sabato 7 giugno 2014

Repubblica 7.6.14
Una proposta per il Senato
di Stefano Rodotà


VI È un confortante dato di realtà che non dovrebbe essere trascurato da chi ancora ritiene che una riforma costituzionale sia cosa seria e impegnativa, dunque l’opposto di un uso congiunturale delle istituzioni. Lo spirito critico con il quale sono state valutate le proposte del Governo, che qualcuno aveva respinto come una indebita intromissione accademica nell’orto chiuso della politica, ha prodotto un frutto inatteso: una discussione diffusa, non riducibile a opinioni di parte, grazie alla quale si sono accumulati materiali che mostrano vie percorribili da ogni innovatore fedele ai principi della democrazia. Il tempo delle riforme costituzionali ha una sua caratteristica propria.
NON la deprecata lentezza, ma il bisogno della riflessione e della ponderazione. Perché, altrimenti, sarebbe prevista una procedura di doppia deliberazione delle Camere con un intervallo temporale di almeno tre mesi tra l’una e l’altra, con un prolungamento verso un referendum popolare confermativo qualora l’approvazione definitiva non raccolga la maggioranza dei due terzi? Dialogo parlamentare vero, allora, e occhio a ciò che proviene dall’opinione pubblica.
Molte riforme possono essere considerate all’insegna dello shortcut, termine del mondo dei computer, approdato nella discussione sociale e politica per indicare la ricerca di “scorciatoie”. Ma queste non si addicono a un cambiamento costituzionale destinato a incidere sulla forma di Stato e di governo, come mostra la cattiva esperienza delle riforme approvate all’insegna della fretta, come quella del titolo V della Costituzione che giustamente ora si vuole modificare.
Il primo problema riguarda l’impossibilità di considerare la proposta del Governo fuori della sua globalità - Non si possono disconnettere i diversi momenti di riforma del sistema parlamentare, modificando la legge elettorale della Camera e lasciando nel limbo quella del Senato e considerando quest’ultimo fuori degli equilibri costituzionali. Poiché al centro della proposta governativa è la Camera, da qui bisogna partire.
Il modello Italicum avrebbe potuto essere sostituito da altri, ma questa scelta è stata preclusa dai contraenti dell’oscuro patto del Nazareno. Ma quel testo deve essere rispettoso dei principi posti dalla Corte costituzionale con la sentenza che ha cancellato il Porcellum, in primo luogo il principio di rappresentanza. La inammissibile logica ipermaggioritaria adottata lo contraddice. Si ha qualche segno di ripensamento rispetto alle soglie previste, alzando al 40% quella che esclude il ballottaggio tra le due prime coalizioni e facendo scendere quella prevista per i partiti in coalizione. Mossa, quest’ultima, congiunturale, perché sembra una assicurazione di sopravvivenza offerta a Ncd e Sel perché entrino, rispettivamente, nella coalizione di centrodestra e di centrosinistra. Ma, riconosciuta questa distorsione, rimane intoccata quella che pone all’8% la soglia per l’ingresso alla Camera dei partiti che si presentano da soli. Una mossa di chiusura al nuovo, che scoraggia le dinamiche politiche, e così non contempla il futuro e confina nella società innovazione e conflitto, con rischi di incostituzionalità e delegittimazione della rappresentanza politica. Altrettanto conservatrice è la scelta di arroccarsi sul passato per il diritto degli elettori di scegliere i loro rappresentanti. Il risultato è la separazione tra istituzioni e cittadini.
Questo allontanarsi dal principio di base indicato dalla Corte fa rischiare l’uscita dalla democrazia rappresentativa e l’approdo a una democrazia dell’investitura e della ratifica. Se il voto serve solo a scegliere il Governo, e questo diviene poi padrone della Camera alla quale può essere imposto di ratificare ogni suo provvedimento, il bilanciamento dei poteri è infranto, gli equilibri costituzionali saltano. Qui bisogna intervenire, e da qui nasce l’obbligo di guardare al Senato come istituzione che contribuisca a restaurare un equilibrio altrimenti perduto.
Escluso che il Senato voti la fiducia al Governo e la legge di bilancio, non si possono evocare esigenze di governabilità e si deve entrare nella diversa logica dei controlli e delle garanzie, una volta abbandonato il bicameralismo perfetto. È necessario un suo ruolo paritario per le leggi costituzionali e l’elezione del Presidente della Repubblica, dei giudici costituzionali, del Consiglio superiore della magistratura. Vi sono ragioni perché al Senato sia attribuito il potere d’inchiesta, di dare parere vincolante su determinate nomine, di valutare autorizzazioni a procedere e all’arresto, di risolvere questioni su conflitti d’interesse e eleggibilità dei parlamentari. Tutte materie da sottrarre alla logica maggioritaria, come deve accadere per i diritti fondamentali. Tema da affrontare sia prevedendo in generale (quindi anche per la Camera) maggioranze qualificate quando si voglia intervenire su di essi; sia prevedendo per il Senato di intervenire in modo paritario nel procedimento legislativo. Il Senato come garanzia del futuro.
In questo modo il Senato uscirebbe dall’irrilevanza alla quale lo condanna il testo del Governo e, per la partecipazione alla legislazione, si abbandonerebbe il gioco dell’oca al quale viene condannato, con un eterno ritorno alla casella di partenza, visto che il potere sarebbe saldissimo nelle mani della maggioranza della Camera. Le funzioni del Senato sono compatibili con l’elezione diretta dei suoi componenti e pure con il metodo proporzionale, non solo per differenziarlo dalla Camera, ma perché le funzioni di garanzia non coincidono con la logica puramente maggioritaria. Senza una preventiva individuazione delle competenze è futile la discussione sulle modalità di elezione, che approda a proposte come quella francese, già vecchia nel paese d’origine. E per i costi, tanto enfatizzati, i risparmi possono venire da una bilanciata riduzione del numero dei parlamentari e della loro indennità.
Questi suggerimenti danno indicazioni per approdare a un modello innovativo. Vi sono le condizioni politiche e culturali per farlo? Non lo so, ma credo fermamente che bisogna lavorare come se fosse possibile crearle. E l’innovazione sarebbe monca, e il segno conservatore rimarrebbe, se la democrazia rappresentativa non venisse integrata con quella partecipativa, come indica il Trattato di Lisbona. Nuova disciplina delle iniziative legislative popolari, forme di intervento dei cittadini, a esempio con referendum propositivi, uso dei media civici costituiscono la gamba di cui una democrazia azzoppata ha bisogno per non declinare in democrazia plebiscitaria.

Corriere 7.6.14
La carta Mattarellum per sbloccare la riforma e lo stallo sul Senato
Pd in cerca di una mediazione per avere il sì degli azzurri
di Maria Teresa Meli


ROMA - Vedersi si vedranno. Prima o poi. Perché in questo momento non è tra le priorità di Renzi un incontro con Berlusconi per rimettere a punto per l’ennesima volta il patto del Nazareno sulla riforma del Senato. E non perché il presidente del Consiglio non si renda conto che «fare una legge costituzionale a larga maggioranza sia il metodo migliore». Su questo ha convenuto con Napolitano più di una volta. Piuttosto, perché ora le urgenze sono altre. 
Il premier ha diversi impegni internazionali, un consiglio dei ministri importante, un’assemblea nazionale del suo partito in cui verranno decisi i nuovi organigrammi del Pd, mentre l’ex Cavaliere non può muoversi da Milano come e quando vuole. E, comunque, stando agli ultimi sondaggi che sono arrivati sulla scrivania di Renzi al primo posto, nell’interesse degli italiani, c’è il problema del lavoro, al secondo, la questione giovanile. Due temi che, inevitabilmente, si fondono insieme, visto che il livello di disoccupazione tra gli under 35 è altissimo nel nostro Paese. Di più. In una certa fascia d’elettorato l’interesse sulla riforma del Senato è piuttosto basso, in alcuni casi sfiora il 4 per cento. Certo si alza - e notevolmente - quando si tratta di cittadini che votano per il centrosinistra o per il Movimento cinquestelle. 
Tutto ciò non significa, però, che il presidente del Consiglio abbia cambiato idea, che non sia fermamente «determinato» a portare a casa «entro luglio» quelle «riforme istituzionali», almeno in prima lettura, al Senato. Ma sa che per raggiungere questo obiettivo dovrà trattare nuovamente con Forza Italia sulla legge elettorale. Perché è chiaro che, dopo l’esito del voto delle europee, l’Italicum, così come era stato concepito nel patto del Nazareno, non va più bene a Berlusconi: «Per noi sarebbe un massacro». E allora a questo punto Renzi, da politico pragmatico qual è, sa che bisognerà rimboccarsi le maniche e ricominciare tutto daccapo, anche perché quel sistema elettorale non piaceva ad almeno un terzo del suo partito. «Sul Senato noi non porremo condizioni, ma l’Italicum va cambiato», ripetevano ancora in questi giorni, praticamente in coro, Bersani, Cuperlo, D’Attorre e tanti altri. 
Eppure, come sempre, il presidente del Consiglio, è ottimista e fiducioso nel futuro: «L’obiettivo è a portata di mano. Visti gli esiti del voto delle europee del 25 maggio, a Forza Italia non conviene affatto tirarsi indietro, soprattutto perché ha dei problemi sulla legge elettorale. Fi ha bisogno di tornare a essere la seconda forza del Paese riuscendo ad aggregare attorno a sé altri partiti...». Ed è questa la materia di scambio che il leader del Pd, nonché presidente del Consiglio, è disposto a dare a Berlusconi pur di portare a casa entro l’estate il risultato della riforma del Senato e del titolo quinto della Costituzione. Del resto, il premier, lo ha sempre detto: «Per me quello che importa è dare al Paese una legge elettorale per cui si possa sapere la sera stessa chi ha vinto e chi ha perso». E questa legge elettorale potrebbe essere il Mattarellum. Già, a sorpresa (ma in fondo mica tanto perché su quel sistema Pd e Fi avevano già cominciato a trattare in gran segreto prima che alla fine Berlusconi propendesse per l’Italicum), potrebbe essere il sistema inaugurato nel ‘94 quello che alla fine metterebbe d’accordo centrodestra e centrosinistra. Va bene a Sel e alla Lega, consentirebbe a Fi di costringere i partiti della sua area all’alleanza, emarginerebbe i grillini. Allora come ora restano le perplessità di Ncd, ma dopo il voto delle europee la forza contrattuale del partito di Alfano è notevolmente diminuita. Finora, comunque, non c’è niente di deciso. È solo un progetto, di cui si torna a parlare nei conversari riservati tra gli esponenti dei partiti di maggioranza e opposizione.

il Fatto 7.6.14
Anticorruzione, Cantone resta solo
E l'inquisita Maltauro si riprende l'Expo
Nulla di fatto in cdm su poteri e membri dell'Autorità, il consiglio dei ministri di oggi non ha scelto i tre componenti dell’Autorità anticorruzione da affiancare al magistrato
Il magistrato: "Questo rallenta l'attività
Maroni: "Ennesimo rinvio, chi mi dice che  fare con l'azienda accusata per Expo?"
Ma la risposta arriva dall'interessata: "Continuiamo i lavori"

il Fatto 7.6.14
Il gioco dei 4 cantoni
di Antonio Padellaro


Persone maligne paragonano Matteo Renzi a quei simpatici studenti universitari che regolarmente annunciano esami mai dati, con viva soddisfazione dei familiari, che tuttavia mai vedranno l’agognato giorno in cui festeggiare il fresco laureato. Il premier, per carità, è uomo degno di fede come ha dimostrato versando nelle buste paga di maggio gli 80 euro annunciati (per pura coincidenza) in campagna elettorale e che mai si permetterebbe di non rispettare il cronoprogramma delle riforme che rivolteranno l’Italia come un calzino. Soltanto qualche raro giornalista rancoroso e attento solo a evidenziare le pagliuzze negative ricorda che da febbraio a maggio tutto doveva cambiare, ma nulla è cambiato. Dimenticando che se abbiamo ancora il vecchio Senato, il vecchio fisco, il vecchio lavoro, la vecchia burocrazia e nessuna legge elettorale, la colpa è unicamente dell’ignavo Parlamento insensibile al plebiscito che ha sommerso Palazzo Chigi. Naturalmente il cronoMatteo non poteva certo prevedere l’imprevedibile, ovvero l’esplosione di mazzette sulle Grandi Opere vanto dell’italico ingegno e dunque, quando come un fulmine a ciel sereno lo scandalo colpì l’Expo milanese, il premier prima si disse rattristato, poi invocò il Daspo per i corrotti e quindi annunciò l’intervento decisivo di Raffaele Cantone, un serio e competente magistrato antimafia, subito descritto dalla stampa incline a evidenziare il bene come un crono-Zorro giustiziere dei corrotti. Cantone chiese giustamente di essere dotato dei necessari poteri per esercitare i controlli almeno sugli appalti ancora da assegnare (per circa 120 milioni). Così gli fu promesso un apposito decreto legge, poi scomparso nel nulla. Quando dal Mose veneziano è tracimato un mare di mazzette, Renzi si è detto turbato, poi ha parlato di “alto tradimento” per i politici corrotti, ma prima che potesse indicare Cantone come il giustiziere della Laguna, questi ha stoppato ogni ipotesi: “Non è il caso che me ne occupi”. L’impressione è che il magistrato non veda l’ora di ritornare al vecchio lavoro, anche perché oggi gli viene chiesto di combattere i cattivi con un’altra legge che non c’è, quella sull’anti-corruzione. Il cronoRenzi non perdona.

il Fatto 7.6.14
Cantone, niente poteri. Boschi: “Li avrà tra 7 giorni”


NIENTE NOMINE e un nulla di fatto per i poteri promessi a Raffaele Cantone. Il Consiglio dei ministri ha rinviato la scelta sui tre componenti dell'Autorità anti-corruzione, da affiancare al presidente Cantone scelto da Renzi. "Questo ci rallenta un po' ma meglio aspettare e avere nomi migliori", ha commentato il super-magistrato cercando di dissimulare la delusione. Una decisione che però si aspettava. “Le nomine che mancano non so se arriveranno oggi nel Consiglio dei ministri”, aveva profetizzato in mattinata a Radio 24. Il ministro per le Riforme costituzionali Maria Elena Boschi ha assicurato che "Raffaele Cantone sarà nel pieno dei suoi poteri già dalla prossima settimana". Il passaggio è "imminente", ha confermato il Guardasigilli, Andrea Orlando. Delusione anche da parte del presidente della Regione Lombardia Roberto Maroni e dal sindaco di Milano Giuliano Pisapia. “E’ incomprensibile, non si capisce il perché di questo rinvio vista l’urgenza e la necessità di intervenire subito. La Maltauro per esempio rimane o no?”, si è chiesto il governatore, riferendosi alla decisione da prendere sull’azienda coinvolta nelle indagini.


Repubblica 7.6.14
Cantone: o mi danno i poteri oppure torno in Cassazione

Per il presidente dell’Autorità anticorruzione Raffaele Cantone «non ha senso pensare a un commissario per il Mose, per l’Expo c’erano tempi stetti, a Venezia invece sono già stati superati». Cantone assicura poi di non avere alcun conflitto con il premier Renzi: «Non ho mai detto che vanno revocati gli appalti, ho detto che per il futuro la legge Severino prevede che nei casi di corruzione sia possibile la revoca degli appalti, non mi sono riferito né alle vicende Mose né tanto meno alle vicende Expo». Quanto al suo incarico, Cantone spiega: «Io sono entusiasta delle cose che voglio fare, però voglio poterle fare, non mi sono dimesso dalla magistratura, il mio posto in Cassazione è sempre disponibile». Infine a chi chiede un parallelo con Tangentopoli, il numero uno dell’anticorruzione spiega che «forse non siamo messi peggio rispetto ad allora, la verità è che non siamo messi molto meglio».

Corriere 7.6.14
Scontro nel Pd sui poteri a Cantone, «Ho ancora un posto in Cassazione
Slitta il decreto, Bindi accusa. Confindustria: no ai commissariamenti
di Dino Martirano


ROMA - «Evidentemente c’è stato un fraintendimento tra Cantone e il governo: il magistrato e i suoi interlocutori, che ne avranno certamente parlato in via riservata, lo dicano anche in pubblico quali devono essere questi poteri speciali per l’Expo...». Così il senatore ed ex pm di Venezia Felice Casson (Pd) sintetizza la partita in corso tra il premier Matteo Renzi e il magistrato napoletano Raffaele Cantone, che ormai è commissario anticorruzione anche per l’Expo da circa un mese, ma senza poteri: la «cassetta degli attrezzi», assicurano i ministri Maria Elena Boschi e Andrea Orlando, gli verrà fornita per decreto probabilmente venerdì 13 giugno. Ma Cantone non ha ancora una squadra: e dunque attende di conoscere i nomi dei 4 componenti dell’Autorità anticorruzione, di cui è presidente, che sono contenuti in una «short list» tratta dai 230 curricula inviati al ministro Marianna Madia in forza della legge Severino. I nomi per riempire le caselle (2 uomini e 2 donne), sono al vaglio del presidente del Consiglio che non trascura l’impatto di volti e profili professionali sull’opinione pubblica. 
A Palazzo Chigi non è passata inosservata l’esposizione mediatica alla quale si è sottoposto il magistrato Cantone. Il quale è tornato precisare il suo pensiero anche a Radio 24 e lo ha fatto con una cifra che non dà per scontato il lieto fine della vicenda: «Non sono deluso. Sono entusiasta delle cose che voglio fare però voglio poterle fare. Non mi sono dimesso dalla magistratura, il mio posto in Cassazione è sempre disponibile... Le nomine che mancano obiettivamente un po’ rallentano la nostra attività: su tante cose sto lavorando da solo... Però aggiungo che fin qui le nomine sono state di tipo politico, fatte dal presidente del Consiglio su richiesta del ministro». Conclude Cantone: «Sono arrivate 230 domande e vanno valutati i titoli. Meglio se aspettiamo una settimana e facciamo le nomine migliori». 
Nel merito dei poteri temporanei sull’Expo da dare a Cantone, la Confindustria boccia però una delle proposte dello stesso magistrato, cioè il commissariamento (con provvedimento del giudice penale) delle imprese in odore di mazzette. «Assolutamente no», ha risposto il direttore generale della Confindustria Marcella Panucci che, con il governo Monti, era capo della segreteria del Guardasigilli Paola Severino: «Io sono contraria al commissariamento che in passato ha aggravato la situazione economica delle stesse imprese». E qui, il direttore Panucci evidenzia un profilo di garanzia che sorgerà anche per il Daspo che Renzi, sulla falsariga degli ultrà del calcio, intenderebbe applicare anche ai politici finiti sotto inchiesta per corruzione: «Nella gran parte dei casi il commissariamento è avvenuto senza sentenza della magistratura. Se c’è un problema di management nell’impresa, si lascia ai soci la possibilità di cambiare i manager. In passato i grandi asset sono stati gestiti da commissari e magistratura con effetti devastanti». Ma per evitare equivoci è utile ascoltare anche le parole, nette, del presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi: «Sul tema della corruzione io sono un talebano. Chi sbaglia va espulso». 
Con tutta evidenza, il margine che viene posto al commissario Expo è quello che coincide con l’area della prevenzione e non invade il campo della repressione spettante alla magistratura. Spiega il ministro Boschi: «Immagino che già la prossima settimana possano essere conferiti i poteri al commissario Cantone, e saranno poteri nella fase preventiva, nelle procedure che riguardano appalti, controlli, verifiche sui lavori». 
Ma la politica, davanti al ritardo, è in fermento. Il governatore della Lombardia Roberto Maroni (Lega) non si fida: «La nomina di Cantone è persa nelle nebbie romane. Renzi si è addormentato». Preoccupato il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia: «Ogni giorno perso è un giorno in più di preoccupazione». Il dibattito è acceso nel Pd, che a Venezia non esce indenne dall’inchiesta Mose. Rosy Bindi punzecchia il segretario: «Ha ragione Renzi quando dice che il problema sono i ladri ma è altrettanto evidente che l’apparato normativo non è stato in grado di prevenire i comportamenti illeciti». Di parere opposto Forza Italia che nell’inchiesta Mose è stata coinvolta ad alti livelli: «Altri commissari, nuove norme, aumenti delle pene e grida manzoniane varie servono a poco». I grillini, infine, mettono il dito nella piaga: «Dare il Daspo ai politici? Bel proclama mentre il ddl anticorruzione che era stato calendarizzato in aula per martedì è stato differito». In realtà già venerdì 13 il ministro Orlando potrebbe fare la sua proposta sul nuovo reato di falso in bilancio che si aggiunge a quello sull’autoriciclaggio. Mentre per la prescrizione più lunga, la prima raccomandazione che ci fa la Ue, bisognerà aspettare i tempi inevitabilmente lunghi della legge delega.

Il Sole 7.6.14
La legalità è ormai la riforma prioritaria ma servono passi concreti
di Stefano Folli


Il rinvio di una settimana dei poteri a Cantone non è grave se si eviteranno errori
È fin troppo chiaro che la questione morale è ormai la riforma più urgente e rilevante che Renzi e il suo governo devono affrontare. La sensazione è di assistere a un film già visto molte volte, il cui finale però dovrà essere inedito. Per la buona ragione che la partita in corso, come si è compreso, ha un risvolto politico di eccezionale spessore. Tutto il lavoro svolto fin qui per accreditare presso l'opinione pubblica l'immagine nuova e dinamica di una classe dirigente non collusa con gli errori del passato, rischia di essere vanificato dagli scandali.
Certo, i casi dell'Expo e del Mose non sono sovrapponibili, appaiono diversi nella dinamica e nelle ramificazioni. Tuttavia gli italiani non vanno troppo per il sottile e comunque hanno capito l'essenziale: i due episodi, nella loro gravità, sono tasselli di un malaffare generalizzato che va affrontato con determinazione, pur evitando di compiere passi falsi.
Oggi è evidente che la riforma della legalità, definiamola così, parte da un punto preciso: i poteri da attribuire al magistrato Raffaele Cantone, individuato come presidente dell'autorità nazionale anti-corruzione. L'area di competenza - come sappiamo - riguarda l'Expo e non tocca la vicenda di Venezia, di cui si occupano le inchieste giudiziarie in corso. Quello che conta però è non confondere le idee ai cittadini: il nuovo organismo non dovrà essere un doppione di altri già esistenti e soprattutto dovrà essere messo in condizione di operare con efficienza, senza arenarsi nella giungla burocratica e normativa.
Che ci siano stati punti di vista differenti e contrasti fra Renzi e Cantone, non stupisce. Che tali dissidi siano componibili e comunque siano stati subito smentiti, sorprende ancora meno. Ci sono due esigenze che devono andare d'accordo, in modo che il treno anti-corruzione non deragli alla prima curva. La prima necessità è, appunto, di ordine politico. Il presidente del Consiglio non può apparire incerto di fronte alla valanga della corruzione. E infatti egli preme per un risultato convincente, utile a non incrinare quel dialogo con l'opinione pubblica che ai suoi occhi non si è certo esaurito con il voto del 25 maggio.
Poi c'è il livello giuridico-normativo, il più delicato. L'Italia è il paese delle sabbie mobili, ma nessuno può permettersi di farvi affondare anche Cantone. Quindi non è grave che il governo si sia preso una settimana in più per mettere a punto ruolo e poteri dell'alto commissario e sgombrare il campo da equivoci e ambiguità, anche rispetto alla magistratura ordinaria. Viceversa sarebbe grave se questi poteri, al termine della lunga istruttoria, non fossero ben definiti e pienamente operativi. Perchè la riforma morale stavolta non potrà essere fondata solo sui titoli dei giornali.
Se il premier afferma che la corruzione configura un reato di "alto tradimento", ottiene un applauso: ma proprio per la durezza della dichiarazione ci si attende che subito dopo lo Stato mostri la sua forza inesorabile. E' evidente, peraltro, che l'Expo non può essere compromessa o vanificata e gli appalti annullati. Sarebbe uno smacco ancora più clamoroso davanti al mondo. Ci si muove lungo un sentiero stretto, ma l'impressione è che la meta sia vicina. Alcune frasi di Cantone ieri sembravano confermarlo. Mai come stavolta serve competenza tecnica avvolta nel senso politico.

il Fatto 7.6.14
L’esperto. Alberto Vannucci
“La corruzione in Italia non è più un reato”
intervista di Beatrice Borromeo

In Italia i colletti bianchi sono solo lo 0,4 per cento dei detenuti, a fronte di una media europea dieci volte superiore, anche se da noi le tangenti sono molto più comuni che nel resto della UE. Ma se ci concentriamo solo sulle mazzette, i dati sono ancora più incredibili: in tutto il Paese, i condannati che si trovano in carcere per corruzione sono meno di dieci”. La fotografia del professor Alberto Vannucci, che dirige il Master in Analisi e prevenzione della corruzione all’università di Pisa, racconta una realtà dove lo scandalo del Mose non dovrebbe creare alcuno scalpore: “È lo stupore che mi stupisce. Mose, Expo 2015, G8 alla Maddalena, mondiali di nuoto e così via avevano tutti un epilogo scontato, come ogni grande opera realizzata con quei criteri. Non potrebbe essere altrimenti”.
È rassegnato professore?
Il problema è che la corruzione, di fatto, è stata depenalizzata.
Addirittura?
Sono stati scientificamente introdotti meccanismi che hanno reso il lavoro dei magistrati sempre più difficile.
Poi c’è l’ultima legge delega del governo, ennesimo salvacondotto per i colletti bianchi.
Se prima erano quasi certi di farla franca, ora ne avranno la matematica certezza. E manterranno pure la fedina penale pulita.
Per sfuggire al processo, però, bisognerà risarcire i danni provocati.
Le assicuro che resta comunque molto conveniente: le somme di denaro che s’intascano sono davvero ingenti. Provvedimenti come l’abolizione del falso in bilancio, la salva-Previti, le altre varie leggi ad personam, e quest’ultima legge delega sono criminogene.
Eppure Renzi promette interventi rigorosi per contrastare questo fenomeno, che tra l’altro costa all’Italia 60 miliardi di euro ogni anno.
È una contraddizione tipica della politica italiana. È difficile capire se questa legge delega, coi suoi sconti di pena e i suoi regali ai colletti bianchi, è frutto di superficialità, incapacità, o peggio di malafede. Del resto il premier è legato a una maggioranza eterogenea, che da sempre, in alcune sue componenti, è molto sensibile a queste istanze.
La maledizione delle grandi intese.
Per le cricche direi che è una benedizione. Comunque l’armonia bipartisan, nell’avallare questo sistema di corruzione ormai endemico, è diffusa. Il Mose è l’esempio perfetto: sono finiti nei guai, tra gli altri, un sindaco di sinistra e un ex presidente di regione di destra. E parliamo di un’opera interminabile, che ha già sforato di parecchi anni i tempi previsti, triplicando i costi, ponendo al centro questa figura – unica in Europa – del concessionario unico. Soggetto potentissimo che tiene tanti a libro paga, tra cui politici a sua completa disposizione. La corruzione sa trasformarsi e adattarsi in modo duttile a contesti diversi, non è una realtà omogenea. Expo e Mose, per esempio, sono casi completamente diversi.
Com’è possibile che, nonostante i continui scandali, sia ancora così semplice sfuggire ai controlli?
C’è una governance multi-livello della corruzione che coinvolge dall’amministratore locale ai vertici delle istituzioni. È un sistema ben consolidato e mai scalfito, che dagli anni Ottanta si appella all’emergenza per fare tutto in deroga, garantendo così una perenne mangiatoia di Stato. Si sono appellati all’emergenza persino per i festeggiamenti dei 500 anni dalla scoperta dell’America, prevedibili da 5 secoli.
C’è anche un problema di burocrazia ?
Certo. Se vuoi rispettare le leggi vai incontro all’incapacità della Pubblica amministrazione, all’inefficienza delle procedure, alla cattiva allocazione delle risorse. Per questo l’emergenza è diventata, da noi, la norma: si accumulano scientificamente ritardi, come per Expo 2015, così da procedere in deroga.
Cosa si può fare?
Riformare il sistema aiuta, ma il problema, come dice il commissario Cantone, è soprattutto culturale. Questo non dev’essere però un alibi per autoassolversi. Bisogna investire con lungimiranza sull’istruzione e recuperare l’effetto deterrente delle condanne: i corrotti devono pagare e la società deve riconoscere la gravità di certi reati. La sanzione, insomma, dev’essere anche sociale. Ma essere ottimisti è difficile: il secondo più votato alle Europee, con voto di preferenza, è proprio un condannato in primo grado per corruzione.

il Fatto 7.6.14
Confessioni politiche. Corrotti e contenti
Io rubo, ma lo faccio per far del bene al Paese
di Pino Corrias

Io rubo. Pago tangenti, sigillo buste, movimento contante. Lo faccio ovunque, dove serve: nelle aree di servizio, per strada, in discoteca, al ristorante. Mi tengo la mia cresta, diciamo il 10 per cento più le spese per il disturbo, abbastanza per tirarci fuori una casa, un attico al mare, una seconda moglie, la governante, due auto, una barca, una ragazza di prima classe per le serate che mi sento solo, un po’ di bambagia esentasse in Lussemburgo per la vecchiaia e un cane. Il cane è l’unico che mi vuole bene.
IO RUBO E HO LA COSCIENZA A POSTO. Muovo l’economia. Compro terreni che non valgono un cazzo, do la sveglia agli uffici tecnici, ai geometri indolenti, agli assessori in fregola. Ingaggio due imprese di malavita per semplificare i permessi e un’azienda buona che fa il lavoro in nero, al ribasso, ed ecco che saltano fuori cento villini vista pioppi e autostrada. E se poi nessuno li compra prendetevela con i dilettanti delle agenzie e con questa maledetta recessione. Io cosa c’entro?
Scavo dighe in fondo al mare, un portento di ingegneria che il mondo ci invidia, lubrifico in dollari, euro, cene, escort, cocaina, vacanze, fondi pensione. Combatto le maree e finanzio il Carnevale, salvo Venezia da tutti i metalli pesanti che scarica in laguna quell’altro capolavoro di Petrolchimico che astuti ingegneri hanno costruito nel posto più bello del mondo, piantando ciminiere d’altiforni sulla schiena delle sogliole e sulle rime di Lord Byron. È colpa mia se poi ai cristiani e alle vongole gli viene il cancro?
Io rubo e innalzo pale eoliche in cima a delle stupide colline d’Appennino dove volano stupidi uccelli e mosche. Le pale fanno schifo, lo so, ma un architetto scemo che dice che invece sono belle si trova sempre. E anche un artista controcorrente. Muoiono le api? Chissenefrega, apriamo il dibattito, facciamo sei convegni pieni di hostess bionde sulle energie rinnovabili, foraggiamo il ministro e la sua corrente di arrapati, adottiamo una coppia di lontre sul Trebbia, due ecologisti in Amazzonia e vedrete che prima o poi il vento arriva.
Io rubo e fabbrico corsie d’ospedali in linoleum ad aria condizionata, sale operatorie in acciaio inox, non è colpa mia se poi l’energia elettrica non arriva, piove dal tetto, gli zingari si fregano il rame e il polmone per la ventilazione meccanica va in malora. Nella Sanità bisogna stare attenti, c’è così tanta malavita che neanche nell’infermeria ad alta sicurezza di Poggioreale: sottosegretari che allattano primari, primari che si scopano le infermiere, infermiere che si vendono i letti, tutto sovrinteso dalla politica, benedetto dal vescovo, ci mancherebbe, purché le infermiere, i primari e i sottosegretari siano dei buoni obiettori di coscienza.
Io rubo e faccio pil. Dicono 60 miliardi di euro l’anno, che poi sarebbe la metà della corruzione di tutta l’Unione europea messa insieme, una bella soddisfazione per il Made in Italy, la professionalità paga. La creatività pure. Se poi la cifra sia vera o falsa non lo so. Se è tutto nero, tutto sommerso, come si fa a vedere? Con le cimici dentro i piatti di astice e spigola da Assunta Madre? Pedinando i commercialisti? Perquisendo le fondazioni bancarie? Oppure mettendoci a contare le mignotte su via del Babbuino?
Io rubo e non capisco tutto questo scandalo. Scandalo a orologeria, dico io. Uso politico dello scandalo, dico io. Gogna mediatica. Che a essere dei veri garantisti ogni scandalo andrebbe considerato innocente fino al terzo grado di giudizio di un giusto processo, diminuito di ogni attenuante. E per quel che ne so con Ilva, Malagrotta, Montepaschi, Expo, Carige, Mose, non siamo neanche ai preliminari. Quindi calma e gesso.
CHE POI DOVREMMO avere un po’ più di orgoglio patriottico, visto che gli scandali li abbiamo pure esportati – come l’olio, la pasta, il concentrato di salsa - specie ai tempi d’oro del socialismo riformista e altruista, con le bananiere dirette in Somalia, le autostrade dirette a Tripoli, gli ospedali nel deserto. Io rubo e la chiamo economia reale, condivisione, socialità. La chiamo adrenalina, dinamismo, gioia di vivere. Guarda la faccia triste di un sindaco finlandese senza tangente e quella allegra di uno dei nostri che incassa mozzarelle e cozze pelose a ogni ordinanza. Guarda le pance e le mandibole dei nostri consiglieri regionali, che sposano figlie, festeggiano amanti, volano in business, visitano Padre Pio e i Caraibi. Ascolta le risate. Lasciati andare, ce n’è per tutti. Io rubo e ruberò fino alla morte. Pensa che noia senza.

Repubblica 7.6.14
L’accusa a un deputato Pd “A Zoggia 65 mila euro per la campagna elettorale”
L’ex ad della società “Autostrada di Venezia e Padova” coinvolge il democratico
La replica della difesa: “Nessun rilievo penale, si tratta di un normale contributo”
di Fabio Tonacci



VENEZIA. Non è solo un pizzino con alcune cifre scritte a penna a mettere in difficoltà Davide Zoggia, deputato del Partito democratico. C’è anche una cena di imprenditori, fatta durante il Natale 2008. Ieri Lino Brentan, l’ex amministratore delegato della società “Autostrada di Venezia e Padova”, in sede di interrogatorio di garanzia dopo l’ultima ondata di arresti per il Mose, ha fatto il suo nome, in quanto «beneficiario di 65 mila euro». Erano «un finanziamento per la campagna elettorale di Zoggia, raccolto durante una cena a cui parteciparono diversi amministratori del Consorzio Venezia Nuova». Tra i presenti anche Piergiorgio Baita, allora presidente della Mantovani, uno dei membri della “cupola” del Mose messa in piedi dal presidente del consorzio Giorgio Mazzacurati. «Non c’è nulla da dire - spiega a Repubblica Zoggia - perché non c’è nulla di rilevante da un punto di vista penale ».
Un passo indietro. Brentan a Venezia è accusato di concussione per una vicenda che riguarda l’appalto per la terza corsia della tangenziale di Mestre. I pm sostengono che sia stato lui, «abusando dei suoi poteri» a indurre Baita, allora presidente della Mantovani, e Mauro Scaramuzza, amministratore di Fip spa, a rinunciare alla presentazione di un ricorso contro l’esclusione dalla gara, nonostante avessero portato l’offerta con il maggior ribasso. Brentan poi - sempre secondo la procura - ha spinto Scaramuzza ad eseguire opere in subappalto da Saicam «a un costo, fuori mercato, deciso da Brentan». Infine, lo ha costretto a consegnargli 65mila euro «in contanti e in più rate».
È proprio per smarcarsi da questo pagamento sospetto che ieri Brentan ha ricollegato quei soldi alla campagna di Zoggia per le provinciali del 2009. «Solo un semplice sostegno per il comitato elettorale», ha spiegato. C’è da dire che il pm Stefano Ancillotto era a conoscenza dell’esistenza di quella cena già nell’indagine che ha portato alla condanna per corruzione di Brentan nel 2012, e ha ritenuto che non ci fosse niente di penalmente perseguibile, anche perché «Zoggia non aveva l’obbligo di rendicontare», in quanto tale obbligo non si applica alle comunali e provinciali.
«Il mio nome è finito assieme a quello di tutti gli altri, senza motivo», commenta il deputato veneziano del Pd, ex responsabile organizzazione dei democratici e ritenuto un fedelissimo di Pierluigi Bersani. Nome che spunta non solo perché fatto dall’ex amministratore delegato di “Autostrada di Venezia e Padova”, ma anche su un pezzo di carta, un pizzino, ritrovato dalla Guardia di Finanza durante una perquisizione a casa dei genitori di Elena Scacco, dipendente del Consorzio Nuova Venezia, di cui ha dato conto Il Fatto Quotidiano. «Davide Zoggia, 40.000 contributo volontario, due fatture da 7.428,72». Scritto a penna dalla Scacco «su richiesta di Pio Salvioli», che formalmente era un collaboratore di Co. Ve. Co., una delle cooperative rosse che fa parte del Consorzio del Mose. «I 40mila sono appunto un contributo elettorale, niente di illecito. Le due fatture riguardano una consulenza da me svolta quando ancora non ero presidente della Provincia di Venezia, quindi di cosa parliamo?».

Repubblica 7.6.14
L’imprenditore in carcere “I partiti si sono sfarinati contano i potentati personali”
di E. R.

MILANO. «Almeno fino agli anni ‘90-93, i partiti comunque sia avevano un proprio ordinamento, una gerarchia, una logica, bella o brutta, sbagliata, giusta, questo è un altro ragionamento ». Adesso invece, è l’analisi del tangentista di Mani pulite prima, e del «Sistema Expo» poi, è una sciagura. Con una situazione «sfarinata», spiega Enrico Maltauro, cinquantottenne timoniere dell’azienda di famiglia vicentina. Oggi, in Italia, è la cruda visione di chi ha vissuto da dentro questo sistema, i riferimenti non sono più i partiti, «ma hanno caratteristiche assolutamente personali, personalizzate». Per accaparrarsi gli appalti - giura Maltauro - bisogna essere «nei gruppi di potere, di influenza, di gestione». Ed è per questo che per tentare di rilanciare l’azienda di famiglia - l’indagato tiene a sottolineare che l’anno prossimo festeggerà 100 anni di vita - «ho avuto la necessità, diciamo così, di impostare una mia comunicazione con la, chiamiamola, politica».
È questa la confessione che Maltauro rende ai magistrati milanesi che lo hanno arrestato lo scorso 8 maggio. Rinchiuso in carcere, a fianco i suoi legali Dedola e Grasso, Maltauro non cerca alibi, ma lucidamente spiega perché si è affidato prima a Sergio Cattozzo - ex esponente ligure dell’Udc - e poi all’intera cupola di Primo Greganti e Gianstefano Frigerio. Conferma tutto, con un’analisi quasi sociologica da addetto ai lavori. Rivolgersi alla cupola? «Uno stato di necessità». Perché «una persona che fa il mio mestiere ha l’assoluta necessità di avere un contatto, di avere un interlocutore, di avere un rapporto con le stazioni appaltanti». Oggi - è il punto su cui ragiona l’imprenditore - «esiste una totale e assoluta invadenza e una dominanza della politica, con le sue diramazioni».
A suo modo, e paradossalmente, è lo stesso capo della cupola Frigerio a confermare l’analisi. Paradossale perché Frigerio respinge alla radice la ricostruzione dei magistrati milanesi riscontrata dallo stesso Maltauro. Ma conferma perfettamente la descrizione dell’impianto, a modo suo. Per raccontare la sua attività lavorativa, il «professore» dice di svolgere «un’attività di rapporti con una serie di imprenditori che venivano a parlarmi dei loro problemi ». E allora lui, che di professione risolve problemi, si attiva. Cos’ha fatto, in fondo, Frigerio secondo Frigerio? «Un’attività che in America potrebbe definirsi di lobbying, perché per lo più venivano presentate delle persone (imprenditori, ndr), ad altri operatori (pubblici ufficiali, ndr ) ». Frigerio nega le tangenti, ma non l’azione di lobbying. E in cambio di «finanziamenti ai miei libri e alla loro realizzazione e presentazione, io chiamavo il pubblico ufficiale e gli dicevo “ricevi questo imprenditore, che è molto bravo” ».
Un’attività legittima, secondo Frigerio, il che però cozza con i risultati delle indagini. E così ammette candidamente di avere fatto da sponda con il Pirellone. «Ho partecipato molte volte a dibattiti sulla Città della Salute (progetto finito nel calderone dell’inchiesta su Expo, ndr), ma in termini di contenuti». Frigerio dice anche di essere «anche andato a parlare con i pubblici ufficiali in Regione». Lobbying, e non solo. Confessa, senza considerarlo un reato o un fatto disdicevole, come «ad esempio il direttore del Monzino (un ospedale milanese, ndr ), lo mandavo dall’assessore alla Sanità, o dal direttore generale, a spiegargli perché tecnicamente era utile questa cosa qui (il progetto della Città della salute, ndr ) ». Sembra secondario al professore sapere che i pm milanesi Gittardi e D’Alessio, siano convinti - come emerge dalle carte - che a finanziare la campagna elettorale proprio di quell’assessore alla Sanità (Mario Mantovani di Forza Italia) del governo regionale targato Roberto Maroni, sia stato proprio lo stesso Frigerio. E che una volta nominato il nuovo direttore generale della sanità, lo abbia ricevuto nei suoi uffici e fatto incontrare con imprenditori a lui vicini. Forse, come dice Maltauro, questa è solo la dimostrazione dello «sfarinamento» del sistema. È il dopo-Mani pulite.

il Fatto 7.6.14
Renzi non convince S&P: rating dell’Italia invariato

ITALIA rimandata. Standard & Poor's, come nelle attese, conferma la “tripla B” per il nostro Paese. Ma l’outlook - e qui forse qualcosa in più si sperava - resta “negativo”. Il perché lo spiegano gli analisti dell’agenzia statunitense: “Le intenzioni del governo Renzi sono incoraggianti” , ma è ancora “troppo presto” per valutare la sua azione. Non una bocciatura, dunque, ma neanche una promozione come quella dell’Irlanda, il cui rating balza da 'BBB+' ad 'A-', due gradini sopra l’Italia. Il giudizio appare piuttosto sospeso. Si aspetta di vedere in che misura l’ambizioso programma del nuovo esecutivo insediatosi a Palazzo Chigi potrà essere realizzato, e in che tempi. Per il resto, a pesare sulla pagella di Standar&Poor's ci sono le considerazioni di sempre: un debito sempre troppo elevato, delle riforme strutturali ancora insufficienti e una crescita economica che resta impalpabile. Oltre alle banche che continuano a prestare troppo poco a famiglie e imprese. L’outlook rimane negativo perchè "le prospettive di crescita economica rimangono deboli in termini nominali e reali".

il Fatto 7.6.14
Civiltà Cattolica si iscrive ai “gufi”
Il periodico critica l’idea renziana di riforma
del Senato. Adesso anche i Gesuiti saranno iscritti all’albo dei mestatori anti premier?

I gesuiti di Civiltà cattolica cercano di insegnare a Renzi come si sta al mondo. Precisamente, nel mondo delle riforme costituzionali. Ora che la prestigiosa rivista – con l’addio di papa Francesco alle interferenze nelle politica italiana – non è più la longa manus di una Segreteria di Stato vaticana schierata con una delle fazioni partitiche, assume il ruolo di laboratorio di riflessione che guarda ai fatti del Paese dal punto di vista del ricco pensiero cattolico.
Un articolo dedicato alla riforma del Senato, uscito prima delle elezioni, mette a nudo la faciloneria con cui il governo sta affrontando un cambiamento estremamente delicato della Costituzione.
Civiltà cattolica non è contraria allo slancio riformistico di Renzi, anzi appoggia chiaramente il superamento del bicameralismo perfetto e l’attribuzione alla Camera dei deputati del potere esclusivo di dare la fiducia ai governi e di votare la legge sul bilancio.
La rivista, partendo dalla tradizione ultrasecolare del cattolicesimo politico, considera anche con favore l’idea di dare voce alle “autonomie” e alla società civile, ricordando che gli stessi costituenti in un primo momento pensavano ad un Senato scelto per due terzi da esponenti delle categorie professionali e per un terzo dai consigli regionali. Non se ne fece nulla.
Guardando all’oggi e con uno stile chiaramente inteso a favorire una riforma, Civiltà cattolica mette però in guardia dalla superficialità con cui Renzi e i replicanti governativi, impegnati a ripetere i suoi slogan, affrontano tutta la materia.
MA QUESTO Senato diverso che cosa deve fare, è la domanda che pone la rivista? “Forse la riforma dovrebbe chiarire meglio che la struttura del Senato è in proporzione alle competenze e alle funzioni, altrimenti si crea un dopolavoro degli amministratori locali”, scrive il notista politico padre Francesco Occhetta. Il governo, aggiunge, avrebbe dovuto chiarire prima “quale bicameralismo vuole e solo successivamente porre la questione della selezione dei componenti”. Perché modificare il ruolo del Senato, spiega, tocca tutto il sistema dei pesi e contrappesi del sistema costituzionale .
Sul “costo zero” del Senato anche le menti gesuitiche più raffinate alzano le mani. Rispetto a una demagogia da cortile padre Occhetta si limita a dire che è uno “slogan”, suggerendo invece che al Senato potrebbero essere attribuite quattro competenze precise: formazione e attuazione degli atti normativi dell’Unione europea, approvazione delle leggi costituzionali, elezione del presidente della Repubblica, elezione della maggioranza dei membri della Corte costituzionale.
Spostando il peso maggiore sulla Camera dei deputati, ammonisce Civiltà cattolica, l’Italicum (la legge elettorale partorita da Renzi e Berlusconi) non è sostenibile. “Ogni sistema elettorale, che per favorire la governabilità determinasse una torsione eccessiva a danno della rappresentanza, sarebbe illegittimo”.
Quanto alla scelta dei senatori, la rivista trova ragionevole eleggerli insieme ai consigli regionali, in un listino separato dagli altri consiglieri regionali.
IN FRANCIA, notava Civiltà cattolica a maggio – quando ancora il governo non aveva proposto raffazzonatamente il cosiddetto “sistema francese” di elezione di secondo grado da parte di una platea di sindaci, consiglieri regionali e parlamentari – in Francia appunto hanno fatto un passo indietro: esiste l’“incompatibilità tra senatori e presidenti di regioni e sindaci”. (Con il che viene a cascare tutto l’impianto propagandistico del sistema proposto da Renzi).
Anche i gesuiti saranno accusati di essere “gufi”? Il premier farebbe bene a lasciarsi prendere per mano e dedicare un paio di settimane ad una seria riflessione costituzionale, superando la sua propensione ai diktat. Non sembra questo il suo orientamento. L’unica sua idea è di rivolgersi a Berlusconi.
Nei giorni scorsi è sorto il dibattito sul tipo di “cattolicità” del premier. Un cattolico liberale? Un cattolico sociale? Disquisizioni gustose. Ma qualcuno immagina Bettino Ricasoli, don Milani, La Pira e Dossetti sedersi a un tavolo con un pregiudicato frodatore dello Stato per tracciare le linee portanti della Costituzione?

il Fatto 7.6.14
Marò,, gli ordini sono ordini
risponde Furio Colombo


CARO COLOMBO, finalmente un piccolo crac è apparso nel lastrone di impenetrabile cristallo che separa l'opinione pubblica italiana dalla storia dei due marò trattenuti in India. “Noi abbiamo ubbidito agli ordini” ha gridato esasperato il fuciliere di marina Girone, il 2 giugno scorso in un collegamento tv. Eppure nessuno sa quali ordini, perché e da chi. Ignazio
HO SCRITTO E DETTO altre volte che molti ostacoli ci hanno finora separati dalla realtà nella storia indiana. Il primo è il comportamento di tre governi italiani (Monti, Letta, Renzi). Tutti e tre ci consigliano di tacere, per non disturbare il loro assiduo e discreto lavoro, di cui non si ha traccia. Il secondo è la mancanza di un chiarimento parlamentare: perché sei soldati italiani in servizio erano su una nave privata? Era una concessione speciale, una nuova politica, la risposta a una emergenza di cui nessuno è mai stato informato? Il terzo è la versione ufficiale che il governo italiano, sulla base del rapporto dei militari arrestati e di quelli a bordo restati liberi perché non erano di turno. Ci deve essere per forza un documento del genere. E dunque una posizione ufficiale dell'Italia, accusata di omicidio, davanti al mondo. Qualcuno la conosce? Noto che la reazione dell'opinione italiana, ispirata da giornali e tv, e che circola in Rete, è di due tipi: contro i due marò, ritenuti senz'altro assassini e lasciati al giudizio della giustizia indiana. E per i due marò nel senso che sono eroi la cui liberazione viene richiesta subito con trombe e bandiere. Nessuno ha spiegato al Parlamento o a noi che cosa hanno fatto il governo uno, il governo due e il governo tre. Staffan de Mistura, l'inviato speciale del governo italiano (governo uno), è stato licenziato bruscamente dal governo tre dopo avergli fatto condividere per mesi il destino dei due militari obbligati a restare in India, e senza alcuna spiegazione, non della politica di prima, non di quella di dopo. Il perché l'Italia (una nave italiana protetta da soldati italiani) abbia consegnato due militari italiani, in servizio e vincolati da ordini, alla polizia di una parte fatalmente “avversaria” , resta un mistero. Noi continuiamo a scuotere l'albero dell'immobilismo indiano, ma nessuno ci ha detto con quali argomenti e seguendo quale strategia, l'Italia, che li ha consegnati, li difende (se li difende). L'opinione pubblica italiana, dall'inizio della storia e fino a questo momento, ignora, dunque, le seguenti cose: uno, perché quei militari italiani in servizio erano a disposizione di un armatore privato e in viaggio nell'Oceano Indiano per lui? Due, che tipo di accordo vi era fra governo italiano (ministro della Difesa) e armatore privato? Tre, agli ordini di chi agivano i militari italiani, e con quale relazione con il capitano della nave? Quattro: chi ha ordinato di sparare? Quinto, anche il capitano di una nave riceve ordini, come abbiamo imparato dal caso Concordia-Schettino. Chi ha ordinato al capitano della nave di entrare in porto e di consegnare i due militari italiani ai loro accusatori? Sesto, quando, chi, a quale livello (nel governo italiano) ha incontrato chi, nel nuovo governo indiano? E cosa vuol dire “chiederemo un arbitrato internazionale”, se non si ha alcuna notizia di un lavoro (per forza lungo e pubblico) a tal fine? Il presidente Obama ha trattato personalmente la liberazione del sergente americano prigioniero dei talebani, e ha preso una decisione certamente impopolare (liberazione di prigionieri talebani) pur di riuscire. Nel caso Italia-India i due governi sono legittimi e democratici e dunque le trattative sono per forza aperte e alla luce del sole. Quali trattative?

il Fatto 7.6.14
24 mila in piazza
Marino fischiato e Roma bloccata
I dipendenti comunali protestano contro il taglio dei salari: “Vogliamo dignità”
di Giulia Merlo


A incrociare le braccia contro il sindaco Ignazio Marino, ieri nel primo sciopero generale nella storia di Roma, sono stati 24 mila dipendenti comunali, con un’adesione quasi dell’80%. Vigili urbani, maestre, assistenti sociali e personale amministrativo: tra scuole chiuse, sportelli pubblici deserti e traffico bloccato, la Capitale è andata in tilt. Al corteo, che ha sfilato da piazza della Bocca della Verità fin davanti al Campidoglio, accompagnato dai versi di Giorgio Gaber “libertà è partecipazione”, erano invece in 10mila, con striscioni e bandiere. La ragione della protesta: i salari accessori rischiano di essere tagliati, con buste paga più leggere di almeno 200 euro. Alla testa del corteo, che ha attraversato il centro di Roma sotto il sole cocente, ha sfilato uno striscione con scritto “Game over, insert coin to continue... Salario, diritti, dignità per garantire servizi ai cittadini” e i manifestanti hanno scandito cori contro l’amministrazione capitolina, bloccando il traffico già congestionato di piazza Venezia. Lo sciopero è stato proclamato da Cgil, Cisl, Uil Funzione Pubblica e Csa, nonostante il Campidoglio abbia più volte rassicurato che gli stipendi non verranno toccati. “In gioco c’è molto più del salario accessorio - ha sottolineato il segretario della Uil Funzione Pubblica del Lazio Francesco Croce - c’è la richiesta di dignità per i lavoratori, ovvero per coloro che garantiscono i servizi alla città”.
“Dignità” è infatti la parola d’ordine gridata più volte dai manifestanti, tutti dipendenti con uno stipendio medio che, a oggi, è di circa 1.300 euro. In prima fila c’erano le maestre delle scuole d’infanzia, che hanno denunciato di essere trattate come “tappabuchi”, chiamate senza preavviso per supplenze giornaliere e costrette a gestire da sole 25 bambini.
IL SINDACO MARINO, davanti alla proclamazione dello sciopero dei dipendenti capitolini, nei giorni scorsi aveva pubblicato una lettera sul sito del Comune, scrivendo che “Non vogliamo toccare lo stipendio nè le ore di lavoro. Ma la macchina amministrativa va riorganizzata, per migliorare la qualità del lavoro e dei servizi” e ieri ha dichiarato che “i sindacati non fanno l’interesse dei lavoratori, che devono invece essere sereni, perchè avranno il salario che io ho difeso con le unghie e con i denti e anche un nuovo contratto”.
Al suo arrivo in Campidoglio, in sella alla ormai inseparabile bicicletta, Marino è stato accolto con cori e fischiato dai manifestanti. Nonostante il benvenuto tutt’altro che calorosa, il sindaco si è comunque fermato a salutare la folla prima di entrare nel palazzo comunale, e ha lanciato segnali di distensione ai sindacati. “Ci sono margini per risedersi a un tavolo per discutere - ha dichiarato -. Voglio conservare, e possibilmente aumentare, i salari di chi lavora bene con un sistema premiante”. I sindacati, però, hanno dato un ultimatum: se con l’approvazione del bilancio comunale non arriveranno risposte convincenti, sarà rottura.
La manifestazione di ieri ha allargato ulteriormente il solco già profondo tra Marino e il Partito Democratico romano che lo ha eletto, da tempo contrario ad alcune scelte del sindaco. Il Pd, infatti, ha dichiarato di “stare con i lavoratori”.

Corriere 7.6.14
La «fabbrica» del Campidoglio e quelle file di notte allo sportello
Una macchina da 63 mila stipendi che spesso si inceppa


ROMA - Qualcuno dorme in macchina. Altri arrivano con il buio e gli occhi impastati dal sonno. Nella speranza che la fila non sia già troppo lunga. Scene che da qualche tempo si ripetono a Roma, nelle ore antelucane di ogni lunedì e ogni giovedì, in viale della Civiltà del lavoro, nel quartiere dell’Eur. Lì ci sono gli uffici del nono Dipartimento comunale, dove chi deve fare un aggiornamento catastale può consultare i vecchi progetti. Accolgono trenta pratiche al giorno. Quindi la trentunesima, anche se arrivata all’alba, deve fare dietrofront. Barbarico. 
Ma in una città normale ci si potrebbe prenotare via internet, evitando almeno l’assalto notturno. E in una città normale il deposito di quei documenti consultabili dal pubblico non si troverebbe a 30 chilometri di distanza, come quelli che separano Roma da Pomezia: che significa settimane e settimane di attesa. In una città normale, appunto. Cosa che la nostra capitale oggi non è. 
Se si eccettuano Poste e Ferrovie, il Comune di Roma è la più grande azienda italiana. Paga circa 63 mila stipendi. I dipendenti comunali sono 26.207. Quelli a tempo indeterminato, 24.277: di cui 16.307 donne, più dei due terzi. A questi vanno sommati i 37 mila delle partecipate, un delirio di un centinaio di società. Per un costo del lavoro complessivo di due miliardi e mezzo l’anno. Parliamo di un numero di dipendenti più che doppio rispetto a quello degli operai Fiat in Italia. Senza che però a tali imponenti dimensioni corrisponda una qualità dei servizi altrettanto imponente. Dalla pulizia delle strade fino ai piani alti del Campidoglio. Come ha potuto toccare con mano anche il nuovo sindaco. 
Quando un anno fa ha preso possesso del palazzo Senatorio, Ignazio Marino ha scoperto l’esistenza di un ufficio per le relazioni internazionali composto da ben 27 persone, dove però a quanto pare il rapporto con le lingue straniere non si può definire particolarmente familiare. 
Altrove la cosa si risolverebbe con il buonsenso, e senza licenziare nessuno. Non qui. Chi si lamenta del fatto che la pubblica amministrazione sia diventata prigioniera dei sindacati dovrebbe fare un giro da queste parti. Tre anni fa l’Ama, la municipalizzata che si occupa della raccolta dei rifiuti con bilanci da brivido, aveva siglato un accordo che riconosceva il premio di produttività a chi si fosse presentato al lavoro almeno metà del tempo e non avesse subito nell’anno più di cinque giorni di sospensione disciplinare. 
I vigili urbani, in prima linea nella difesa del famoso «salario accessorio» che ha scatenato lo sciopero di ieri, protestano perché sotto organico. Peccato che di 6 mila, questo è il loro numero, ce ne siano per strada nemmeno mille nell’arco delle 24 ore. Trecento per turno. E gli altri? Negli uffici, o a consegnare atti e contravvenzioni che si potrebbero notificare via internet: ma in quel caso non incasserebbero la provvigione prevista. Salario accessorio anche questo? Il Tesoro aveva già contestato nel 1998 quella parte dello stipendio, chiedendo che fosse erogata solo a fronte di mansioni supplementari effettive. Per ben 16 anni hanno fatto orecchie da mercante: nel frattempo quel benedetto «salario accessorio» si è ingigantito fino un’ottantina di milioni l’anno. Può forse non avere diritto all’indennità di sportello chi ha l’incarico di stare allo sportello? Mentre ai 23 avvocati dell’ufficio legale spetta un bonus sugli onorari per le cause vinte, analogamente a quanto accade all’Inps. Il che ha comportato per ciascuno nel 2012 incassi accessori oscillanti fra 160 e 200 mila euro, capaci di spingere qualche retribuzione a 321 mila euro. 
Crescevano i salari e gli organici. Nei cinque anni prima di Marino le municipalizzate hanno assunto almeno tremila persone: non sempre funzionali alla missione aziendale. Alla fine del 2012 Ama, Atac e Acea avevano in carico 31.338 persone, senza strade più pulite, trasporti migliori, forniture più efficienti. E nel febbraio del 2010, con Gianni Alemanno in sella da un paio d’anni, il Comune ha bandito un concorsone per ingaggiare altre 1.995 persone. Mai assunte. Fra queste, anche 300 vigili urbani, con un esito sconcertante: la prima commissione d’esame è stata revocata per presunte gravi irregolarità. Il suo ex presidente era l’ex capo della polizia municipale Angelo Giuliani, finito in seguito agli arresti domiciliari nell’ambito di un’inchiesta sugli appalti per la rimozione dal manto stradale dei detriti degli incidenti. 
Questo Comune è un’azienda talmente grande da offrire occasioni a ogni figura professionale. Non solo vigili, mezze maniche, spazzini, elettricisti, ingegneri… Ci sono educatori che educano. Dietisti che studiano le diete. E camminatori che camminano. Portano le carte da un ufficio all’altro. Tanti uffici, tanti camminatori: sono un centinaio. Le strutture burocratiche del Comune si sono moltiplicate e ramificate al punto che negli anni si è ritenuto anche indispensabile affittare dai privati un gran numero di locali. Con esborsi inconcepibili, alla luce del volume di proprietà del Campidoglio: si tratta di 59.466 beni, fra cui ben 16.413 immobili commerciali. 
Per i canoni passivi il Comune sborsa 74 milioni l’anno. Con punte inarrivabili, come i 15,6 milioni versati all’immobiliarista Sergio Scarpellini. O i 10 pagati ogni anno a Francesca Armellini. Figlia del costruttore Renato Armellini, è la sorella di Angiola Armellini, la proprietaria di 1.243 appartamenti su cui, dicono i finanzieri, non pagava l’Imu. Ben 1.042 dei quali, guarda caso, affittati proprio al Comune di Roma. Dove gli uffici competenti non si erano accorti di niente… Alla faccia del salario accessorio.

Corriere 7.6.14
L’amaro bilancio di Marino: è una mossa contro i lavoratori
di Alessandro Capponi


ROMA - Sulla piazza del Campidoglio, alle undici del mattino, ci sono diecimila persone in protesta; il sindaco Ignazio Marino arriva in bicicletta, sorride, e spedisce un messaggio inequivocabile a Cgil, Cisl e Uil: «Lo sciopero è contro i dipendenti del Campidoglio. I sindacati in questo momento stanno andando contro l’interesse dei lavoratori. Ma nessuno può chiedermi di fare qualcosa di illegale. Chi invece di sedersi al tavolo eccita gli animi, e crea conflitti e divisioni, è evidente che lavora affinché non ci sia soluzione». A stretto giro di posta, ecco la replica della Cgil: «Il sindaco invece di ascoltare le migliaia di lavoratori continua ad attaccarci, ci accusa di non rispettare le leggi e di aver chiuso gli occhi per sei anni. Parole sconcertati, frutto di una conoscenza approssimativa della materia». 
E pensare che a febbraio Marino minacciò Matteo Renzi: «I soldi del decreto o blocco Roma». All’epoca però non poteva sapere che quella frase sarebbe diventata profezia, e che la capitale del Paese, oggi, si sarebbe bloccata davvero. Tutto chiuso, neanche un vigile in strada, traffico impazzito. Altro che casta e privilegi, la giornata del primo cittadino sembra identica a quella di ogni romano in coda sul lungotevere: faticosa, complicata, con quella sensazione in fondo al cuore di avere tutti contro. Ecco: nel caso di Marino, forse, a guardare l’anno trascorso in Campidoglio, è qualcosa in più di una sensazione. 
Soprattutto dopo gli interventi di esponenti del Pd: per l’europarlamentare David Sassoli «una capitale va consultata, non umiliata. E non illusa in campagna elettorale». Il capogruppo D’Ausilio fa notare che «lo sciopero è riuscito, rispetto per i sindacati». Sia chiaro: il Pd a Roma è un partito lacerato dalla vittoria alle Europee (ha preso il 43% e subito dopo ha preso a litigare) e con Marino non ha mai avuto un rapporto idilliaco. Ma comunque: nel venerdì nero della capitale Marino ha già partecipato al vertice sulla direttiva di Alfano per «Roma sicura» (un ossimoro, a guardare lo stato della città). E, dopo l’abbraccio della piazza, chiama Delrio: «Sarebbe utile per Roma il riconoscimento dello stato di calamità naturale per allentare il patto di stabilità». Da gennaio, dopo le piogge, alcune strade danneggiate sono chiuse: così ecco la visita al cantiere della tangenziale, a metà giornata. E via con un nuovo messaggio distensivo: «Se questi lavori fossero stati fatti 45 anni fa forse oggi non ci saremmo trovati così. Per decenni si sono curati più gli interessi dei costruttori che quelli dei romani». Della lotta contro i «poteri forti», del resto, Marino ha fatto un tratto distintivo: ha chiuso la discarica di Malagrotta di Manlio Cerroni (ora a processo) ritrovandosi poi coi maiali a grufolare vicino ai cassonetti; con l’Acea del socio privato (ed editore del Messaggero ), Francesco Gaetano Caltagirone ci sono state polemiche e ricorsi: giovedì, dopo un anno di battaglia, ecco i nuovi vertici (con cda ridotto nel numero e nei compensi). Certo l’inizio di Marino fu complesso: decise di pedonalizzare i Fori imperiali. La notizia fece il giro del mondo ma, in città, il ritornello era: «È il primo problema da risolvere?». Di certo i problemi erano (e sono) molti: a cominciare dalle casse del Campidoglio, vuote nonostante il Salva Roma e i tagli alla spesa. E sui temi delicati, intanto, la città discute: Marino propone i quartieri a luci rosse e la legalizzazione delle droghe leggere, solo per fare due esempi. Ieri, nel pomeriggio, ha sposato una coppia di sessantenni, e tra poche ore sarà in testa al gay pride. «Perché tutti devono avere gli stessi diritti». Di certo se l’obiettivo è «cambiare Roma», come Marino promette, serve tempo: da trascorrere così, con quella sensazione che accomuna il sindaco e i romani in coda sul lungotevere, di avere tutti contro, neanche un alleato.

Repubblica 7.6.14
Tenta un borseggio in metro, ucciso di botte
Roma, l’aggressione ieri sera alla fermata della metropolitana di piazza Vittorio, quartiere multietnico
L’uomo, un romeno, aveva provato a scippare alcuni viaggiatori. Che hanno reagito ammazzandolo
di Emlio Orlando


ROMA. Scippo sui vagoni del metrò di Roma finisce in tragedia. Un cittadino romeno di 52 anni è morto al pronto soccorso del Policlinico Umberto I dopo esser stato brutalmente pestato da alcuni viaggiatori che aveva scippato poco prima. I medici che ne hanno constatato la morte hanno riscontrato una grave emorragia interna compatibile con violente percosse. Il fatto sarebbe avvenuto durante una corsa della metropolitana, intorno alle 23.30, e a trovare lo straniero in fin di vita è stato il personale di vigilanza in servizio alla fermata della linea A di piazza Vittorio, al centro di Roma.
Secondo alcune testimonianze raccolte dai poliziotti della squadra mobile del commissariato Esquilino sembra che il romeno avesse borseggiato alcuni ragazzi che viaggiavano in un vagone in direzione Anagnina. Ma questi hanno reagito e lo hanno inseguito fuori dal metrò, sulla banchina e poi nei corridoi della stazione: quando lo hanno raggiunto lo hanno preso a calci e pugni, lasciandolo in una pozza di sangue. Poi sono fuggiti all’esterno facendo perdere le tracce.
Oggi gli investigatori guidati da Renato Cortese torneranno nella sala operativa della metropolitana per estrarre i filmati di videosorveglianza che hanno ripreso il pestaggio costato la vita al borseggiatore. L’episodio ricorda la tragedia della connazionale Maricica Hahaianu, l’infermiera morta nel 2010 dopo essere stata colpita con un pugno alla stazione della metropolitana Anagnina.

il Fatto 7.6.14
Civitavecchia, arrestato capo scout per abusi sessuali su ragazze minorenni
L'uomo è uno stimato dirigente di 61 anni. Le indagini sono scattate alcuni mesi fa, dopo la denuncia di una giovane, oggi ventenne, che ha raccontato agli agenti gli anni di molestie dai quali voleva liberarsi

qui

il Fatto 7.6.14
India. Il ministro e li stupri organizzati “A volte è giusto”
Le frasi di Gaur non sono isolate: pure Bollywood celebra le violenze
di Carlo Antonio Biscotto


All’origine dell’ondata di stupri di massa che ha sconvolto l’India negli ultimi tempi e offeso le coscienze delle donne e della stragrande maggioranza degli uomini, c’è un dramma culturale antico che, come un fiume carsico, scompare e ricompare col mutare delle circostanze e degli umori. Quelle violenze di gruppo ai danni di donne e bambini sono solo un retaggio del passato e dell’ignoranza? Difficile crederlo specialmente quando un importante uomo politico rilascia delle dichiarazioni pubbliche come ha fatto Babulal Gaur, esponente di spicco del Bharatiya Janata Party (BJP), la formazione politica del primo ministro Narendra Modi: in primo luogo ha detto che si può parlare di reato di stupro solo quando il fatto criminoso è accertato dalla polizia. “È un reato sociale che dipende tanto dagli uomini quanto dalle donne. A volte è giusto, altre volte è sbagliato”, ha aggiunto Babulal Gaur che attualmente ricopre il ruolo di ministro dell’Interno nello stato del Madhya Pradesh.
I RECENTI FATTI di cronaca hanno rinfocolato le polemiche. Da un lato chi difende la cultura indiana che esalterebbe ”le virtù della femminilità e il ruolo della donna nella società”, dall’altro le molte donne che ricordano che secondo la tradizione le ragazze vengono fatte sposare per essere buone mogli e, spesso, senza il loro consenso . E come dimenticare che nei film di Bollywood gli uomini molestano spessissimo le donne e che – come riporta The Times of India – l’attore Ranjeet ha girato oltre un centinaio di scene di stupro ”con il pubblico sempre inneggiante”?
In sostanza circola nel corpo del Paese un atteggiamento assolutorio e giustificazionista nei confronti degli stupratori. I leader politici dello Uttar Pradesh, lo stato nel quale due cugine di 12 e 14 anni sono state violentate e uccise la settimana scorsa, sono stati criticati per non essersi recati sul posto e per aver accusato gli organi di informazione di aver “gonfiato” la vicenda. Le dichiarazioni di Gaur non sono le prime di questo tenore da parte di uomini politici indiani. In occasione delle recenti elezioni, Mulayam Singh Yadav, presidente regionale del Partito Samajwadi che governa l’Uttar Pradesh, ha preso posizione contro la proposta di legge volta ad introdurre la pena di morte per gli stupri di gruppo dicendo: ” I ragazzi fanno degli errori. Dobbiamo forse ucciderli per uno stupro?”. E Babulal Gaur non si è fatto pregare a schierarsi a difesa di Singh Yadav.
Modi, che ha assunto la carica di primo ministro dopo la schiacciante vittoria elettorale, finora non si è espresso sul doppio omicidio compiuto dal branco nel villaggio di Katra Shahadatganj. Il padre e lo zio di una delle vittime hanno detto di aver tentato di denunciare il reato alla polizia, ma di non essere stati nemmeno ricevuti. Per la morte delle ragazzine sono stati arrestati tre uomini che, stando agli inquirenti, avrebbero confessato lo stupro, ma non l’omicidio.
SEBBENE IN INDIA venga denunciato uno stupro ogni 21 minuti, la facilità con cui gli stupratori riescono a farla franca autorizza a ritenere che per tutta una serie di ragioni le forze di polizia effettuino accertamenti e indagini alquanto superficiali ritenendo lo stupro ”un reato di poca importanza”.
Negli ultimi giorni ci sono stati altri casi. In un altro distretto dell’Uttar Pradesh una donna ha subito uno stupro di gruppo, poi è stata costretta a bere dell’acido ed è stata strangolata. Un’altra è stata uccisa con un colpo di arma da fuoco nel nord-est dell’India per aver tentato di opporsi alla violenza.
Alla fine del 2012 un rapper del Punjab, Honey Singh, fu travolto da una furibonda polemica alla vigilia del concerto che doveva tenere a Delhi e che fu cancellato a seguito di una campagna online contro di lui orchestrata da gruppi di donne e da associazioni per la tutela dei diritti umani.
Le sue canzoni erano infarcite di brutali fantasie di stupro e all’epoca molti si chiesero come mai era diventato famoso al punto che l’industria di Bollywood l’aveva scritturato facendolo diventare il più pagato autore di testi.

La Stampa 7.6.14
Narendra Modi, ecco perché
gli occidentali non l’hanno capito
di Subhash Agrawal

qui

Corriere 7.6.14
L’enigma del vero Diocleziano. Imperatore geniale o persecutore
Risuscitò la grandezza di Roma ma fu durissimo con i cristiani
di Luciano Canfora


Il nome di Diocleziano (il quale regnò dal 284 al 305 d.C.) è legato, nell’immaginario di chi serba ancora ricordi degli studi ginnasiali, all’ultima persecuzione anticristiana più che all’editto sui prezzi o al riordino amministrativo e militare dell’impero. D’altra parte, il governo di Diocleziano sul piano amministrativo, militare, economico ha suscitato in genere rispetto tra gli storici moderni, a parte qualche ironia fatuamente liberista verso l’editto sui prezzi. La trovata di «sminuzzare» l’estensione geografica delle province al fine di ridurre il potere militare dei singoli governatori era la risposta più razionale al caos prolungato del decennio successivo alla morte di Aureliano. La scelta di non chiedere nemmeno l’avallo - o la legittimazione - del Senato era un modo drastico, ma efficace, di far comprendere all’aristocrazia senatoria il cambio d’epoca in atto. Ormai era l’esercito - in tutta la sua amplissima estensione e articolazione - il fondamento politico-sociale del potere imperiale. I soldati restavano nel servizio per decenni: erano il ceto sul cui crescente peso e sulla cui lealtà si fondava lo Stato. Diocleziano veniva dal basso, suo padre era stato schiavo, poi liberto, di un senatore romano (fonte Giovanni Zonara); il suo culto e la sua assoluta dedizione all’impero e all’idea stessa di potere imperiale venivano proprio di lì, da quelle origini e da quella tenace e fortunata sua ascesa tutta all’interno dell’esercito e mai immemore del punto di partenza. La biografia scritta da Umberto Roberto, Diocleziano (Salerno, pp. 387, e 24), mette bene in luce questo aspetto. E si fa apprezzare per l’efficacia narrativa oltre che per la documentazione. 
Invece la svolta anticristiana ha sconcertato i moderni interpreti. «Non è ben chiaro - scrisse Luigi Pareti - per quale motivo, dopo ben diciotto anni di tolleranza per il Cristianesimo (285-303), Diocleziano a nome dei tetrarchi infierisse contro i cristiani con quattro editti fierissimi» (Storia di Roma, 1954). Il sovietico Kovaliov scelse un’altra strada: «Al suo Stato riformato - scrisse - Diocleziano volle assicurare, oltre che una base materiale, anche una base ideologica. Tuttavia la sua perspicacia non era sufficiente a scegliere tale base. Base ideologica della nuova monarchia poteva essere soltanto la nuova religione, il Cristianesimo, che a quel tempo era diventato un’enorme forza, soprattutto in Oriente» (Storia di Roma , 1948). Analoga la posizione di Momigliano: «L’essere caduto nell’errore di portare all’estremo inutilmente la persecuzione contro i cristiani indica quale fosse il difetto intrinseco al regime: una rigidezza che invano tentava di imprigionare il corso dei fenomeni» (Sommario di storia delle civiltà antiche , 1934). Per Mazzarino invece «il genio di Diocleziano aveva intuito l’inutilità della lotta» contro il Cristianesimo, ma «gli uomini di cultura d’intorno a lui pensavano che ancora si potesse e si dovesse tentare»; e indica nel Contro i cristiani di Porfirio il loro «Manifesto» (Trattato di storia romana. L’impero , 1956). 
Consideriamo più da vicino la cruciale vicenda. Una fonte insospettabile, il padre della Chiesa Cecilio Firmiano Lattanzio (250-325 d.C.) riversa soprattutto su Galerio, «Cesare» di Diocleziano, la responsabilità della persecuzione. Narra Lattanzio con dovizia di dettagli, nei capitoli 10 e 11 del De mortibus persecutorum , che Galerio - spronato a ciò da sua madre Romula, seguace di riti pagani degli «dei delle montagne» - si installò per tutto l’inverno del 303 presso Diocleziano, in quel momento nella sua residenza di Nicomedia (in Bitinia), e, nonostante la riluttanza del vecchio e malandato imperatore (senex vanus lo chiama), lo piegò, alfine, ad avallare lo scatenamento della persecuzione. 
Lo storico che più ha dato rilievo a questa scena onde ridimensionare le responsabilità di Diocleziano è stato Edward Gibbon, nel celebre capitolo XVI della Storia della decadenza e caduta dell’impero romano : è il capitolo che tratta con spirito critico il problema delle persecuzioni, in contrasto spesso con le iperboli della «storia sacra» degli autori cristiani. Gibbon solleva anche la questione: come faceva Lattanzio a conoscere minuti e segreti dettagli dei colloqui tra l’«Augusto» Diocleziano e il suo «Cesare» Galerio? D’altra parte è significativo che Gibbon non tratti questa vicenda nel capitolo (il XIII), molto ammirativo, dedicato a Diocleziano, ma nel capitolo sulle persecuzioni, e nei termini che abbiamo ora ricordato. È una strategia narrativa che consente a Gibbon di non turbare con ombre sgradevoli il tono generale del capitolo su Diocleziano: lascia al lettore l’onere di connettere i due resoconti. 
La scena del lungo incontro di Nicomedia viene ripresa, con efficacia narrativa, dal testo di Lattanzio e inserita nel capitolo intitolato «La spirale dell’odio» da Umberto Roberto nel suo Dioclezian o . Egli non si pone però la domanda di Gibbon, semmai ribalta il racconto di Lattanzio asserendo che Galerio «appoggiò con solerzia le misure contro i cristiani». 
La vicenda della lunga persecuzione (durata ben oltre l’abdicazione di Diocleziano, avvenuta il 1° maggio 305, e protrattasi per altri sette anni, quando ormai Galerio da «Cesare» era diventato «Augusto») ha importanza soprattutto sul piano della storia politica. Soccorre il paragone, certo alquanto enfatico, di Gibbon, il quale accostava senz’altro Diocleziano ad Augusto. «Al pari di Augusto - scrisse Gibbon - Diocleziano può essere considerato come il fondatore di un nuovo impero». E soggiungeva, non senza un’accentuazione oleografica: «Questi due principi non impiegarono mai la forza ogniqualvolta potevano conseguire lo scopo con la politica». Se dunque nei confronti dei cristiani Diocleziano accettò di adottare la maniera forte, è necessario chiedersi perché ciò sia accaduto. 
La premessa fattuale è che il proselitismo cristiano aveva raggiunto la gran parte delle province dell’impero ed era penetrato in profondità nell’esercito, cioè nell’unica e fondamentale base del potere imperiale sotto la tetrarchia, dopo quasi un secolo di crisi e convulsioni dinastico-militari. Al pari di Augusto, Diocleziano era profondamente convinto della necessità di una salda unificazione religiosa dell’impero quale vero e stabile cemento della compattezza della compagine statale. L’azione svolta da Augusto su questo terreno è ben nota: essa poté dispiegarsi secondo il modello inclusivo caratteristico della prassi di governo romana, allora in grado di coniugare controllo e tolleranza. Ma all’inizio del IV secolo la questione si poneva, dal punto di vista dei rapporti di forza, in termini diversi rispetto a tre secoli prima: la repressione - già materia di discussione tra Plinio e Traiano al principio del II secolo - appariva ora lo strumento, certo aspro ma, si riteneva, pur sempre efficace, per riportare anche questo culto così pervasivo nell’alveo dell’unità imperiale. 
Non va trascurato un elemento che più d’ogni altro denota il cambio d’epoca: Augusto fa «dio» il suo padre adottivo (divus Iulius ), Diocleziano pone ormai se stesso come «divino» di fronte a masse militari pronte a recepire una tale grossolana proiezione del potere. E dunque l’attrito con la componente cristiana diveniva inevitabile: a meno di non compiere il salto sommamente realpolitico dell’accettazione del nuovo credo da parte dello stesso imperatore. Ciò che farà di lì a poco Costantino dinanzi al fallimento dell’altra opzione.

Corriere 7.6.14
EMPATIA
Mettiti nei miei panni
L’intelligenza emotiva salverà il mondo
Come evitare il rischio di un nuovo conformismo
di Daniela Monti


«Puoi sempre sapere quando una nuova idea sta diventando popolare: è quando la gente inizia a criticarla». Roman Krznaric, guru del pensiero empatico, mette le mani avanti: il brusio che disturba la cerimonia di incoronazione dell’empatia a strumento che salverà il mondo non è che il prezzo da pagare per la raggiunta celebrità. 
L’empatia sta vivendo il suo periodo d’oro. In nessun’altra epoca storica se n’è parlato tanto. Viviamo nel mezzo di una «smania empatica», per usare l’espressione di Steven Pinker, docente ad Harvard. La nuova intelligenza, quella più adatta a comprendere il nostro tempo e il nostro mondo, è quella empatica. Solo i manager e i politici empatici hanno successo, non si può esistere senza essere empatici, lo chiediamo ai vicini di casa, ai colleghi di lavoro, ai compagni di palestra. Se possiamo insegnare ai nostri figli a gestire le emozioni mettendosi nei panni dell’altro, ridurremo il bullismo. Se possiamo coltivare l’intelligenza emotiva fra i medici, avremo un’assistenza sanitaria migliore e più compassionevole. In Ruanda, scrive Krznaric nel suo ultimo libro dal timido titolo «Empatia: un manuale per la rivoluzione», una fiction vista dal 90 per cento della popolazione è infarcita di messaggi empatici nello sforzo di prevenire il ritorno della violenza etnica fra Tutsi e Hutu. La frequenza delle ricerche su Google per la parola empatia è più che raddoppiata negli ultimi dieci anni. 
A puntellare la straordinaria ascesa i bestseller - dal più datato al più recente - di Daniel Goleman, «L’Intelligenza emotiva», del 1995, e di Jeremy Rifkin, «La civiltà empatica», del 2010. «Perché un quoziente intellettivo altissimo non mette al riparo da grandi fallimenti?», si chiedeva il primo. «Perché a governare settori decisivi della nostra vita non provvede l’intelligenza astratta dei soliti test, ma una complessa miscela fatta di autocontrollo, perseveranza, empatia, attenzione agli altri» è la risposta. Se, come scrive Hans Magnus Enzensberger, il Novecento è stato il secolo del trionfo del quoziente intellettivo e dell’ossessione di misurare l’intelligenza con rigore scientifico, oggi il QI è messo in ombra dall’EQ, Emotional Intelligence Quotient. 
Dopo l’onda del riflusso che ha seguito i movimenti giovanili degli Anni Sessanta e Settanta, spingendo ad un generale ripiegamento nella sfera privata, «con una di quelle svolte di cui non è facile rintracciare la radice, il motore delle emozioni collettive ha ripreso a girare - scrive il filosofo Roberto Esposito -. È bastato che una scintilla scoccasse in una metropoli perché lo stesso fuoco si accendesse in quella vicina» e poi in un’altra ancora, in una corrente inarrestabile di emotività collettiva. I Millennials - i nati fra gli Anni Ottanta e i primi Anni Duemila - castigati dalla crisi economica, sono stati costretti a ripensare le categorie del successo, sempre meno legato al possesso e sempre più in tensione verso qualcosa d’altro, di nuovo. La sfida è inventare modelli di relazione, lavori che possano fare la differenza nella propria vita e in quella degli altri. L’economia sociale e solidale è la sola che non sta conoscendo la crisi. «C’è stato un tempo in cui prendersi cura del prossimo era da sfigati: in cui lo stile di un giovane occidentale domandava il più gelido e ironico distacco. Ma forse questo tempo è finito. L’ethos dei trentenni di oggi è fatto di empatia e - per dirla con papa Francesco - di nessuna paura verso la tenerezza: un umore collettivo chiamato New Sincerity », ha scritto Giorgio Fontana su La Lettura .
Anche la crisi finanziaria del 2008 ci ha messo del suo, rimescolando i valori e aprendo un’epoca che dà maggiori importanza alla cooperazione e alla responsabilità sociale e ambientale. Cosi l’etologo Frans de Wall può scrivere nel suo libro «L’età dell’empatia. Lezioni dalla natura per una società più solidale»: «L’avidità ha fatto il suo tempo. Ora è il momento dell’empatia». E il presidente americano Obama può ripetere nei suoi discorsi: «Dobbiamo parlare di più della nostra mancanza di empatia. È solo quando sei mosso da qualcosa di più grande di te stesso che realizzi il tuo vero potenziale». 
Ma qualcosa scricchiola, l’euforia ha fatto dimenticare il lato oscuro dell’empatia, la sua fragilità. «L’empaticamente corretto è il nuovo politicamente corretto» scrive provocatorio The Atlantic . Al conformismo linguistico - spesso ipocrita e finto buonista - dettato dalla volontà di tutelare tutti senza offendere nessuno si sta affiancando un conformismo delle emozioni, guscio di protezione delle sensibilità individuali? «Tutti coloro che non sanno subito dare agli altri l’impressione della comprensione, condividendo valori ed emozioni, vengono scartati», scrive Paul-Henri Moinet, in un acido articolo su Le Nouvel Economiste . Il rischio è trasformare l’empatia nella coperta di Linus di una società che ha continuo bisogno di conforto fisico e intellettuale, annullando la fatica di doverci spiegare e magari anche confrontare in modo duro per poterci conoscere. «L’intelligenza empatica sviluppata solo in una direzione e ingenuamente identificata con lo strumento per raggiungere l’armonia fra gli uomini è un approccio destinato a fallire - dice Andrea Pinotti, docente di Estetica alla Statale di Milano, autore di “Empatia. Storia di un’idea da Platone al post umano” (Laterza) -. L’empatia ha un ruolo se riesce ad abbracciare anche la dimensione dei conflitti, in un rapporto dialettico in cui le diversità si confrontano, assumendosi dei rischi». 
«La tesi più avanzata, che emerge dagli studi sui circuiti neuronali, sostiene che l’empatia è un’esperienza molto complessa, non riconducibile solo a una risposta emotiva automatica», spiega Laura Boella, docente di Filosofia morale, autrice di «Sentire l’altro. Conoscere e praticare l’empatia» (Raffaello Cortina). La risposta emotiva è come un fuoco di paglia. Possiamo essere colpiti dal dolore di una persona accanto a noi, ma perché il disagio diventi preoccupazione per l’altro «è necessario l’intervento delle capacità cognitive, che non significa il freddo calcolo della ragione, ma la messa in prospettiva, l’immaginare la vita altrui. Insomma, bisogna lavorarci un po’ su, mettendosi in gioco». L’idea di un’empatia «facile» è romantica e naif. La paura d’amare, di stringere amicizie profonde sono spie della difficoltà di uscire dai nostri confini, allargare l’esperienza e accogliere la gioia e il dolore altrui, tutte caratteristiche dell’intelligenza emotiva. Come scrive ancora Enzensberger «continuiamo a vivere nel timore di essere stupidi». Solo i test di valutazione sono cambiati.

Corriere 7.6.14
Grande Gioco, piccole mosse Anche il fascismo coltivava ambizioni afghane. E sbagliò tutto
di Dino Messina


La nostra partecipazione alla missione Isaf, istituita dall’Onu dopo l’attacco alle Torri Gemelle, non è un capitolo estemporaneo della politica estera italiana, come l’opinione corrente ha sempre ritenuto, ma fa parte di una lunga storia. Lo spiega bene Eugenio Di Rienzo nel saggio appena uscito da Salerno Editrice ( Afghanistan. Il Grande Gioco 1914-1947 , pp. 156, e 15). Non è facile districarsi nel labirinto di alleanze che dalla nascita (1747) ha caratterizzato questa nazione orgogliosa sempre al centro degli interessi non solo occidentali perché terra di confine tra l’ex impero russo-sovietico e il Raj britannico. Punto di snodo essenziale non solo per le ambizioni prima zariste e poi bolsceviche di espansione verso l’Asia meridionale e il Medio Oriente, ritenuto (a torto) anello debole per attaccare dalla periferia la Gran Bretagna e penetrare infine nei territori indiani. 
Coerente con una linea di ricerca avviata con gli studi sul patto Molotov-Ribbentrop, la «quasi alleanza» tra la Germania nazista e la Russia staliniana firmata il 23 agosto 1939, Di Rienzo è convinto, e accompagna sempre i suoi ragionamenti con documenti di archivio, che quello strano patto non venne sottoscritto, come è stato sostenuto, per temporeggiare e consentire alle armate sovietiche, come a quelle hitleriane, di armarsi per sostenere lo scontro decisivo. L’intesa russo-germanica ha invece una lunga tradizione. Così come l’interesse per l’Afghanistan, e quindi per i territori indiani dell’impero britannico, non è figlio della megalomania di Hitler, ma è un albero con radici antiche. Non si spiegherebbe altrimenti perché già nel 1924 la Germania diventi uno dei principali partner commerciali e industriali dell’Afghanistan, suscitando le preoccupazioni degli inglesi, consapevoli che il gioiello dell’impero era vulnerabile soprattutto sulla frontiera nordoccidentale, cioè in quella terra di nessuno dove bande di etnia pashtun erano pronte a vendersi al migliore offerente. 
Un po’ di distensione anglo-tedesca arrivò con il trattato di Locarno (ottobre-dicembre 1925). Ma subito si apriva un altro fronte, quando nell’estate 1926 i sovietici pensarono bene di occupare una piccola isola fluviale suscitando la dura reazione di Amanullah Kahn, il re considerato l’equivalente afghano del modernizzatore turco Mustafa Kemal Atatürk. Amanullah governò sino al 1929 e poi, destituito da un golpe, si rifugiò a Roma, facendo entrare il nostro Paese nel Grande Gioco, non foss’altro per l’ospitalità concessa. 
Già fornitrice di carri armati leggeri e di qualche aereo, l’Italia fascista, ossessionata dal vecchio complesso delle conquiste territoriali, poco pronta a recepire il moderno concetto di «sfere d’influenza», si mosse con una certa goffaggine nel delicato teatro mediorientale. In ciò spinta un po’ dalla leggerezza di Galeazzo Ciano, un po’ dalla diffidenza che soprattutto in quelle aree suscitò la conquista dell’Etiopia. Eppure fu proprio nel periodo più delicato (1936-1941) che riuscimmo ad avere a Kabul, tradizionalmente considerata una sede punitiva nella gerarchia diplomatica italiana, un ambasciatore di prim’ordine, Piero Quaroni, i cui diari e dispacci sono stati ampiamente consultati da Di Rienzo. 
Il capitolo centrale del Grande Gioco , prima dell’ingresso sulla scena degli Stati Uniti, è dunque il patto Molotov-Ribbentrop, che prevedeva un’azione congiunta di Urss e Germania in Afghanistan e l’ipotesi di appoggiare il rientro in patria di Amanullah che in extremis venne abbandonata soprattutto per le diffidenze tedesche. La Germania temeva una naturale espansione territoriale sovietica, «in analogia con la penetrazione nelle repubbliche baltiche». Il che avrebbe compromesso il piano nazista di usare l’Afghanistan come rampa di lancio per conquistare l’India. Le mire naziste sul Raj britannico rimasero anche quando nell’estate 1941 la Germania, con l’operazione Barbarossa, sferrò l’attacco all’Unione Sovietica. Il progetto era di penetrare in Afghanistan dopo la conquista del Caucaso. Ambizione anche questa naufragata grazie alla controffensiva russa. 
Nel Grande Gioco una menzione a parte merita il rivale di Gandhi ed ex presidente del partito del Congresso indiano, Subhas Chandra Bose, che cercò con ogni mezzo l’appoggio militare e finanziario dell’Asse per scatenare un’insurrezione armata contro i britannici. I suoi frequenti viaggi a Berlino e a Roma furono tuttavia infruttuosi, così preferì finire il suo impegno nella Seconda guerra mondiale accanto ai giapponesi. 
Con l’ingresso degli Usa nel conflitto, cominciò anche la loro partecipazione al Grande Gioco afghano. Il primo ambasciatore statunitense a Kabul venne accreditato nel luglio 1942 e si chiamava Cornelius Engert: fu lui assieme all’ambasciatore a Teheran, Louis Dreyfus jr., a convincere il Dipartimento di Stato che l’America non poteva essere latitante in quest’area di cruciale interesse geopolitico, che secondo Zbigniew Brzezinski è lo scacchiere su cui si deciderà la  competizione globale del terzo millennio.

Corriere 7.6.14
L’oncologo e Mario Pappagallo  ripercorrono la Bibbia al femminile tra antropologia e pratiche terapeutiche
Maddalena pioniera dell’emancipazione nel Vangelo secondo Umberto Veronesi
di Elisabetta Rosaspina


Spregiudicate, quantomeno. Machiavelliche ben prima di Machiavelli. E perfino crudeli manipolatrici, talvolta. Ma sempre intraprendenti. Se Eva si è limitata, in fondo, ad addentare una mela, le sue bibliche discendenti hanno proseguito convinte il cammino nel solco tracciato, senza badare a scrupoli o a sotterfugi pur di raggiungere i loro scopi, e modificare il corso del destino. Di per sé volentieri maschilista, almeno nelle Sacre Scritture. 
Dopo il poeta Erri de Luca (Le sante dello scandalo , Giuntina editore) e il cardinale Gianfranco Ravasi (Le grandi donne della Bibbia , San Paolo), tocca allo scienziato Umberto Veronesi avventurarsi nel vivace gineceo del Vecchio e Nuovo Testamento, soprattutto il Vecchio, a cercare di decriptare figure femminili immortali, accomunate da bellezza, astuzia, ma anche coraggio e determinazione, senza tacere di qualche slealtà. Accompagna l’oncologo, nel suo viaggio tra i più antichi segreti muliebri, il giornalista del «Corriere della Sera» Mario Pappagallo, specializzato in informazione medico-scientifica e sanitaria dal 1980: due uomini di laiche vedute, che non nascondono la loro fascinazione per l’animo femminile, più o meno permeato di grazia celeste, ma sicuramente ben provvisto di energia terrena. 
Si parte con Eva, naturalmente, «madre della scienza» e di tutte le disobbedienti, per spiegare come la sete di conoscenza (il frutto proibito) e la conseguente cacciata divina si siano risolte, a conti fatti, in un’arma di potere assoluto per le sue eredi: la facoltà biologica della riproduzione, benché dolorosa. E le sue detentrici, osserva Veronesi ,«sono pronte a tutto per esercitarla». Guai alle sterili. In mancanza, a quei tempi, di provette, congelatori e tecniche di fecondazione artificiale, oltre che di un seppur vago codice bioetico, prosperava l’arte di arrangiarsi: tradimenti e incesti erano vie ampiamente praticate, ma anche l’utero in prestito aveva già posto solide basi. Sebbene non si trattasse proprio di un affitto quanto di un esproprio, cui le giovani schiave difficilmente avrebbero potuto sottrarsi. 
L’eredità di Eva , che dà il titolo al libro (Sperling & Kupfer editore), è innanzitutto la scienza, con il suo principio fondante: la trasgressione. Veronesi e generazioni di ricercatori ringraziano. Poi però è anche l’avvio di un matriarcato che neppure la più misogina penna biblica è riuscita a mimetizzare: Abramo, il patriarca di tre fedi, cristiana, ebrea e musulmana, subisce la volontà di Sara che, di fronte alla latitanza di un erede, lo induce a figliare con la schiava Agar; e dopodiché, a sua volta mamma, miracolosamente, a 90 anni, si sbarazza della schiava e del figliastro, spedendoli nel deserto. 
Se le maternità di Rebecca, nuora di Sara, e di Rachele, nuora di Rebecca, entrambe ufficialmente sterili, fanno sorridere lo scienziato Veronesi, la madre di Sansone riscuote la sua ammirazione di medico. È la prima che formula norme di igiene in gravidanza: «Non mangiare cose impure né bere bevande inebrianti. Regole di prevenzione della gestante, che la scienza ha inquadrato come fondamentali da pochi anni». 
Per variare un po’ dal lungo filone delle sterilità, non sempre irreversibili, ecco la stirpe delle belle e infide: Giuditta, che salva la sua città dalle truppe di Nabucodonosor, a spese del generale Oloferne, sedotto e trucidato; e Dalila, splendida rovina di Sansone. O Betsabea, per cui re Davide si trasformò in assassino (dell’ingombrante marito). Non va per il sottile nemmeno Ester, celebrata eroina della Bibbia, per evitare il massacro del suo popolo e propiziare lo sterminio di tutti gli avversari. 
Ma bisogna arrivare ai Nuovo Testamento per incontrare la pioniera dell’emancipazione femminile nella Chiesa: Maria Maddalena. Molto più di una peccatrice redenta, è una rivoluzionaria, l’ombra fedele di Gesù. Che la sceglie come prima testimone della sua resurrezione. Perché è lei la prima fra i suoi discepoli. Almeno nel Vangelo secondo Umberto.

Repubblica 7.6.14
La solitudine degli eroi di Murakami
Un perdente è al centro anche del nuovo romanzo dello scrittore, “L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio”
di Paolo Mauri


Ancora una volta il protagonista del nuovo romanzo di Murakami Haruki L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio (tradotto da Antonietta Pastore per Einaudi) è un uomo solitario, un perdente che fatica a darsi un ruolo e una immagine, al punto che per molto tempo pensa di morire e di cancellare ogni traccia di sé. Un non-eroe. Era in qualche modo simile il protagonista di L’uccello che girava le Viti del Mondo, solo, abbandonato dalla moglie, intento a guardare il cielo dal fondo di un pozzo. Anche Tengo, nella intricata vicenda di 1-Q84, è un solitario che cerca di rimediare al proprio vuoto inseguendo addirittura un affetto che risale all’infanzia.
Ma è con Norwegian Wood (1987), scritto in gran parte a Roma, che si può stabilire un parallelo più stretto: Toru, di cui il romanzo ricostruisce la storia, è stato uno studente solitario nella Tokyo degli anni Sessanta e Settanta e quando incomincia a narrare ha la stessa età di Tsukuru, dunque ben oltre la trentina.
Nel vasto affresco narrativo che lo scrittore giapponese va, di libro in libro, allestendo, il bene e il male sono in lotta perenne e spesso il mondo stesso si sdoppia dando luogo a realtà parallele lungo le quali l’avventura si distende nel modo spesso un po’ naif di tanta narrativa fantasy. Murakami opera seguendo un doppio registro che gli consente di essere il narratore popolare lussureggiante di trame, spesso a sfondo nero, e l’attento esploratore dell’uomo contemporaneo, dell’individuo perduto e insieme integrato nella società di massa. L’incolore Tazaki Tsukuru è orchestrato soprattutto in quest’ultima direzione.
Tsukuru è originario di Nagoya e lì ha vissuto fino all’epoca in cui si è iscritto all’università di Tokyo: ancora oggi, ormai trentaseienne, sta nell’appartamento, comperatogli dal padre, che aveva da studente. A Nagoya Tsukuru era molto legato a un gruppo di coetanei, due ragazze e due ragazzi, con cui aveva diviso l’adolescenza. Qui si inserisce una notazione necessaria: sia i due ragazzi che le due ragazze avevano nomi che riconducevano a un colore, rosso e blu i due maschi, bianco e nero le due ragazze. Solo Tsukuru non aveva colore (da qui il titolo del romanzo) poiché il suo nome significa “colui che costruisce”. Questa constatazione lo aveva sempre allarmato, quasi significasse un’esclusione dalla comunità, una diversità difficile da accettare. E proprio l’esclusione era arrivata, ormai all’epoca dell’università, con una intimazione perentoria: non doveva mai più mettersi in contatto con gli ex amici che ufficialmente ora lo ripudiavano.
Tsukuru, che studiava ingegneria perché voleva coronare il suo sogno di costruire stazioni, si era ben guardato dal chiedere spiegazioni. Sotto sotto aveva preso la sentenza come un giudizio su di lui, col quale in parte concordava: era un essere vuoto, incolore e prossimo alla fine. Molto tempo dopo, una ragazza più grande di lui di un paio d’anni, Sara, con la quale sta stringendo finalmente un legame forte gli imporrà di tornare sui suoi passi, andando dai suoi ex amici a chiedere conto dell’ostracismo decretato con tanta secchezza.
Quel che succede e quel che Tsukuru viene a sapere costituiscono la spina dorsale del romanzo e come sempre nei romanzi di Murakami non mancano le sorprese. Ma chiedendogli di esplorare il proprio passato, che del resto gli pesa confusamente addosso, Sara gli chiede soprattutto di esplorare se stesso e in effetti Tsukuru verrà a sapere di sé molte cose, ma soprattutto qual era il giudizio degli altri su di lui. Gli verrà persino rivelato un amore del quale non si era per niente accorto. Insomma Tsukuru sa guardare, ma non sa guardarsi. Uomo abituato a vivere da solo e a mangiare da solo, lo troviamo in certe sere alla stazione, una enorme stazione con una infinità di binari, intento a guardare treni e passeggeri che secondo un ritmo inarrestabile arrivano e partono. È la metafora del mondo che più gli si adatta, visto che le stazioni le costruisce e ne cura la complessa manutenzione: ma quale sarà il senso ultimo di tutto questo infinito movimento?
Giorgio Amitrano, introducendo Norwegian Wood, ricorda il percorso di Murakami, analogo a quello di altri scrittori giapponesi della sua generazione: sostanzialmente un vertiginoso salto che consiste nel creare una nuova letteratura giapponese non più innestata nella tradizione, ma nutrita di riferimenti occidentali o meglio ancora internazionali. È lo stesso Murakami a far riferimento a Dickens, anche con calchi espliciti, ma i punti di appoggio sono moltissimi, da Nietzsche a Tennessee Williams, da Flaubert a Dostoevskij e poi, più di recente, a Orwell.
Ed è la musica a fare da filo conduttore, con una abbondanza di riferimenti e citazioni, ancora una volta internazionali o appartenenti alla grande storia della musica classica. Norwegian Wood è un omaggio ai Beatles, 1-Q84 ruota intorno alla Sinfonietta di Janáèeck, la storia di Tsukuru ha invece come insistito motivo di fondo Anni di pellegrinaggio di Liszt e in particolare Le mal du pays . Avvicinando il Giappone all’Occidente, anzi dando conto di esperienze e linguaggi comuni a tutte le nuove generazioni, Murakami ha raccontato l’uomo nuovo che una cultura diffusa, globale ma niente affatto banale, ha ormai staccato dalle vecchie radici. Un uomo nuovo che tuttavia, sul piano individuale, non ha affatto risolto i suoi problemi e anzi li vive spesso drammaticamente, perché alla fine l’esperienza del vivere si ripete ogni volta da capo e non è per nulla facile fare tesoro dell’esperienza altrui. «Non ho fiducia in me stesso», conclude Tsukuru dopo aver incontrato Eri, una delle due ragazze del vecchio gruppo, che ora è sposata e vive in Finlandia. Per vederla Tsukuru ha fatto il suo primo viaggio fuori dal Giappone.
Murakami Haruki ha la freschezza di chi narra il mondo ricominciando da capo e permettendosi infinite variazioni: non è uno scrittore, ma una serie di scrittori racchiusi in uno. Uno shock: che comunque dimostra che in letteratura non c’è mai la parola fine. Non gli mancano i detrattori, ma i lettori fedeli sono qualche milione di più e lo leggono con passione, spesso travolgente, come quando i fans di Dickens aspettavano sul molo la nave con i giornali che stampavano a puntate i suoi meravigliosi romanzi.