genitori nella tutela e custodia dei figli, la libertà di coscienza e di opinione. «Questo rapporto è un atto di civilizzazione, una rivoluzione», ha dichiarato a Jeune Afrique Monia Ben Jemia, già presidente dell’Associazione tunisina delle donne democratiche (Atfd).
Con le magliette rosse con la scritta «Donna tunisina = Donna di valore» le tunisine hanno sfidato gli oppositori della legge che nella stessa Avenue Bourghiba si sono dati appuntamento il 3 agosto per una preghiera. Il Coordinamento nazionale di difesa del Corano, della Costituzione e dello sviluppo equo aveva invece organizzato sabato scorso una marcia che si era conclusa in piazza del Bardo davanti al parlamento e che aveva avuto l’adesione anche di diversi esponenti del partito islamista di Ennahdha. Il presidente del Coordinamento nazionale di difesa del Corano, Noureddine Khadmi, ex ministro degli affari religiosi del governo islamista – che chiede anche una fatwa – ha lanciato gli slogan con l’hashtag #non à la fitna (no alla guerra civile, che lascia intendere la portata dello scontro): «No alla distruzione della famiglia, no all’attentato alla religione e no all’infrazione della Costituzione».
Ma il presidente Beji Caied Essebsi ieri, nel suo discorso, ha voluto ribadire che lo stato non è garante dei precetti dell’islam. «Il secondo capitolo della Costituzione è chiaro e stabilisce che la Tunisia è uno stato di diritto basato sulla cittadinanza, la volontà del popolo e la supremazia della legge», ha affermato Essebsi.
Lo scontro tra sostenitori e oppositori della legge sulla parità dell’eredità si farà più duro in vista del dibattito parlamentare, quando i partiti dovranno uscire allo scoperto. La portavoce del presidente Saida Garrach ha rivelato che Ennandha ha inviato una lettera a Beji Caied Essebsi in cui respinge la proposta di legge sulla parità nell’eredità. Posizione facilmente comprensibile ma non facilmente gestibile.
Ennahdha, primo partito in parlamento con 68 deputati contro i 56 dell’alleato Nidaa Tounes (il partito del Presidente, che ne ha persi diversi a causa di varie scissioni), l’unico a sostenere a spada tratta il premier Youssef Chahed, cerca di accreditarsi nel passaggio da movimento religioso a partito politico, percorso riconosciuto ieri anche dal presidente tunisino. Il modello di Rachid Ghannouchi, leader del partito islamista, è il presidente turco Erdogan che tuttavia in questi momenti si trova in ben note difficoltà.
La proposta fatta ieri da Beji Caid Essebsi, sebbene prevedibile, imbarazza Ennahdha che per poter vantare una sua evoluzione dovrebbe mostrarsi più disponibile rispetto alle raccomandazioni della Colibe, ma questo scontenterebbe la base del partito e, viste le perdite già subite nelle ultime elezioni, non è una soluzione praticabile. Dunque lo scontro appare inevitabile.

Il Fatto 15.8.18
l caso Brizzi e le montature: ora nessuna donna sarà più creduta
“Archiviate” - Il risultato della campagna lanciata “Le Iene” è che il regista passa per martire e sarà più difficile denunciare molestie
di Selvaggia Lucarelli


L’ultima immagine televisiva di Fausto Brizzi risale ad aprile: un’inviata de Le Iene che lo insegue per strada, nel centro di Roma, e gli chiede “Perché non denuncia le attrici per diffamazione se quello che dicono è falso? Eh, perché? Perché? Perché?”. Il pitbull non è più Dino Giarrusso, perché Dino Giarrusso, quello che “l’archiviazione del caso Brizzi è una sconfitta per tutte le donne”, era così legato a questa inchiesta che ha mollato Le Iene e l’inchiesta per candidarsi con i Cinque Stelle e riuscire a diventare uno dei pochi grillini trombati, per poi riciclarsi come responsabile della comunicazione della Lombardi, per poi tentare l’ingresso nel Cda della Rai, per poi entrare nello staff del ministero dello Sviluppo.
Il fatto che chi ha “creato” il caso, lo abbia anche mollato lì per cambiare addirittura mestiere, può sembrare un’inezia in questa intricata vicenda, ma non lo è. Perché racconta come questa vicenda sia stata un raffazzonato, caotico intruglio di scoop, accuse, titoloni, toto-nomi e mostro in prima pagina, in cui alla fine nessuno era quello che sembrava. Giarrusso non era un giornalista, Brizzi (fino prova contraria) non era uno stupratore, le tre denuncianti non erano state molestate, le poche attrici italiane note che si sono esposte non erano Rose McGowan: hanno difeso Brizzi. O, proprio per non fare la parte di quelle che “i reggiseni sporchi si lavano in famiglia”, hanno scritto una letterina dicendo che anche loro dicono basta alle molestie. Che, come intensità del messaggio, è un po come “basta al tartaro sui denti!”.
Fin qui il sunto del “prima”. Ma veniamo al dopo-archiviazione (anzi, richiesta di archiviazione ancora), perché si sono dette molte cose, quasi tutte inesatte. Intanto sarà anche vero che sei mesi per denunciare sono pochi, ma è vero che sono il doppio che per una buona parte dei reati. Non è vero invece che, come dichiarato dal curatore de Le Iene Davide Parenti e dallo stesso Giarrusso “delle tre denunce presentate da altrettante ragazze solo una è stata presa in considerazione perché la legge italiana prevede che la vittima di reati sessuali o presunta tale abbia sei mesi di tempo per sporgere denuncia”. O meglio, è vero, ma chi ha chiesto l’archiviazione si è espresso anche sulle due denunce presentate fuori tempo massimo. E ha escluso la sussistenza di molestia anche per quelle. Che è come dire: anche se presentate entro sei mesi, non sarebbero arrivate a un processo.
Parenti ha la stessa difficoltà ad ammettere un errore che Fonzie davanti al suo jukebox (“Su stamina noi abbiamo solo raccontato”, si giustificò), ma un po’ di onestà intellettuale non guasterebbe. Quelle tre denunce, con gli sms teneri di alcune ragazze dopo le presunte molestie, non reggevano. Questo non vuol dire che l’inchiesta fosse una farsa. Non credo ci sia stato un complotto ai danni di un unico regista. Non credo che Brizzi sia in coda per la beatificazione dopo Paolo VI. Credo però che l’affannata e mediatica ricerca del mostro abbia fatto commettere errori nella modalità con cui si è condotta l’inchiesta e nella verifica delle fonti.
Il risultato è disastroso: ora le donne sono inaffidabili e Fausto Brizzi è un martire. Le Iene volevano un altro Harvey Weinstein e hanno ottenuto un Gesù sulla croce. A inquinare ulteriormente le acque, è di pochi giorni fa un lungo messaggio della regista finlandese Anne Riitta Ciccone (ex assistente di Nanni Loy) apparso su Facebook in cui la donna si rivolge direttamente a Dino Giarrusso con parole piuttosto dure: “Noi ragazze dell’associazione 100autori eravamo spesso infastidite dai tuoi racconti di prodezze diciamo così sentimentali, a me ha irritato molto una sera in pizzeria dopo una riunione (lo ricorderai, forse, e se non lo ricorderai temo sia peggio), tu eri seduto accanto a me e alle due Claudie e mi hai detto di avermi sognata, facevamo sesso e io ce l’avevo tutta depilata, mi hai chiesto se fossi davvero così (…). La cosa mi ha messo a disagio, l’ho gestita con le due Claudie che possono testimoniare. Come sempre dobbiamo fare noi donne con gli uomini che si sentono liberi di fare queste battute abbiamo fatto muro, ma a me ha dato fastidio perché mi ha ricordato il disagio della prima molestia a 13 anni, un tizio che mi ha chiesto ‘se fossi bionda pure sotto’ e quella sera te l’ho anche detto. Tu però non mi sei parso sofferente e colpito. Mi accusi di essere bugiarda perché donna? O sono io e quelle due ragazze che magari ti abbiamo provocato? (…)”.
C’è poi un particolare inquietante, che non è stato ancora approfondito. Secondo fonti vicine a Fausto Brizzi, oltre ai fatti narrati, esiste un verbale di sommarie informazioni con la testimonianza di una ragazza spagnola che, tra un servizio e l’altro de Le Iene, ha riferito cose sconcertanti: una delle ragazze italiane andata a volto scoperto a Le Iene per denunciare di aver subito molestie da Brizzi, l’ aveva contattata al telefono per dirle che se avesse voluto un po’ di fama in Italia, sarebbe stato sufficiente andare in tv a dichiarare di aver subito molestie dal regista Fausto Brizzi nel corso di un provino (le due si erano conosciute a Ibiza l’estate precedente ed erano rimaste amiche). Ha aggiunto che questa proposta era stata fatta anche ad altre ragazze che avevano però accettato. La ragazza italiana fu molto insistente, quando si rese conto che la spagnola non avrebbe accettato le intimò di non rivelare a nessuno la proposta fattale.
Nei giorni successivi la spagnola ricevette telefonate anche da un interlocutore maschile che si raccomandò di non farne parola con nessuno. C’era uno scouting per trovare ragazze che supportassero la denuncia mediatica di poche coraggiose così da rendere più solida l’inchiesta? Questa ragazza spagnola è una mitomane? Non lo sappiamo, fatto sta che non è una ragazza incappucciata di spalle, ma una ragazza che in un verbale, con nome e cognome, ha raccontato una sua verità. C’è poi un’altra vicenda, ancora più strana: una delle tre ragazze che ha denunciato Brizzi, denunciò in passato un altro presunto tentativo di violenza sessuale che però non arrivò mai in tribunale. Arrivò invece in tv, perché la madre – indovinate un po’? – ne andò a parlare in alcuni noti programmi nazional popolari, a volto coperto e con la voce modificata.
Più si scava e più si trova un’unica verità: l’unica alternativa al tribunale, in questa vicenda così confusa, doveva essere il silenzio. E non per imbavagliare le donne, ma per consentire alla prossime che parleranno di essere credute, senza pessimi precedenti.

Il Fatto 15.8.18
Centri commerciali aperti a Ferragosto: si sciopera
I sindacati chiedono al ministro di mantenere la promessa e cancellare la liberalizzazione
Centri commerciali aperti a Ferragosto: si sciopera
di Roberto Rotunno


Lo sciopero di Ferragosto contro le aperture selvagge di outlet e centri commerciali è una costante da sei anni. Quello di oggi, però, è il primo da quando al governo c’è una forza politica che aveva promesso di regolamentare il lavoro festivo, liberalizzato nel 2012 da Mario Monti.
I sindacati speravano fosse arrivata la volta buona. Invece almeno in questi primi due mesi e mezzo il ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio non ha considerato prioritario l’intervento sulle aperture. Da Nord a Sud, quindi, oggi sarà ancora un 15 agosto di lavoro nella grande distribuzione. Le catene con le serrande alzate da mattina a sera (anche se non in tutti i punti vendita) saranno quasi tutte: Esselunga, Carrefour, Auchan, Lidl, Ikea, Rinascente e diversi outlet. Una scelta che ormai è dettata più che altro da ragioni di concorrenza. Gli scioperi sono stati proclamati in tre Regioni: Lazio, Toscana e Puglia. In altre quattro – Veneto, Emilia Romagna, Abuzzo e Molise – le sigle del commercio hanno solo invitato i lavoratori ad astenersi dal servizio, invocando il diritto alla volontarietà del turno nel giorno festivo. C’è anche una sentenza del Tribunale di Milano che ha riconosciuto questo principio: tutti hanno diritto a onorare le festività, perciò nessuno può essere obbligato a lavorare nei giorni rossi del calendario. La pratica, però, come al solito è un po’ diversa. Innanzitutto, ci sono molte aziende che in questi ultimi anni – dopo le liberalizzazioni – hanno inserito nelle lettere di assunzione l’obbligo di prestare lavoro anche la domenica e nei giorni festivi. I lavoratori, in quanto contraenti deboli, hanno accettato la clausola e ora difficilmente possono far valere il diritto al riposo. Poi c’è la solita questione del boom di contratti precari o part time: “Chi ha un contratto da poche ore – sostiene il segretario Fisascat Cisl David Guarini – o che scade tra qualche mese preferisce eseguire l’ordine per sperare di ottenere il rinnovo e migliori condizioni”.
Secondo i sindacati, quindi, la questione deve essere risolta dalla politica. Fabrizio Russo della Filcams Cgil ricorda che Di Maio si è più volte espresso in favore delle chiusure nei festivi. “Quando il ministro ha fatto quelle dichiarazioni – osserva – è stato abbastanza temerario. Sulla base di quello che ha detto noi abbiamo inviato all’inizio del mese scorso una richiesta di incontro, ma ancora non ci ha risposto”. Comunque, tra i sindacati resta un certo ottimismo sulle intenzioni di questo governo. Ancora non è chiaro quando arriverà il provvedimento sulle aperture, ma sembrano già delineati i contorni.
La liberalizzazione resterà per le zone turistiche, mentre per le altre sarà prevista una turnazione. In pratica, in ogni giorno festivo potrà essere aperto il 25% dei negozi di ogni settore. Ogni anno ci sarà un massimo di 12 giorni festivi di apertura. Anche alcune associazioni di imprese, come la Confcommercio, sono d’accordo sul reintrodurre vincoli perché a quanto pare la deregolamentazione non ha dato i risultati sperati in termini di fatturato.

Il Fatto 15.8.18
La nuova versione di Vanni: “Ce l’ha ordinato il medico”
Anche Lotti, il terzo “compagno di merende”, rivela che un dottore pagava Pacciani per procurarsi i lembi di seno e di vagina delle vittime È Narducci, ripescato nel lago
di Davide Vecchi


“Io andavo a fa’ delle merende, si faceva delle merende”. Lotti, Pacciani e Vanni apparivano credibili come autori dei delitti del mostro? Gli identikit e i giornali raccontavano di un medico dotato di un’intelligenza non comune, capace di sfuggire agli inquirenti per oltre due decenni. Quei tre personaggi improbabili al massimo potevano essere semplici guardoni o la manovalanza guidata da altre menti. Seconde file. Comparse.
I panni perfetti da indossare anche per l’opinione pubblica li confeziona involontariamente Vanni. Durante il processo nei confronti di Pacciani come responsabile dei delitti, l’ex postino viene interrogato come suo amico. Quando il pubblico ministero gli chiede quale fosse la sua occupazione, Vanni risponde: “Io sono stato a fa’ delle merende co’ Pacciani, no?”. Da allora i tre diventano i compagni di merende. Durante i successivi numerosi interrogatori l’ex postino non dirà molto altro. E sarà condannato insieme a Lotti come complici di Pacciani nei delitti al mostro. I compagni di merende, appunto. Ma dov’è il chirurgo? E perché sui conti correnti postali del contadino di Mercatale erano stati compiuti versamenti consistenti sempre pochi giorni dopo i duplici delitti? Da chi arrivavano quei soldi?
Nonostante le condanne a carico dei tre, seppur poi Pacciani otterrà la revisione del processo e morirà prima che sia nuovamente celebrato, la loro responsabilità come unici autori ha sempre lasciato dubbi. In primis negli stessi inquirenti che non hanno mai interrotto le indagini ipotizzando un livello superiore. Nel 1997 è una testimonianza sempre di uno dei compagni di merende a fornire indicazioni. Giancarlo Lotti nel corso di un’udienza, dopo aver ammesso tra mille reticenze e contraddizioni di aver partecipato a 4 degli 8 duplici omicidi, scandisce: un dottore pagava Pacciani per procurarsi i lembi di seno e vagina strappati alle vittime. Non aggiunge molto. Dice di aver visto questo dottore soltanto una volta in piazza a San Casciano e da lontano mentre parlava con Vanni e che fu proprio Vanni a dirgli che quello era “il dottore che pagava Pacciani” quando decidevano di “fare un lavoretto”.
Il pm fiorentino Paolo Canessa e gli uomini della squadra mobile hanno ritenuto sin da subito fondata l’ipotesi, sulla base, dissero già allora, di numerosi riscontri. Ma sarà il pm di Perugia Giuliano Mignini a individuare il nome di un dottore e di altri suoi complici ritenendoli il “secondo livello”. Si chiama Francesco Narducci, è un medico annegato nel Lago Trasimeno l’8 ottobre 1985, un mese dopo il duplice omicidio degli Scopeti: l’ultimo del mostro.
Nel 2002, nel corso di un’indagine della squadra mobile di Perugia sul mondo dell’usura, gli inquirenti ascoltano una intercettazione strana. Gli strozzini cercano di convincere una donna a versare quanto deve. Se non paghi, le dicono, “ti facciamo fare la fine del dottore del lago”. Mignini svolge alcune indagini e ritiene fondato il collegamento con i delitti del mostro: Narducci viene riconosciuto da molti a San Casciano. Alcuni raccontano di una sua familiarità con il farmacista del paese, Francesco Calamandrei. Il pm di Perugia si confronta con il collega fiorentino da sempre impegnato sui delitti delle coppiette, Paolo Canessa. E a dare man forte alle nuove indagini c’è un nuovo superpoliziotto, Michele Giuttari, a capo di un’altra squadra speciale dedicata ai delitti: il Gides che si insedia all’hotel il Magnifico alle porte di Firenze, una mega opera iniziata per i mondiali di Italia 90 ma, come spesso accade, non terminata in tempo e lasciata inutilizzata. Diventa il quartier generale delle ennesime indagini sul mostro. Che hanno continui nuovi impulsi, soprattutto dal fronte perugino. Perché la vicenda di Narducci sembra un romanzo.
Il medico l’8 ottobre 1985 si allontana con la sua barca nel lago Trasimeno senza mai fare ritorno. Sarà ritrovato cadavere cinque giorni dopo. Ma dalle testimonianze rese all’epoca e da altre nuove si scopre che la ricostruzione in base alla quale la morte è stata liquidata come suicidio è decisamente lacunosa. Non è stata fatta alcuna autopsia, il cadavere non è stato portato in obitorio ma a casa, è stato immediatamente tumulato e dalle foto fatte il giorno del ritrovamento sul pontile di San Feliciano, dove viene riportato, c’è una ressa di autorità che neanche alla festa della Repubblica: questore e prefetto di Perugia, generali, comandanti. Il medico legale dice di aver subìto pressioni affinché non disponesse l’autopsia. Mignini decide di riesumare Narducci e ritiene che ci sia stato uno scambio di corpi: quello ripescato non è del medico. Così indaga per occultamento e sostituzione di cadavere tutti quelli che erano sul pontile e i familiari di Narducci. Nel frattempo la procura di Firenze, dopo accertamenti svolti da Giuttari, ricostruisce il presunto secondo livello e indaga Francesco Calamandrei, il farmacista di San Casciano, come mandante.
Pochi mesi dopo, nel giugno 2005, anche la procura di Perugia invia un avviso di garanzia a Calamandrei: è accusato di aver ordinato l’omicidio di Narducci. Il farmacista, secondo gli inquirenti, insieme al medico, “guidava” i compagni di merende, ma dopo l’ultimo duplice omicidio, Narducci non voleva fermarsi come le altre volte, stava diventando un pericolo. Per questo lo ha fatto eliminare fingendone l’annegamento nel Lago. Una ricostruzione suggestiva. Ma con pochi riscontri. Infatti finisce in nulla. A Perugia vengono tutti assolti. Anche a Firenze le accuse cadono. Calamandrei viene assolto nel maggio 2008 perché “il fatto non sussiste”.
(6. continua)

Corriere 15.8.18
Il mestiere di scrivereRileggendo le bozze dell’autobiografia, un pensiero: nulla pare corrispondere alla vita
L’invenzione più vera della verità che può mettere ordine nel Caos
di Raffaele La Capria


Correggendo le bozze di un mio libro autobiografico non avrei mai creduto di entrare in un giro di pensieri come questo che cercherò di descrivere. Mentre vedevo scorrere sulle pagine eventi e momenti della mia vita sentivo che nulla era veramente corrispondente a quel che la mia vita era stata.
Ciò che era accaduto era confuso e disordinato e, a ripensarlo, immerso in una specie di caos, forse perché mentre la si vive la vita corre, ti trascina e non ti dà il tempo di guardarla e nemmeno di giudicarla. Invece ciò che avevo scritto mi sembrava avere un senso e un significato, ed essere più vero del veramente accaduto.
Mi domandai come mai, e la ragione era che la mia narrazione io l’avevo inventata, ricostruendo tutto e dando a tutto un ordine, un senso che non aveva nella realtà, e così quell’invenzione era diventata più vera della verità, più vera degli sparsi elementi estratti dal caos da cui era nata. Insomma avevo scritto una favola cui ora credevo. Ma, azzardai, non era anche una favola l’inizio del Libro dei Libri?
«In principio Dio creò il cielo e la terra», così comincia il libro scritto dall’Ispirato. Prima, prima del principio, «la terra era una cosa deserta e vacua, e tenebre erano sopra la faccia dell’abisso». In principio c’era il Nulla, poi arriva Dio e dal Nulla crea il mondo. Il Nulla è qualcosa che nessuno riesce a concepire, così come Dio, così come il Principio. Ma con queste tre entità inconcepibili comincia la favola, la narrazione.
Questa favola, questa narrazione, è un’invenzione, perché cosa poteva sapere l’Ispirato che l’ha scritta, del Nulla del Principio e di Dio? Dunque è un’invenzione, un’ispirazione, che però mette ordine nel Caos originario.
«E Iddio separò la luce dalle tenebre... Così fu sera, poi fu mattina, che fu il primo giorno», come si legge nella Bibbia del Diodati, bellissima e poetica. Che prosegue con la separazione delle acque che son sopra e quelle che son sotto, e Iddio nominò quelle che son sopra cielo. Insomma Dio mette ordine, ed è quest’ordine che fa esistere il mondo che conosciamo, la natura e tutte le cose. A questo punto una voce entra in campo e mi dice: «Di che parli? Vuoi mettere in dubbio la parola del Signore, la Bibbia in cui crediamo, dicendo che chi l’ha scritta non poteva saper nulla di quello che scriveva?»
Ma no, non parlo della Bibbia, parlo della Narrazione, parlo della Favola, parlo di quella narrazione e di quella favola che ogni religione racconta, di quella invenzione che è il racconto, che rende vero quel che dice per il modo in cui lo dice. Parlo dei miti e delle saghe in cui i popoli si riconoscono e dove trovano la propria identità.
Cosa sarebbe un cristiano senza la narrazione del Vangelo, quale sarebbe il suo concetto del bene e del male se non fosse confortato dall’esempio di Gesù che la narrazione degli evangelisti ci ha lasciato?
Io rispetto i credenti di ogni religione e il racconto in cui si riconoscono, e penso che il racconto, se ben inventato e ben congegnato può fare a meno della ragione. Senza un racconto cui possiamo aggrapparci l’umanità sarebbe smarrita e forse in preda a sogni devastanti.
Non è il sonno della ragione che crea i mostri ma l’esercizio della ragione in una sfera che non le appartiene. Credo anche che la letteratura abbia questa funzione di creare invenzioni che rendono più vera la realtà, che a dir la verità è cosa inconoscibile anche quando sembra a noi vicina e a portata di mano.

Repubblica 15.8.18
Renzo Piano
“Genova è fragile ma nessuno la cura”
Intervista di Francesco Merlo


Renzo Piano era a Ginevra, a lavorare a un progetto per il Cern, quando hanno interrotto la riunione e gli hanno detto che a Genova era crollato il ponte Morandi: «Al di là del legame sentimentale con Genova ho provato una grande sofferenza, di quelle che arrivano all’improvviso e ti sconvolgono. A me prendono allo stomaco. Ho pensato subito alle vittime, e solo dopo alla mia città ferita, a Genova e alle sue catastrofi. Ho immaginato quella gente che passava di là a metà agosto, i camion e i furgoncini per lavoro, gli altri per vacanza, le famiglie allegre e innocenti, ho pensato agli occhi che, quando si passa su un ponte, sono ancora più aperti, perché c’è l’alto e c’è il basso, c’è la sospensione nel mezzo cielo».
E invece proprio il ponte, che accorcia le distanze, dà ordine e bellezza al paesaggio e mette allegria, è crollato di botto.
Pioveva quando la linea retta si è spezzata e dunque niente polvere: macerie senza sassi e mattoni perché il cemento non rovina a terra come in una frana, ma collassa. Sembra una catastrofe chirurgica.
«Non esagero, ma è una morte ingiusta e orribile. E di che cosa sono vittime? Non è certo colpa della casualità né della topografia della fragile Genova. Io non so cos’è accaduto, non voglio sembrare arrogante, non ho elementi e non faccio certo polemiche. Posso dire però che non credo al fatalismo che considera incontrollabile l’anarchia della natura, dei fulmini e della pioggia. I ponti non crollano per fatalità. Nessuno dunque venga a dirci che è stata la fatalità».
Cattiva manutenzione?
«L’ho sempre visto sotto controllo, quel ponte, che ha una lunga storia di manutenzione e di stretta sorveglianza».
Però ha ceduto. E non è il primo in Italia.
«I ponti sono anche simboli. È orribile che crollino e che il crollo uccida. Ma un ponte che crolla, con quella fisica ha sempre una dimensione simbolica e dunque, quando crolla, è come se crollasse due volte».
Già, si alzano i muri e crollano i ponti. Una volta stabilito che non è fatalità, perché è crollato?
«All’opposto della fatalità c’è la scienza. L’Italia è un paese di grandi costruttori, progettisti geniali, scienziati umanisti. E però non applicano quella scienza che viene prima della manutenzione e si chiama diagnostica. In medicina nessuno fa niente senza una diagnosi. Che manutenzione puoi fare del tuo corpo se non sai di che cosa soffri? Come si stabilisce se hai bisogno di una cura di farmaci oppure di un’operazione chirurgica o magari di un po’ di riposo? Solo la precisione della diagnosi garantisce l’efficacia dell’intervento. E i ponti, le case e tutte le costruzioni vanno trattati come corpi viventi. In Italia produciamo apparecchiature diagnostiche sofisticatissime e strumentazioni d’avanguardia che esportiamo in tutto il mondo. Ma non li usiamo sulle nostre costruzioni. Perché? E non è un discorso di tecnica e basta. Solo con un approccio diagnostico si esce dal campo delle opinioni e si entra in quello delle certezze scientifiche».
La scienza non se la passa tanto bene, e forse vale per i ponti quel che vale per i vaccini.
La catastrofe può insegnarci qualcosa?
«Io spero che il maledetto crollo di questo ponte ci faccia riflettere e ci faccia uscire dall’oscurantismo culturale del “secondo me si fa così”. Per esempio con la termografia possiamo determinare lo stato di salute di un muro senza neppure bucarlo, proprio come avviene con il corpo umano: si comincia col misurare le temperature delle sue varie parti».
Quel ponte vivente era un corpo affaticato.
«Io credo che la manutenzione non sia mai mancata. Ma Genova è una città fragile, divisa in due, ed è lunga 20 chilometri. Quel ponte è stato sollecitato all’inverosimile».
Adesso che è crollato forse la città di Genova ha bisogno di una diagnosi. Che succederà?
«Genova è una città portuale che deve trasferire il suo traffico pesante in tutte le direzioni. Non si può caricare la viabilità a dismisura sulla gomma. Non so cosa succederà. Per tenere assieme Levante e Ponente forse dovrebbero pensare a un incremento del trasporto sul ferro e sull’acqua. Ma questo è il momento del cordoglio e del lutto».
Ancora una volta per ragionare Genova ha bisogno del lutto?
«Difficile e straordinariamente bella, è una città molto fragile, stretta com’è tra il mare e le montagne subito alte. Ho già raccontato che i rivali veneziani nel Medioevo dicevano che Genova era una città sfortunata: montagna senza alberi e mare senza pesci. È verticale, ripida, rocciosa, con il fondale profondo e il mare agitato. Ma la topografia, come il cattivo tempo, non può diventare il capro espiatorio di ogni cosa».
Genova sa reagire?
«Ha già dimostrato di saper tenere la testa alta. Una città che passa attraverso le catastrofi ha bisogno di ritrovare subito competenze e amore. Altrimenti, come sta avvenendo in qualche parte d’Italia, si degrada e va in malora lo stare insieme: diventano peggiori gli uomini e anche gli animali. Le alluvioni, per esempio, hanno avviato un lungo lavoro di rinascita idrogeologica. Anche ieri, quando è crollato il ponte, pioveva, ed è normale che piova. Genova è una città dove l’acqua, dolce e salata, arriva da tutte le parti. Come sai, da bambino con la sabbia di Pegli costruivo castelli. Non è facile: bisogna scavare una buca, portarci l’acqua per impastare e rendere malleabile la sabbia e poi fare il castello in modo che l’onda, quando arriva, lo circondi ma non lo invada, lo bagni ma non lo inzuppi. Ci vuole molta intelligenza per governare l’acqua.
Genova ha l’intelligenza per governare tutta se stessa e anche il proprio dolore. Sa usare le catastrofi per cambiare. Ha l’orgoglio di essere superba».
La superbia non era un peccato?
«Genova è superba non nel senso del gran peccato cattolico.
Addossata sulla collina alpestre, Petrarca la battezzò Superba dal latino “super”: stare sopra. Dunque è fisicamente, prima che in metafora, che Genova ha l’orgoglio di essere superba».
Anche dopo il crollo del ponte?
«Purtroppo Genova, che sa reagire, non sa ancora prevenire. Ma spero che ora cominci la revisione del suo sistema dei trasporti. E mi auguro che parta dal crollo di questo ponte una seria riflessione sulla cultura diagnostica del patrimonio italiano. Solo conoscendo con esattezza lo stato di salute di tutte le nostre costruzioni possiamo proteggere e salvare, con i ponti, la nostra stessa civiltà».

lunedì 13 agosto 2018

Corriere 13.8.18
L’appello di Aquarius: la Ue ci trovi un porto
È in mare da due giorni con 141 migranti a bordo: «Cinque navi li hanno ignorati». Roma: chiedano alla Libia
di Marta Serafini


«I governi europei trovino un porto sicuro per i migranti soccorsi da Aquarius». Lancia il suo appello il personale della nave di Sos Méditerranée e Medici Senza Frontiere che venerdì ha soccorso in due operazioni 141 persone al largo della costa libica di Zuwarah mentre erano alla deriva su due barconi di piccola e media grandezza. A bordo, anche 67 minori accompagnati e due donne incinte.
Somalia, Eritrea. Sono queste nel 70% dei casi i Paesi di provenienza. Sul ponte c’è spazio per i sorrisi e gli abbracci, ma c’è anche chi si è sentito male. I migranti, nessuno in pericolo di vita ma tutti molto debilitati dopo aver subito abusi in Libia e aver trascorso alla deriva anche 35 ore, hanno raccontato di essere stati ignorati da cinque navi. Un comportamento che, per le ong, è la spia di un rischio: quello che venga meno il principio di soccorso in mare, sancito dal diritto internazionale. L’ipotesi è che le navi di passaggio decidano di non aiutare i migranti per evitare di rimanere bloccate dai veti incrociati dei vari governi e vedersi negare un porto di sbarco per giorni, come già capitato al rimorchiatore Vos Thalassa e al mercantile Alexander Maersk.
Ed è quello che Aquarius ora rischia, se dalla Francia o dalla Spagna o da un altro stato europeo non dovesse arrivare l’indicazione di un porto sicuro. Dalla nave, in un comunicato, fanno sapere di avere in entrambi gli eventi di soccorso informato tutte le autorità competenti tra cui i Centri nazionali di coordinamento del soccorso marittimo (MRCC) di Italia, Malta e Tunisia oltre al Centro di coordinamento congiunto di soccorso (JRCC) libico. Ma se dalla Libia via radio hanno dato indicazione — per lo più in arabo, come riporta la giornalista Angela Gennaro del Fatto Quotidiano che si trova a bordo — di rivolgersi a Malta e all’Italia, secondo quanto si legge sul diario di bordo della nave disponibile online sul sito onboard-aquarius.org già alle 21.45 di venerdì La Valletta ha risposto di non avere intenzione di coordinare l’assegnazione del Pos (il cosiddetto porto sicuro).
Da Malta la questione è rimbalzata in Italia. Sabato il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha spiegato ai microfoni del Giornale Radio di Rai Uno di non avere intenzione di aprire i porti italiani ad Aquarius «nave tedesca, che batte bandiera di Gibilterra e che ha bordo personale straniero». Parole cui ieri sera ha fatto seguito l’indicazione del Centro di coordinamento della Guardia Costiera italiana ad Aquarius di rivolgersi a Tripoli dato che la richiesta è arrivata mentre la nave era in acque Sar libiche.
Mentre il rimpallo continua, dunque la situazione si complica. La nave durante il suo stop a Marsiglia è stata attrezzata per traversate più lunghe. Ma con il passare delle ore è facile che la tensione a bordo salga, come già capitato in giugno quando Aquarius passò tre giorni ferma al largo di Malta, prima di ricevere il via libera dalla Spagna e partire alla volta in Valencia. E in attesa che da terra arrivi un segnale, Nick Romaniuk, coordinatore per la ricerca e il soccorso di Sos Méditerranée ribadisce: «Ciò che è di massima importanza è che i sopravvissuti siano portati senza ritardi in un luogo sicuro dove si possa rispondere ai loro bisogni di base e dove possano essere protetti dagli abusi».

Corriere 13.8.18
Mattarella: «Difendere libertà e diritti da ogni minaccia»
Stazzema, il messaggio per i 74 anni dell’eccidio nazi-fascista. Il sindaco contro il ministro Fontana
di Valeria Costantini


RomaNel giorno del 74esimo anniversario dell’eccidio nazifascista di Sant’Anna di Stazzema, il presidente della Repubblica ha lanciato il suo monito. «Tutti gli italiani e tutti gli europei considerano irrinunciabile quel patrimonio di libertà, di diritti, di solidarietà che, dopo la Liberazione, i nostri popoli sono riusciti a costruire e che siamo sempre chiamati a difendere da ogni minaccia», queste le parole di Sergio Mattarella, che ha ricordato il massacro nel paese vicino a Lucca. Una commemorazione segnata ieri dall’attacco del sindaco della cittadina toscana, Maurizio Verona, contro il ministro della Famiglia Lorenzo Fontana, che ha proposto di abolire la legge Mancino.
«Attendiamo le sue scuse, attendiamo le sue dimissioni — ha ribadito il primo cittadino nel suo intervento al sacrario di Sant’Anna — Venga qui a dire che bisogna togliere le leggi che puniscono i reati contro i sostenitori di razzismi e violenze — ha detto — Che venga a raccontarlo ad Enrico, Enio, Adele, Cesira, Mauro, Milena, Siria e a tutti gli altri superstiti della strage che hanno visto cadere padri, madri, fratelli e sorelle».
Nel suo messaggio il capo dello Stato ha ricordato che l’eccidio nazifascista (che fece 560 vittime civili), è stato uno dei «vertici di più sconvolgente disumanità» della seconda guerra mondiale. La memoria di quell’orrore, che ebbe alla base «violenza, odio e smania di dominio», consegna «alle nostre coscienze — ha sottolineato Mattarella — un monito che mai può essere cancellato».
Nei «tempi nuovi» che stiamo vivendo, ha ribadito, «sta al nostro impegno e alle nostre responsabilità, personali e collettive, rafforzare cultura della vita, pace tra uomini e popoli liberi, solidarietà per uno sviluppo davvero condiviso». Alle parole del presidente si sono aggiunte quelle delle più alte cariche della Repubblica. «Beni preziosi come la libertà e la democrazia sono un patrimonio da difendere con l’impegno quotidiano di ognuno», ha detto la presidente del Senato Elisabetta Alberti Casellati. Il presidente della Camera Roberto Fico, ricordando il valore della ricerca della verità, ha lodato «il lavoro della magistratura che ha portato alla sentenza di condanna per atto terroristico premeditato».

Corriere 13.8.18
Anni di piombo i protagonisti
L’ex Br e il figlio dell’autista di Moro Pace in chiesa davanti a mille giovani
Roma, Bonisoli e Ricci alla veglia pre-Sinodo. «La violenza ha distrutto i nostri sogni»
di Giovanni Bianconi


«Sognavo di fare la rivoluzione per cambiare il mondo e per questo ho sparato, ferito e ucciso, trasformando quel sogno in una tragedia», racconta l’ex terrorista. «Il mio sogno s’è infranto quando hanno ammazzato mio padre e io ero un bambino di 12 anni, ma poi ho capito che non potevo soltanto odiare e portare rancore; un assassino resta tale per sempre, ma una persona può cambiare», gli fa eco la vittima.
Non solo le persone ma tante altre cose sono cambiate dal 1978, quando l’ex brigatista rosso Franco Bonisoli partecipò alla strage di via Fani, per eliminare gli uomini della scorta e sequestrare il presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro; e l’ex bambino Giovanni Ricci capì quel che era successo a suo padre — Domenico Ricci, appuntato dei carabinieri e autista di Moro — vedendolo crivellato di proiettili nella foto pubblicata sull’edizione straordinaria di un giornale. Quarant’anni dopo, nella chiesa del Gesù dove Benigno Zaccagnini e altri politici venivano a pregare e piangere nei giorni del sequestro, Bonisoli e Ricci ne parlano a un migliaio di ragazzi di oggi, venuti e Roma per incontrare il papa e che nella veglia notturna assistono all’incontro tra un carnefice e la sua vittima. Nessuno di loro era nato quando Moro fu rapito e, 55 giorni dopo, ritrovato cadavere nel bagagliaio della Renault rossa, a trecento metri da qui, tra le sedi della Dc e del Pci, che oggi non ci sono più. Restano i palazzi antichi, resta la chiesa secolare, e resta la testimonianza di due persone che, con ruoli decisamente diversi, hanno attraversato quella stagione di sangue e ne portano ancora i segni. Davanti all’altare centrale, stimolati dalle domande di un sacerdote, raccontano le ragioni della morte e del dolore trasformati in speranza e riscatto; uno da responsabile e l’altro da innocente, ma entrambi attraverso l’incontro e il dialogo, che quasi miracolosamente cancellano ogni traccia di sacrilegio nel sentire un assassino parlare in chiesa, o un prete che porta a esempio il percorso che ha compiuto.
«Nel nome della rivoluzione feci una scelta totalizzante che trasformava le persone in cose, simboli da abbattere, nemici da eliminare — spiega l’ex brigatista rosso che ripercorre l’escalation violenta degli anni Settanta, dalle macchine bruciate agli omicidi —. E quando mi hanno arrestato ho continuato a combattere lo Stato dal carcere, finché le convinzioni non hanno cominciato a incrinarsi e io ho pensato di suicidarmi perché con la lotta armata doveva finire anche la mia vita. Ma poi un cappellano ci ha chiamato “fratelli”, ed è cominciata la risalita dall’inferno al purgatorio».
«Io inizialmente volevo restituire alle persone che hanno ucciso mio padre tutto il male che mi avevano provocato — ricorda Ricci —, ma incontrarle e scoprire che si portano addosso una croce più grande della mia, per il peso di ciò che hanno fatto, mi ha permesso di non vivere più quotidianamente la morte di mio padre, di ricordarlo quando era vivo e non più solo da morto; di conservare la memoria di una persona, e non soltanto di un omicidio».
Sono storie che possono suonare incredibili per ragazzi che non hanno vissuto il clima degli Anni di piombo e dei sogni trasformati in tragedia, e che vincendo il sonno e la stanchezza ascoltano per oltre due ore l’ex terrorista rammaricarsi per le sofferenze provocate: «L’unica cosa che potevo tentare, per rimediare, era trasformare il mio senso di colpa in senso di responsabilità, cercando le vittime e il dialogo con loro, pronto a prendermi tutto quello che mi avrebbero scaricato addosso, e adesso renderlo pubblico. Per questo tanti ex compagni mi criticano, ma non mi interessa; quello che conta è essere testimoni credibili, e io ci provo».
Anche la strada di Ricci non è stata semplice: «Mio fratello e molte altre vittime non condividono il nostro percorso, e io rispetto le loro scelte. C’è chi sceglie il diritto all’odio, ma io rivendico il mio diritto alla pace e a non morire ogni giorno, considerando chi mi ha fatto del male un uomo e non più un mostro». Al momento delle domande c’è chi chiede a Bonisoli che cosa pensi oggi di Moro, che rapì e condannò a morte quarant’anni fa. «Una persona eccezionale — risponde — che cercava di capire quello che accadeva intorno a lui, comprese le ragioni di chi aveva fatto la nostra scelta; se non l’avessimo ucciso avrebbe potuto aiutare a chiudere prima la stagione della lotta armata, con danni minori». Ilaria, testimone del cammino che Bonisoli e Ricci hanno fatto insieme ad altri ex terroristi e altre vittime, spiega la ragione di una notte così, tra gli appuntamenti preparatori al Sinodo: «La voglia di comunicare ai giovani il rifiuto della violenza, attraverso una storia del passato che guarda al futuro».

La Stampa 13.8.18
Il senatore di Brescia Simone Pillon
“Via l’aborto, anche noi prima o poi ci arriveremo come in Argentina”
di Ame. Lam.


Pillon, è stato lei a portare le posizioni del Family Day dentro la Lega o è stata la Lega che, abiurato il dio pagano del Po, si è appropriata del cattolicesimo integralista per estendere i suoi confini politici?
Il senatore di Brescia Simone Pillon sorride. Non condivide la definizione di cattolicesimo integralista. Ma sul partito per il quale è stato eletto il 4 marzo risponde così: «La Lega è rimasto l’ultimo partito che ascolta la gente. Quando sono stato eletto ho scoperto che il mondo del Family Day, le nostre battaglie in difesa della famiglia, dell’identità cristiana, a favore della libertà di educazione e contro la cultura gender, erano molto conosciute nel mondo leghista. La mia candidatura non è stata un’operazione di vertice per prende un po’ di voti in più, ma partiva dal basso, da quell’ascolto che Salvini è stato capace di fare».
Quindi un incontro naturale viste soprattutto le posizioni del ministro Lorenzo Fontana e dello stesso Salvini che gli avversari definiscono «retrogradi, troglodite, anti-moderne»?
«È invece moderno scegliere su un catalogo una donna giovane e carina, affittare il suo utero, farla mangiare come desiderano i genitori 1 e 2 e poi prendersi il figlio e portarselo a casa dall’altra parte del mondo? Roba da ricchi che fa parte di quella che io chiamo antropologia individualista, di occidentali viziati che pensano solo a se stessi...».
Lasciamo stare l’utero in affitto su cui anche laici e non cattolici possono avere perplessità, ma secondo lei una coppia di maschi o di femmine che si amano perché non dovrebbero avere un figlio ed essere in grado di crescerlo bene? Poi c’è il caso di figli nati da precedenti unioni: crede veramente che due omosessuali non siano adatti a educarli e farli vivere serenamente?
«Un bambino o un ragazzo ha il diritto di avere una madre e un padre. Potrà mai un uomo essere una brava madre e viceversa? Secondo me no, tranne se si crede al gender, al fatto che non ci sia alcuna differenza tra un uomo e una donna, non solo a livello cromosomico, ma di sensibilità, attitudine. Già quel ragazzo ha subito il trauma della separazione dei genitori e dell’abbandono, ha diritto di avere una vita serena. Non farei prove di ingegneria sociale».
Proverete a cambiare la legge 194 sull’aborto?
«Purtroppo oggi non ci sono ci sono i numeri in Parlamento, mancano le condizioni politiche, ma ci sono le condizioni per applicare la prima parte della 194, puntando all’obiettivo “aborti zero”. Occorre aiutare le donne che vogliono abortire perché si trovano in difficoltà economiche e sociali. Le politiche che il ministro Fontana intende fare, con importanti aiuti alle famiglie, vanno in questa direzione. Dobbiamo sostenere la maternità altrimenti nel 2050 ci estinguiamo come italiani. Le risorse ci sono, ma occorre spostare i soldi che vanno alle lobby, alle banche: sa quante donne avrebbero potuto mettere al mondo dei figli con i soldi che il Pd ha regalato a Monte Paschi di Siena?».
La sta buttando in politica, come se chi non la pensa come lei fosse cattivo.
«Qualche cattivo c’è davvero. Capisco la Bonino che persegue scientificamente l’individualismo anti-umano, non a caso lei è finanziata da Soros. Altri magari sono in buona fede ma non si rendono conto delle conseguenze delle loro posizioni. Comunque, oggi non ci sono le condizioni per cambiare la 194, ma vedrà che anche noi ci arriveremo, come è successo in Argentina».
Lei non contempla la libertà di scelta per una donna di interrompere la gravidanza?
«La libertà di scelta c’è l’hai prima di concepire una vita. Poi c’è il diritto di un innocente di venire al mondo».

Il  Fatto 13.8.18
Cent’anni fa le stimmate di Padre Pio: irriducibile all’élite, populista in Cielo
Nella sua cella a San Giovanni Rotondo il frate ingaggiò una battaglia contro il diavolo che voleva strapparlo al suo popolo
di Pietrangelo Buttafuoco


Cent’anni fa le stimmate di Padre Pio. L’ha ricordata, questa ricorrenza, Marino Niola – un grande antropologo, oltre che un attento studioso dei sentimenti popolari – senza indugiare nel pregiudizio laicista, anzi, svelando il tratto sciamanico di questo santo: “Oscuramente arcaico” – ha scritto Niola su Repubblica – “imbozzolato in quel saio marrone che a stento riusciva a contenere i suoi lampi carismatici, a disciplinare le sue intemperanze liturgiche, a smorzare le sue eccedenze profetiche”.
Cent’anni fa sgorgava la santità di questo frate profondamente italiano, sanamente fascista, cocciutamente contadino la cui fronte sfidava i termometri con febbri oltre i quarantotto gradi. Lame arroventate, questi febbroni, con cui fendere i rigori dell’inverno nel Gargano; spade perfette, queste vampe, per contrastare le nevi, l’umidità e il gelo chiamato dal Diavolo intorno a se stesso cent’anni fa quando – giunto a San Giovanni Rotondo per domiciliarsi nella cella di San Pio – ogni notte ingaggiava la battaglia immane contro il santo per strapparlo al suo popolo. Satanasso tentava il frate rinfacciandogli – di volta in volta – poppe, sottane e natiche ma quello, ogni volta, gli mostrava le stimmate. San Pio attestava la sacra carne martirizzata di Gesù, il figlio di Maria, e quell’altro, il Negatore – all’imbrunire, per tutte le notti – scatenava mazzate tra le mura del convento. La soave fragranza dei gelsomini, delle violette, delle rose e della lavanda muoveva in difesa contro l’avanzata di merda, zolfo e fogna e quel tanfo, allora – nel chiarore, per tutte le albe – al solo apparire delle garze zuppe di Sangue del Santo si dileguava. Avvolgeva di furore e visione, San Pio, qualunque orizzonte. Già dai vetri dei torpedoni dei pellegrini, il profilo rasposo del paesaggio, porgeva il suo carisma.
Si faceva forte della sapienza segreta e riconosceva la profonda verità di ognuno: se usuraio, se assassino, se porco, se ladro, se probo, se ingenuo, di ognuno – in fila per la comunione – il frate sacerdote sapeva vita, morte e miserie. E di quel popolo sapeva tutto senza tirare a indovinare ma, appunto, afferrando l’anima di chiunque arrivasse al suo cospetto, fino all’estremo disvelamento: quella coda del Diavolo intinta nel moralismo dei saputi, irritati rispetto a siffatto caos medievale in pieno boom economico che lui, solo lui – fosse pure contro un altro santo, padre Agostino Gemelli – sapeva smutandare.
Presente più dei Sette nani in tutti i giardini, dislocato in effigie nei cortili, davanti ai supermercati, nei retro delle macellerie e nei portafogli di più di metà della popolazione italiana, Padre Pio – di cui è devoto Giuseppe Conte, compaesano del Santo – è da cent’anni irriducibile all’élite, è un populista in Cielo.

Il  Fatto 13.8.18
Sulle periferie il governo ha scelto, ma si nasconde dietro la Consulta
Numeri - Il bando era il solito “bonus a pioggia”, ma la sentenza del 2018 non lo vincolava a spostare i fondi
Sulle periferie il governo ha scelto, ma si nasconde dietro la Consulta
di Marco Palombi


Cosa accade attorno all’ormai famoso bando per le periferie di Matteo Renzi? La classica tempesta in un bicchier d’acqua o, se qualcuno ricorda il classico di Tom Wolfe, un Falò delle vanità in cui tutti riescono ad aver torto. Intanto, il fatto: un emendamento presentato dalla Lega in Senato – e votato all’unanimità, Pd e Renzi compresi – ha sospeso per due anni (non eliminato) 96 dei 120 progetti approvati da Palazzo Chigi ai tempi di Renzi&Gentiloni per la riqualificazione delle periferie, nessuno di questi è in fase di gara; in soldi significa bloccare investimenti per 1,6 miliardi circa su 2,1 stanziati in totale (ma finora finanziati solo parzialmente).
I soldi “liberati” – 140 milioni quest’anno, 320 il prossimo, 350 nel 2020 e 220 milioni nel 2021 – vengono destinati a sbloccare gli avanzi di amministrazione dei Comuni “virtuosi”: quelli che hanno soldi in cassa, ma non possono spenderli per via delle regole sull’equilibrio di bilancio degli enti locali che gli assegna rigidi obiettivi annuali. Ovviamente i sindaci che si sono visti rinviare di due anni i progetti non l’hanno presa bene: temono, soprattutto, che alla fine quei soldi spariranno per sempre. Tra i 24 progetti “salvati” (già esecutivi) ci sono quelli di Roma, Torino, Modena, Bologna e della città metropolitana di Bari; tra i “sommersi” Firenze, Milano, Livorno, Treviso e le (ex) province di Roma e di Torino.
Perché? L’emendamento “incriminato” è una legittima operazione politica della Lega e della maggioranza, peraltro inizialmente avallata dal Pd, che ha almeno un paio di motivi: uno, volendo, più nobile; l’altro meno. Il bando delle periferie, infatti, è una classica operazione “alla Renzi”: una sorta di “bonus sindaci” affidato direttamente da Palazzo Chigi per gentile concessione dell’ex sovrano. Le scelte sono state un po’ così: riqualificare le periferie è una bella cosa, ma forse – con tutto il rispetto per i problemi di Viterbo, Cuneo e Biella – ci si poteva concentrare sulle grandi aree urbane degrate (la sola Ostia ha 100mila abitanti) e circoscrivere meglio i campi d’intervento (a scorrere i progetti si passa dalle riqualificazioni di immobili alle piste ciclabili, dal “welfare urbano” al social food).
Anche la ripartizione dei fondi lascia qualche perplessità: la Toscana, per non fare che un esempio, è destinataria del 15% circa dei fondi (300 milioni) con meno del 7% della popolazione e senza avere una metropoli sul suo territorio. Si può certo, dunque, sostenere che i progetti vanno rivisti, ma l’uso che si è poi scelto di fare dei soldi denuncia l’intento “politico”: i Comuni virtuosi infatti, quelli che hanno consistenti avanzi di cassa da spendere, si trovano soprattutto al Nord, bacino di riferimento della Lega; i 96 capofila dei progetti bloccati sono invece in gran parte a guida centrosinistra. È poco corretto dire, come ha fatto Giancarlo Giorgetti sul Fatto del 9 agosto, “equità e giustizia per tutti i Comuni: 90 sindaci arrabbiati, 8.000 festeggiano”.
La sentenza. I sindaci coinvolti, come detto, sono in rivolta: Antonio Decaro, presidente dell’Anci, ha parlato di “furto con destrezza”; il 5 Stelle Filippo Nogarin, primo cittadino di Livorno, di “toppa peggiore del buco”; il leghista Mario Conte chiede che “i fondi siano reinseriti nella finanziaria”. La maggioranza “gialloverde”, insomma, si ritrova di fronte a una reazione – cavalcata anche dal Pd, che ora sostiene di aver votato a favore perché non aveva capito – che pare non aver messo in conto. Per uscirne la sottosegretaria all’Economia Laura Castelli ha, tra le altre cose, sostenuto che l’intervento era necessario dopo la sentenza della Corte costituzionale (74/2018) che ha bocciato il “Fondo investimenti” di Palazzo Chigi – in cui c’è anche il Bando per le periferie – nella parte in cui non prevedeva il passaggio in conferenza Stato-Regioni (un vizietto tipico degli anni renziani). Motivazione debole. Ha buon gioco, nello smontarla, il deputato del Pd Luigi Marattin: “Si tratta di una semplice questione procedurale e non di sostanza. Che non giustifica certo tenere bloccati per due anni i Comuni che sono ad un passo dalla gara per l’affidamento dei lavori”. Di fatto si poteva portare la cosa in conferenza e cavarsela con una settimana: questo tipo di intervento non è imposto dalla sentenza della Consulta.
I conti dei Comuni. Dice ancora Castelli: “Ci lascia esterrefatti che il Pd, responsabile delle politiche di tagli e del crollo degli investimenti pubblici, accusi l’attuale governo che ha invece sbloccato risorse altrimenti ferme”. Il governo, in realtà, non ha sbloccato alcunché, ma solo spostato risorse: va dimostrato a consuntivo, poi, che quei soldi saranno spesi più in fretta dai primi cittadini “virtuosi” piuttosto che col bando renziano.
Altro tema è la situazione finanziaria dei Comuni: sono stati loro (con le ex province) a sostenere infatti il carico maggiore delle politiche di austerità fatte in Italia, scaricando l’onere ovviamente in minori servizi o maggiori costi per i residenti.
La quasi totalità dei tagli ai Comuni furono decisi dai governi Berlusconi (2010-2011) e Monti (2011-2012), mentre gli esecutivi successivi – tutti quelli a guida Pd – si sono in sostanza limitati a confermare quelle scelte pluriennali. La situazione è stata poi resa più difficile dalle varie regole sul “pareggio di bilancio” per gli enti locali: è quell’equilibrio rigido fra entrate e spese che blocca gli investimenti persino quando i sindaci hanno i soldi in cassa e necessita di regolari provvedimenti “sblocca fondi” da parte del Parlamento (anche sulla scorta di una sentenza della Consulta). Su questo, ovviamente, 5 Stelle e Lega non hanno responsabilità: le avranno dal prossimo 1° gennaio però.

Corriere 13.8.18
Miti e realtà
Gli Stati non sono interamente sovrani
di Sabino Cassese


Perché Erdogan è messo in difficoltà dalla crisi che ha quasi dimezzato il valore di scambio della lira turca? A quale titolo l’Unione Europea ha stabilito nel 2014, e successivamente ampliato, sanzioni contro la Russia? Perché Polonia e Ungheria debbono dar conto all’Unione Europea delle loro leggi sull’ordinamento giudiziario? Perché l’Italia deve sottostare ai criteri dell’Unione Europea sul deficit e sul debito pubblico?
Questi vincoli hanno origini e ragioni diverse e discendono da fonti diverse, da regole del diritto internazionale, da accordi tra Stati, dai mercati.
L’Unione Europea ha un accordo di associazione e uno di libero scambio con l’Ucraina e ha introdotto sanzioni (restrizioni economiche e individuali) contro la Russia, colpevole di aver annesso illegalmente la Crimea e di aver destabilizzato l’Ucraina. Vuole, quindi, punire una evidente violazione del diritto internazionale.
I mercati (risparmiatori e investitori, possessori di lire turche) hanno scarsa fiducia sia nei programmi politici ed economici del governo turco, sia nella qualità dell’«équipe» che li gestisce. Chi possiede una valuta vuole aver assicurazioni sull’affidamento che dà l’emittente.
I Paesi membri dell’Unione hanno sottoscritto trattati in cui si impegnano a rispettare alcuni principi giuridici (indipendenza dei giudici) ed economici (equilibrio di finanza pubblica).
Essi debbono quindi dar conto all’Unione del rispetto di tali principi, se limitano l’indipendenza dei giudici o hanno un alto debito pubblico con bassa crescita economica (lo spread sale e la borsa scende).
Pur provenendo da fonti diverse, questi vincoli hanno un tratto in comune. Discendono dalla interdipendenza che lega gli Stati nel mondo. Essi non sono più isole separate. Si influenzano reciprocamente. Le sorti dell’uno sono legate alle sorti dell’altro. Un vicino aggressivo può domani essere un pericolo. La politica economica allegra di un «partner» deve preoccupare gli Stati che sono associati ad esso.
A dispetto dei «sovranisti», quindi, gli Stati non sono interamente sovrani, devono godere anche della fiducia dei propri vicini e dei mercati. Quelli che chiamiamo mercati sono anche loro, in ultima istanza, composti di risparmiatori-investitori, quindi di «popolo». Se, per un verso, gli Stati controllano i mercati, per altro verso sono i mercati a controllare gli Stati.
Tra gli studiosi della globalizzazione, questa viene chiamata « horizontal accountability », per dire che i governi non debbono rispondere solo ai propri elettorati, ma anche, orizzontalmente, ad altri governi e ad altri popoli. Non basta godere della fiducia dei propri elettorati, bisogna anche rassicurare i mercati e dare affidamento ai propri vicini.
È bene che questo accada? Se le sorti sono comuni, se la crisi di un Paese può trascinare altri nella caduta, è certamente utile che tutti vengano richiamati al rispetto delle regole condivise. I «sovranisti» lamenteranno l’invasione di altri protagonisti nella vita degli Stati, una diminuzione dei poteri del popolo. Ma questo perché hanno un concetto troppo elementare della democrazia, intesa come un rapporto esclusivo, stretto soltanto tra un popolo e il suo governo.

Repubblica 13.8.18
Le decisioni di Trump
Il boomerang dei dazi
di Vittorio Zucconi

Sotto le ceneri dell’immenso braciere che da settimane consuma la California, cova un nemico imprevisto: la guerra tariffaria di Trump che ha caricato di dazi le importazioni dei materiali edili e che renderà proibitivo il costo della ricostruzione ai proprietari. Soltanto uno degli esempi dei danni che la follia protezionistica di questa presidenza sta provocando all’America che finge di proteggere. Due anni dopo la promessa di riportare fabbriche e lavoro in America, fatta in uno stabilimento di condizionatori d’aria che poi se ne sarebbe comunque andato oltre confine, il sogno del "ruggente ritorno" delle manifatture e delle ciminiere spente che riprendono a fumare resta illusorio, come illusorio è l’aumento del potere d’acquisto dei salari nonostante l’alta occupazione, inferiore all’inflazione in salita. L’aumento dei lavori manifatturieri è in linea con quello già segnato negli ultimi anni della ripresa sotto Barack Obama.
Dai coltivatori di soia, destinata alla Cina, del Midwest che Washington ha promesso di sovvenzionare con 30 miliardi di dollari per compensarli delle perdite, alla straziante decisione della Harley- Davidson che sposterà parte della produzione della più americana delle moto facendo infuriare i "bikers" aggrappati alle selle del loro mito Usa, le conseguenze negative della guerra commerciale sono già visibili. I vantaggi restano una promessa.
Il principio ispiratore centrale dell’operazione dazi si è dimostrato, finora, fallace. L’idea che i partner, o competitor, principali degli Stati Uniti avrebbero rapidamente piegato le ginocchia davanti ai dazi imposti a prodotti d’importazione e ceduto alla prepotenza trumpiana non si è materializzata. La blanda, marginale apertura fatta dal presidente della Commissione europa Juncker per rabbonire Trump e importare più soia — come se mai l’Ue potesse assorbirne la stessa quantità della Cina — è stata l’unica concessione apparente. Ma la decisione di imporre altri dazi punitivi alla Turchia, dunque negando al governo di Ankara il vantaggio momentaneo della svalutazione della lira, ha scosso come non accadeva dal collasso greco la stabilità finanziaria europea, come avverte Paul Krugman sul New York Times.
L’elenco dei settori produttivi, delle associazioni industriali, delle piccole e grandi aziende agricole, che stanno disperatamente cercando di dissuadere Trump dall’escalation, si allunga ogni giorno, ma senza grande successo, perché nella storia delle fortune private del miliardario del Queens, nella sua resistibile ascesa alla fama e al potere politico manca la " cultura del commercio", quella formazione al rischio di scambio che ha fatto la fortuna di nazioni, repubbliche e degli stessi Stati Uniti. Trump, come lo ha più volte descritto l’ex sindaco di New York Bloomberg, non è un " trader", un mercante, ma uno speculatore, abile nelle spericolate operazioni immobiliari a credito. La sua fortuna sta nel comperare terreni, sponsorizzarli, farsi pagare sontuose royalties e, alla peggio, lasciare i finanziatori col sacco vuoto, aspettando qualche generoso investitore o acquirente straniero, spesso, come accaduto nella sua torre di Manhattan, venuto dal freddo. Spaventa, nel suo agire, l’assenza di un progetto di lungo respiro, di una strategia che vada oltre il gioco delle ripicche e dei dispetti o dei pigolii mattutini via tweet.
Per restare aggrappato al consenso di quei 78 mila voti sparpagliati nei collegi elettorali del Midwest deindustrializzato che hanno fatto la differenza nella sua vittoria contro Hillary Clinton, Trump sta scuotendo le fondamenta di un mondo interconnesso, che ha fatto la fortuna commerciale, finanziaria e politica di quell’America che vuole "rendere grande di nuovo", come se fino al 2016 fosse stata lillipuziana. Nella sua visione del mondo, ancorata a una cultura popolare americana da anni ’60, la altre potenze dovranno inesorabilmente accettare le condizioni che lui impone, ignorando che, se il cuore americano avesse un infarto nello spasmo trumpiano, altre forme di circolazione di beni, servizi e prodotti potrebbero bypassarlo. Già lo scoprono i petrolieri del Texas che vedono la domanda del loro greggio da parte della Cina scendere rapidamente. Mentre il governo a Washington ha dovuto assumere 200 nuovi funzionari in due settimane per smaltire la valanga di domande di esenzione tariffaria venute da industrie minacciate.
Le migliaia di proprietari di case bruciate nel cratere californiano scopriranno che il prezzo della ricostruzione imposto da Trump supera del 20 per cento il costo previsto dalle assicurazioni, perché il 60 per cento del legname usato viene dal Canada e la gran parte delle ferramenta ordinarie è di fabbricazione messicana, ed è gravata da nuove imposte. E la pletora di piccoli commercianti o di grandi catene che vendono a prezzi scontati e con margini di profitto sottilissimi la merce importata alla clientela meno abbiente dovrà lottare per non perdere vendite e assorbire i rialzi. I meno abbienti pagheranno tutto più caro.
Con la guerra dei dazi, Trump sta cercando di dimostrare, nel suo irresponsabile, arcaico provincialismo, che l’America non ha bisogno del mondo. Alla fine dell’avventura, potrebbe scoprire il contrario: che ormai neppure il mondo ha più bisogno dell’America.

Il  Fatto 13.8.18
Il presidente che trascina le folle degli onesti
Bucarest in piazza - Parla Iohannis Klaus, l’uomo di Stato in trincea per la “Mani pulite” romena
di Michela A. G. Iaccarino


“La lotta alla corruzione è dolorosa: porta alla luce la faccia più brutta della nostra società”. Ma non vuol dire che bisogna smettere di farla. Le spalle sono larghe, come gli occhi chiari e quasi trasparenti, l’aggettivo che pronuncia più spesso quando parla di politica. Il presidente Iohannis Klaus sa che lottare contro il sistema di tangenti in Romania “crea molti nemici tra i politici, ma è quello che io e i rumeni vogliamo”.
Parlava così nel febbraio 2017 alle telecamere dell’Afp, con mezzo milione di ragazzi in piazza a protestare. Klaus allora aveva solo un desiderio: che il popolo tornasse a credere nello Stato. Sono parole che non si è portate via il vento: sono ancora a Bucarest, come quei giovani, più di un anno dopo. “Credi nella notte e nei weekend”, era il detto di piazza Viktorei. E di nuovo di notte, di nuovo nel fine settimana, decine di migliaia di romeni sono scesi in piazza. Lavoro e corruzione: il primo lo vogliono nel loro paese, soprattutto la diaspora romaneasca che torna in patria per l’estate. La corruzione la vogliono fuori dai palazzi del potere.
Quando Klaus nacque in Transilvania nel 1959, all’anagrafe si rifiutarono di scrivere il suo nome con la J, come faceva da cinquecento anni la sua famiglia tedesca. La tradizione sassone fu scissa, finì la storia di un figlio dell’enclave germanica, iniziò quella di un ragazzo rumeno. Insegnante di fisica, poi ispettore scolastico, il tedesco diventò sindaco di Sibiu nel 2000. Fu rieletto nel 2004, nel 2008 e nel 2012 , di nuovo. Il suo segreto contro le tangenti in città erano le donne: i ruoli chiave in municipio li destinava a loro, perché meno corruttibili rispetto ai colleghi maschi. Il germanico che i rumeni amano nel 2014 è diventato presidente, sconfiggendo Viktor Ponta, delfino di Liviu Dragnea. Se Klaus è simbolo della giustizia Dragnea, il leader del partito Psd, è l’esatto, simmetrico, opposto: pluricondannato e autore di depenalizzazioni ad personam.
Klaus è un politico contro i politici: “voi distruggete la giustizia”, ha detto a deputati e senatori che ora vogliono distruggere lui. Alla maggioranza che ora lo minaccia con un’accusa di alto tradimento, ha appena risposto che si ricandiderà anche l’anno prossimo.
Il futuro è l’Unione, ma “non credo che De Gasperi, Schumann, Adenauer, Spinelli avrebbero amato un’Europa a più velocità o cerchi concentrici”. Il tris di drappi che ha alle spalle nel suo ufficio colorano gli aforismi secchi che pronuncia spesso: sono la bandiera della Nato, quella europea e poi il tricolore del paese di cui è capo. Dopo che Laura Kovesi, a capo della Dna, Direttorato anticorruzione nazionale, è stata licenziata, il sindaco, come ancora qualcuno lo chiama, è rimasto l’unico simbolo politico di un’intera nazione che lo guarda.
La Romania che non ha niente di cui vergognarsi e che lo ama rimane per strada. Lui ricambia il suo popolo: “siamo una democrazia giovane rispetto ad altri paesi europei, ma da noi la gente è scesa in piazza per difendere diritto, giustizia, equità”.

Il  Fatto 13.8.18
Il ballo del Sud Sudan in bilico sul petrolio
I due “elefanti” al potere alternano una feroce guerra fra le loro etnie a temporanei accordi per spartirsi risorse e ricchezze, ma il Paese è allo stremo
di Michela A. G. Iaccarino


Un vecchio proverbio africano dice che “quando combattono gli elefanti, è sempre l’erba a rimanere schiacciata”. E quando combattevano gli elefanti in Sud Sudan era sempre l’ultima ora di qualcuno. Ora i due pachidermi, il presidente in carica Salva Kiir e il suo ex vice, poi nemico mortale, Riek Machar, si sono seduti di nuovo allo stesso tavolo per trovare un accordo di pace nello Stato più giovane del mondo. Ha solo sette anni, il Sud Sudan, e da cinque è dissanguato dalla guerra civile, esattamente quando i due signori della guerra hanno smesso di essere amici. Adesso Stato Radio Juba dice: “Il presidente Salva Kiir, con decreto presidenziale, ha concesso l’amnistia a Riek Machar e i gruppi in armi contro il governo”. È accaduto sei giorni fa, grazie al cessate il fuoco raggiunto tra i soldati ribelli di Machar e l’esercito di Kiir lo scorso giugno. Fino ad oggi le zone di controllo e confine tra le due fazioni etniche erano a geometria variabile, definite ogni giorno nel deserto africano a colpi di kalashnikov, stupri etnici e devastazione. In uno Stato più africano degli altri adesso all’orizzonte non ci sono solo le donne con ceste in equilibrio sulla testa, ma anche una tregua.
Dopo fosse comuni, scontri tribali, cannibalismo forzato da Jongelei fino a Unity, undici prove di cessate il fuoco susseguitesi in questi anni, questo è il secondo accordo di divisione dei poteri firmato da Kiir, di etnia Dinka, e Machar, di etnia Nuer. Da quando nel 2013 sono scesi in guerra, le loro truppe li hanno seguiti, lasciando sotto gli stivali dei soldati decine di migliaia di morti, cinque milioni di sfollati, il Paese sull’orlo della carestia. La firma di questo accordo è un’argine che può fermare la violenza, mettere fine alla guerra, alla fuga degli sfollati, a stupri di massa, violenze etniche, in un Paese dove gli aiuti alimentari evitano la morte a 5 milioni di persone, che vivono grazie alle donazioni delle organizzazioni internazionali. Inghiottiti dalla polvere della cronaca e ora liberati, sono migliaia i bambini soldato che erano stati costretti a stringere il fucile e combattere per i gruppi armati del territorio che ora potranno tornare a casa.
Ma già molte volte nella terra dei neri – questo vuol dire Sud Sudan – i rintocchi della Storia hanno suonato con campane di festa e poi di nuovo a morto: dopo il conflitto con il Sudan e l’indipendenza raggiunta nel 2011, la guerra civile è scoppiata nel 2013. I primi negoziati tra Kiir e Machar sono falliti nel 2014, il primo accordo di pace invece nel 2015, ma il presidente Kiir è convinto che questo sarà l’ultimo, il definitivo, il migliore: l’accordo della regolarizzazione perpetua delle tensioni. È stato siglato a Khartoum, capitale del Sudan (del nord), dopo un mese di discussioni: la soluzione condivisa prevede la formazione di un governo di transizione. Tornerà in patria Machar, in carica come vicepresidente, stesso incarico che aveva quando nel 2016 è dovuto scappare dalla capitale Giuba. Al potere rimarrà per tre anni, con mandato nel governo d’unità fino al 2021, anno delle prossime elezioni.
Con decine di migliaia di morti alle spalle, un terzo della popolazione lontana da casa, negli Stati confinanti o rifugiata nelle zone franche, la guerra potrebbe finalmente finire adesso perché interessa ad entrambi gli “elefanti”. Ma in Sud Sudan la giustizia è nera come il continente. E dello stesso colore pece è questa pace, che galleggia tutta sul petrolio: sia Kiir che Machar possiedono proprietà multimilionarie nelle risorse del Paese, da far fruttare. La tregua ora conviene. Nessuno di loro due pagherà per le violazioni dei diritti umani o per lo stillicidio economico compiuto ai danni delle risorse dei loro cittadini. Insieme alle potenze regionali, l’Uganda su tutti, e agli Usa, anche il Sudan ha insistito per tenere incollati alle trattative il primo uomo dei Dinka e il primo dei Nuer: per il petrolio che è a sud, e per gli impianti di raffinazione dell’oro nero che sono invece a nord, bisogna andare tutti d’accordo.
La storia del Paese è stata un montaggio alternato di catastrofi che si ripetevano simili sotto titoli e date diverse negli anni. A volte al rallentatore, a volte accelerata da risvegli improvvisi, dopo il lungo sonno africano. Quando si sparava, laggiù nel bush, al tramonto, il deserto di cespugli avanzava e ululavano quelli che erano forse cani. Come in una sinfonia nel buio, rispondevano col pianto i bambini. Seguiva quello delle madri, se uno di loro moriva. Poche luci accese, molte le scintille dei falò.
Il ritmo era quello del rumore del generatore dell’elettricità, il metronomo della vita che scandisce l’ordine del giorno in Africa. La colla di suoni della radio poi si diffondeva nella provincia di Lui: erano le voci che trasmettevano da Giuba notizie che tutti corrono ad ascoltare per sentire se tra i nomi dei morti ci sono quelli di nemici o amici, feriti nella loro tribù o fra gli altri. Se c’è progresso nella pace o nella guerra. Poi il silenzio faceva avanzare di nuovo il buio. Se ce n’erano, il lutto per il bollettino durava pochi secondi, quelli che puoi permetterti nella terra dei neri, perché c’è spazio per tutto in Africa, ma tempo per niente.
Le ore non le puoi usare se non per provvedere alla sopravvivenza: la tua, di tuo figlio, della famiglia. Quando ritornava il buio, avanzava il silenzio. Poi si ritornava in capanna. Di fame, di guerra: moriamo. Lo ripeteva chi era scampato ai combattimenti dei soldati delle due fazioni opposte, in lotta: “Sono nato in guerra, invecchierò in guerra, se mi va bene”. I proiettili hanno bersagli, non nemici: colpivano i civili che si ritrovano intrappolati in mezzo al fuoco delle due etnie, nei giorni più furiosi della guerra etnica. Quasi mai resistono o esistono altri dettagli quando questo succede in Africa, dove tutto è luce o buio, sì o no, vita o morte, bianco o nero. La pace o la guerra.
Molta parte dell’enorme Africa si regge sull’equilibrio di questi due contrasti, una metà che tiene in piedi l’altra. Nel distretto di Lui, Equatoria Ovest, ti ripetevano soprattutto una parola, kawaja: la prima parola che l’Africa ti insegna per ricordarti a che tribù appartieni tu, uomo bianco.

Corriere 13.8.18
Un flop la marcia dei neonazisti Usa Washington li isola: «No ai razzisti»
di Marilisa Palumbo


All’atteso raduno dei suprematisti poche decine di partecipanti
Migliaia invece ai contro cortei. Ma l’estrema destra è sdoganata e in autunno correrà al Congresso
La domenica della capitale è interrotta ogni tanto dalle sirene e dal rombo degli elicotteri, mentre i jogger continuano la loro corsa mattutina. È passato un anno dai cortei dei suprematisti bianchi a Charlottesville, e dalla morte di Heather Heyer, investita da un’auto lanciata deliberatamente in direzione di un gruppo di contromanifestanti. E oggi ci si ritrova qui, a Washington, dove Jason Kessler, la mente di quel «Unite the right rally», ha deciso di far confluire i suoi sostenitori dopo che gli sono stati negati i permessi per un macabro bis «sul posto». Attraverso il sito aveva dato poche istruzioni: portare acqua, una bodycam, una bandiera americana o confederata. Niente armi, mazze o coltelli. Del resto la polizia li controlla a uno a uno: l’appuntamento è alle due alla stazione della metro Vienna, appena fuori il District of Columbia. Il pavimento è pieno di volantini con la scritta «L’odio non ha casa qui»: Hate free zone. Per tutto il giorno, in diversi punti della capitale, vanno in scena affollate manifestazioni anti razziste, da Black lives matter agli anarchici di Antifa, ma soprattutto tanta gente comune. Pochissimi, molti meno dei quattrocento attesi, invece i «kessleriani» che le forze dell’ordine scortano fino a Foggy Bottom e poi a Lafayette square, davanti alla Casa Bianca. I due mondi vengono tenuti dala polizia a decine di metri di distanza.
Il movimento
È stato un anno difficile per l’estrema destra: le sue tante sigle si sono divise, scontrate, rimescolate. Molti dei leader sono spariti dalla scena, Richard Spencer, il «padre» della alt+right, ha dovuto cancellare il suo tour nei campus e di lui quasi non si sente più parlare. «Per molti attivisti Charlottesville era il debutto in una manifestazione pubblica, non erano preparati a tanta attenzione e si sono ritirati online», spiega Vegas Tenold, autore di Everything You Love Will Burn: Inside the Rebirth of White Nationalism in America. Del resto, spiega, «È quella la loro sottocultura: questa nuova ondata di suprematisti è nata su Reddit, 4chan, Twitter».
La rete
Questo non significa affatto che non siano ancora un movimento influente, anzi. «Hanno un network incredibile di podcast di enorme successo», dice Tenold. Come Alex Jones, l’estremista che ha visto esplodere i download del suo programma bannato da Facebook. «L’amara verità è che sono riusciti a introdurre le loro idee nel mainstream: per la prima volta quest’anno stiamo vedendo un gruppetto di candidati politici che espongono liberamente questo tipo di posizioni di estrema destra».
I candidati
Come Arthur Jones, che considera l’Olocausto «la bugia più grande e la più nera della Storia» e che corre per i repubblicani in un distretto solidamente democratico dell’Illinois. O come Paul Nehlen, un leader della alt+right che domani parteciperà alle primarie Gop in Wisconsin, nel seggio lasciato libero dal ritiro dello speaker della Camera Paul Ryan. O come Rick Tyler, in corsa per il Congresso in Tennessee: ha realizzato dei cartelloni pubblicitari con la scritta «Make America White Again». Tyler è un grande sostenitore di Trump, sul suo sito una bandiera confederata sventola sulla Casa Bianca. In Virginia il candidato repubblicano al Senato è Corey Stewart, uno che in passato si è fatto vedere in compagnia di Kessler. «Molti non saranno eletti — spiega Tenold — ma il punto è che vanno avanti dicendo quello che dicono. E sono parte della continua esplorazione del razzismo da parte del partito repubblicano».
I confederati di Donald
Il regista Spike Lee, che ha voluto far uscire il suo film sul Ku Klux Klan proprio nell’anniversario di Charlottesville, dice che Donald Trump è un megafono per razzisti e nazionalisti. Tenold elabora: «Io credo che Trump abbia visto una opportunità nella rabbia e nel razzismo, e abbia deciso di sfruttare le divisioni razziali in questo Paese. La sua elezione è diventata la prova che l’America è pronta a votare dividendosi per razza e genere, e questo ha incoraggiato questo tipo di candidati». Alla vigilia del raduno il presidente ha twittato contro «ogni tipo di razzismo e atto di violenza». Non abbastanza per i suoi critici, che hanno sentito l’eco dell’equivalenza tracciata l’anno scorso quando condannò «entrambi i gruppi». Una uscita considerata anche dai sostenitori il momento più basso della sua presidenza. La first daughter Ivanka non ha lasciato spazio ad alcuna ambiguità: «Gli americani hanno la benedizione di vivere in una nazione che protegge la libertà di parola e la diversità di opinioni, non c’è posto per il suprematismo bianco, il razzismo e il neonazismo nel nostro grande Paese».

La Stampa 13.8.18
Israele Stato Nazione, la legge che divide
Abraham B. Yehoshua: “Ferisce la convivenza tra noi e gli altri popoli”  


La Knesset israeliana ha approvato a maggioranza il mese scorso una controversa legge che definisce Israele come «Stato nazionale del popolo ebraico, nel quale esso esercita il suo diritto naturale, culturale, religioso e storico all’autodeterminazione». In questa pagina riportiamo le opinioni opposte di due grandi intellettuali israeliani sul tema. La legge, tra le altre cose, dichiara Gerusalemme «intera ed unita» capitale di Israele e adotta l’ebraico come lingua dello Stato, retrocedendo la lingua araba da «ufficiale» a «speciale». 
Un’altra norma controversa sancisce che «lo Stato vede nello sviluppo dell’insediamento ebraico un valore nazionale e opererà allo scopo di sostenerlo e promuovere il suo consolidamento». Il calendario ebraico è quello ufficiale. «Il Sabato e le Festività Ebraiche sono giorni di riposo stabiliti nello Stato; ai non Ebrei, il diritto di esercitare i giorni di riposo nei loro giorni di riposo e nelle loro feste».

Qual è, a mio parere, il motivo dell’approvazione della nuova legge che sancisce il carattere ebraico dello Stato di Israele, l’ebraico come unica lingua ufficiale e incoraggia lo sviluppo futuro degli insediamenti, sottolineandone il valore nazionale? Perché questo provvedimento suscita l’indignazione dell’ala liberale di Israele, dell’opposizione in Parlamento e di molti accademici, che la vedono come un ulteriore avvicinamento a uno stato di apartheid non solo nei territori palestinesi della Cisgiordania ma anche entro i confini della Linea Verde? 
Anche il presidente Reuven Rivlin, per anni membro del Likud (il partito di maggioranza al governo), ha criticato apertamente il premier Netanyahu e i suoi ministri chiedendo il rinvio dell’approvazione del recente decreto, o almeno alcuni suoi significativi emendamenti.
La legge ha suscitato le forti proteste della comunità drusa, profondamente legata all’identità israeliana. Una comunità che ha rappresentanti in Parlamento (per lo più, ironicamente, nei partiti di destra) e i cui figli si arruolano nell’esercito e prestano servizio in unità di combattimento e di élite. Una comunità che parla l’arabo, retrocesso dalla nuova legge da lingua ufficiale - a fianco dell’ebraico - a «speciale»: una definizione poco chiara e non ben definita. 
Anche la minoranza palestinese è giustamente insorta contro questo decreto in cui non compaiono i termini «democrazia» e «uguaglianza», presenti invece nella Dichiarazione di Indipendenza redatta alla fondazione dello Stato, nel 1948, in cui si specifica che Israele assicurerà completa uguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti, senza distinzione di religione, razza o sesso.
Nemmeno agli ebrei della diaspora è chiaro l’onnicomprensivo concetto di «nazionalità ebraica» che li vede inclusi. Un ebreo, giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti, il cui compito è di interpretare la costituzione di quello stato, può ritenersi parte della nazione ebraica? E in che modo la sua nazionalità americana si integrerà con quella ebraica? C’è una sovrapposizione fra le due o sono in contraddizione? Se l’ebraismo è per lui solo una componente culturale o religiosa della sua identità americana, Netanyahu ha il diritto di imporgli una nazionalità chiaramente connessa allo Stato di Israele che lui forse non desidera?
Malgrado sia essenzialmente dichiarativa, la nuova legge è comunque superflua e colpisce gravemente l’identità israeliana, un’identità nella quale si accomunano tutti i cittadini dello Stato. Il nome della nazione in cui viviamo è Israele e tutti i suoi cittadini posseggono una carta d’identità israeliana, non ebraica. Che bisogno c’è quindi di un provvedimento simile? Dopotutto, già nel 1947, subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale durante la quale un terzo del popolo ebraico è stato sterminato, le Nazioni Unite riconobbero il suo diritto a uno Stato.
Se volessimo chiarire il motivo profondo di questa norma giuridica provocatoria e inutile, ho l’impressione che lo si debba cercare non nel passato ma nel futuro. Ovvero nel dibattito sull’avvenire della Cisgiordania, dove circa due milioni e mezzo di palestinesi vivono sotto occupazione militare. L’auspicata soluzione di due Stati per due popoli appare sempre più inattuabile col passare del tempo, soprattutto a causa della presenza di quattrocentomila israeliani negli insediamenti in Cisgiordania, che sarà impossibile sradicare con la forza se non a prezzo di una sanguinosa guerra civile.
Lo schieramento per la pace sostiene che il proseguimento della costruzione di insediamenti e il deliberato e continuo rinvio del processo di pace trasformeranno profondamente l’identità ebraica di Israele, la cui popolazione, in futuro, sarà costituita dal quaranta per cento di palestinesi e dal sessanta per cento di ebrei. Per difendersi da questa asserzione, considerata dalla maggior parte degli israeliani più teorica che politica, il governo Netanyahu, convinto che le parole possano cambiare la realtà dei fatti, ha varato in maniera affrettata e irresponsabile una legge nazionalista che definisce Israele come Stato del popolo ebraico, rendendo così nebulosi i diritti democratici delle minoranze presenti nel Paese. 
Che lo si voglia o no Israele sta scivolando lentamente verso una realtà di doppia nazionalità, costituita dal sessanta per cento di cittadini ebrei e dal quaranta per cento di palestinesi, fra cui due milioni con cittadinanza israeliana e altri due milioni e mezzo privi di diritti civili in Cisgiordania. Due milioni e mezzo di palestinesi che, prima o poi, chiederanno i loro diritti e noi, a dispetto delle parole vuote della recente legge, non potremo negarglieli.

Corriere 13..18
Gitai: con un viaggio in tram svelo le contraddizioni di Israele
Nel film, fuori concorso a Venezia, gli attori interagiscono con i passeggeri
di Giuseppina Manin


È il tram più affollato di Gerusalemme. Circa duecento mila i passeggeri, arabi e ebrei, che ogni giorno salgono e scendono dalle 23 fermate della Linea rossa, 14 chilometri da est a ovest della Città Santa attraversandone varietà e differenze. «Dai quartieri palestinesi di Shuafat e Beit Hanina fino al cimitero di Mount Herzl dove sono sepolti Golda Meir, Rabin, Peres» spiega Amos Gitai, voce scomoda e autorevole del cinema israeliano, da 40 anni impegnato a raccontare la tormentata saga del suo Paese con film quali Kadosh, Kippur, Free Zone fino al recente Rabin, the Last Day. E se la storia tira dritto nelle sue follie e orrori, lui la insegue senza tregua. Stavolta aggrappandosi in corsa a un tram che si chiama desiderio. Di una pace troppo a lungo rinviata.
A Tramway in Jerusalem, fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, è una commedia utopica e un reportage inedito. «Quel microcosmo di persone stipate come sardine nella stessa vettura che si sopportano l’un l’altro accettando attriti e controversie senza scannarsi, è la metafora ironica e ottimistica di una città divisa che, almeno per lo spazio di un tragitto, mette da parte conflitti e violenze e cerca di simulare una convivenza possibile».
La vita potrebbe essere così, persino a Gerusalemme. «L’esistenza di uomini e donne è la stessa che altrove. Gerusalemme è il centro spirituale delle tre grandi religioni monoteistiche, giudaismo, cristianesimo, Islam. Che una volta al giorno si ritrovano fianco a fianco su questo tram, diventato simbolo di normalizzazione».
Tra fiction e non fiction, Gitai registra l’ordinario via vai di gente di origini e culture diverse, e fa salire sul tram anche alcuni attori, palestinesi, israeliani, europei. Volti noti come Noa, Pippo Del Bono, Mathieu Amalric, si mescolano con i passeggeri. «Noa è un’amica di lunga data, è lei che apre la storia in modo molto delicato. Pippo è un prete cattolico lacerato dal dramma della Passione di Cristo. Quanto ad Almaric, legge a suo figlio Elias un testo di Flaubert, contrappunto laico sulla religione che impregna da sempre questa terra». Piccoli momenti di vita normale che sembrano vincere la demagogia dell’odio. Ma basta scendere alla propria fermata e tutto ricomincia.
Eppure lo sguardo di Gitai è sorridente. Il paradosso della speranza corre sui binari del suo tram. «Saül Tchernikovski, un poeta, scrive che l’uomo è “l’impronta del paesaggio dove nasce”. Io sono cittadino di uno Stato che spero estenderà le sue regole democratiche a tutti e manterrà le istituzioni che permettono di continuare il dialogo. Israele è stato il rifugio degli ebrei in un certo momento della storia, la domanda è che tipo di società diventerà».
I tempi sono oscuri. «Viviamo in uno tsunami xenofobo e razzista. Ovunque vengono eletti politici che diffondono odio verso l’altro. In questo contesto è essenziale che le arti tengano aperte le frontiere del dialogo, della cultura della convivenza. Picasso l’ha fatto dipingendo Guernica. Noi stiamo cercando di dirlo con un film».
A Venezia ne porterà un altro, A Letter to a Friend in Gaza. Due titoli complementari? «Se il primo è quasi una fantasia su questa città la cui bellezza da secoli è speciale proprio perché mosaico di contraddizioni, il secondo cerca di rispondere all’attuale crisi tra Israele e Gaza. Con due attori palestinesi e due israeliani evochiamo le ragioni del conflitto attraverso testi di Mahamood Darwish, Izhar Smilansky, Emile Habibi, Amira Hass. In assenza di soluzioni politiche, diamo la parola ai poeti, agli scrittori, ai giornalisti. La mia Lettera rende omaggio a quella scritta da Albert Camus a un immaginario amico tedesco nel ‘43. Ma è anche un gesto civile che a volte il cinema deve osare per cercare di stabilire un dialogo diretto con la realtà».

Repubblica 13.8.18
Pietre miliari
Jared Diamond
Scolpita nella roccia la fine dell’Isola di Pasqua
di Maria Francesca Fortunato


È tempo forse di riscrivere la storia dell’isola di Pasqua e del destino misterioso dei suoi abitanti. I polinesiani la chiamano Rapa Nui e al primo occidentale che vi sbarcò nel 1722 – l’esploratore olandese Jacob Roggeveen – apparve come brulla e inospitale, dominata da centinaia di statue giganti in pietra. Chiamati Moai, dovevano essere il simbolo di una civiltà fiorente, ma stridevano con la desolazione del paesaggio circostante.
Nell’immaginario collettivo quell’isola sperduta nel Pacifico è diventata così simbolo e monito: una popolazione che, spinta da un’intensa competizione tra gruppi, sfrutta oltre misura le risorse del proprio territorio, fin quasi a disboscarlo, per issare Moai sempre più imponenti e si condanna all’estinzione.
Andò davvero così? Nuovi elementi raccontano oggi una storia diversa rispetto alla tesi dell’ecocidio, resa famosa da Jared Diamond in Collasso. «È una ricostruzione probabilmente esagerata», spiega l’archeologo Dale Simpson jr. «La presenza di una vera e propria industria dell’intaglio della pietra rappresenta per me una prova solida del clima collaborativo che esisteva tra famiglie e gruppi di artigiani».
Simpson firma infatti – con Laure Dussubieux del Field Museum e Jo Anne Van Tilburg, direttrice dell’Easter Island Statue Project – un nuovo studio pubblicato sul Journal of Pacific Archaeology che ribalta la narrazione corrente. I ricercatori hanno analizzato la composizione chimica degli strumenti utilizzati per scolpire i Moai ricavati dal basalto. «È una roccia vulcanica grigiastra che a prima vista non sembra nulla di speciale. L’analisi chimica di campioni provenienti da fonti diverse rivela però differenze molto sottili nella concentrazione dei diversi elementi, che variano in base alla geologia del sito di provenienza» spiega Laure Dussubieux.
Ebbene, dei 21 attrezzi analizzati dai ricercatori 17 arrivavano dallo stesso giacimento. Un’incidenza che lo studio considera significativa, perché dimostrerebbe che gli abitanti dell’Isola di Pasqua, pur divisi in diversi clan insediati in specifici territori, condividevano la stessa risorsa e che l’intaglio dei Moai era una impresa collaborativa e non competitiva.
«La ricerca si inscrive in una recente tendenza a studiare e valorizzare il ruolo dell’azione collettiva in società antiche che troppo spesso immaginiamo come conflittuali e autoritarie», commenta Davide Domenici, antropologo e ricercatore dell’Università di Bologna, che ha partecipato a spedizioni sull’isola di Pasqua. «La conclusione a mio parere è un po’ debole perché si basa su un numero molto ristretto di campioni, visto che nel solo scavo che ha dato origine allo studio sono state rinvenute più di 1600 asce».
Anche Jo Anne Van Tilburg, che dello scavo è stata direttrice, dice che i risultati dello studio vanno interpretati con cautela: la condivisione c’era – spiega – ma non si può stabilire ancora se fosse genuina collaborazione. «Van Tilburg riconosce che l’uso diffuso di una stessa risorsa potrebbe essere stato determinato da altri fattori, inclusa la coercizione», conferma Domenici. «Ma è anche vero che la teoria del collasso, resa celebre dalla versione estrema di Diamond, è stata da tempo superata da ricerche come quelle di Terry Hunt e Carl Lipo. Questi studiosi hanno infatti dimostrato che se mai un collasso ha colpito la civiltà pasquense, le sue ragioni vanno rintracciate non in una parossistica competizione interna ma nell’arrivo di esploratori, schiavisti e allevatori europei a partire dal XVIII secolo. Conflittuali o meno che fossero, e per quanto ne sappiamo le antiche società polinesiane come quella pasquense lo erano non poco, agli abitanti dell’Isola di Pasqua toccò vivere una tragedia la cui dinamica ci è purtroppo ben nota, perché motivo ricorrente della storia coloniale europea».