giovedì 18 luglio 2013

Letta e Pdl difendono Alfano

dai titoli dell’Unità 18.7.13
«Alfano lasci il ministero»
Il Pd lo chiede. Il Pdl minaccia la crisi. Epifani: il governo non cadrà. Alta tensione tra i democratici
Il Pd, tra forti tensioni interne, spinge affinché il titolare del Viminale faccia un passo indietro ma non voterà le mozioni di sfiducia
Niente crisi, l’esecutivo deve proseguire, dice Epifani, ma bisogna «ridare credibilità alle istituzioni»
Renzi attacca, però non rompe: Letta decida il da farsi, in un caso grave come questo bisogna assumersi la responsabilità.
Letta difende Angelino ma spera in un «gesto»
Letta  fa sapere che dalla relazione di Pansa emerge «l’estraneità del ministro» sui gravi errori del caso Ablyamov.
Parla Cuperlo: «È un fatto grave rimetta la delega»

il Fatto 18.7.13
Alma e Aluà, restituirò la tessera del Pd
di Mario Grazio Navarra

Sono un iscritto Pd di Butera in provincia di Caltanissettaevorreiesprimere la mia indignazione riguardo il caso di Alma e Aluà. Mi chiedo: come è possibile che il "MIO" partito, erede della consolidata tradizione democratica del Pci e della Dc, possa avallare o rendersi complice di una così abominevole atrocità? Tutti siamo abbastanza consapevoli di come e quanto la base del partito disapprovi questo governo. Mai, quindi, potrà tollerare che alla sua sopravvivenza siano sacrificate due donne (una bambina!) indifese. Spero vivamente che il Pd si attivi in modo concreto (e non ipocritamente) per restituire loro la libertà e/o larimozionecon disonore dei ministri coinvolti. In caso contrario, sarò costretto a restituire la tessera: la mia dignità mi impedisce di continuare a stare nello stesso partito con coloro i quali, non solo non riescono ad impedire simili violazioni dei diritti umani, ma addirittura se ne rendono complici coprendo gli autori.

Repubblica 18.7.13
Quell’espulsione ignota ad Alfano e a tutti i capi del Viminale diffusa dall’Ansa dopo solo un’ora
Dubbi su contatti diretti tra vicepremier e kazaki prima del 28
di Carlo Bonini

ROMA CONTINUA a ripeterlo come un esorcismo, Angelino Alfano. «Non sapevo e nonpotevo sapere».
A dispetto delle parole dell’ormai ex capo di gabinetto Giuseppe Procaccini che lo affondano e che non può smentire. E di fronte alle quali il ministro è costretto ad una contorsione concettuale. Per giunta tardiva. Separare come non fossero i due tempi di una stessa sequenza la consapevolezza di aver dato lui il “la” all’operazione Ablyazov (sollecitando l’incontro di Procaccini con l’ambasciatore kazako) e la conoscenza dell’esito che l’operazione aveva prodotto (l’espulsione della Shalabayeva e della sua bimba). In queste ore, la disperazione è tale, che il ministro chiede e ottiene dal Capo della Polizia Alessandro Pansa un ulteriore endorsement. «C’è stato un blocco cognitivo», dice Pansa ascoltato in Senato. E aggiunge: «È abbastanza semplice, poi la cosa piace o non piace. Il ministro non ha saputo questa informazione e mi ha detto: “Perché non l'ho saputa? Io gli ho detto: “Ministro non lo so, ora vedo”».
Bene. Blocco cognitivo o blocco dei terminali delle agenzie di stampa del ministero dell’Interno?
IL TAKE ANSA DELLE 20.01
Già, perché nella spirale grottesca in cui il ministro ha già trascinato l’intero Dipartimento di Pubblica sicurezza e i suoi «flussi di informazioni ascendenti e discendenti», c’è ora un altro dettaglio cruciale. Un take dell’agenzia Ansadelle 20.01 del 31 maggio scorso.
Annotiamo bene. 20.01 del 31 maggio. Ebbene, se si deve stare alla relazione del Capo della Polizia e alle parole del ministro, nessuno sa, in quel momento, tranne i funzionari della Questura di Roma, chi sia quella donna che, alle 19, è decollata dall’aeroporto di Ciampino su un volo della compagnia austriaca Avcon Jet proveniente da Lipsia e diretto ad Astana. Nessuno. Lo ignora il ministro. Lo ignora il capo di Gabinetto. Lo ignora il capo della Polizia reggente Alessandro Marangoni, il segretario del Dipartimento della Pubblica sicurezza Alessandro Valeri («Non ricordo quando appresi la notizia dell’espulsione», ha detto a verbale interrogato da Pansa), il direttore della Criminalpol Cirillo. Soprattutto, al Viminale nessuno può anche solo immaginare che esista una qualche relazione tra il “pericoloso latitante” Mukhtar Ablyazov e la signora Alma Shalabayeva. Di più. Il ministro saprà solo dopo una telefonata del ministro degli esteri Emma Bonino. L’1 o forse il 2 giugno.
Bene, ecco cosa scrive l’Ansaalle 20.01 del 31maggio, più o meno un’ora dopo il decollo da Ciampino: «Espulsa moglie oppositore Kazakistan - Alma Shalabayeva, moglie dell'uomo d'affari e oppositore politico kazako Mukhtar Ablyazov, ricercato in patria per presunte truffe ed associazione criminale, è stata espulsa oggi da Roma, dove risiedeva dallo scorso anno, insieme con la figlia di sei anni ed imbarcata su un aereo, appositamente arrivato dal Kazakistan, per riportarla in patria. “Un fatto di una gravità inaudita - ha tuonato l'avvocato Riccardo Olivo, legale della donna - la signora Shalabayeva non ha commesso alcun illecito ed ora è esposta all’elevatissimo rischio di trattamenti disumani, analoghi a quelli cui fu sottoposto il marito nel 2003, quando si opponeva al regime di Nursultan Nazarbayev, e denunciati da Amnesty International. La donna è stata prelevata mercoledì notte dalla polizia nel corso di un’operazione finalizzata alla ricerca, risultata vana, del marito. Il suo passaporto è infatti risultato contraffatto ed il Prefetto ha emesso un decreto di espulsione della signora Shalabayeva e di sua figlia. I legali della donna si sono opposti rappresentando alla Questura ed alla Procura i rischi di un trasferimento in Kazakistan. Nonostante ciò - ha aggiunto l’avvocato Olivo - e con una rapidità sorprendente, è stato decisa l'espulsione”».Quella sera del 31, dunque, dopo neppureun’ora dal suo ultimo atto, la storia è in chiaro. Tutta. Eppure, nessuno, al Viminale, ha tempo di leggere l’Ansa. Il “blocco cognitivo” è davvero totale. Al punto che dovranno passare almeno altre 24 ore, anzi, 48, perché il 2 giugno, sollecitato da Alfano, Pansa inviti la Questura a inviare una nota per chiarire l’accaduto (arriverà il 3).
ALFANO PARLÒ CON I KAZAKI?
Se ne potrebbe sorridere, ma la faccenda è assai seria. Perché quel take Ansa torna a mostrare la cartapesta di cui è fatto il fondale costruito in questi giorni per dissimulare l’evidenza. Per giunta, chiara anche dalle parole, volutamente ignorate da Alfano, di Procaccini. L’ex capo di gabinetto, oltre a dare conto di aver informato il 29 maggio il ministro della richiesta di cattura di un “pericoloso latitante” avanzata dall’ambasciatore kazako, dice infatti due cose.
La prima. Ricevetti i diplomatici kazaki il pomeriggio del 28 maggio dopo che erano stati in Questura.
La seconda. Li ricevetti perché il ministro mi disse che dovevano parlarmi di una questione delicata.
Ebbene, come faceva il ministro, visto che non si era fatto trovare al telefono, a sapere che i kazaki erano “latori” di una richiesta delicata? Forse perché ci aveva parlato? Soprattutto, perché i kazaki, quel 28 maggio vanno prima in Questura (alle 15,30) ricevuti dal capo della squadra mobile e poi al Viminale? Chi gli aveva consigliato di presentarsi direttamente in via di san Vitale? È una loro idea? O non è invece più logico pensare che i kazaki avessero già avuto prima del 28 un incontro o un colloquio con Alfano e che solo dopo la visita in questura, di fronte a qualche resistenza, pensarono bene di tempestare il telefono del ministro per sbloccare la faccenda (di qui, la riunione con Procaccini)?
Del resto, c’è un dettaglio che indica come, la mattina del 28, i kazaki abbiano già la certezza di poter portare a casa il risultato. Che lavorino ad un copione. Alle 10.15 (cinque ore prima che l’ambasciatore vada in Questura) lo Sco riceve infatti un messaggio da un ufficio «collaterale Interpol» che segnala le ricerche in campo internazionale di Mukhtar Ablyazov. E dov’è quell’ufficio “collaterale”? Ad Astana, Kazakistan. Forse qualcuno aveva suggerito quella sollecitazione proprio quel giorno. Chi?

il Fatto 18.7.13
Il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky:
“Su F-35, kazaki e giustizia hanno umiliato lo Stato”
intervista di Silvia Truzzi

Siccome i “maltrattamenti” alla Carta continuano, ci tocca disturbare di nuovo – a poche settimane dall’ultima volta – Gustavo Zagrebelsky.
Professore, negli ultimi tempi abbiamo assistito a numerosi episodi di natura politica e costituzionale che hanno suscitato discussioni e polemiche. Lei che ne pensa?
Prima che dagli episodi, iniziamo da un dubbio, da un interrogativo di portata generale, di cui vorremmo non si dovesse parlare. E, invece, dobbiamo.
Cosa intende?
Una cosa angosciante. Si tratta solo di singoli episodi, oppure di manifestazioni di qualcosa di più profondo, che non riusciamo a vedere e definire con chiarezza, ma avvertiamo come incombente e minaccioso? Qualcosa in cui quelli che altrimenti sarebbero appunto solo episodi isolati, assumono un significato comune. Li dobbiamo trattare isolatamente o come sintomi d’un generale e pericoloso malessere?
Dica lei.
Guardi: può darsi ch’io pecchi in pessimismo. Mi sembra che sulla vita politica, nel nostro Paese, in questo momento, gravi un “non detto” che spiegherebbe molte cose. Si fa finta di vivere nella normalità della vita democratica, ma non è così. È come se una rete invisibile avvolgesse le istituzioni politiche fossilizzandole; imponesse agli attori politici azioni e omissioni altrimenti assurdi e inspiegabili; mirasse a impedire che qualunque cosa nuova avvenga. Questa è stasi, situazione pericolosa. Se qualche episodio, anche grave o gravissimo, sfugge alla rete, l’imperativo è sopire, normalizzare. Ciò che accade sulla scena politica sembra una messinscena. Ci si agita per nulla concludere. Ma la democrazia, così, muore. Lo spettacolo cui assistiamo sembra un gioco delle parti, oltretutto di livello infimo. Il numero degli appassionati sta diminuendo velocemente. L’umore è sempre più cupo. Bastava guardare i volti e udire il tono di alcuni che hanno preso la parola nel dibattito sulla vicenda della “rendition” kazaka. Sembravano tanti “cavalieri dalla trista figura”. Non si respirava il “fresco profumo della libertà”, di cui ha scritto ieri Barbara Spinelli. Né v’era traccia di quella “felicità” che è l’humus della democrazia, di cui abbiamo ragionato Ezio Mauro e io, in contrasto con l’atmosfera stagnante dei regimi del sospetto, dell’intrigo, della libertà negata.
Si riferisce alla maggioranza modello “larghe intese”?
Innanzitutto: è una maggioranza contro natura; contraria alle promesse elettorali e quindi democraticamente illegittima, anche se legale; che pretende di fare cose per le quali non ha ricevuto alcun mandato. Ricorderà che è stata formata pensando a poche e chiare misure da prendere insieme: governo “di scopo” (come se possa esistere un governo senza scopi!), “di servizio” (come se ci possa essere un governo per i fatti suoi!) e, poi, “di necessità”. Ora, sembra un governo marmorizzato il cui scopo necessario sia durare, irretito in un gioco più grande di lui. La riforma elettorale, bando alle ciance, non si fa, perché in fondo, oltre che essere nell’interesse di molti, nel frattempo, con l’attuale, non si può tornare a votare. Perfino l’abnorme procedimento di revisione della Costituzione è stato pensato a questo scopo, come si ammette anche da diversi “saggi” che pur si sono lasciati coinvolgere. E, in attesa che la si cambi, la si viola.
Così arriviamo agli episodi. Il caso F-35?
Incominciamo da qui. Il Parlamento è stato esautorato quando il Consiglio supremo di difesa ha scritto che i “provvedimenti tecnici e le decisioni operative, per loro natura, rientrano tra le responsabilità costituzionali dell’esecutivo”, sottintendendo: “responsabilità esclusive”. Chissà chi sono i consulenti giuridici che hanno avallato queste affermazioni, che svuotano i compiti del Parlamento in materia di sicurezza e politica estera? Un regresso di due secoli, a quando tali questioni erano prerogativa regia. Del resto, lei sa che cosa è questo Consiglio? Qualcuno si è ricordato che la sua natura è stata definita nel 1988 da una relazione della Commissione presieduta da un grande giurista, Livio Paladin, istituita dal presidente Cossiga per fare chiarezza su un organo ambiguo (ministri, generali, presidente della Repubblica)? Fu chiarito allora che si tratta di un organo di consulenza e informazione del presidente, senza poteri di direttiva. D’altra parte, chi stabilisce se certi provvedimenti e certe decisioni sono solo tecniche e operative, e non hanno carattere politico? I sistemi d’arma, l’uso di certi mezzi o di altri non sono questioni politiche? Chi decide? Il Parlamento, in un regime parlamentare. Forse che si sia entrati in un altro regime?
L’affaire kazako è una “brutta figura internazionale” o una violazione dei diritti umani?
Una cosa e l’altra. Ma non solo: è l’umiliazione dello Stato. Ammettiamo che nessun ministro ne sapesse qualcosa. Sarebbe per questo meno grave? Lo sarebbe perfino di più. Vorrebbe dire che le istituzioni non controllano quello che accade nel retrobottega e che il nostro Paese è terreno di scorribande di apparati dello Stato collusi con altri apparati, come già avvenuto nel caso simile di Abu Omar, rapito dai “servizi” americani con la collaborazione di quelli italiani e trasportato in Egitto: un caso in cui s’è fatta valere pesantemente la “ragion di Stato”. Non basta, in questi casi, la responsabilità dei funzionari. L’art. 95 della Carta dice che i ministri, ciascuno personalmente, portano la responsabilità degli atti dei loro dicasteri. Se, sotto di loro, si formano gruppi che agiscono in segreto, per conto loro o in combutta con poteri estranei o stranieri, il ministro non risponderà penalmente di quello che gli passa sotto il naso senza che se ne accorga. Ma politicamente ne è pienamente responsabile. Troppo comodo il “non sapevo”. Chi ci governa, per prima cosa, “deve sapere”. Se no, dove va a finire la nostra sovranità? Chi, dovendola difendere, in questa circostanza, non l’ha difesa?
Che dire del blocco del Parlamento decretato per protesta contro l’Autorità giudiziaria?
Che, anche questa, come la manifestazione di decine di parlamentari scalpitanti dentro e fuori il Tribunale di Milano, è una vicenda inconcepibile. Altrettanto inconcepibile è che l’una e l’altra non siano state oggetto di puntuale e precisa condanna. Anche qui: ammettiamo per carità di Patria che l’una sia stata una normale sospensione tecnica e l’altra una visita guidata a un palazzo pubblico. Non basta, però, averli “derubricati”, per poter dire che non è successo nulla. La questione è che non s’è detto autorevolmente che l’intento e i mezzi immaginati sono, sempre e comunque, inammissibili perché contro lo Stato di diritto.
C’è una logica che spiega i singoli episodi?
Potrei sbagliare, ma a me pare che su tutto domini la difesa dello status quo e del governo che lo garantisce. In stato di necessità, si passa sopra a tutto il resto. L’impressione, poi, è che in quella rete invisibile di connivenze, di cui parlavo all’inizio, si finisca per attribuire a un partito e al suo leader un plusvalore che non corrisponde al loro consenso elettorale e alla rappresentanza in Parlamento. Come se toccarne gli interessi possa determinare una catastrofe generale. Sembra che tutti siano utili, ma qualcuno sia necessario e, per questo, si debbano tollerare da lui cose che, altrimenti, sarebbero intollerabili.
Così si è corrivi nei confronti di una parte politica, anche se c’è di mezzo la Costituzione. A chi spetta difenderla?
In democrazia, a tutti i cittadini, che nella Costituzione si riconoscono. Poi, a chi occupa posti nelle istituzioni, subordinatamente a un giuramento di fedeltà. Infine, salendo più su, a colui che ricopre il ruolo comprensivamente detto di “garante della Costituzione”, il presidente della Repubblica.
nessuna delle parti in causa ha voglia di andare fino in fondo, con il rischio di provocare una crisi di governo senza alternative a portata di mano. Primi tra tutti Vendola e Grillo, che non a caso hanno chiesto che la mozione di sfiducia sia votata al Senato e non alla Camera, dove sarebbe stato più facile per loro farla passare con l’aiuto anche solo di una parte del Pd.

La Stampa 18.7.13
Su Alfano un’inutile sceneggiata
di Marcello Sorgi

Cominciata da due giorni, e destinata a durare fino a venerdì, la finta battaglia per le dimissioni di Alfano difficilmente si concluderà con la sua uscita dal Viminale. È in corso una grande e maldestra sceneggiata, che non porterà a nulla. Malgrado la posizione del ministro si sia appesantita, ieri - dopo che il suo ex capo di gabinetto Procaccini aveva smentito (salvo poi ripensarci) la ricostruzione dei fatti illustrata in Parlamento, affermando di aver avvertito Alfano della delicatezza del caso Shalabayeva, e di non aver agito a sua insaputa - il Pdl ha rifiutato lo scambio, proposto dal Pd, tra il ritiro della mozione di sfiducia Sel-M5s e la rimessione delle deleghe da parte dello stesso Alfano, che in quest’ipotesi salomonica avrebbe potuto tuttavia mantenere la vicepresidenza del consiglio.
In realtà è emerso chiaramente che nessuna delle parti in causa ha voglia di andare fino in fondo, con il rischio di provocare una crisi di governo senza alternative a portata di mano. Primi tra tutti Vendola e Grillo, che non a caso hanno chiesto che la mozione di sfiducia sia votata al Senato e non alla Camera, dove sarebbe stato più facile per loro farla passare con l’aiuto anche solo di una parte del Pd.
Renzi, accusato a lungo di essere filoberlusconiano, a sorpresa s’è schierato con loro, per accelerare la sua campagna precongressuale. Usando Alfano, punta infatti a recuperare consensi nella sinistra del partito, stanca del forzato accordo con il Pdl. Quanto a Epifani, dopo la brutta figura della sospensione dei lavori parlamentari su richiesta di Berlusconi e contro i giudici della Cassazione, sperava di cavarsela e non restare schiacciato tra governo e opposizioni facendo la mossa, come si suol dire, e alzando la voce alla vigilia, per poi chiudere rapidamente tutto il giorno dopo, senza mettere a rischio il governo. Gli è andata male e il caso gli è di nuovo sfuggito di mano.
A destra Berlusconi ha difeso ancora una volta il suo pupillo Angelino, pur lasciando che i falchi del suo partito gongolassero, perché Alfano, che è il loro bersaglio, uscirà comunque acciaccato dalla vicenda. Tra le due ali più radicali del centrosinistra e del centrodestra si è incredibilmente stabilita, in questo modo, un’inedita alleanza di fatto, puntata contro le larghe intese. Non riusciranno a farle saltare, anche perchè non lo vogliono, ma a logorarle ancora, questo sì.
Alla fine, com’è ovvio, la difesa dell’esecutivo toccherà a Letta. Non sarà particolarmente difficile salvarlo, vista la confusione con cui è stato cinto d’assedio, ma neppure una passeggiata. In missione a Londra, il presidente del consiglio ha fatto sapere che venerdì sarà al Senato accanto al suo vicepresidente: chiaro segno di solidarietà, indispensabile, dopo l’eloquente solitudine di Alfano lunedì nelle aule parlamentari e la gelida accoglienza al suo discorso fatta dai parlamentari Democrat.
Il governo, neanche a dirlo, quando prima del week-end il caso kazako in un modo o nell’altro si chiuderà, risulterà più ammaccato di prima. Si vede già adesso e se ne accorgono tutti: oltre agli elettori, stufi di questa pantomima, che a ogni occasione disertano le urne, qualche segnale pesante comincia a rivenire dai mercati, i cui indici e spreads sono tornati a salire pericolosamente verso il livello di guardia. Così l’ombra delle elezioni in autunno, con tutto il carico di inquietudine che si porta dietro, si allunga nuovamente sull’incerto inizio dell’estate politica italiana.

La Stampa 18.7.13
Il ministro ombra
di Massimo Gramellini

È possibile che travestire una palestra da prima casa sia colpa infinitamente più grave che consegnare moglie e figlia di un dissidente al satrapo di un Paese fornitore di petrolio. Quindi non le dimissioni della perfida Idem si pretendono dal timido Alfano, ma semmai un’immissione sulla poltrona di ministro dell’Interno, che per sua stessa ammissione è attualmente disabitata. Alfano ha un vero talento nel non abitare le poltrone che occupa. Sarà per questo che gliene offrono in continuazione. Se fosse stato effettivamente il segretario del Pdl, quando il proprietario del partito gli fece ringoiare la promessa delle primarie avrebbe dovuto dimettersi. Ma lui non è il segretario del Pdl, lui non è il ministro dell’Interno, lui probabilmente non è neanche Alfano, ma un cortese indossatore di cariche per conto terzi. Tra le tante squisitezze che ha pronunciato l’altro giorno al Senato vi è l’affermazione perentoria che al cognato della signora kazaka (o kazakistana, per citare quell’acrobata del vocabolario di La Russa) i poliziotti non abbiano torto un capello. E pazienza se nell’intervista al nostro Molinari il cognato racconta di essere stato preso a pugni e ceffoni, come conferma il verbale del pronto soccorso pubblicato dall’«Espresso». Alfano era e rimane all’oscuro di tutto: pugni, ceffoni, cognati, forse anche che esista una polizia e che sia alle sue dipendenze.
Rimane la speranza che certi giudizi come questo lo offendano a morte e che in un soprassalto di dignità il ministro ombra di se stesso si dimetta, preferendo passare per responsabile che per inutile. Ma la nostra è, appunto, solo una speranza.

da La Stampa 18.7.13:
Luigi Manconi, presidente della commissione per la tutela dei diritti umani chiede al presidente del Senato l’autorizzazione a inviare una delegazione «per verificare de visu lo stato di salute di madre e figlia e di quanta libertà di movimento effettivamente godono». «Secondo le informazioni - spiega - non sono agli arresti e hanno come unico limite quello di non allontanarsi dalla città, ma vogliamo verificare: si tratta di un regime dispotico». Intanto sabato Manconi e altri senatori andranno nel centro di identificazione e di espulsione, il famigerato Cie di Ponte Galeria, l’ultimo luogo che ha ospitato in Italia la Shalabayeva... In ogni caso sottolinea Manconi «la procedura con la quale sono state espulse madre e figlia dimostra come l’intero sistema sia superficiale, sbrigativo e poco garantista, anche quando si tratta di un minore. Emerge chiaramente come l’intero regime di misure sia inadatto a garantire il più rigoroso rispetto di quel fondamentale diritto umano che è il diritto di asilo».
«Ci stiamo giustamente preoccupando di questa donna e di sua figlia - continua Manconi ma ogni anno migliaia di migranti, senza avvocato e senza risorse vengono espulsi, una parte con procedure regolari, altri con provvedimenti tutt’altro che rispettosi dei diritti umani».

il Fatto 18.7.13
Viminale, dura vita senza Internet

In nessuna fase della vicenda, fino al momento dell’espulsione con la partenza della donna con la bambina, i funzionari italiani hanno avuto notizia alcuna sul fatto che Ablyazov, marito della kazaka espulsa, fosse un dissidente politico fuggito dal Kazakistan e non un pericoloso ricercato”. Così Alessandro Pansa, capo della polizia, nella relazione consegnata al ministro Alfano. Urge dotare i dirigenti del Viminale e della Ps di strumenti informatici idonei a svolgere il loro lavoro nel 2013. Sarebbe bastato googlare, digitare il nome di Ablyazov su Google, per essere rimandati a Wikipedia: nel 2002 Ablyazov fu condannato a sei anni, subì torture e fu rilasciato un anno dopo solo grazie alle pressioni di Amnesty e dell’Ue, che considerarono quella sentenza “motivata politicamente”.

il Fatto 18.7.13
Letta e il Pd ingoiano il rospo Angiolino
Il premier sarà in aula venerdì al Senato per difendere l’operazione Kazakistan Tra i Democratici rientra la fronda di Renzi. Alla fine non voteranno la sfiducia
di Fabrizio d’Esposito

E il terzo giorno, il Partito democratico fece finta di svegliarsi dal sonno dell’inciucio sullo scandalo Shalabayeva. Il Rospo Alfano è davvero troppo duro da ingoiare. Soprattutto dopo la penosa informativa di martedì, letta dal ministro dell’Interno in Parlamento. Così il partito di Epifani vive un’altra giornata sulle montagne russe, anzi kazake, tenuto sotto scacco, come al solito, dal sindaco Firenze. Sono infatti i renziani i primi ad andare all’attacco del vicepremier titolare del Viminale. Tredici senatori che firmano una nota per chiedere le dimissioni di Alfano, “oggettivamente indifendibile” ma nel frattempo blindato dal Cavaliere in un colloquio apparso sul Corsera. La posizione dei renziani è sottile. La richiesta di dimissioni non è collegata alla mozione di sfiducia presentata da Sel e Movimento 5 Stelle e che si voterà domani a Palazzo Madama. Una differenza che appare strumentale. Rivela un senatore del Pd a microfoni spenti: “I renziani erano presenti alla riunione in cui è stato deciso l’intervento di Martini martedì al Senato e hanno detto di sì. Adesso si distinguono per fare gli alfieri dell’antiberlusconismo supportati da Repubblica. Ma la mozione non la voteranno”.
IN PRATICA, dopo la figuraccia del ministro nelle aule di Montecitorio e Palazzo Madama, nel Pd parte il treno della moral suasion per convincere Alfano a un passo indietro, tenendosi però a una distanza di sicurezza dalla mozione vendolian-grillina. “Rimetta le deleghe al premier”, questo il refrain di molti. Una posizione su cui si assestano esponenti un tempo vicini a Massimo D’Alema, come Gianni Cuperlo, candidato alla segreteria del Pd, e Anna Finocchiaro. Lo stesso D’Alema interviene: “Ad Alfano non è stato chiesto di uscire dal governo, ma di rimettere le deleghe per consentire un chiarimento perché la faccenda è grave”. Renziani e dalemiani si uniscono al gruppetto critico di Civati, Casson, Puppato e Orfini. Di qui la decisione di rinviare a oggi l’assemblea dei senatori democratici, prevista ieri alle tredici.
Da Londra il premier è costretto a difendere il suo vice: “Alfano è totalmente estraneo alla vicenda. Non vedo nubi all’orizzonte”. E domani, Letta sarà in aula al Senato per la sfiducia individuale al ministro, probabilmente a scrutinio segreto. Ovviamente il bollino rosso sulla giornata, mentre Epifani riunisce la segreteria, lo mettono le dichiarazioni di Renzi (che incassa pure un documento di venti parlamentari montiani di Scelta civica che “guardano a lui”).
La frase più forte di Renzi è questa: “Se molti dirigenti del Pd non vogliono che mi candidi, va bene. Se vogliono tenersi il partito, va bene. Se preferiscono perdere le elezioni pur di mantenere una poltrona, va bene. Ma non strumentalizzino una vicenda di cui come italiano mi vergogno”. E ancora: “Larga parte della classe dirigente del Pdl e del Pd usa questa vicenda per attaccare me. Se nel Pd lo fanno per regolare i conti tra le correnti del Pd, mi vergogno per il Pd”. Alfano viene liquidato così: “In aula è andato il ministro dell’Interno e ci andrà il presidente del Consiglio, che già qualche settimana fa ha chiesto a un ministro di farsi da parte. Se Letta non riesce a cambiare il Paese mi dispiace per lui ma non cerchi alibi”. La tregua tra i due, Renzi e Alfano, scatta però subito, complice una telefonata. Ammette il premier: “Io e Matteo ci parliamo continuamente”.
IL CHIARIMENTO serve a raffreddare un po’ il clima e a consentire alla segreteria di ufficializzare la linea per salvare il ministro dell’Interno. Prevale la ragion di Stato dell’inciucio, perché toccare Alfano avrebbe comportato una crisi di governo. La realpolitik contro uno scandalo enorme. Dalla nota ufficiale del Pd: “Non potranno essere votate le mozioni delle opposizioni contro il governo, perché ne determinerebbero la caduta, mettendo il Paese in difficoltà in una fase delicatissima anche dal punto di vista dei mercati finanziari”. Ecco Epifani: “Il governo deve andare avanti ma serve chiarezza”. Ma la ferita del caso Ablyazov è destinata a rimanere aperta oltre lo scoglio di domani. La sofferenza da larghe intese e la battaglia congressuale contro Renzi porteranno a “un chiarimento interno” alla presenza del premier letta. Decisa la linea del no alla mozione, l’assemblea del gruppo Pd del Senato sarà comunque infuocata e tesissima. Uno sfogatoio a tutti i livelli. Contro la difesa di Alfano. Contro il gioco “strumentale” dei renziani”.
Ma la novità di oggi sarà il discorso di Giorgio Napolitano in occasione della cerimonia del Ventaglio al Quirinale, prima della pausa estiva. Sinora, sulla vicenda kazaka, il capo dello Stato non ha detto una parola. Ieri ha fatto sapere di essere “preoccupato per gli errori fatti” nonché “stupito e indignato per l’imbarbarimento della vita politica”. Sarà la solita “sferzata” ai partiti.

il Fatto 18.7.13
Un volo “non ordinario” Lo ammette anche Pansa
La circolare sulle espulsioni prevede una serie di regole per i rimpatri dei clandestini
Ne sono state violate diverse
di Marco Filoni

Non ordinario. Con queste parole il capo della polizia Pansa ha descritto il volo con il quale sono state rimpatriate Alma Shalabayeva e sua figlia Alua di sei anni. Ieri, durante l’audizione rilasciata alla Commissione Diritti Umani del Senato su questo caso, il Prefetto non ha però indugiato sull’eccezionalità della procedura. Perché non è soltanto irrituale o poco ordinaria come vorrebbero il Capo della Polizia o il Ministro Alfano. È anche irregolare o, meglio, fuori dalla norma. Almeno stando alle direttive che lo stesso ministero dell’Interno ha stabilito per il servizio di rimpatrio di cittadini stranieri e comunitari.
La prima anomalia è segnalata al Fatto Quotidiano da fonti qualificate: al momento in cui Alma e sua figlia vengono accompagnate per l’espulsione dal suolo nazionale, agli agenti italiani viene impedito di salire sul velivolo. Di norma gli accompagnatori entrano nell’aereo e lì sbrigano le ultime formalità: firma di documenti, ecc. Invece in questo caso i kazaki si oppongono: vietato salire a bordo. Perché? È concepibile che in suolo italiano la sovranità venga violata e due diplomatici kazaki decidano sul da farsi?
LA COSA CERTA è che viene assicurato alle autorità italiane che in aereo è presente personale femminile, necessario nel caso specifico poiché da rimpatriare sono due donne. Lo ripeterà lo stesso ministro Alfano al Parlamento quando dirà che gli è stato detto che a bordo c’era personale femminile. Nella relazione che ha letto del Prefetto Pansa, l’allegato 20 è la relazione di Maurizio Improta, dirigente dell’ufficio Immigrazione a cui spettava la pratica in questione. “Il diplomatico presente in ufficio, consigliere Khassen (...) comunicò che sul volo erano presenti sia lui che il console kazako e che quindi potevamo anche decidere di effettuare l’espulsione senza scorta, anche perché a bordo c’era personale di volo femminile. Sulla base di questa affermazione non emergeva che il volo fosse stato preso appositamente per il rimpatrio”. Sulla base delle affermazioni del diplomatico kazako: ecco come le nostre autorità hanno agito. Senza prendere in considerazione il carattere “umanitario” della questione. Ma non è la sola eccezione. Il ministero dell’Interno, in particolare l’ufficio della Direzione Centrale dell’Immigrazione e della Polizia delle Frontiere, ha emesso il 5 maggio 2010 una circolare con la quale si regola e si organizza i servizi di rimpatrio. Secondo la direttiva la questura tenuta a organizzare il rimpatrio deve “individuare il tipo di vettore e il relativo itinerario” ed “effettuare una valutazione del rischio”. Infatti nelle parole di Maurizio Improta, contenute nell’allegato alla relazione di Pansa, sembra esserci attenzione a queste indicazioni.
Nel merito, la direttiva prevede che “Nel rispetto dei criteri di economicità, la scelta di quello ritenuto idoneo deve essere effettuata valutando il rischio che tale operazione comporta, tenuto anche conto delle indicazioni acquisite in esito agli accertamenti sanitari eventualmente resisi necessari in relazione allo stato di salute dell’interessato”. Ora, in esito della valutazione del rischio, si decide se organizzare una scorta dell’operazione oppure effettuare il rimpatrio senza scorta. Ora, nel caso in questione la donna e sua figlia certamente non sono state valutate come un rischio. Eppure è soltanto del rischio a terzi che si occupa la direttiva oppure anche al rischio degli interessati, ovvero delle persone da rimpatriare?
Muovendosi in deroga alla normalità è difficile valutare le logiche dei dirigenti e funzionari italiani. O di chi ha dato loro gli ordini. La direttiva non prevede infatti l’utilizzo di voli privati: si parla di voli di linea e di voli charter. Sicuramente il rimpatrio delle due donne kazake ha ottemperato ai criteri di “economicità”, visto che lo Stato Italiano non ha sborsato un euro.
MA IL RISCHIO della donna e della figlia? Nella relazione di Pansa un altro allegato è affidato all’assistente Laura Scipioni, tirata in ballo da Alma nel suo Memoriale (di cui Il Fatto ha pubblicato ampi stralci nei giorni scorsi). La signora kazaka racconta di aver esposto a Laura della sua condizione di moglie di un dissidente. Proprio in quanto tale il rimpatrio in Kazakistan mette in pericolo lei e la sua famiglia. È il motivo, afferma Alma, per cui chiede asilo politico proprio al-l’agente Laura Scipioni. Quest’ultima nella sua relazione nega l’ultimo punto, quello dell’asilo. Ma afferma che la donna kazaka “le aveva esposto i contrasti del marito con il Governo Kazako”, come si legge nella relazione di Pansa. Allora per quale motivo nessuno ha preso in considerazione il rischio che la donna correva in quanto passeggera di un volo diretto in Kazakistan? Interrogativi ai quali il capo della polizia non ha risposto. Ha difeso il corretto operato dei suoi uomini. E ha aggiunto che tutta questa vicenda non rappresenta una macchia per la polizia, semmai un errore. Errore che però alle due donne è costato caro. Come ha ricordato anche Barbara Spinelli in questa brutta storia si possono trovare assonanze con la rendition di Abu Omar.

il Fatto 18.7.13
Rogatoria per ascoltare Alma a Roma
Così i Pm. Sempre più evidente il coinvolgimento di Alfano
Bonino da Napolitano
di Davide Vecchi

La Procura di Roma si è attivata per verificare eventuali reati nel sequestro e rimpatrio forzato di Alma Shalamayeva in Kazakistan. Ieri i magistrati hanno acquisito la relazione del capo della Polizia, Alessandro Pansa e il memoriale della donna diffuso dal Financial Times, per confrontare le ricostruzioni degli accadimenti e approfondire le due diverse versioni: una su tutte la richiesta di asilo politico che la donna scrive di aver chiesto alla funzionaria di Polizia, Laura Sci-pioni, mentre Pansa ha negato fosse stata formulata. Inoltre gli inquirenti hanno avviato le procedure per chiedere la rogatoria così da ascoltare Alma ma la richiesta dovrà passare anche dal ministero degli Esteri del Kazakistan e l’esito non è scontato.
Un’inchiesta vera, dunque. E non la semplice e blanda indagine amministrativa con la quale Angelino Alfano ha tentato di liquidare la vicenda. Ed emergono ulteriori conferme sul coinvolgimento diretto del vicepremier nell’operazione. Già martedì, intervenendo al Senato prima e a Montecitorio poi, Alfano ha omesso di riferire di aver dato personalmente incarico al suo ormai ex capo di gabinetto, Giuseppe Procaccini, di incontrare l’ambasciatore del Kazakistan che lo cercava con insistenza dal mattino. Passaggio contenuto nella prima parte della relazione stilata da Pansa, a pagina due. E ieri il funzionario dimissionario ha rivelato un’altra omissione del capo del Viminale: “Ho informato il ministro dell’esito dell’incontro” avuto con Andrian Yelemessov, il diplomatico a cui poi sarà affidata il 31 maggio a Ciampino anche la bimba di sei anni rimpatriata con Alma a bordo di un jet privato appositamente affittata dal governo kazako in Austria per 400 mila euro.
Ieri, inoltre, il capo della Polizia in audizione alla commissione diritti umani di Palazzo Madama, è tornato su quanto accaduto ribadendo nuovamente le responsabilità delle forze dell’ordine e negando che Alfano e il ministro degli Esteri, Emma Bonino, fossero al corrente dell’espulsione prima del 1° giugno.
“L’invasività dei diplomatici kazaki”, ha detto Pansa, che chiedevano la cattura di Mukhtar Ablyazov “non è stata ben gestita dai vertici del Dipartimento di pubblica sicurezza”. Ma perché è scattata l’operazione? Davvero la Questura ha impiegato oltre 30 agenti per catturare Mukhtar Kabulovic esclusivamente su input dei diplomatici kazaki senza alcuna autorizzazione da parte dei livelli superiori? O il ministro Alfano ha attivato Procaccini, come da prassi, dando istruzione di eseguire le richieste dell’ambasciatore di un Paese amico? Ma, garantisce Pansa, “non direi che la vicenda Ablyazov rappresenti una macchia per la polizia, semmai un errore”. Quindi, stando alla ricostruzione del prefetto, il Viminale non sapeva niente di quanto faceva la Questura, nonostante l’operazione fosse per la cattura di un “pericoloso criminale internazionale” e anche la Polizia ha commesso “un errore”.
Ieri è intervenuto anche il ministro della Giustizia, Anna Maria Cancellieri, che ha annunciato di aver avviato verifiche nonostante il 5 giugno in merito alla vicenda disse: “Mi sono subito informata, le procedure sono state perfette, tutto in regola e secondo legge”. Ma le informazioni a quanto pare non sono ancora complete: ieri, nel corso del question time, Cancellieri ha dichiarato che “la squadra mobile il 29 maggio collocava la minore Alua presso l'abitazione di Casal Palocco affidandola a Volodymyr Semakyn, attesa la momentanea assenza della signora Venera Shalabayeva, indicata in precedenza come affidataria. Di ciò veniva data comunicazione alla Procura presso il Tribunale dei minori”. Venera è la sorella di Alma a cui la madre affida Alua la sera prima, il 28 maggio, quando viene condotta al Cie di Ponte Galeria. Perché viene fatto un nuovo affidamento? E perché viene poi riaffidata il 31 maggio “sottobordo” a Ciampino all’ambasciatore e per quale motivo i passaggi sono stati compiuti esclusivamente su “autorizzazione verbale”?
Altri interrogativi coinvolgono invece il ministero degli Esteri. Bonino ieri è stata convocata al Quirinale per chiarire i contatti tra la Farnesina e i diplomatici kazaki. Bonino ha espresso all’incaricato d’affari forte sorpresa e disappunto per le irrituali modalità di azione presso le autorità italiane dell’ambasciatore Yelemessov sul caso Shalabayeva. Anche lei, come Cancellieri, aveva parlato di operazione chiara. La sintesi perfetta della confusione dei ministeri se la lascia sfuggire involontariamente Pansa: “Alfano mi ha chiesto ‘ma perché io non lo so? ’ E io ho detto: ‘Ministro, non lo so, ora vedo”.

Repubblica 18.7.13
I magistrati di Roma vogliono sentire la donna per rogatoria
Il ministro Cancellieri: nell’affido della figlia seguite le procedure
La Shalabayeva chiederà i danni allo Stato

ROMA — La procura di Roma potrebbe decidere di sentire Alma Shalabayeva. Una scelta che arriva dopo l’ennesima riunione e che si unisce a quella di acquisire la relazione del capo della polizia Alessandro Pansa per valutare eventuali responsabilità o forzature da parte della polizia di Stato. Il procuratore capo Giuseppe Pignatone e il pubblico ministero, Eugenio Albamonte, vogliono disporre alcuni accertamenti sul ruolo di alcuni funzionari. Tre in particolare: Giuseppe Procaccini, fino a tre giorni fa capo di gabinetto del ministro Alfano; Alessandro Valeri, ex capo della segreteria del Dipartimento della Pubblica Sicurezza; e Maurizio Improta, ex dirigente dell’Ufficio Immigrazione della Questura di Roma. Nessuno di loro è indagato ma i magistrati vogliono capire come e perché si sono mossi. E le indagini potrebbero anche portare a un’audizione del giudice di pace Stefania Lavore che ha convalidato l’espulsione e il cui operato è al vaglio dell’ispettorato generale di via Arenula: cosa sapeva dei motivi dell’espulsione? È vero che non le fu detto che la signoraShalabayeva era richiedente asilo come risulterebbe dagli atti? E per quale motivo non ha visto la nota dell’ambasciata kazaka che forniva indicazioni su due passaporti, validi, della signora? Dettagli che sia via Arenula sia la procura vogliono chiarire mentre uno gli avvocati della donna fanno sapere che chiederanno il risarcimento dei danni allo Stato Italiano, colpevole di gravi violazioni dei diritti umani.
Il fascicolo sul caso Shalabayeva, dunque, si fa più spesso, ma l’unica indagata rimane la donna kazaka espulsa insiemealla figlia di sei anni lo scroso 31 maggio: le vengono contestati i reati di ricettazione e possesso di documenti falsi. Ricostruzione che, però, ha diversi punti oscuri: proprio per questo i pm potrebbero avviare una rogatoria per interrogarla. Intanto ieri mattina i magistrati hanno consegnato la loro relazione sull’accaduto al ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, che nel corso del question time ne ha difeso la correttezza: «la procura è intervenuta esclusivamente con il rilascio del nulla osta».

il Fatto 18.7.13
L’Italia ha perso la faccia. Per i tg Rai tutto a posto
di Paolo Ojetti

La notizia è rimasta sommersa, ma c’è stata un’ondata di disdette per le prenotazioni di aerei, navi, treni verso i paesi a noi più prossimi: Francia, Spagna, Germania e perfino Austria, Grecia, Cipro, Croazia. Svizzera no, tanto gli svizzeri, per mille e una ragione bancaria, non vanno per il sottile e non ci badano. Ma gli altri ci conoscono ed è un momento molto delicato per esportare la nostra faccia di italiani. O la faccia è di bronzo o è meglio restare a casa. Tutt’al più, si consigliano destinazioni esotiche (India esclusa, anche lì si sono fatti un’idea), come Timor Est, Jacuzia, isole Salomone: lì, a stento, sanno dov’è l’Italia e che ha la forma di uno stivale. Già. È davvero difficile spiegare che abbiamo un ministro degli Interni al quale sequestrano sotto il naso le persone e lo va pure a dire in giro tutto contento.
Certo, anche in Francia ci fu l’“affaire Ben Barka”, ma cadde un governo e la destra perse anche la presidenza della Repubblica: i francesi poterono portare ancora in giro le loro facce. Ancora più difficile raccontare che il vicepresidente del Senato – la Camera Alta, quella dei saggi reggitori delle istituzioni repubblicane – è un tizio alquanto razzista, non tanto per le parole che dice, ma proprio per il cervello che porta a spasso. Più complicato spiegare che il signor Alfano e il signor Calderoli non hanno ancora lasciato le poltrone.
QUESTA PREMESSA serve per capire l’inutilità delle nostre televisioni. Lasciamo perdere quelle di Berlusconi (gli “speciali” sulle notti del padrone resteranno fra le pagine più vergognose del giornalismo italiano), ma parliamo della Rai, così prodiga di commentatori e di esperti quando le notizie sono innocue o lontane (l’altra sera c’era Saviano sui narcos: ma, a noi, ci frega così tanto del cartello degli Zetas?), che non ha dato segni di vita né su Calderoli né, tantomeno, su Alfano. Non un commento, zero. Non un direttore che si sia affacciato per un editoriale di critica o di allarme per un paese in briciole. Niente.
Abbiamo allora pensato alle “cartoline” di Andrea Barbato: erano scritte con un garbo incendiario. Si affacciava alla tv di Stato, mica a telecurvasud, e trainava il Tg3 smontando con la perfidia dell’ironia ministri, politici, imprenditori, persino le intoccabili gerarchie della chiesa. Quello era vero “servizio pubblico”. E, allora, delle due l’una: o i principi dell’informazione tv di oggi non sono all’altezza. O sono pavidi.

La Stampa 18.7.13
Dubbi sulla presenza degli 007 a Casal Palocco
La Procura indaga sul ruolo dell’agenzia di security israeliana
di Antonio Pitoni

C’è un passaggio chiave dell’audizione di ieri del capo della Polizia, Alessandro Pansa, dinanzi alla commissione Diritti umani del Senato. E si lega al ruolo, ancora tutto da chiarire, giocato nella vicenda Shalabayeva, dalla Gadot Information Services, con sede a Tel Aviv, e del suo emissario Amit Forlit. C’erano dietro i servizi segreti israeliani? «Non lo so, stanno indagando l’autorità giudiziaria e la Squadra Mobile», ha chiarito il prefetto. Sta di fatto che, nel fascicolo aperto già da alcune settimane dal pm Eugenio Albamonte, è entrata da ieri, dopo una riunione tenuta con il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, anche la relazione del capo della Polizia. Relazione in cui sono espressamente citati la Gadot e il nome del suo referente.
Sarebbe stato proprio Forlit ad ingaggiare, il 18 maggio, la Sira di Mario Trotta, l’ex sottufficiale dei Carabinieri oggi titolare e amministratore della società di investigazione privata italiana che, fino al giorno del blitz (il 28) della Mobile nella villetta di Casal Palocco, seguì i movimenti di Mukthar Ablyazov. Ma chi aveva assoldato a sua volta la Gadot? «Non c’erano ragioni per cui ce lo dicessero né per chiederlo noi a loro», aveva spiegato alla «Stampa» lo stesso Trotta nei giorni scorsi. La risposta muove, al momento, nel campo delle ipotesi. La Godot lavorava per il governo del Kazakhstan? L’ambasciatore Yelemessov avvisò le autorità italiane della presenza di Ablyazov a Roma a poche ore dall’ultimo avvistamento da parte degli investigatori della Sira, il 26 maggio. Oppure era al servizio di un terzo attore? Presto per dirlo, anche se i primi riscontri delle indagini della Mobile sarebbero già all’attenzione dei magistrati romani. Al momento, nel fascicolo del pm Albamonte, risulta indagata per possesso di documenti falsi e ricettazione in relazione al passaporto (ritenuto falso) della Repubblica Centroafricana esibito da Alma Shalabayeva al momento del blitz. Accertamenti che renderanno necessaria una rogatoria internazionale. Non è escluso che analoga iniziativa possa essere adottata verso il Kazakhstan per ascoltare proprio la Shalabayeva.
Sull’espulsione è intervenuto anche il ministro della Giustizia, Anna Maria Cancellieri. «La Procura di Roma è intervenuta nel procedimento di espulsione esclusivamente per il rilascio del nulla osta – ha chiarito nel corso del question time alla Camera – e ciò in quanto non venivano riscontrate ragioni processuali ostative derivanti dal procedimento penale a carico di Alma Shalabayeva per il possesso di un passaporto diplomatico ritenuto falso». Corrette, secondo il ministro, anche le procedure seguite per l’affidamento della figlia, la piccola Alua. Quanto «alla mancata visione della nota dell’ambasciata kazaka da parte del giudice di pace», la Cancellieri ha già richiesto all’ispettorato di svolgere «accertamenti preliminari».

Corriere 18.7.13
Il detective israeliano e l'attrice che doveva sedurre il religioso
di Davide Frattini

TEL AVIV — Un'attrice mancata che ha bisogno di soldi, la lotta interna tra i capi religiosi di un'organizzazione benefica, le immagini estorte in una camera d'albergo, il ricatto. Quasi tre anni fa Amit Forlit è stato coinvolto come testimone in uno scandalo che i giudici del tribunale di Gerusalemme stanno ancora valutando. Forlit è il titolare della Gadot Information Services, l'agenzia di investigazioni israeliana che ha assoldato i tre detective italiani trovati dalla Digos attorno all'abitazione di Mukhtar Ablyazov. Da lui — ricostruisce l'inchiesta amministrativa di Alessandro Pansa, il capo della polizia — hanno ricevuto «l'incarico di individuare nella zona di Casal Palocco la presenza del ricercato», il dissidente kazako.
Il registro delle imprese segnala che alla fine di aprile — poche settimane prima dell'operazione Ablyazov — la società di Forlit ha ottenuto un prestito di 230 mila shekels (circa 50 mila euro) da una banca israeliana. In garanzia offre una Audi A6: il mutuo e il capitale sociale di 10 mila euro non sembrano raccontare un'agenzia particolarmente sviluppata. La sede è a Herzliya, sobborgo elegante a nord di Tel Aviv, al telefono l'investigatore israeliano conferma: «Ho assunto i tre italiani per seguire Ablyazov, non voglio dire altro».
Nel gennaio del 2011 è stato fermato e interrogato dalla polizia locale, perché è stato lui a presentare e raccomandare l'attrice Tom Darom ai detective denunciati in un caso di minacce e pressioni illecite. Darom, allora venticinquenne, aveva lavorato in passato per Forlit: «Stavo scrivendo una sceneggiatura con protagonista un agente privato — ha testimoniato — così ho contattato Amit e mi ha proposto di partecipare a qualche sua operazione». L'attrice è stata usata per indagini sotto copertura dentro ai locali notturni di Tel Aviv: «Dovevo interpretare una ragazza che si vuol divertire e raccogliere informazioni su alcune persone a quelle feste».
La nuova «interpretazione» — un intervento a cui Forlit non ha partecipato — prevedeva invece di presentarsi come una ricca benefattrice a Dudi Zilbershlag, molto noto nella comunità ultraortodossa di Gerusalemme e fondatore di Mifal Chaim-Meir Panim. Due altri leader dell'organizzazione che aiuta le famiglie povere tra gli haredim avrebbero cercato di ricattarlo: secondo l'accusa, volevano ottenere foto compromettenti per estrometterlo dal gruppo e perché erano convinti che intascasse parte delle donazioni.
Dopo una sere di incontri, Darom ha invitato il religioso nella sua stanza d'hotel a Tel Aviv e gli ha proposto di spogliarsi per potergli massaggiare la schiena. «Quando mi hanno reclutata per la missione, mi avevano convinto che fosse importante smascherare Zilbershlag: i detective hanno insinuato che fosse corrotto e che molestasse le donne. Non sapevo ci fossero le telecamere nascoste e che tutto venisse filmato».

Repubblica 18.7.13
Il padrone kazako
di Massimo Giannini

UNA democrazia non può e non deve avere paura della verità.
Per questo lo scandalo kazako segna una pagina nera della democrazia. E per questo la scelta della «strana maggioranza », che chiude gli occhi di fronte alla colossale operazione di manomissione della realtà e blinda l’esecutivo solo in nome della realpolitik, non aiuta la causa della buona democrazia. Angelino Alfano ha mentito al Parlamento e al popolo sovrano. «È un fatto gravissimo: non ero stato informato io, né i miei colleghi, né il presidente del Consiglio». Questo dice al Senato, il ministro dell’Interno, dando lettura puntigliosa e testuale delle sei cartelle che compongono, da pagina 8 a pagina 13, la parte della relazione del prefetto Pansa intitolata “Il flusso informativo”. Nulla sapeva, dunque, di ciò che è avvenuto tra il 28 e il 31 maggio, quando l’ambasciatore kazako Adrian Yelemessov chiede e ottiene dal Viminale che la moglie e la figlia di un noto dissidente siano «sequestrate» e rispedite, con procedure contrarie al diritto interno e internazionale, in un Paese il cui regime pratica abitualmente la tortura.
Quello che invece non dice ai senatori, il ministro dell’Interno, è ciò che è scritto nelle sette cartelle precedenti di quel rapporto, intitolate “Cronologia dei fatti”, dove alla pagina 2 si può leggere ciò che accadde davvero «il 28 maggio», «nella serata»: «Il ministro dell’Interno, a seguito di ulteriori telefonate dell’Ambasciatore, cui non ha risposto, fa incontrare lo stesso con il suo Capo di gabinetto». Quello che non dice ai senatori, il ministro dell’Interno, e ciò che invece riconosce il suo stesso Capo di Gabinetto, ora costretto alle dimissioni e finora unico capro espiatorio dell’intera vicenda, nell’intervista non smentita rilasciata ieri a “Repubblica”. Alla domanda di Carlo Bonini: «Era stato il ministro Alfano a chiederle di ricevere l’ambasciatore kazako?», Giuseppe Procaccini testualmente risponde: «Sì. Ero stato informato che l’ambasciatore doveva riferirmi una questione molto delicata ». E poco più avanti, alla domanda: «Dunque il 29 maggio il ministro dell’Interno sapeva che la diplomazia kazaka aveva chiesto l’arresto di un latitante? », il funzionario ammette: «Sì. Di un pericoloso latitante».
Eccole, se ancora ce ne fosse bisogno, le prove dell’omertà che rendono indifendibile Alfano, e non più sostenibile la sua posizione dentro il governo. Per un mese e mezzo il ministro dell’Interno, e con lui quello degli Esteri, hanno vissuto o hanno fatto finta di vivere in un vuoto politico e pneumatico, dove la sovranità statuale è stata sospesa, e dove la potestà ministeriale è stata disattesa. Alfano e Bonino non hanno visto, sentito o parlato. E hanno lasciato che, a ordinare, a gestire e a decidere della sorte di due cittadine straniere, sul territorio italiano, fosse il «padrone kazako», cioè il satrapo dispotico Nursultan Nazarbaeyev, attraverso i suoi messi diplomatici. Lo dicono i fatti, e lo confermano i documenti ufficiali.
È Yelemessov, la sera del 28 maggio, a irrompere al Viminale, ad esigere il blitz nella villetta di Casal Palocco, a prendere parte insieme ai funzionari della Ps alla «riunione operativa» nell’ufficio di Procaccini, che lo stesso (ex) Capo di Gabinetto, nell’intervista a “Repubblica” di ieri, racconta sia «finita molto tardi».È Yelemessov, attraverso il suo consigliere Khassen, a forzare la Questura di Roma per avviare l’operazione, spiegando che il dissidente Ablyazov «è un criminale pericoloso in contatto con gruppi armati terroristici ». È Yelemessov, attraverso Khassen, a concordare il 30 maggio (dopo il blitz che non ha portato alla cattura di Ablyazov, ma al sequestro di sua moglie e sua figlia) le procedure di espulsione di Alma e di Alua, a «rappresentare alla Questura il timore che un transito a Mosca possa diventare l’occasione per un attacco organizzato dal ricercato», e a comunicare alla stessa Questura che la Shalabayeva «potrebbe usare un passaporto falso della Repubblica del Centro Africa» (comunicazione poi rivelatasi a sua volta falsa). È Yelemessov, attraverso Khassen, a fornire il 31 maggio alla Questura i documenti di viaggio di Alma e Alua e a proporre «la possibilità di un volo diretto verso la capitale del Kazakhstan, in partenza dall’aeroporto di Ciampino alle ore 17». E infine è ancora Yelemessov, attraverso Khassen, a prendere direttamente in carico madre e figlia poco prima delle 17 del 31 maggio, e ad imbarcarle «sul volo della compagnia austriaca Avcon Jet, proveniente da Lipsia e diretto ad Astana».
Com’è evidente, per ragioni che vanno al di là della pura e semplice inefficienza delle burocrazie amministrative, un bel pezzo di sicurezza nazionale è stata nelle mani delle autorità kazake, mentre quelle italiane si bagnavano nell’acqua di Ponzio Pilato. Il “padrone kazako” è stato il vero gestore di questa «rendition all’amatriciana », che ha ridicolizzato l’Italia di fronte al mondo el’ha esposta a una più grave violazione dei diritti umani nei confronti di una donna e della sua figlioletta di sei anni. Può ritenersi soddisfatto, l’ambasciatore kazako, che ora un’indignata Bonino convoca inutilmente alla Farnesina. Yelemessov se n’è già andato in ferie: un meritato «viaggio premio», perché lui la sua «missione» può dire di averla a tutti gli effetti compiuta.
Sono le autorità politiche e amministrative italiane che, invece, la loro missione l’hanno miseramente fallita, o volutamente sfuggita. Bisognava ammetterlo subito, senza rifugiarsi dietro l’ormai solita scusa tartufesca del misfatto «a mia insaputa». Bisognava che Alfano lo riconoscesse subito, assumendosi fino in fondo e a viso aperto le sue responsabilità, senza scaricarle sulla tecnostruttura che comunque dipende da lui, e senza la penosa e pelosa «chiamata di correo» nei confronti di Enrico Letta. «Né io né il premier sapevamo nulla», ribadisce il ministro. A sproposito, perché nessuno ha mai insinuato che il presidente del Consiglio sapeva o avrebbe dovuto sapere fin dall’inizio cosa successe in quei frenetici giorni di fine maggio, nel quadrilatero oscuro Viminale- Casal Palocco-Ponte Galeria-Ciampino. Questa colpa «in vigilando», o questo dolo «in agendo», pesa tutto intero sulle spalle del ministro dell’Interno. Che se non sapeva è stato negligente, e se sapeva è stato reticente. Forse ha agito in base a ordini superiori, vista la spregiudicata disinvoltura con la quale la «falange kazaka» ha orchestrato e diretto le operazioni italiane, certa di poter pretendere un «sequestro di persona » in cambio dei buoni affari conclusi a suo tempo dall’ex premier Berlusconi con gli zar del petrolio ex sovietico. Forse è stato addirittura scavalcato dal suo leader, che di Nazarbayev è molto più amico di quanto non riconosca lui stesso nell’intervista al “Corriere della Sera” di ieri, in cui il Cavaliere blinda Alfano e il governo definendo «assurde queste mozioni di sfiducia presentate dalle opposizioni, che impegnano il Parlamento e fanno perdere tempo in un momento così difficile e preoccupante». Non male, detto dal capo-popolo di un partito che solo una settimana fa, dopo la semplice fissazione di un’udienza della Cassazione, ha minacciato l’Aventino chiedendo la «serrata » delle Camere per tre giorni consecutivi.
Comunque siano andate le cose, Alfano aveva il dovere di dimettersi da ministro dell’Interno. E quel dovere lo ha ancora. Non è troppo tardi, per un gesto di serietà istituzionale e di onestà intellettuale di fronte al Paese. E il Pd non dovrebbe dividersi né provare imbarazzi inutili, nell’invocare ed esigere quel gesto. Non dovrebbe rassegnarsi alla logica che lega inestricabilmente la sorte personale di Alfano a quella del governo. E invece è esattamente quello che fa: scivolando sempre di più, in nome di una governabilità a qualsiasi costo, sul piano inclinato del compromesso al ribasso. Si dice che la richiesta delle dimissioni di Alfano indebolisce il governo, o addirittura lo espone al rischio di una crisi.
Ma proviamo a rovesciare la visuale. È quello che è accaduto, cioè lo scandalo kazako, ad aver indebolito irrimediabilmente il governo e ad averlo esposto al pericolo di una caduta. Non è quello che dovrebbe accadere, cioè la doverosa uscita di scena di chi ha sbagliato, a minacciare la sopravvivenza della Grande Coalizione. Se non si erigono le barricate dell’ideologia, è possibile separare il destino del ministro dell’Interno dal futuro delle Larghe Intese. Il governo Letta potrebbe persino rafforzarsi, se riuscisse ad uscire da questo pasticcio kazako con una soluzione decorosa. L’autoassoluzione della politica, che per durare insegue di volta in volta l’impunità formale e sostanziale, non lo è affatto. Se la «pacificazione» produce assuefazione, non ci rimette solo la sinistra. Ci rimette l’Italia.

Corriere 18.7.13
E poi ai kazaki facciamo pure favori
di Beppe Severgnini

D' accordo, lo dico: sono uno di quelli che ha fiducia nelle forze dell'ordine. Uno dei tanti italiani — la maggioranza, credo e spero — che quando vede una divisa si sente rassicurato, non minacciato. Ho conosciuto troppi bravi poliziotti e carabinieri in vita mia per non sapere che una società sana ha bisogno di loro: gente che per pochi soldi svolge un lavoro difficile e indispensabile. La stima e la considerazione sociale non vanno sul conto in banca; ma aiutano ad alzarsi al mattino e andare a lavorare per noi.
Che dispiacere e che delusione, quindi, quando ho letto i dettagli del blitz guerresco per la cattura e la deportazione di una mamma e una bambina di sei anni. Alma Shalabayeva e Alua, moglie e figlia di Mukthar Ablyazov, oligarca e dissidente kazako. I giornali, in Italia e all'estero, hanno riportato il racconto della signora e quello dei cognati. L'avrete letto: uomini armati, urla e botte, minacce e nessuna spiegazione. È possibile che qualcuno dei fermati abbia esasperato i toni; ma la brutalità dell'intervento, e l'irrituale deportazione in Kazakhstan con jet privato, non sono in discussione. Sia chiaro: Mukthar Ablyazov non è un fiorellino di campo. È un oligarca in rotta con il suo ex protettore, Nursultan Nazarbayev, dal 1990 padre padrone del Kazakhstan. L'Alta corte, a Londra, gli ha congelato 3,5 miliardi (!) di euro di fondi e lo ha condannato a 22 mesi di carcere. La Bta, la banca che Ablyazov ha guidato fino al 2009, lo ha denunciato per essersi «indebitamente appropriato di 6 miliardi di dollari». La Gran Bretagna, nel 2011, gli aveva concesso lo status di rifugiato politico; oggi Ablyazov è introvabile. Ma questo non ha nulla a che fare con sua moglie e sua figlia. Deportarle significa fornire un formidabile strumento di pressione a Nazarbayev, non un campione di tolleranza. Storie già viste in Russia, certo. Ma le democrazie non operano così. Di certo, non la democrazia italiana.
Non entro, di proposito, nel vorticoso scaricabarile che ha visto le dimissioni del capogabinetto del Viminale e le spiegazioni (si fa per dire) del ministro dell'Interno in Parlamento. Lo sappiamo: l'inno d'Italia ufficioso è «È stata tua la colpa!» (©Edoardo Bennato) e il motto nazionale «A mia insaputa» (©Claudio Scajola). Resta una considerazione, che Enrico Letta certamente condivide, anche se non lo può dire. Angelino Alfano dovrebbe accettare la responsabilità per l'accaduto: perché sapeva, se lo sapeva; perché non sapeva, poiché avrebbe dovuto saperlo.
Per chiudere, ricordo questo. Un cittadino italiano, manager di lungo corso dell'Eni, laureato in Bocconi, è rinchiuso dal 2010 nelle prigioni kazake, dopo esser stato sorpreso a fumare uno spinello con amici. Si chiama Flavio Sidagni, ha 58 anni. Non riusciamo a riportarlo a casa, nonostante l'impegno di tre governi e l'intervento delle massime istituzioni della Repubblica. Poi ai kazaki facciamo questo tipo di favori. Si può dire che qualcosa non va?

l’Unità 18.7.13
La democrazia è conflitto
di Michele Ciliberto

Se si considera il lessico politico di questo periodo spiccano come stelle comete alcune parole e alcune espressioni che appaiono sia sui giornali che in tv in modo continuo ed ossessivo.
Mi riferisco in particolare a «necessità» e a «stato di necessità». Se ne fa un uso vasto e senza distinzione di campo o di funzioni.
Ciò accade a destra e a sinistra. È una consonanza che colpisce e stimola qualche riflessione, anche perché rischia di diventare una sorta di senso comune con effetti gravi sulla società italiana. Perché è nato questo governo? Per uno «stato di necessità», lo dicono sia Scalfari che Berlusconi, due personaggi che la pensano in modo opposto su tutto il resto. E lo dicono autorevoli commentatori su giornali di entrambi gli schieramenti. Chi non è d’accordo è severamente redarguito: quelli che, a sinistra, si lamentano non lo sapevano che il governo attuale è nato da un accordo con Berlusconi? E di cosa si stupiscono allora? Non era chiaro che ci sarebbero stati passaggi critici? Ingenui, illusi, nel migliore dei casi «anime belle», cioè incapaci di comprendere le dure leggi della politica. Berlusconi va preso per quel che è. Certo, non è una compagnia piacevole, ma nessuno se l’è scelta: è stata, è, una «necessità». «Necessità» e «stato di necessità» sono parole assai impegnative per un motivo semplice: entrano in contatto, positivamente o per contrasto, con la dimensione della libertà individuale e collettiva. Se tutte le scelte fatte in questo periodo sono state ispirate dal principio di «necessità», che fine hanno fatto la politica e i partiti, le stesse istituzioni? Che ruolo hanno giocato? Se così fosse, la politica sarebbe ridotta a pura «tecnica», ad amministrazione, a gestione dello stato delle cose, mentre i partiti sarebbero diventati puri esecutori di decisioni di cui, evidentemente, non avrebbero responsabilità, come avviene quando comanda il principio di necessità.
Sono convinto che quella della «necessità» sia una ideologia come le altre, di cui la politica e i partiti si servono, in modo legittimo, per i loro obiettivi. Così come sono persuaso che, dopo le elezioni, si sarebbero potute tentare strade diverse da quelle che sono state scelte, e che potrebbero essere rimesse alla prova se questo governo cadesse. Ma assumendo che l’«ideologia della necessità» abbia un fondamento obiettivo, le conseguenze non sarebbero di poco conto, a tutti i livelli. Quali ne sarebbero infatti gli effetti sulla democrazia italiana, quando essa si trasformasse in «senso comune», come rischia di accadere per l’azione convergente di tutti i media e della pressoché totalità delle forze politiche?
Definire la democrazia è difficile, se non arduo. Alcuni elementi sono però acquisiti: la democrazia si nutre del conflitto, il contrario della «pacificazione», altra parola oggi di moda, simmetrica a «stato di necessità». E il conflitto in tanto è possibile in quanto si sviluppa attraverso una pluralità di opzioni, di possibilità. Il conflitto cioè il perno della democrazia è il contrario della «necessità». E in quanto tale, esso è qualcosa di strutturale che attiene alla costituzione interiore di un vivere civile, di una comunità. Invece, l’insistenza sul «principio di necessità» genera sentimenti di passività, di subalternità, tendenze alla inerzia, all’accettazione dello stato delle cose. Il contrario esatto di una società basata sul principio di libertà e di responsabilità.
Lo so: è giusto combattere il volontarismo astratto, che può precipitare in forme di deteriore velleitarismo. Ma non è meno grave situarsi all’ombra del «principio di necessità», finendo con l’adeguarsi alla realtà qual essa è senza provare tutte le vie che possono introdurre il cambiamento. Le società decadono e si corrompono quando vengono schiacciate sull’esistente, quando viene meno il «principio speranza» (per usare il termine di un grande filosofo). Esse, per svilupparsi, hanno bisogno di proiettarsi verso il futuro, di avere una visione di se stesse e del mondo. Alla radice, la crisi dei partiti e della politica è precisamente questo: assenza di futuro, di visione e, di conseguenza, apatia, indifferenza.
Certo, ci sono stati autorevoli pensatori che hanno visto nel conflitto la causa del dissolvimento del vivere civile e l’hanno combattuto. Ma il pensiero democratico nei suoi esponenti più significativi ha visto nel conflitto il lievito essenziale del progresso della società. E questo va ribadito, specie oggi, anche a rischio di andare controcorrente. Uno dei segni di maggiore decadenza del nostro tempo è proprio nell’incapacità di alzare lo sguardo dalla immediatezza quotidiana per afferrare problemi di respiro più vasto, di carattere generale. L’«ideologia della necessità» non è indifferente, pone problemi con cui fare i conti, sul piano teorico e, anzitutto, su quello politico iniziando dal primato della «pacificazione» che ne consegue. Né serve dire che tutto questo è temporaneo, che poi la vita riprenderà secondo forme ordinarie. La storia italiana compresa la nascita del berlusconismo ci mostra il contrario. I tanti sostenitori dello «stato di necessità» farebbero bene a riflettere sulle conseguenze della tesi che così energicamente sostengono.

l’Unità 18.7.13
Lo sgarbo dell’ambasciatore kazako alla Farnesina
Il titolare è in vacanza, si presenta solo l’incaricato di affari
Un ministero degli Esteri che si rispetti dovrebbe rispondere con fermezza
di Umberto de Giovannangeli

Dal momento che l’ambasciatore è in vacanza, il portone della Farnesina viene varcato dall’incaricato d’affari del Kazakistan, Zhanybek Manaliyev. È a costui che, recita una nota della Farnesina, «il ministro Bonino ha espresso forte sorpresa e disappunto per le irrituali modalità di azione presso le autorità italiane dell’ambasciatore Yelemessov nel caso della cittadina kazaka Alma Shalabayeva e, in particolare, ha stigmatizzato la circostanza che, in una vicenda così delicata anche sotto il profilo internazionale, i rappresentanti diplomatici kazaki non abbiano mai interessato la Farnesina. Bonino ha inoltre sottolineato che il coinvolgimento di una minore rende la vicenda ancora più grave sul piano della tutela dei diritti umani». Questo è accaduto a 50 giorni dalla scandalosa espulsione dall’Italia della signora Alma Shalabayeva e di sua figlia Alua.
PRIMI PASSI
Un diplomatico dell’ambasciata italiana ad Astana intanto si sta recando a Almaty, dove si trova la signora Alma, per incontrarla nuovamente, verificare le sue condizioni e notificarle personalmente la revoca del provvedimento di espulsione.
Ma non è molto consolante. Un ambasciatore in vacanza, che irride il Paese in cui è accreditato, dichiarando all’Adnkronos: «Sono davvero stupito per questa vicenda... Apprendo ora la notizia della convocazione, sono in vacanza fuori Italia. Vedremo quando arriverà la richiesta...». E allora, a fronte di una vicenda che rischia di far cadere un governo e coprire di ridicolo, oltre che d’indignazione, il nostro Paese nella comunità internazionale, ci accontentiamo dell’incaricato d’affari kazako. Troppo tardi, troppo poco. Quasi niente. Perché molto di più, e molto prima, si poteva e doveva fare. Il ventaglio delle possibilità, rimarcano esperti di diritto internazionale e fonti diplomatiche, è amplissimo.
Il governo, ad esempio, avrebbe già potuto, o dovuto, presentare una durissima nota di protesta al governo kazako; avrebbe potuto richiamare il proprio ambasciatore ad Almaty ed avrebbe potuto dichiarare persona non gradita sia l’ambasciatore kazako, sia i suoi collaboratori che lo accompagnarono al Viminale e alla Questura di Roma, espellendoli dopo aver saputo che le informazioni fornite alla polizia erano parziali e ingannevoli. Il governo avrebbe potuto intimare al governo kazako di restituire immediatamente la signora Alma Shalabayeva e la figlia, minacciando in caso contrario l’immediata rottura delle relazioni economiche e se necessario diplomatiche con il Kazakistan, nonché di portare il caso in tutte le sedi internazionali competenti. «In un Paese serio incalza una fonte bene informata il governo avrebbe presentato immediate scuse alla Repubblica Centrafricana e alla Lettonia per aver indebitamente messo in dubbio, senza rivolgersi per un controllo alle rispettive ambasciate, la validità di documenti da loro rilasciati; in un Paese serio il governo avrebbe già presentato al governo del Regno Unito le proprie scuse per aver espulso dal proprio territorio nazionale la moglie di una persona (il dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, ndr) a cui quel governo aveva concesso lo status di rifugiato».
AMNESTY RILANCIA
«L’annullamento dell’ordine di espulsione (della Shalabayeva, ndr) rileva John Dalhuisen, direttore del Programma Europa e Asia centrale di Amnesty International è un piccolo passo avanti in una vicenda che richiede trasparenza e assunzione di responsabilità a ogni livello da parte delle autorità di polizia e di governo. È grottesco che una donna e la sua piccola figlia siano state portate in tutta fretta su un aereo privato, senza un giusto processo, e inviate in un Paese dove sarebbero state a rischio di persecuzione. L’inchiesta dovrebbe essere veramente indipendente e dovrebbe apparire come tale. Siamo molto preoccupati per il fatto che il ministero dell’Interno stia indagando su se stesso, in quanto responsabile di tutte le questioni relative all’immigrazione, comprese le espulsioni. L’indagine sul rinvio forzato di Alma Shalabayeva non dev’essere considerata alla stregua di un “affare interno” insiste Dalhuisen Alma Shalabayeva è ora nelle mani del governo del Kazakistan, tristemente noto per fabbricare accuse contro gli oppositori politici e le persone a loro associate e che vanta una lunga storia di torture, maltrattamenti e processi clamorosamente iniqui. Qualsiasi funzionario o esponente politico italiano coinvolto nell’espulsione di Alma Shalabayeva e di sua figlia, poste dunque a rischio di subire tali violazioni dei diritti umani, dovrebbe essere chiamato a risponderne».

l’Unità 18.7.13
E Pansa è costretto a smentire «Il ministro informato sul blitz»
Il titolare dell’Interno aveva detto: «Sono all’oscuro di tutto»
Il prefetto accusa i kazaki: «Traditi dall’invasività dei loro diplomatici»
di Claudia Fusani

«Il ministro Alfano era a conoscenza delle ricerche per l’arresto del latitante Ablyazov ma non dell’espulsione». Il capo della polizia Alessandro Pansa ha appena concluso due ore di audizione al Senato davanti alla Commissione Diritti umani presieduta da Luigi Manconi. Sul tavolo le modalità di espulsione di Alma Shalabayeva e della figlia Alua. Appuntamento fissato prima che il governo revocasse l’espulsione e prima che scoppiasse il caso politico. È stata dura per Pansa. Il dottor Sottile della polizia talvolta ha perso la pazienza e si è alterato di fronte a certe insistenze Cinque stelle (il senatore Mario Giarrusso) e di Sel (Beppe De Cristofano). Quando esce, davanti ai cronisti, il fuoco di fila di domande non cessa. Il prefetto Procaccini smentisce il ministro, dice che lo aveva informato... Pansa prende fiato: «Nessuna contraddizione tra il prefetto Procaccini e il ministro, nessuno dei due infatti era a conoscenza dell’espulsione della signora Shalabayeva. Alfano era però a conoscenza della richiesta di cattura di Ablyazov...».
Il diavolo si annida nei particolari. Anche per questo la politica evita i dettagli. Specie se servono a stabilire la verità. Ora, il fatto è che in questa storia ogni giorno ha la sua verità. E quando è così, non è un bel segno per nessuno.
Nel non facile ruolo di difendere i suoi uomini («nessuna macchia nella polizia, semmai qualche errore») e di non mettere nei guai il suo ministro, con l’aggravante di essere fresco fresco di nomina (il 31 maggio, per l’appunto), anche un sofista del lessico e del diritto come Alessandro Pansa resta con difficoltà in equilibrio in questa storia sempre più complessa e aggrovigliata. Succede quando le mezze bugie cominciano all’inizio della storia e non si risponde alla prima fondamentale domanda: chi ha consentito ai diplomatici kazaki di muoversi tra il Viminale e la questura come se fosse casa loro?
Insomma, a un passo dalla crisi di governo e mentre mezza Italia chiede ad Alfano di rimettere le deleghe dell’Interno, si corregge di nuovo la versione ufficiale. Quella resa martedì sera da Alfano prima al Senato e poi alla Camera. E che, non a caso, ha ulteriormente aggravato la sua posizione.
«Né io né altri del governo siamo stati informati sulla vicenda Shalabayeva» ha esordito Alfano l’altra sera in Parlamento raccontando i giorni di un ministro inconsapevole di quello che succede in casa. Logica conseguenza di questo sono le dimissioni del suo capo di gabinetto, Giuseppe Procaccini. Una scelta che il prefetto motiva nella lettera «in quanto nata dal sentirmi offeso per come sono stato trattato visto che è vero che ho incontrato i kazaki su disposizione però dello stesso ministro che fu da me informato il giorno dopo sulle loro richieste».
Quella di Procaccini è una versione che fa a cazzotti con la ricostruzione di Alfano («il governo era all’oscuro») e su cui Pansa, invece consapevole della sostanziale differenza, pattina nell’ambiguità mettendo in fila i fatti accaduti a Roma tra il 28 e il 31 maggio.
Scrive infatti a pagina 2 della relazione-indagine, nella parte in cui ricostruisce la cronologia dei fatti: «Nella serata del 28 maggio (quando il blitz nella villa di Casal Palocco non è ancora scattato ma i diplomatici kazaki stanno già facendo pressioni dalla mattina per arrestare Muktar Ablyazov, ndr) il ministro dell’Interno, a seguito di ulteriori telefonate dell’ambasciatore cui non ha risposto, fa incontrare lo stesso con il suo capo di gabinetto». Due righe che dicono molto di più di quello che sembra. Raccontano infatti che Alfano, venuto a conoscenza del fatto che i kazaki lo stavano cercando con insistenza, dice a Procaccini di parlarci. Di sentire quello che vogliono. Non sappiamo altro, al momento, del contenuto di quelle comunicazioni. Peccato, perchè sarebbe interessante sapere come, con quali toni, Alfano ha chiesto al suo braccio destro di seguire i kazaki.
Sta di fatto che, come era logico che fosse, il giorno dopo il Capo di gabinetto comunica al ministro le richieste di arresto del latitante Ablyazov e l’avvenuto blitz fallito però nell’obbiettivo. Dunque Alfano sapeva, era a conoscenza di questa prima parte della storia. Non della seconda, l’espulsione, così come non lo erano in effetti i vertici del Dipartimento. Ma questa è la seconda parte della storia, quella che riguarda come ha operato la polizia.
Se fosse stato chiaro dall’inizio almeno questo, forse Procaccini non si sarebbe dimesso. Ma a quel punto sarebbe mancato il capro espiatorio, la testa rotolante utile per placare lo scandalo. Dice Pansa: «Non so se ha fatto bene o male a dimettersi, mi dispiace, è stata una scelta personale. Certo non poteva informare il ministro sull’espulsione visto che non era a conoscenza». Ma su tutto il resto ha fatto il suo dovere.
In questo senso il capo della polizia smentisce «le presunte telefonate avvenute all’aeroporto di Ciampino tra il consigliere dell’ambasciata kazaka e Procaccini». Il diplomatico le ha millantate per fare fretta ai poliziotti italiani che avevano ancora in consegna Alma e Alua. Un raggiro.
Pansa, di fronte alla commissione Diritti umani, difende poi i suoi uomini che «non hanno mai saputo dello status di rifugiato politico di Ablyazov e della moglie». È l’errore originale, quello da cui discende «un’espulsione legittima ma avvenuta con metodi non ordinari» e con la «inusuale invasività dei diplomatici kazaki». Si tratta comunque, spiega Pansa, di «una disfunzione del sistema non mancanza di singole persone».
Resta da vedere cosa s’inventerà Alfano per giustificare il nuovo «errore». Perchè in verità conosceva il caso Ablyazov. Almeno la parte prima.

l’Unità 18.7.13
Tutte le anomalie di un’operazione sospetta
La donna ha chiesto asilo politico il 31 maggio quando ha capito che la stavano rimpatriando
I magistrati bloccano l’espulsione alle 15 e 30
I kazaki tremano. Alle 17 il via libera. Perché?
di C. Fus.

Sono troppe le anomalie di un’operazione ormai definita da tutti sospetta per tempi e metodi e protagonisti. E sono troppi i salti logici nelle 14 pagine, con altrettanti allegati, della relazione del capo della polizia Alessandro Pansa. Non stupisce, quindi, che la procura di Roma abbia acquisito la relazione di Pansa sul caso Ablyazov-Shalabayeva. Il dossier è stato inserito nel fascicolo già aperto su alcuni documenti, tra cui il passaporto, in possesso della moglie del dissidente kazako. I magistrati romani potrebbero anche acquisire gli atti di un’altra inchiesta, aperta e chiusa in Austria nei giorni scorsi, nei confronti del pilota del jet privato che il 31 maggio viene contattato dall’ambasciata kazaka a Roma per consegnare in fretta e furia alle autorità di Astana la moglie e la figlia del dissidente politico Muktar Ablyazov. Vienna aveva indagato il pilota per sequestro di persona. Sono atti decisivi perchè fissano uno dei passaggi più oscuri dei fatti accaduti tra il 28 e il 31 maggio.
L’INCHIESTA AUSTRIACA
Il pomeriggio del 30 maggio il dirigente dell’Ufficio Immigrazione Maurizio Improta si ritrova tra i piedi, non lo mollano dal giorno prima, i funzionari dell’ambasciata. Spiega loro che ci sarà l’espulsione ma che ci vorranno giorni perchè servono documenti, nulla osta, un sacco di roba. Servirà poi trovare i posti sul volo che farà scalo a Mosca prima di arrivare ad Astana. Improta racconta che i diplomatici mostrano facce preoccupate. Hanno fretta. Chiedono di anticipare. Soprattutto, facendo intendere che Ablyazov potrebbe avere contatti con i terroristi, prospettano il rischio di un blitz armato sia al Cie di Ponte Galeria che allo scalo a Mosca per far liberare moglie e figlia. In ogni caso, ribatte loro il funzionario italiano, «questa è la nostra prassi». A fine mattinata del 31 maggio il solito segretario Khassen si ripresenta da Improta e gli comunica soddisfatto che è tutto a posto: l’ambasciata ha già fatto i documenti per il rimpatrio e poi, che fortuna, c’è un volo privato disponibile a Ciampino per rimpatriare mamma e figlia. Sono le undici della mattina. Alma è ancora davanti al giudice di pace. Ma, come ha spiegato il pilota alla magistratura di Vienna, «a quell’ora, intorno alle 11, fui contattato dalle autorità kazake io mi trovavo a Lipsia per un volo privato Roma-Astana». Il pilota spiega anche di non aver notato nulla di anomalo, c’era la polizia italiana che consegnava due cittadine kazake alle autorità locali.
Sarà poi il marito, Ablyazov, informato dagli avvocati intorno alle 15 che l’espulsione era stata autorizzata a tempo di record, a provare a fermare, senza successo, il volo e a denunciare il pilota per sequestro di persona. Pansa definisce tutto questo «anomalo», sottolinea
come sia «mancata in quel momento una verifica puntuale e completa su tutto il rapporto innescato dalle autorità diplomatiche kazake». E osserva come «non sia stata percepita la straordinarietà delle modalità con cui l’espulsione è stata eseguita». Ma non può bastare.
LA RICHIESTA DI ASILO POLITICO
È un altro passaggio chiave della storia. Sono tante le divergenze tra la relazione di Pansa, il racconto degli avvocati e la testimonianza di Alma Shalabayeva che scrive nel suo memoriale pubblicato sul Financial Times: «Ho negato il nome della famiglia finchè ho potuto per proteggerla. Ho chiesto asilo quando ho capito che volevano espellermi», cioè la mattina del 31 maggio davanti al giudice di pace. È stato spiegato che a quel punto è troppo facile chiedere asilo, scontato e quindi non più valido.
Ancora una volta però la relazione-indagine di Pansa sta attenta a dire e non dire. Pronta a correzioni in zona Cesarini. Si legge a pagina 7: «Gli avvocati scrivono che la signora Shalabayeva avrebbe chiesto asilo politico ad un agente di nome Laura. L’assistente di polizia di Stato Laura S, nega di aver ricevuto alcuna istanza, anche verbale, di asilo. Pur confermando però che la donna le aveva raccontato i contrasti del marito con il governo kazako». Alma non è stata creduta, già grave di per sè. Ma ancora più grave è che questa informazione non sia stata neppure valutata. Eppure, bastava mettere in fila i fatti degli ultimi tre giorni, a cominciare dalla «invasività dei diplomatici kazaki» per capire che qualcosa non andava. Non solo: nella relazione di Pansa letta in Parlamento da Alfano, tutto ruota intorno al presupposto che «mai in nessuna fase della vicenda i funzionari italiani hanno avuto notizia alcuna sul fatto che Ablyazov fosse un dissidente». Non è vero: già il 29 la questura sapeva che Alma Shalabayeva era moglie di Ablyazov ricercato dall’Interpol. «Ma non sapevamo che fosse un dissidente politico ha ribadito ieri Pansa in Senato l’elenco dei richiedenti asilo non è condiviso con le banche dati dell’Interpol e dei singoli stati per questioni di segretezza». In effetti, basta un minimo di conoscenza dei fatti del mondo per sapere che il Kazakistan è nella lista nera di organizzazioni come Amnesty e l’Ocse e ha già avuto tre raccomandazioni da Bruxelles per il rispetto dei diritti umani. In ogni caso, quando Alma chiede asilo la polizia italiana poteva ancora fermare tutto.
LO STOP AND GO DELLA PROCURA
Qualcosa o qualcuno induce in errore anche la procura. Succede tutto molto in fretta il 31 maggio. Il giudice di pace dà il via libera all’espulsione. Il prefetto Pecoraro anche. Gli avvocati Valenti e Olivo, presenti all’udienza, sanno di poter incontrare Alma alle 15 al Cie. Intorno alle 13 però vengono informati che le stanno portando a Ciampino, rimpatrio immediato e fulmineo. I legali si precipitano in procura, dal procuratore Pignatone. Che alle 15 e 30, come riporta la relazione del capo della polizia, «sospende le procedure di espulsione per necessità di approfondimenti». A quel punto era chiaro a tutti i funzionari italiani che la signora Shalabayeva era un ostaggio da consegnare a Nazarbaev. I diplomatici kazaki sono molto preoccupati: l’aereo rulla sulla pista ma la burocrazia italiana sta per mandare tutto in fumo. In qualche modo, che ora la procura vuole scoprire, arrivano a piazzale Clodio informazioni fasulle e tali da autorizzare il nulla osta all’espulsione. Sono le 17. Per Astana il caso è chiuso. A Roma sta per insediarsi il nuovo capo della polizia. E per cominciare un caso da crisi di governo.

l’Unità 18.7.13
L’accusa: odio razziale
Kyenge, indagato Calderoli
La leghista che incitò a stuprare la ministra condannata a tredici mesi
di Jolanda Bufalini

ROMA «Roberto Calderoli è formalmente indagato dalla Procura della Repubblica di Bergamo per «diffamazione aggravata dall’odio razziale». L’esposto contro Calderoli è stato presentato lunedì scorso dal Codacons, che aveva chiesto alla magistratura di Bergamo di verificare la sussistenza di eventuali reati in merito alle dichiarazioni del vicepresidente del Senato, con particolare riferimento all’aggravante del razzismo. Nell’esposto infatti il Codacons scrive: «Le dichiarazioni, e in particolare il contenuto delle stesse, manifestate dal vicepresidente del Senato Roberto Calderoli, nei confronti del Ministro per la Cooperazione internazionale e l’integrazione, Cécile Kyenge Kashetu, risulterebbero non solo lesive dell`ordine pubblico e della dignità umana, ma anche chiaramente idonee ad istigare l’odio razziale», reato sanzionato dalla legge Mancino.
L’associazione dei consumatori non si è limitata all’esposto, si è anche rivolta al collegio dei questori del Senato, unico organo che può prendere provvedimenti di censura nei confronti di Calderoli, non esiste, infatti, l’istituto della sfiducia nei confronti dei presidenti e vicepresidenti delle camere. «Ci aspettiamo dice Carlo Renzi, presidente dell’associazione dei consumatori un
provvedimento dal Collegio dei Questori del Senato, al quale abbiamo formalmente chiesto di sospendere Roberto Calderoli dai suoi incarichi istituzionali».
Per un procedimento che si apre un altro se ne è concluso in prima istanza, con una pena dura, per la leghista che aveva scritto su facebook: «Mai nessuno che se la stupri», riferito al ministro del’integrazione Cécile Kienge. Tredici mesi più tre anni di interdizione dai pubblici uffici la condanna a Dolores Valandro, ex consigliere di quartiere a Padova, per «istigazione a commettere atti di violenza sessuale per motivi razziali», che era stata espulsa dal partito. La condanna ha suscitato la reazione iraconda dell’ex deputata leghista Paola Goisis che se l’è presa con Maroni, Tosi e Zaia: «Deboli con i forti e forti con i deboli», «io ho chiesto l’espulsione di Calderoli e Steval», ha sostenuto l’ex deputata, «ma sono quasi sicura che non ci sarà espulsione. Il contrario di quello che è successo a Valandro che è una semplice militante e che, dopo averla deplorata andava sostenuta».
Ma la deriva razzista di esponenti della Lega Nord non sembra essere stata arginata, ieri la denuncia del consigliere regionale del Pd veneto Bruno Pigozzo nei confronti di Gabriele Michieletto, presidente dell’assemblea comunale di Scorzè, che ha postato su Facebook la foto di un orango con una didascalia in cui il primate dice «io sono più bella e simpatica». Un’ondata preoccupante di volgarità xenofobica, di cui il premier, a Londra per sostenere l’affidabilità finanziaria dell’Italia, ha dovuto rispondere anche alla stampa estera: «Una vergogna», ha detto Letta a Chatham House, «abbiamo chiesto a Calderoli di dimettersi».
Il ministro Kyenge, ospite ieri di un videoforum di Repubblica, ha raccontato di avere offerto il mazzo di fiori mandato da Calderoli per scusarsi alla madonna del buon consiglio. Ha accettato le scuse e i fiori ma: «Sono ministra ha spiegato richiedo rispetto come istituzione. Qualsiasi tipo di offesa razzista non tocca me, diventa un concetto. Una ferita all’Italia».
Il ministro mostra una grande capacità di rappresentare e onorare le istituzioni anche nel rispondere a un altro tipo di attacchi. Quello di Umberto Bossi: «È una tirata fuori dal nulla. La sinistra ha perso i voti dei lavoratori e quindi va a pigliare i voti dei lavoratori esterni. In tutti i modi cerca di dare loro il voto, la cittadinanza. È un progetto». Attacco che segue un sorprendente editoriale di Giovanni Sartori sul Corriere della sera che attacca Cécile Kyenge perché è oculista, come dire che Calderoli dovrebbe dimettersi non per le frasi razziste che hanno fatto il giro del mondo, ma perché è dentista. Kyenge risponde a Bossi: «Letta nominandomi ha dimostrato lungimiranza. Starà ai fatti dimostrare se sono solo una figurina». Quella di Letta «è stata la scelta di far vedere che l’Italia è anche questa, che è fatta di persone che provengono da tanti paesi. Che i nati in Italia hanno anche un colore diverso e che bisogna fare comunicazione e sensibilizzazione per rendere visibile questa nuova cittadinanza. Rafforzare questo non toglie niente all’Italia. L’incontro tra culture non è debolezza, ma è una ricchezza».
Alla campagna per le dimissioni di Calderoli si è associata la Fondazione Nigrizia dei missionari comboniani, ordini del giorno in questo senso vengono votati in tante assemblee comunali e regionali, compresi il consiglio comunale capitolino e quello della regione Lazio. L’imprenditore Oscar Farinetti ha, invece, scelto la ritorsione: «Calderoli a Eataly non entra, dicendo quelle cose ha dimostrato di non avere coscienza, e la coscienza è la molla che ha trasformato le scimmie in umani». L’inventore del supermarket slow, intervistato alla Zanzara, risponde anche a proposito delle battute sulla statura di Renato Brunetta: «Qualche volta se le tira». Al che il capogruppo Pdl alla Camera ha buon gioco nel replicare: «ricorda gli stereotipi del giustificazionismo della violenza contro le ragazze poco vestite che se la cercano».

Repubblica 18.7.13
Inchiesta Mose, perquisita la sede di VeDrò la fondazione che fa capo a Enrico Letta
MILANO — La Guardia di Finanza ha perquisito la sede della fondazione VeDrò, il think tank ideato dal presidente del consiglio Enrico Letta che si riunisce ogni anno nella cittadina di Drò in Trentino. La fondazione figura tra le sponsorizzazioni del Consorzio Venezia Nuova che sta realizzando il Mose, sistema idraulico contro l'acqua alta a Venezia. Le indagini sugli appalti del Mose hanno portato all'arresto di Giovanni Mazzacurati, ex presidente del Consorzio Venezia Nuova.

il Fatto 18.7.13
Governo d-Pdl
Le larghissime e inutili intese
di Maurizio Viroli

In repubblica, condizioni necessarie, ma non sufficienti, per avere un buon governo sono una maggioranza forte e autorevole e un’opposizione numericamente rilevante e altrettanto autorevole. L’esatto contrario della realtà italiana con il governo Letta, il quale, nonostante goda di una delle più larghe maggioranze parlamentari della storia repubblicana non è né forte né autorevole.
Non è forte perché gli manca la caratteristica prima di un governo forte in regime parlamentare, vale a dire l’unità di volontà politica e di intenti. Prova ne sia la difficoltà a deliberare su questioni importanti e la netta tendenza dimostrata fino ad oggi a rinviare le decisioni. Il non saper decidere è proprio degli stati e dei governi deboli, non dei forti, come ci ricorda il buon Machiavelli. A questo si aggiunge poi, come ulteriore elemento di debolezza, che chi di fatto determina la politica del Pd e del Pdl, i due maggiori partiti che sostengono il governo, sono il presidente Napolitano e Berlusconi. Nessuno dei due siede nell’esecutivo e dunque la compagine governativa governa sotto tutela.
Quanto all’autorevolezza, che in regime repubblicano dovrebbe essere più importante anche del numeri, essa consiste nella dedizione al bene comune, nell’integrità morale e nella saggezza. È fuori di dubbio che i ministri, del Pdl, Alfano in testa, hanno dimostrato negli anni grande dedizione, ma ad un uomo, non al bene comune. E gli altri hanno dato ampie prove di non voler contrastare il potere di Berlusconi. Abbiamo così un esecutivo composto da servi o da complici, l’esatto contrario di un buon governo.
In merito alla saggezza politica basti rilevare che affidare al Parlamento, e in particolare a questo Parlamento, una radicale riforma della Costituzione che è poi scrittura di una nuova Carta fondamentale, è opera che soltanto dei folli, altro che dei saggi, possono concepire.
ALTRETTANTO dolente è il tasto dell’opposizione. La nascita del governo Letta ha infatti causato alla Repubblica non uno ma due mali: un cattivo governo ed una povera opposizione. Fuori dalla maggioranza di governo stanno infatti o formazioni politiche numericamente esigue o gruppi di poca esperienza e di poco prestigio politico e intellettuale. Abbiamo così una maggioranza che, se fosse unita e coesa, potrebbe fare e disfare. Ma proprio il potere di fare e disfare con poca o nessuna opposizione parlamentare è sempre stato, con pochissime eccezioni, premessa di cattivo, non di buon governo. Ricordo ancora i comprensibili lamenti dei commentatori liberali al tempo del paventato compromesso storico fra Dc e Pci che avrebbe potuto dare vita ad un governo con una maggioranza di oltre il 70% dei seggi in Parlamento. Nessuno trova oggi qualcosa da eccepire nel caso del governo Letta? Mentre è ovviamente un male non avere un governo autorevole, è un bene che il governo Letta sia debole. Se fosse forte arrecherebbe alla Repubblica ulteriori irreparabili danni. Al suo interno la volontà più forte è infatti quella del Pdl, come si è visto nel caso dell’immonda decisione di chiudere il Parlamento il 30 luglio in ossequio alle vicende giudiziarie di Berlusconi, e dunque non si vede quale legge favorevole al bene comune potrebbe mai approvare.
Se la nostra classe politica, Presidente della Repubblica in primis fosse stata saggia non avrebbe mai fatto nascere questo governo. Ora c’è da augurarsi che un sussulto di dignità civile lo faccia cadere prima possibile.

Corriere 18.7.13
Salvate il soldato Matteo (da se stesso)
di Gian Antonio Stella
qui

Corriere 18.7.13
Question time Bersani solitario
Da solo, tra i banchi vuoti della Camera durante il question time : appariva così ieri Pier Luigi Bersani, 61 anni, leader del Partito democratico dal 2009 allo scorso aprile. Dopo le dimissioni dalla segreteria in seguito alla «non vittoria» alle Politiche, al fallito tentativo di formare un governo aprendo al M5S e alla spaccatura del partito durante il voto per la presidenza delle Repubblica, Bersani è rimasto nelle retrovie, esponendosi poco pubblicamente.
I «bersaniani» sono però accusati di manovrare per ostacolare la corsa di Matteo Renzi, già sconfitto alle primarie 2012, verso la guida del centrosinistra (foto Mauro Scrobogna / LaPresse )

Corriere 18.7.13
L'infanzia rapita: i ragazzini che si prostituiscono in strada a Napoli
Ogni notte la vergogna della tratta dei minori. E spunta anche un piccolo di sei anni
di Amalia De Simone
l’articolo e un video qui

Repubblica 18.7.13
Inchiesta. L’oro di Roma
I padroni di Roma criminale che governano la città
qui

La Stampa 18.7.13
Israele, giusto bloccare i nuovi insediamenti
di Abraham B. Yeoshua

Di recente sono stato invitato a un incontro con un ambasciatore di un importante Paese europeo, mio conoscente, che questo mese lascerà Israele dopo essere giunto al termine del suo mandato.
Di proposito non faccio il nome del Paese rappresentato dall’ambasciatore. Ciò di cui intendo parlare, infatti, non è direttamente connesso a questo o a quel diplomatico ma è comune a parecchi inviati delle nazioni europee.
Tra me e l’ambasciatore si è svolta una conversazione sui recenti sforzi del Segretario di Stato americano John Kerry di organizzare un incontro tra rappresentanti israeliani e palestinesi per una ripresa dei negoziati di pace. Io ho espresso pessimismo circa il successo di tali sforzi e la capacità dell’amministrazione Obama, al suo secondo e ultimo mandato, di imprimere una svolta reale all’attuale situazione di impasse. Per più di quarant’anni, ho detto all’ambasciatore, dal 1967 in poi, ho visto arrivare ministri degli Esteri americani animati da grandi speranze che però non sono riusciti a cambiare granché. Nonostante i loro tentativi, o quelli di inviati di altri Paesi, esperti di Medio Oriente e in particolare del conflitto israelo-palestinese, la costruzione di insediamenti israeliani nei territori occupati è proseguita e con essa il rischio di una futura creazione di uno Stato binazionale o di apartheid.
Ho ribadito quindi all’ambasciatore la mia convinzione (che ho avuto modo di esprimere in numerose occasioni) che gli Stati Uniti d’America non sono in grado di imporre a Israele un blocco totale della costruzione di insediamenti nei territori palestinesi a causa dei profondi legami emotivi tra i due Paesi. Perciò, ho concluso, solo l’Europa potrà farlo, e il fatto che la Comunità europea, e soprattutto i suoi maggiori rappresentanti – Francia, Regno Unito, Germania e Italia – se ne stiano a guardare senza far nulla è, secondo me, non solo un errore politico ma anche morale.
L’ambasciatore si è risentito, ha respinto questa accusa e non ha neppure accolto la mia affermazione che circa il settanta per cento degli israeliani disapprova gli insediamenti. Dopo vari anni di servizio diplomatico in Israele ritiene infatti che l’opposizione agli insediamenti non sia così ampia. Soprattutto, però, ha rifiutato la pretesa che l’Europa intervenga in maniera più aggressiva e determinata nel conflitto, in particolare riguardo alla questione degli insediamenti. «Questo è un vostro problema» ha sostenuto, «non nostro. Se non lo risolverete da soli non avrete di che lamentarvi. Noi non siamo tenuti a concludere la pace per voi. Quando voi e gli egiziani avete preso l’iniziativa nel 1979», ha sottolineato giustamente, «e siete giunti a un accordo di pace, non avete avuto bisogno di noi o degli Stati Uniti, che si sono limitati a dare gli ultimi ritocchi all’accordo e a convalidarlo. Lo stesso si può dire di Oslo. È stata un’iniziativa vostra e dei palestinesi. Noi abbiamo solo approvato e appoggiato l’intesa raggiunta».
L’ambasciatore ha dunque respinto qualunque obbligo (di certo di carattere morale) degli europei di intervenire in maniera più risoluta nel conflitto israelo-palestinese o di esercitare una maggiore pressione per fermare gli insediamenti.
Io ho replicato dicendo che di recente ho letto un interessantissimo libro di uno dei più autorevoli studiosi israeliani della Shoah, il professor Yehuda Bauer, intitolato «Il popolo impossibile». Nel libro il professore, basandosi su documenti, esegue un’approfondita analisi della folle ossessione di Hitler per gli ebrei e in particolare della sua assoluta certezza che gli ebrei stessero distruggendo la Germania e quindi dovessero essere annientati. Anche nel suo famoso testamento scritto nel bunker tre giorni prima del suicidio il Führer affermò che non erano stati i russi o gli americani a sconfiggere la Germania bensì gli ebrei. Erano stati loro a provocare la Seconda guerra mondiale e il conseguente orribile scenario di distruzione e di morte. Pertanto, dice Bauer, si potrebbe in un certo senso dedurre che le milioni di vittime non ebree durante la seconda guerra mondiale abbiano trovato la morte anche, e forse soprattutto, a causa del problema ebraico.
Sono certo che queste gravi affermazioni del prof. Bauer, che conosco personalmente, non hanno alcun intento provocatorio ma sono una ponderata conclusione scientifica e io le riporto non per tracciare superficiali analogie tra passato e presente (molte cose sono sostanzialmente cambiate da allora), ma per ricordare che ancora oggi in molti ambienti del mondo arabo, e non solo, circolano farneticanti teorie su presunte intenzioni di distruzione degli ebrei.
Duranti le recenti dimostrazioni in Egitto, denominate dai media «la seconda rivoluzione», in cui forze liberali e laiche si sono ribellate al governo dei Fratelli musulmani ho visto una cosa incredibile: i manifestanti brandivano una bandiera israeliana con al centro un enorme ritratto dell’odiato presidente Morsi. In altre parole forze che dovrebbero essere razionali associano il leader dei Fratelli musulmani agli ebrei e agli esecrati sionisti.
È vero, quella bandiera potrebbe essere un episodio marginale nella babele generale. Ma la storia ci ha insegnato che da una situazione di caos potrebbero nascere pericolosi e deliranti follie. E in un’epoca in cui non è escluso che armi di distruzione di massa cadano nelle mani di gruppi di fanatici e anarchici si dovrebbe per lo meno cercare di neutralizzare la vecchia mina del conflitto israelo-palestinese.
Alcuni saggi europei tra le due guerre mondiali riconobbero i rischi dell’antisemitismo e lottarono a favore del sionismo, ovvero della normalizzazione della situazione ebraica grazie all’emigrazione degli ebrei in un loro Stato indipendente. Sarebbe quindi giusto che anche oggi l’Europa ostacolasse l’eventuale creazione di uno Stato binazionale in Israele che perpetuerebbe questo infinito e pericoloso conflitto.
Non so se nella presente congiuntura esista la possibilità di arrivare a una pace tra Israele e l’Autorità palestinese. Di una cosa però sono certo: la costruzione di nuovi insediamenti israeliani nei territori palestinesi va fermata perché nello stato di cose attuale ogni giorno che passa una soluzione anche momentanea e parziale del conflitto tra i due popoli si fa più lontana.
L’Europa dunque, che per anni ha dominato i popoli del Medio Oriente ed è stata l’agghiacciante teatro della Shoah ebraica, è tenuta a contribuire moralmente alla soluzione di questo grave problema. Uno sforzo non troppo grande né arduo per le nazioni del vecchio continente.

La Stampa 18.7.13
“Il boicottaggio di Bruxelles? Lo pagheranno i palestinesi”
Nelle colonie ebraiche in Cisgiordania dove lavorano anche operai arabi
di Francesca Paci

«Se l’Europa ci boicotta noi chiudiamo ma se ne vanno anche gli operai palestinesi che lavorano qui» sentenzia Ofer Alter aggirandosi tra i macchinari della fabbrica di sanitari che dirige a Barkan, area industriale a ridosso dell’omonimo insediamento israeliano in Cisgiordania, a soli 25 km da Tel Aviv ma quasi tutti dentro l’incandescente linea verde lungo cui corrono i confini del ’67 e la disponibilità internazionale a mediare per la pace.
La determinazione di Bruxelles, che martedì ha escluso dai finanziamenti 2014 a Israele le società e le istituzioni operanti nei Territori occupati, rimbalza come un macigno qui dove 44 degli 85 operai provengono dai villaggi palestinesi (la proporzione nell’intera area è di 3 mila su 6 mila).
«Non m’interessa la politica, voglio solo mantenere i miei sei figli» spiega Yasser Shamlani che non ha smesso di timbrare il cartellino sei giorni alla settimana neppure quando, due anni fa, le autorità di Ramallah hanno lanciato il boicottaggio di Barkan. «La paga è buona» conferma il compagno Jamal, cercando con lo sguardo l’approvazione del compiaciuto direttore. Entrambi vengono da Fara’ata, nella vallata caldissima dominata dalla città palestinese di Nablus e dalla colonia irriducibile di Itamar, dove un mese fa il governo Netanyahu ha approvato la costruzione di 675 nuove case.
Barkan è la sintesi della dialettica tra due narrative inconciliabili che da tempo, con buona pace degli sforzi Usa, hanno iniziato a seppellire i negoziati.
«Il 12-15% dei nostri prodotti è destinato all’Europa, qualcosa va in Australia, Sudafrica, Turchia e il resto in Israele: non possiamo vendere ai palestinesi diversamente da quanto fanno loro» insiste Alter. Evita le motivazioni ideologiche e calca sull’economia: «I nostri operai palestinesi lavorano 8 ore al giorno e guadagnano almeno 4000 shekel al mese ( 850 euro) esattamente come gli israeliani, ma pagano le tasse a Ramallah dove la pressione fiscale è un quarto rispetto a Gerusalemme».
A sentirla così «la coesistenza» propagandata dal consigliere di Giudea e Samaria (come gli israeliani chiamano la Cisgiordania) Shay Attias sembrerebbe funzionare, al punto da rendere incomprensibile l’ostilità europea. Eppure basta smarcarsi dal tour e domandare all’operaio Hassan abu Ammar per capire che esiste almeno un’altra storia. «Un idillio? Questo? Meglio tacere» mormora mimando una pistola puntata alla tempia. È impiegato qui dal 1993 è c’è un solo punto su cui concorda con i datori di lavoro: il sogno di Oslo è svanito.
Ha un bel ripetere il volto occidentale del ministero degli Affari esteri Paul Hirschson che «la soluzione due popoli per due stati resta l’unica, sebbene la strada non sia lineare». Poco distante dalle fabbriche fiere dell’etichetta made in Giudea e Samaria, il capo del consiglio dei coloni Gershon Mesika, un estremista che poche settimane fa ha bacchettato la moderazione del premier Netanyahu in visita a Barkan, spiega che i guai sono cominciati proprio con Oslo e cita i 20mila palestinesi impiegati a costruire insediamenti ebraici in Cisgiordania: «Noi eravamo qui duemila anni fa e dunque i veri occupanti sono i palestinesi. Capisco che non l’accettino ma allora l’unico accordo possibile è sull’essere in disaccordo e averci forzato a concordare su Oslo è stato un errore di cui si pentono anche i palestinesi». Pare che lo sceicco radicale di Hebron Farid al-Jabari la pensi allo stesso modo.
«Faremo a meno di Bruxelles» tuona l’ex leader dei coloni Danny Dayan snobbando i 570 miliardi di euro di aiuti europei, mentre i pacifisti israeliani di Peace Now denunciano mille nuovi insediamenti. Da queste parti, dove l’eternità pesa più della storia, la minaccia di un visto d’ingresso per i coloni diretti nel vecchio continente viene liquidata con un’alzata di spalle.

l’Unità 18.7.13
Israele-Ue, scontro aperto sulle colonie
di Umberto De Giovannangeli

Convoca una riunione ministeriale d’urgenza. Sviluppa una frenetica «diplomazia del telefono» rivolta ad alcuni premier del Vecchio continente. Con un messaggio chiaro: no ai diktat europei. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu, non lascia spazio a dubbi riguardo la decisione dell’Unione europea di escludere da finanziamenti e gare di appalto le attività che hanno sede nelle colonie. «In quanto Primo Ministro d’Israele non permetterò mai che le centinaia di migliaia di cittadini israeliani residenti in Giudea e Samaria, sulle alture del Golan e a Gerusalemme possano essere messi in pericolo».
«NO AI DIKTAT»
La reazione di Netanyahu è arrivata al termine di una riunione ministeriale d’urgenza. «Non accetteremo nessun diktat esterno sui nostri confini», ha annunciato in conferenza stampa il premier. Non lascia spazio a interpretazioni neanche l’annuncio fatto da Bruxelles, che entro la settimana pubblicherà le linee guida che vieteranno i rapporti con enti israeliani collocati fuori dai confini del 1967: «L’Unione europea considera gli insediamenti israeliani illegali sotto il profilo del diritto internazionale e non riconosce la sovranità israeliana sui territori occupati». «Mi sarei aspettato da chi abbia a cuore la pace e la stabilità nella Regione che si dedicasse alla questione solo dopo aver risolto problemi regionali un po’ più urgenti», come la Siria, insiste un infuriato Netanyahu.
Il giorno dopo l’annuncio da parte dell’Ue del blocco dei finanziamenti alle istituzioni di Israele che operano nei territori occupati, Netanyahu ha parlato con alcuni primi ministri europei. Lo rende noto Mark Regev, portavoce del primo ministro, il quale non ha però dato dettagli a proposito delle telefonate di ieri. Tuttavia, stando ai media locali, Netanyahu ha invitato le sue controparti a rimandare la decisione. Il divieto ai finanziamenti si applica «alle donazioni, ai premi e agli strumenti finanziari» e le nuove regole sui fondi saranno effettive a partire dal 2014. La decisione dell’Ue, rimarca Netanyahu in un’intervista al domenicale tedesco Welt am Sonntag «rafforza la posizione palestinese e fa perdere a Israele la fiducia nella neutralità dell’Europa» riguardo al processo di pace con l’Anp.
Grande soddisfazione arriva, invece, da parte dell’Autorità Palestinese che si congratula con l’Europa per una decisione storica, a favore della pace. «Israele dovrebbe prestare attenzione e capire che l’occupazione non può continuare ignorando le responsabilità, guardando soltanto al proprio interesse» ha affermato Hanan Ashrawi, figura di primo piano della leadership palestinese. «Dopo tante parole dice l’Unione europea è passata adesso a decisioni politiche efficaci e a passi concreti che costituiscono un cambiamento qualitativo». Cambiamento, aggiunge «che avrà un impatto positivo sulle probabilità di pace».
BRUXELLES INCALZA
«Lo scopo delle nuove linee-guida è di fare una distinzione fra Israele e i territori occupati per quanto concerne il sostegno dell’Unione europea», precisa David Kriss, portavoce della delegazione Ue in Israele. «Al momento attuale entità israeliane beneficiano di sostegni finanziari e di cooperazione con la Ue e queste linee-guida sono state concepite allo scopo che ciò prosegua in futuro», spiega Kriss. «Al tempo stesso in Europa è stata espressa la preoccupazione che entità israeliane nei Territori occupati (illegali secondo la comunità internazionale, ndr) possano pure beneficiare di sostegni europei». Da qui la necessità di definire «limitazioni territoriali», esplicite ed inequivocabili.
Il movimento dei coloni ha replicato accusando l’Unione europea d’aver così assunto posizioni «unilaterali e discriminatorie» e di essersi allineata «con le richieste più estreme dei palestinesi». L’Ue così sentenziano i coloni «non può più essere considerata neutrale e obiettiva». «Non è una novità che molti Paesi al mondo considerino la Giudea-Samaria (la Cisgiordania, ndr) “Territori occupati” ed agiscono di conseguenza», osserva il ministro della Difesa, Moshe Yaalon. «Noi però abbiamo la nostra politica; continueremo ad agire in base a essa e ai nostri interessi», taglia corto Yaalon.

La Stampa 18.7.13
Sudafrica. La festa per un mito
Il mondo si ferma per celebrare la giornata di Mandela
Viaggio a Qunu dove è cresciuto l’ex presidente che oggi compie gli anni in ospedale I leader tribali: “Gli spiriti infuriati per le liti dei famigliari trattengono la sua anima”
di Paolo Mastrolilli

Di fronte all’ospedale di Pretoria dov’è ricoverato Mandela le bambine di una scuola appendono, accanto agli altri messaggi benauguranti, un manifesto con la scritta: «Tu hai toccato le nostre vite»

Gli spiriti sono risentiti, e si capisce. Non solo per la pioggia, che cade insistente sulle colline di questo lembo d’Africa dimenticato, ma anche per la pessima immagine che il clan dei Mandela sta dando al mondo. Nessuno ha più diritto di giudicarli della gente di Qunu, dove Madiba, è cresciuto e vorrebbe riposare in pace, quando mai sarà il momento. Questa, infatti, è la terra che lo ha modellato nel leader venerato ovunque.
Oggi Mandela compie 95 anni in ospedale, combattendo come sempre, e secondo la figlia Zindzi sta migliorando. È nato a Mvezo, quattro capanne circolari nell’allora Transkei, 900 chilometri a sud di Johannesburg. Il padre Gadla Henry Mphakanyiswa era capo tribale. Secondo la leggenda raccontata a Rolihlahla, vero nome di Nelson da bambino, il papà perse titolo e beni per l’ingiustizia di un magistrato bianco. Un membro della comunità aveva accusato Gadla di avergli sottratto un bue. Il giudice lo convocò per chiarire la questione, ma lui rifiutò di presentarsi, e per punizione fu espropriato. Altri raccontano che in realtà Gadla aveva preso il bue e cercò di difendersi. Nelson comunque fu costretto a lasciare Mvezo e andò a vivere con la madre, terza delle quattro mogli del padre, nel villaggio di Qunu, 30 chilometri più a Nord.
Mandela ha sempre descritto gli anni dell’infanzia come i più belli: «Dalla cella ha raccontato il biografo Anthony Sampson - scriveva in maniera vivida dello splendore delle colline e dei ruscelli, il piacere di nuotare nei laghetti, bere il latte dai mungitori, o mangiare il mais abbrustolito. Mandela ha sempre insistito nel definirsi un ragazzo di campagna, e con ragione, perché la sicurezza e la semplicità della sua educazione rurale hanno giocato un ruolo cruciale nel formarne la fiducia politica».
La madre l’aveva battezzato nella chiesa metodista, il padre aveva ottenuto che venisse educato dal suo amico Jongintaba, reggente dei Tembu. Così era cresciuto fra la scuola missionaria, dove la maestra gli aveva dato il nome inglese Nelson, e il «Great Place» di Mqhekezweni, dove la famiglia reale lo trattava come un figlio.
Lo spirito di Mandela non si è mai allontanato, e quando venne liberato costruì la sua casa a Qunu, disegnandola sulla pianta di quella del guardiano del carcere. La villa sta sul lato sinistro della statale N2, che porta a Mvezo. È modesta, circondata da un terreno brullo che sale sulla collina dove i parenti vorrebbero seppellire il patriarca. Dall’altro lato della strada c’è il cimitero di famiglia, un rettangolo di terra protetto da una rete metallica, dove semplici lapidi di pietra scura marcano i luoghi dove riposano il padre di Nelson e la madre. Per arrivarci non c’è nemmeno una via asfaltata, ma un sentiero accidentato, che passa davanti a casupole appena più solide delle capanne dove era cresciuto Mandela, con pecore e mucche che pascolano nei cortili.
Per Madiba, come avrebbe scelto di chiamarsi in età adulta usando il nome tribale, il legame con questa terra va oltre la nostalgia verso l’infanzia: «Guardava indietro con calore - ha scritto Sampson a quello spirito collettivo e al senso di responsabilità condivisa, prima che le influenze occidentali cominciassero ad introdurre la competizione e l’individualismo». Un’affinità filosofica col modo rurale di origine, incentrata sulla nozione di «ubuntu», cioè la fratellanza e la compassione umana. A questa idea si erano aggiunte le lezioni politiche imparate nei campi, dove il pastore recupera e persuade le pecore uscite dal gregge, e dove tutto si spiega col proverbio «Umuntu ngumuntu ngabantu»: una persona è tale solo grazie agli altri, e non può concludere nulla senza il loro sostegno. Ce lo conferma il nipote Mandla, un tempo il prediletto, scelto come capo di Mvezo: «Mio nonno ci raccontava le battaglie coi bastoni che combatteva con gli altri bambini, ma per spiegare come poi riusciva sempre a riconciliare tutti».
Proprio Mandla è finito al centro della disputa famigliare su dove seppellire il patriarca. Lui voleva portarlo a Mvezo: secondo la sua versione, per vendicare il bisnonno dell’ingiustizia subita dal giudice bianco; secondo la zia Makaziwe, perché così sperava di trasformare quelle quattro capanne in un’attrazione turistica. Infatti ha convinto il governo a spendere milioni di rand per costruire la strada che ora collega Mvezo alla statale, e per tirare su un albergo. Makaziwe però ha vinto, e quando verrà il momento il patriarca riposerà sulla collina davanti alla sua casa.
Tra queste strade ci accompagna un ragazzo di nome Jafta. È cresciuto a Qunu, ma ora studia informatica a Durban: «La nostra vita è segnata dai riti tribali. Non mangiamo mai quando in cielo fulmina, perché porta male. Se un cane ti morde, un antenato è risentito con te per qualche torto che hai commesso. Quindi devi ripensare ai tuoi ultimi atti e fare ammenda». Jafta non vive più così, ma non condanna la tradizione: «Non fate lo stesso anche voi cristiani? Magari in vita siete laici, ma quando si avvicina la morte chiedete aiuto a Maria». Così, oltre che con gli interessi economici per l’eredità, si spiega pure la disputa sulla sepoltura: «Noi aggiungiamo le superstizioni tribali alla religione. Molti Tembu si sono convertiti al cristianesimo. Però, quando si tratta di morire, riscopriamo i riti tribali insieme a quelli cristiani, perché alla fine non si sa mai».
Più offensiva, agli occhi della gente di Qunu, è la disputa tra i famigliari per i soldi di Mandela: Makaziwe ha persino fatto causa al padre, per togliere la gestione del patrimonio al suo avvocato storico George Bizos. «La provincia dell’Eastern Cape - dice Jafta - è rimasta la più povera del Sudafrica. Agricoltura e allevamento di sussistenza, case povere col tetto di lamiera, spesso senza elettricità e acqua. Poche scuole, niente turisti e parecchie malattie, a partire dall’Aids. Madiba è cresciuto qui e ci tiene nel cuore, ma non ha portato grandi ritorni per la gente locale».
Ci riuscirà dopo la morte, a colmare questa ultima lacuna? Un vecchio capo, che vuole restare anonimo, scrolla le spalle: «Gli spiriti erano risentiti per la disputa tra i famigliari, perciò non consentono all’anima di allontanarsi dal suo corpo. Sarebbe bello se staccassero Madiba dalle macchine dell’ospedale, e lo lasciassero tornare qui. Sarebbe bello se la sua leggenda sopravvivesse alla meschina gestione dei suoi ultimi giorni».

Corriere 18.7.13
Grecia, nuove misure di austerity: via 25 mila dipendenti pubblici entro l'anno
Il piano approvato dal parlamento con una maggioranza di misura. Migliaia di persone in strada a protestare
l’articolo con un video qui

Repubblica 18.7.13
La crisi kazaka scatenata dal caso Ablyazov riporta alla luce le figure di chi, nell’Urss e nell’impero ex sovietico, artisti, scrittori o oligarchi, è contro il regime
Dissidenti
Quell’opposizione solitaria da Stalin fino a Putin
di Paolo Garimberti

Negli anni Settanta i diversi gruppi talvolta collaboravano fra loro ma non riuscirono mai a dar vita a un fronte comune
Come sottolineano molti analisti, gli avversari di oggi sono stati spesso entusiastici compagni di viaggio dell’attuale presidente

Non c’è mai stato un dissenso sovietico nell’era della glaciazione brezneviana, seguita all’illusorio disgelo kruscioviano. Così come oggi non esiste un dissenso russo di fronte all’opaca restaurazione di Putin dopo il decennio di trasparenza (la «glasnost») di Gorbaciov e di anarchia di Eltsin. C’erano, al tempo dell’Urss e del suo universo concentrazionario chiamato Gulag (l’acronimo della Direzione generale dei campi reso metafora di oppressione da Aleksandr Solgenitsyn), dissensi diversi, non solo in senso numerico, ma soprattutto di tipologia. Talvolta colloquiavano tra loro, sporadicamente collaboravano e si sostenevano, senza mai riuscire ad avere un leader riconoscibile e riconosciuto, tantomeno a formare un partito (come accadde in Polonia con Solidarnosc). Il dissenso di oggi rispetto a quello del secolo scorso di cui non è neppure lontanamente parente, è meno catacombale, meno romantico, intriso di interessi economici conseguenti all’esplosione degli oligarchi. Ma resta, oggi come allora, una somma di individui senza una connessione sociale, culturale e neppure un programma.
Questa incapacità strutturale del dissenso di farsi opposizione e diventare così una vera alternativa al regime spiega perché tutto il travaglio politico cui abbiamo assistito dalla morte di Stalin in poi si sia svolto all’interno del partito unico, il Pcus, e delle sue filiazioni post-sovietiche, e in buona misura nelle segrete stanze dei servizi di sicurezza: la rottura di Krusciov con i fantasmi dello stalinismo e il suo rozzo tentativo di liberalizzare la cultura, il ripristino dell’ortodossia comunista e della disciplina ideologica da parte della trojka Breznev-Podgornyj-Kossighin, le brevi (e un po’ sottovalutate) parentesi di Andropov e Cernenko, la lucida rivoluzione, ma sempre dentro le mura del Cremlino, della «perestrojka» di Gorbaciov, e quella confusa, forse eterodiretta, di Eltsin, per finire con la controrivoluzione di Putin.
A sessant’anni dalla fine anagrafica dello stalinismo non c’è ancora stato a Mosca un leader che non sia uscito dal Pcus. E lo stesso vale per buona parte delle ex repubbliche sovietiche, soprattutto quelle asiatiche, dove i satrapi comunisti dell’epoca brezneviana hanno creato delle dinastie, dagli Aliev in Azerbaigian ai Nazarbaev in Kazakhstan, nelle cui bandiere le trivelle petrolifere hanno preso il posto della falce e del martello. Il dissenso sovietico,velleitario, disaggregato, rissoso, talvolta opportunista ha le sue colpe, che quello russo ha in gran parte ereditato, mantenendo inalterato quel carattere di testimonianza piuttosto che di proposta, che è il contrario della politica.
Prendendo a prestito il titolo di un libro di Solgenitsyn, ispirato dall’Inferno dantesco (Il primo cerchio,del 1968), il dissenso sovietico può essere diviso in quattro cerchi, che solo occasionalmente si intersecavano e soprattutto non riuscivano mai a fare massa, e neppure a creare opinione.
Il primo cerchio, quello che si potrebbe chiamare il «dissenso di strada», era il più visibile, il più coraggioso e proprio per questo il più perseguitato. Le sue bandiere era Andrej Amalrik, Piotr Jakir, Vladimir Bukovskij, Piotr Grigorienko, Pavel Litvinov: gente che andava in piazza, si infilava di soppiatto nelle redazioni sorvegliatissime delle agenzie di stampa occidentali, distribuiva samizdat e finiva prima o poi nel Gulag. Secondo un famoso saggio di Abraham Brumberg, pubblicato daForeign Affairsnel 1974, il «dissenso di strada» nasce nell’ottobre del 1967 quandoLitvinov fece circolare il discorso che Bukovskij aveva pronunciato mentre veniva processato per una manifestazione contro l’arresto degli autori di un «libro bianco» sul processo Sinjavskij-Daniel (i due scrittori la cui condanna, nel 1966, aveva segnato per molti storici la fine del disgelo krusceviano).
L’anno dopo, sotto l’influsso della Primavera di Praga, uscì «sotto i mantelli», come si diceva con un eufemismo della clandestinità, il primo numero della «Cronaca degli avvenimenti correnti», il bollettino del dissenso sovietico che riuscì a essere stampato per circa due anni. E cominciarono ad attivarsi anche gli altri cerchi. Il «dissenso scientifico» da Zhores Medvedev, fratello dello storico Roy, a Andrej Sakharov, che si unì a Valerij Chalidze e Andrej Tverdokhlebov per costituire un «Comitato per i diritti umani». Il «dissenso letterario », che trovò in Aleksandr Solgenitsyn, perseguitato dopo l’assegnazione del Nobel nel 1970, l’erede ideale di Sinjavskij e Daniel. Il «dissenso artistico», che ebbe nel grande violoncellista Rostropovic una bandiera riconosciuta e amata perfino dalla gente oltre che dai suoi colleghi (nel dicembre del 1970 riuscì a convincere Richter e Ojstrakh a cancellare un’esecuzione delConcerto triplodi Beethoven per protestare contro la persecuzione di Solgenitsyn).
Fu quel 1970 l’anno d’oro del dissenso sovietico, quando i quattro cerchi sembrarono poter diventare un unico girone minaccioso per il regime. Tanto che per la prima (e unica) volta laPravda,organo ufficiale del Pcus, sdoganò la parola «dissidenty» in un articolo dal titolo «La miseria dell’anticomunismo »: per denunciare quei «babbei, venduti, farabutti e schizofrenici», che frequentavano le case dei corrispondenti occidentali. Ma le speranze che i vari dissensi diventassero un’unica opposizione svanirono rapidamente. L’arresto e la confessione di Piotr Jakir, nel 1972, fece saltare la fragile struttura del «dissenso di strada» e dei samizdat. Le espulsioni massicce (da Solgenitsyn a Rostropovic, da Amalrik a Bukov-skij) svuotarono le anime dei dissidenti, creando una seconda grande emigrazione russa in Occidente dopo quella che seguita all’avvento dei bolscevichi al potere. Il Nobel per la pace a Sakharov, nel 1975, fu il riconoscimento tardivo di un Occidente sempre poco ricettivo alle richieste di aiuto dei «dissidenty». E il suo esilio interno a Gorkij, decretato nel 1980 da un Breznev ormai decrepito, segnarono la fine di quello che restava del movimento per i diritti civili in Urss.
Trent’anni dopo, nella Russia diPutin cambiano i fattori, ma non il risultato politico. Perché l’Urss è morta, ma il Pcus continua a governare. Un leader che si è ripreso il Cremlino quando ha voluto, dopo averlo temporaneamente ceduto a una sua creatura, combatte il dissenso con processi, accuse spesso fabbricate (come quella contro Aleksei Navalny), sentenze abnormi (il carcere siberiano degno del Gulag per l’ex petroliere Khodorkovskij), o addirittura postume (l’avvocato Magnitsky, morto nel 2009 e processato nel 2013). Oppure con l’emigrazione forzata, una sorta di terza grande ondata, dopo quella dei primi anni Venti o degli anni Settanta, con la differenza che allora la meta era artistica e romantica (la Parigi bohémienne), oggi è pragmatica e finanziaria (la Londra della City).
Ma proprio la scelta dei «migranti involontari» sottolinea la grande diversità tra i dissidenti sovietici dell’epoca brezneviana e quelli russi dell’era putiniana. Come ha scritto sulNew York Timesun fine analista russo, Vadim Nikitin, «a parte l’attivista anti-corruzione Aleksej Navalny e poche altre eccezioni, come il leader della sinistra Sergei Udaltsov, molte delle vittime di alto profilo delle purghe di Putin sono state sue entusiastiche compagne di viaggio o addirittura hanno reso possibile il regime». Di oligarchi miliardari diventati oppositori è in effetti piena la cronaca anche tragica del nuovo «dissenso» russo: dallo stesso Khodorkovskij a Berezovskij (morto misteriosamente a Londra di recente). E lo stesso accade nelle ex repubbliche sovietiche governate da vecchi membri del Pcus, alleati di Putin: Mukhtar Ablyazov, il dissidente kazako al centro della bufera politica italiana, è stato un sodale di Nazarbaev, prima di diventarne un fiero oppositore. Ed è anche questa estraneità all’uomo della strada la ragione per la quale i dissidenti di oggi, ancor più di quelli di trent’anni fa, non riescono ad avere credibilità per il popolo russo, immerso nella sua indifferenza politica, che rimane immutata nei secoli e nei regimi.

Repubblica 17.8.13
Le tappe
I paesi asiatici un tempo sotto Mosca sono ora dominati da tirannie
Gli ultimi satrapi della repubblica
di Fiammetta Cocurnia

Pugno di ferro. Repressioni sanguinose. E poi corruzione e culto grottesco della personalità. Non solo il Kazakhstan di Nazarbaev: anche Turkmenistan, Uzbekistan e Tagikistan sono retti da dinastie autoritarie fondate sul terrore

Nursultan Nazarbaev, classe 1940, era primo segretario del partito comunista kazako da meno di due anni quando crollò l’Urss. Era il tempo in cui tutta Mosca veniva sedotta da un testo di Aleksandr Solgenitsyn, Come riorganizzare la Russia, in cui era teorizzata la necessità di liberarsi del gravame delle Repubbliche asiatiche. Però Nazarbaev fu leale fino all’ultimo all’Urss e a Gorbaciov, e alla testa di un paese grande all’incirca come l’Europa e con soli 16 milioni di abitanti, dichiarò l’indipendenza e si proclamò primo presidente del Kazakhstan solo quando Boris Eltsin sancì la morte dell’impero.
Complice l’immensa ricchezza energetica (e le ciclopiche tangenti connesse) che fa gola un po’ a tutto il mondo, Nazarbaev è sempre stato definito un «dittatore illuminato» o anche «il meglio del mazzo», intendendo il gruppo dei quattro satrapi che guidano con pugno di ferro, repressioni sanguinose, corruzione familistica e caricaturale culto della personalità i quattro stati dell’Asia centrale nati sulle rovine dell’Urss. Escluso il Kirgizistan, che da anni si dibatte tra golpe, guerre civili e un problematicopassaggio verso la democrazia. Negli oltre vent’anni del suo sultanato, Nazarbaev ha fatto di necessità virtù. Il suo motto è: «Prima l’economia, poi la democrazia ». Ha fatto costruire una faraonica capitale, Astana, nel cuore della steppa a cui, si dice, medita di dare il suo nome. Lì c’è il palazzo Ak Orda, simile alla Casa Bianca, ma molto più grande; una piramide che s’illumina con quattro colori diversi; e la moschea Nur Astana, pensata per cinquemila fedeli. Manifesti con il volto del leader sono ovunque. Un dipinto all’ingresso del palazzo Ak Orda ritrae il presidente circondato da una folla in festa. Si chiama «Il sogno», e tra chi lo applaude si intravede il volto di Nicolas Sarkozy, quello di Berlusconi, poi Putin, Medvedev e Eltsin.
I suoi deputati lo adorano e continuano a proporre leggi per attribuirgli cariche che lui rifiuta. Alle ultime elezioni ha preso oltre il 95 per cento dei voti. Questo sebbene circa un anno e mezzo fa a Zhanaozen la polizia aprì il fuoco contro gli operai del settore petrolifero, licenziati sette mesi prima: 16 morti, ufficialmente. E sebbene lo scorso anno sia stato tutto segnato da repressioni contro quelli che cercavano spiegazioni alla tragedia di Zhanaozen, finché i media più audaci sono stati dichiarati «estremisti» e la loro attività sospesa.
Ma che volete che sia, di fronte alle gesta di Gurbanguly Berdymukhammedov (1957), leader indiscusso del Turkmenistan. Il culto della personalità che è riuscito a instaurare sfiora la follia e può competere solo con quello del suo predecessore Saparmurat Nijazov, che aveva cambiato i nomi dei giorni e dei mesi con quelli dei suoi familiari. Con la rielezione del suo erede è iniziata l’era «della suprema felicità dello Stato stabile»; all’inaugurazione di un ospedale nella capitale, Ashgabat, lui, che faceva il dentista, per la gioia del paziente ha deciso di operare in prima persona, al posto del chirurgo. Tanto, chi oserebbe dire nulla, vista la repressione ottusa del regime.
A ogni Stato il suo satrapo. E si fa proprio fatica a dire chi sia il peggiore. L’uzbeko Islam Karimov (1938) è un dittatore riservato. Eppure il suo regime è tutto all’insegna di paranoia, familismo, corruzione e, se è il caso, tortura crudele. Si era pensato che volesse lasciare il suo posto all’amata figlia-ambasciatrice-cantante Gulnara, ma un suo ex collaboratore fuggito in Russia ha raccontato che questo pensiero è sfumato: mai la donna potrebbe avere astuzia, durezza e ferocia sufficiente per salvare la pelle. A parte gli stretti alleati, che per quanto riccamente oliati, perseguibili e ricattabili, non sono mai abbastanza affidabili, il pallino di Karimov è il terrore dell’Islam radicale: solo accennare a problemi religiosi può causare arresti e maltrattamenti. Fare politica attraverso movimenti islamisti scatena persecuzione sicura e porta alla prigione di Jaslyk, dove si sarebbero eseguite atroci torture. Si parla di prigionieri immersi in olio o acqua bollente fino alla morte. Ma siccome sono paesi segreti e sconosciuti, dove tutto si consuma lontano da occhi indiscreti, solo gli uzbeki sanno la verità. E loro sanno bene che cosa accadde a Andijon nel maggio 2005, quando le forze di sicurezza repressero nel sangue una manifestazione per la liberazione di alcuni uomini d’affari accusati di far parte di un movimento islamico. Furono massacrati a centinaia, c’è chi dice a migliaia. Così da Tashkent a Samarcanda a Bukhara, i centri del potere sono circondati da strade in cemento a cinque o sei corsie, antibarricata. Molto adatte ai blindati. Di fronte a tali titani, impallidisce il tagiko Emomalii Rahmon (1952). Mediocre satrapo che regna dal ’92 senza grandezza neppure nel male. Solo un “normale” e crescente autoritarismo, culto della personalità, un Paese strangolato dalla corruzione e una gestione dell’economia a esclusivo vantaggio suo e dei suoi accoliti. La tortura è molto diffusa nelle carceri tagike, ma anche questo è “normale”.

La Stampa 18.7.13
Egitto, archeologi in rivolta contro il ritorno dell’ex ministro delle Antichità

Non è piaciuto a molti, nel mondo egiziano della cultura, il ritorno di Mohamed Ibrahim al ministero delle Antichità nel nuovo governo di Hazem El-Beblawi. Archeologi e dipendenti del ministero minacciano scioperi. Una protesta nella protesta in un Egitto segnato dalla crisi. Nella sua carriera ministeriale, iniziata nel 2012 con Ganzouri, Ibrahim è rimasto lontano dal dicastero solo per poco tempo, da quando con il rimpasto del 7 maggio era stato sostituito da Ahmed Eissa. Secondo il giornale egiziano Ahram online, il ritorno di Ibrahim è la conseguenza del rifiuto di salire alla guida del ministero che Beblawi avrebbe incassato da Raafat El-Nabarawi, ex preside della facoltà di Archeologia dell’Università del Cairo. Ora i dipendenti del ministero minacciano di incrociare le braccia e di organizzare un sit-in davanti agli uffici, nel distretto di Zamalek al Cairo, per bloccare l’ingresso di Ibrahim. Per Ahmed Shehab, dell’Archaeologists Human Rights Care Association, il ministro è colpevole di non aver ascoltato le richieste dei dipendenti, di non essersi impegnato contro la corruzione e di aver consentito un peggioramento delle condizioni del patrimonio egiziano.

Corriere 18.7.13
Museo con Quarantamila Pezzi falsi Sintomo della Malattia cinese
di Guido Santevecchi

Sembrava un esempio virtuoso di recupero del patrimonio culturale della Cina imperiale, spesso cancellato senza pietà per far posto ai grattacieli della Cina moderna. Un bel museo costruito in un villaggio dello Hebei, provincia a Nord di Pechino. Un villaggio di soli 1.500 abitanti ma con una collezione di 40 mila reperti provenienti dalle dinastie imperiali, raccolti in 12 grandi sale. Il più antico risalente a quattromila anni fa. Peccato che i tesori dell'arte fossero rigorosamente falsi.
Lo ha scoperto un romanziere di Pechino capitato in quel villaggio, Erpu, difficile da trovare sulla carta geografica. Ammirando uno dei pezzi forti, lo scrittore si è accorto che qualcosa non quadrava. La didascalia davanti alla bacheca annunciava: «Vaso datato all'epoca del mitico Imperatore Giallo», che avrebbe regnato sulla Cina millenni prima di Cristo. Il suo nome era inciso sul prezioso oggetto: peccato che fosse stato scritto in caratteri cinesi semplificati, introdotti solo nell'anno 1950. E ancora, un pezzo spacciato per pura dinastia Qing, guardato con attenzione ha rivelato decorazioni tratte da una serie tv di cartoni animati. L'elenco prosegue.
Le autorità provinciali hanno chiuso il museo dei falsi. Che era stato aperto nel 2010, per iniziativa del segretario del partito comunista locale, Wang Zhongquan. Costo dell'edificio su quattro piani 88 milioni di dollari. Si è saputo che Wang si era occupato anche dell'acquisto dei reperti, pagandoli tra i 12 e i 240 euro l'uno. Doveva essergli chiaro che opere di quattromila anni fa non potevano costare così poco. Eppure il signor Wang insiste che «solo gli dei possono dire con certezza se qualcosa è vero o falso». E un suo collaboratore assicura che «almeno 80 dei nostri 40 mila oggetti sono sicuramente autentici».
Un aspetto positivo questa storiella che nasconde truffe e corruzione (qualcuno in paese sospetta anche riciclaggio di denaro sporco) però ce l'ha: è stata denunciata da un cittadino cinese e raccontata dai giornali cinesi.

Sessant’anni fa Sigmund Freud scriveva all’amico e biografo Ernest Jones: «La vera domanda alla quale nessuno ha risposto, e alla quale io stesso non so dare una risposta nonostante i miei trent’anni di ricerca nell’animo femminile è: cosa vogliono le donne?»
Repubblica 18.7.13
Daniel Bergner ha raccolto in “What Do Women Want?” gli ultimi studi sul piacere senza tabù e vecchi cliché. Scatenando le polemiche
Il sesso delle donne
“Il desiderio femminile è come quello dei maschi”
di Elena Stancanelli

Contrordine: non solo il desiderio femminile esiste, ma è potente almeno quanto quello maschile, non ha una propensione monogamica e, pensa un po’, non è neanche legato all’istinto riproduttivo. Non somiglia per niente a un languore romantico, non necessita di una storia intorno. Esattamente come sapevamo che accade agli uomini e agli altri animali, le donne desiderano punto e basta. Cosa? Sesso. Sono mesi che si gira intorno alla faccenda, le classifiche dei libri sono piene di romanzetti rosa virati hard, che esplorano voglie e vogliette, vizi e vizietti. Persino l’ultimo film di Lars Von Trier, Nymphomaniac (di cui cominciano a girare adesso alcuni spezzoni) ha per protagonista una donna che si concede del tutto al proprio desiderio sessuale, testandone i confini e le implicazioni. Protagonista Charlotte Gainsbourg, a dimostrazione che, forse anche più che per gli uomini, le donne considerano ormai il sesso esplicito un territorio non più proibito, quasi mainstream.
Sessant’anni fa Sigmund Freud scriveva all’amico e biografo Ernest Jones: «La vera domanda alla quale nessuno ha risposto, e alla quale io stesso non so dare una risposta nonostante i miei trent’anni di ricerca nell’animo femminile è: cosa vogliono le donne?». Sessant’anni dopo Daniel Bergner — giornalista delNew York Times, già autore di un saggio sulle parafilie,
Il lato oscuro del desiderio— risponde con un libro intitolato appunto What Do Women Want?, che uscirà in Italia, tra qualche mese, per Einaudi Stile libero (come il precedente). E contiene interviste a donne normali, ricerche sugli animali, teorie di psichiatri, scienziate, terapiste sessuali. Gli studi sul desiderio femminile sono in ritardo. Quando sono nate le scienze legate alla sessualità, si è dato per scontato che ci si dovesse occupare di disfunzioni/preoccupazioni/meraviglie dell’organo e dell’orgasmo maschile. Anche soltanto perché entrambi garantiscono la conservazione della specie. E quando Galeno sostenne, nel II secolo d. C., che senza il piacere femminile, mediante il quale immaginava che fosse rilasciato l’uovo da fecondare, non era data appunto fecondazione, fece assai peggio alle donne di quanto una teoria del genere farebbe presupporre.
Secondo Bergner infatti, l’idea imposta dal medico greco che i genitali femminili fossero uguali a quelli maschili ma nascosti e un po’ meno funzionali, ha condizionato la nostra visione del piacere. Questa genitalità femminile oscura e goffa, ha imposto per secoli l’idea che l’orgasmo delle donne, e quindi il desiderio, fossero una robetta insignificante, e soprattutto racchiusa in un istante e in un unico e impervio luogo: la vagina, appunto. Il primo passo per rivalutare instensità e potenza del piacere femminile è stato quindi allargare la zona preposta a un altro paio di robette là intorno, che, ben allertate, garantiscono un gran sollazzo. Tra queste il celeberrimo punto G, scoperto nel 1600 da un medico olandese, ma descritto per la prima volta nel 1950 da Ernst Grafenberg, ginecologo tedesco.
Il primo capitolo del libro di Bergner, uno dei motivi per cui all’uscita negli Stati Uniti e poi in Inghilterra si è scatenato un putiferio, si intitola “animali”. E non soltanto perché le protagoniste degli esperimenti di Meredith Chivers, dell’Università di Ontario, sono le scimmie. Chivers ha studiato a lungo, e raccontato in un documentario, una particolare razza di scimmie chiamate Bonobo, note al mondo per due motivi: la mitezza e la libertà dei costumi sessuali. Le Bonobo fanno sesso continuamente, e quindi soltanto in rari casi per riprodursi, in tutte le combinazioni possibili: maschi, femmine, adulti, anziani, giovani... Ma gli animali che danno il titolo al capitolo non sono le scimmie, bensì le femmine della nostra specie. Selezionate alcune volontarie (etero e omosessuali) la professoressa le prepara applicando nella loro vagina un apparecchietto, “plethysmographry”, che registri turbamenti e movimenti. Poi mostra loro una serie di video pornografici, etero, lesbo e gay — e tra questi anche il documentario che illustra gli allegri accoppiamenti delle scimmie Bonobo. Quindi chiede, alle donne non alle Bonobo, di raccontare che cosa hanno sentito durante la visione, se abbiamo provato eccitazione e per cosa.
Collazionando i risultati ottenuti dalla macchinetta con quanto dichiarato, Meredith Chivers ha scoperto che le donne mentono, mentono moltissimo. Che il loro livello di eccitazione è molto più alto di quello che riescono ad ammettere. Cosa che non accade quando ripete lo stesso esperimento coi maschi. Ne deduce che negli uomini il cervello e i genitali stanno dalla stessa parte, sono alleati, nelle donne spesso no. Cioè le donne si vergognano di quello che provano, o peggio neanche se ne accorgono, talmente sono vincolate a quello che pensano dovrebbero provare. Quindi: il desiderio femminile esiste, è potente animale e vivissimo, ma società e cultura lo osteggiano con forza. Le nostre strutture politiche e di convivenza sono fondate su quel minimo di ordine garantito dalla famiglia, la quale, da un certo punto in poi, ha avuto bisogno di trasformarsi da vincolo utilitario a consesso basato sull’amore.
È lì che, spiega Bergner, ci siamo dovuti inventare un paio di bugie cruciali: che le donne desiderano tutta la vita lo stesso maschio (nonostante la natura gridi il contrario) e che l’unico momento in cui desiderano accoppiarsi è durante il periodo fertile. Qualche anno fa, racconta ancora Bergner, la dottoressa Marta Meana dell’Università del Nevada pubblicò un lungo articolo a proposito delle “fantasie di stupro” o di sottomissione, o di sospensione della volontà. È difficile, spiega la dottoressa, trovare un’espressione che tenga conto del risultato dei miei colloqui, senza offendere nessuno. Alcune donne, spiega, ritennero allora insopportabile l’immagine che lei aveva proposto come esercizio: una donna di spalle, in un vicolo scuro, un uomo che la prende da dietro, uno sconosciuto. Eppure intorno a quella scena si agita, spesso, il desiderio femminile. Altro che monogamia, altro che riproduzione: sottomissione, cinquanta sfumature di qualsiasi cosa. Un po’ di rischio, la possibilità di non dover scegliere e tanto, tanto testosterone. Di questo si compone il nostro desiderio, il desiderio di uomini e donne. Purtroppo, quando la biochimica si inceppa, la faccenda delle donne si fa più complicata. Un Viagra femminile lo stanno ancora sperimentando. Ma già possiamo dire che in ogni caso si tratterà di un bel frullato di testosterone, dopamina, serotonina... cose così. Non un documentariosul Principe Azzurro.

IL SAGGIO: What Do Women Want? di Daniel Bergner (Ecco Pr, pagg. 205 euro 15,80) sarà tradotto in Italia da Einaudi Stile libero
nell’immagine: Tamara de Lempicka: Irene and her sisters (1925)

Corriere 18.7.13
19 luglio 1943: 4 mila bombe su Roma
La città ricorda i 70 anni di San Lorenzo
Durante il bombardamento ci furono 3 mila morti e 11 mila feriti. Da giovedì a domenica, convegni concerti ed esposizioni

l’articolo, con un video dell’epoca qui