l'Unità 8.3.08
IL RILANCIO DEL QUOTIDIANO: 24 PAGINE E FULL COLOR
Look da tabloid per «Liberazione»
Sansonetti: cambia come la sinistra
Oggi è in edicola con una nuova veste grafica e tra un paio di settimane sarà distribuita l’edizione serale, come free-press a Roma e Milano, nelle stazioni delle metropolitane e nelle università. Novità in vista per “Liberazione”, il quotidiano di Rifondazione comunista. Ad illustrare la nuova veste grafica, formato tabloid e 24 pagine full color, è Piero Sansonetti con al fianco Franco Giordano e Sandro Curzi. «Sarà un giornale politico, forte - annuncia il direttore - sarà il giornale dell’opposizione, con molta cronaca e approfondimenti ma anche intrattenimenti». Più spazio agli spettacoli e tornano le pagine sportive. «Sarà un giornale completo - dice Sansonetti - vogliamo essere un primo giornale, che dà forza, nerbo, idee, capacità di discutere alla Sinistra, cioè all’unica opposizione che ci sarà dopo le elezioni». Scherza a tal proposito Sansonetti, sorridendo in direzione di Giordano: «Magari il segretario del Prc non sarà d’accordo, ritenendo sicura la vittoria alle elezioni e Fausto Bertinotti che sarà chiamato a guidare il governo. Ma noi ci prepariamo a un altro scenario...». Sansonetti delinea «una fase politica nuova» in cui la SA starà all’opposizione. «Saremo molto orientati politicamente ma al tempo stesso molto critici, come del resto lo siamo stati finora con il governo Prodi e talvolta anche con la stessa Rifondazione. La nostra sarà un’opposizione non gridata ma ragionata, per spostare l’attenzione della politica dal teatro dei partiti alle grandi questioni tematiche». Con il formato e il nuovo progetto grafico, firmato da Federico Mininni, cambia anche il colore della testata, bianca su fascione rosso con la “a” centrale che da rossa diventa nera. Il primo numero è uscito dalle rotative alle 22,30 di ieri sera, mentre al Circolo degli Artisti cominciava la festa di buon augurio.
l'Unità 8.3.08
CAMBIO DI GUARDIA. Via Franchi e Macaluso, Polito ritorna direttore. Mentre l’escluso dalle liste Pd tira fuori i sassolini...
E al Riformista arriva il «mambo» di Caldarola
di Maria Zegarelli
Paolo Franchi si commiata dal Riformista, saluto amaro per un’avventura iniziata lasciando una «corazzata», il Corriere, per dirigere il timone «di questo piccolo naviglio» che è il Riformista di oggi ma che nelle intenzioni dell’editore Angelucci e del nuovo direttore Antonio Polito, dovrà diventare quantomeno un «vascello». Se ne va Franchi e se ne va «em.ma» (la rubrica di Emanuele Macaluso) per fare spazio a «mambo», la penna graffiante di un Peppino Caldarola che escluso dalle liste Pd tira fuori sassolini e macigni.
Scrive Franchi di aver fatto in venti mesi «un giornale non tanto di nicchia, quanto di tendenza, e quindi un gioranle programmaticamente scomodo». Per partiti e leader innanzitutto. Malacuso se ne va perché è chiaro che la sua «presenza in questo giornale non ha più senso». Polito torna e - da ieri- ricomincia al Riformista, «da dove e per andare dove?». In quella direzione, dice, che intraprese all’inizio, prima di avventurarsi «nella deludente» esperienza al Senato. Le riforme; il partito delle riforme; il clima per le riforme: da qui ricomincia e cosa farà sarà dunque «chiaro. Come lo faremo è un’altra storia. Che comincia oggi. L’editore mi ha infatti dato l’incarico di rifondare questo piccolo giornale per farne qualcosa che assomigli sempre di più a un giornale e sempre meno a un foglio di opinioni». Mambo inizia dall’inserimento off limits di Giovanni Lumia nelle liste del Pd e dice che se restava fuori, correva rischi, «lo sapevano anche i bambini, se ne è accorto in tempo il segretario del pd». Che però ha lasciato fuori Khaled Fouad Allam, «intellettuale arabo musulmano liberale, scomparso dalla liste Pd per far posto ai portaborse e alle segretarie». Sassolini e macigni. «Chi ha fatto le liste? Si dice che abbiano alacremente lavorato Migliavacca, Franceschini, Fioroni e Latorre. Lavorato più per includere famiglie che per migliorare la compagine parlamentare». E poi, la comunicazione. Dove è finita al Loft? «Nelle formazioni plebiscitarie i problemi di comunicazione si manifestano fra il leader e una parte del notabilato. Quando si manifestano nella stanza accanto è quasi una tragedia», conclude Caldarola.
Intanto Polito lavora al suo nuovo giornale, dalla grafica, al colore, al numero delle pagine (30) e dei redattori (da 15 al doppio).
l'Unità 8.3.08
Ru486, i vantaggi superano gli svantaggi
di Silvio Viale
Nel ’99 fu registrata in 12 dei 15 Paesi della Comunità Europea, oggi la Ru486 è registrata in una quarantina di Paesi ed è sempre più utilizzata nella ricerca clinica in molti campi della medicina
Eugenia Roccella e Assuntina Morresi sono impegnate da tempo in una campagna di stampa contro la RU486. Sulla base del più classico pietismo antiscientifico sono giunte a contare 16 morti e a denunciare un clima di omertà internazionale che vedrebbe complici l’Oms (Organizzazione Mondiale della Sanità), la Fda (Food and Drug Administration, «Agenzia per gli alimenti e i medicinali»), l’Emea (European Medicines Agency, «Agenzia europea per i medicinali») e le agenzie farmacologiche di mezzo mondo. Non badando troppo alla insistente ripetitività dei loro articoli, ho preferito continuare a documentarmi sulle riviste scientifiche, relegando al campo del furore ideologico le interpretazioni del duo militante anti-ru486.
Il tempo mi ha dato ragione. Nel 2005 l’OMS ha inserito la RU486 nell’elenco dei farmaci essenziali. Nel giugno 2007 la Commissione europea ha approvato le nuove indicazioni per l’Europa dopo una revisione iniziata nel dicembre 2005. Sulla base di queste indicazioni nel novembre 2007 è stata avviata dalla Francia una procedura di mutuo per l’Italia, come quella che nel 1999 portò a registrare la RU486 in 12 dei 15 Paesi della CE. Oggi la RU486 è registrata in una quarantina di Paesi ed è sempre più utilizzata nella ricerca clinica in molti campi della medicina. Grazie anche alle polemiche, che hanno scoraggiato la ricerca di nuove molecole, è l’unico farmaco della sua categoria utilizzato nell’uomo da venti anni. Un elenco parziale di queste ricerche riguarda varie indicazioni ostetriche, i tumori di ovaio, utero, prostata e mammella, l’endometriosi, i miomi, il meningioma, la depressione bipolare, i disordini psicotici affettivi, l’Alzheimer, la sclerosi multipla, la sindrome di Cushing e lo stress postraumatico.
Si tratta quindi di un farmaco, peraltro già autorizzato in Italia dal 1999 per la Sindrome di Cushing, ed il fatto che gli oppositori si ostinino a definirlo un «chimico» rende bene l’idea del pregiudizio; nessuno definirebbe un chimico qualunque altro farmaco. Ugualmente, termini come kill-pill, pesticida umano o diserbante possono essere efficaci nella polemica giornalistica, ma minano la credibilità scientifica di chi li adopera. L’ovvia intenzione è quella di terrorizzare le donne e insinuare il dubbio in un mondo politico scientificamente pigro, disattento ed opportunista. Ripetere insistentemente lo «scandalo» delle morti si presta bene a creare incertezza, facendo leva sull’emotività.
Per esemplificare, pensate un po’ cosa accadrebbe se due giornaliste donne raccontassero le storie delle almeno trenta donne che ogni anno muoiono in Italia per gravidanza e accusassero di omertà il sistema sanitario, le associazioni professionali e la stampa. A conferma dello scandalo, nessuno sa quante siano le donne che muoiono in gravidanza in Italia, al di là del tasso ufficiale di 6-7 per 100.000 gravidanze. Sarebbe facile sostenere che nessuno se ne cura, a parte qualche articolo a sensazione, con la rituale dichiarazione strampalata di qualche politico di turno del tipo che «non è possibile morire in gravidanza nel 2000 in Italia». Eppure di gravidanza si muore ancora, come sporadicamente si muore anche per aborto.
La storia delle morti per RU486 è una grande mistificazione statistica e mette assieme cose diverse.
L’unica cosa importante è la segnalazione di sei morti in Nord America per shock settico attribuite cinque al Clostridium sordellii e una al Clostridium perfrigens.
Su queste morti l’Emea esclude «un nesso potenziale con il mifepristone» e negli Stati Uniti si è avviato un monitoraggio. Approfondendo il tema a ritroso, si è scoperto come tali infezioni, sebbene rare, siano state segnalate in neonatologia, in ortopedia, tra i tossicodipendenti e in altre condizioni mediche. In una review del 2006 sono elencati 45 casi, da 17 giorni di età a 95 anni, con una mortalità complessiva del 70%, che diventa 100% per i 15 casi di ostetricia: otto casi dopo il parto, due per aborto spontaneo e cinque per aborto medico. Il Clostridium è stato isolato anche i sei neonati dei quali cinque morirono. Come scrive l’Aifa nel numero di ottobre della propria rivista si tratta di «un numero limitato di eventi rari senza un chiaro legame fisiopatologico con il metodo utilizzato». Importante è che il medico lo sappia e che la donna sia informata. Nello studio clinico dell’Ospedale S.Anna di Torino si informava di un rischio di mortalità di 1 per 100.000, che ovviamente non ha scoraggiato alcuna donna dal parteciparvi.
Come già accennato, nel loro elenco Roccella e Morresi mescolano cose diverse, con differenti livelli di evidenza.
Per quanto riguarda le morti inglesi, non ufficialmente confermate, si deve ritenere che le indagini delle autorità sanitarie abbiano escluso ogni nesso causale. Il caso svedese riguarda una complicazione emorragica in una paziente che non si è recata in ospedale, come avrebbe dovuto fare. Quello francese del 1991 è legato all’uso endovena della prostaglandina che si utilizzava all’epoca per gli aborti terapeutici e che da tempo non si utilizza più. In Italia abbiamo continuato ad utilizzarla fino a pochi anni fa. Il caso cubano che riguarda un aborto del secondo trimestre eseguito con le sole prostaglandine, senza RU486 (cioè nello stesso modo come lo facciamo in Italia) che è stato segnalato al congresso della FIAPAC (associazione europea operatori aborto e contraccezione) da un medico spagnolo che passa molto tempo a Cuba. Non è stato nascosto, come continuano sostenere Roccella e Morresi, ma comunicato a centinaia di persone, a riprova di come le infezioni da Clostridium siano sempre da tenere presente in ostetricia. Quello cubano è un caso in cui la RU486 non c’entra nulla.
Per quanto riguarda la morte per gravidanza extrauterina, la RU486 non è la responsabile, non essendo la RU486 che provoca la gravidanza. Al massimo vi è un errore di conduzione clinica in un caso misconosciuto di gravidanza extrauterina. Sebbene le gravidanze extrauterine siano temute, la mortalità è di 60 per 100.000, il trattamento medico è ormai in uso consolidato con un farmaco «off label», cioè senza autorizzazione, che da anni è somministrato negli ospedali italiani. Dopo la somministrazione le donne sono dimesse in attesa che la gravidanza si spenga e tornano in ospedale solo per dei controlli. Nessun ginecologo inserirebbe mai una morte per gravidanza extrauterina tra le morti per RU486.
Il punto forse è proprio questo. Leggendo gli articoli di Roccella e Morresi si deduce che il duo anti-RU486 non conosca le dinamiche dell’aborto e sia mal consigliato da medici che non fanno aborti. Solo così si spiegano la sottovalutazione dei sintomi e delle complicazioni dell’aborto chirurgico, da un lato, e le esagerazioni dei sintomi dell’aborto medico. Solo così si spiega come venga sottolineato negativamente che un terzo delle donne abbia bisogno di un antidolorifico per l’aborto medico, dimenticandosi che in quello chirurgico l’anestesia è somministrata al 100%. Solo così si spiega l’uso sproporzionato della parola emorragia. Solo così si può raccontare la favola dell’aborto che dura giorni, quando i sintomi sono legati alla prostaglandina (il farmaco del terzo giorno), mentre non ve ne sono dopo la Ru486 (il farmaco del primo giorno). I sintomi di fatto si limitano al periodo espulsivo, riducendosi subito dopo. Ovviamente, sempre, con le dovute eccezioni. Comunque, non è vero che l’aborto dura tre giorni o più.
D’altro canto, nell’aborto chirurgico le complicazioni tardive sono superiori a quelle che vengono rilevate nella scheda istat compilata al momento delle dimissioni. Il rischio di un secondo intervento è di almeno l’1%. Tornando all’elenco di morti, comunque venga allungato, esso implica un rischio minimo vicino a zero, che occorre non sottovalutare, ma che non può essere preso a pretesto per campagne antiabortiste contro la RU486. Nel Nord America il rischio di mortalità stimato per l’aborto medico è di 0,8-1 per 100.000, analogo a quello per aborto spontaneo. Quello per aborto chirurgico nelle prime settimane di gravidanza è di 0,1 per 100.000, mentre nelle settimane successive è analogo. Il tasso di mortalità aumenta peraltro con l’avanzare della gravidanza. Per confronto negli Stati Uniti il rischio di mortalità in gravidanza è di 10 per 100.000. In nessun settore delle attività umane un rischio di 1 per 100.000 costituisce una limitazione.
Dire che l’aborto medico ha un rischio di mortalità di dieci volte superiore a quello medico significa dire una cosa apparentemente vera in astratto, ma in pratica è come moltiplicare zero per dieci. Esattamente come se si dicesse che proseguire una gravidanza ha un rischio di mortalità di 10 e 100 volte superiore all’aborto, con il conseguente implicito paradossale suggerimento che sarebbe meglio abortire. Non sono argomenti di questo tipo che possono imporre una scelta al medico e alla donna, o che possano suggerire di vietare la RU486.
Appena sarà registrata, la «pillola abortiva» potrà essere utilizzata negli aborti terapeutici, riducendo i rischi connessi all’uso della sola prostaglandina, e negli aborti nelle prime settimane di gravidanza come alternativa all’aborto chirurgico.
La suggestione è alimentata dal fatto che è difficile avere un’esatta dimensione di un rischio, poiché molti fattori entrano in gioco nella sua percezione. Se, per esempio, si leggesse un ipotetico «bugiardino» dell’automobile con gli stessi criteri con i quali leggiamo quello dei farmaci, probabilmente non dovremmo più salirci sopra, ma il bisogno di spostarsi in auto ci fa sorvolare sui rischi dell’automobile. Se il rischio di mortalità del mifepristone è 1 per 100.000, quello del Viagra, è di 5 per 100.000 ricette, cioè maggiore, ma Roccella e Morresi non chiedono di proibire il Viagra. Come maggiori sono i rischi di morire in automobile e nella gravidanza a termine.
Il rischio per una donna di morire per la RU486 è uguale a quello di essere assassinata, cioè circa 1 su 100.000, ed è inferiore di solo 100 volte a quello di essere colpita da un fulmine, che è di 1 su 10.000.000. A Eugenia Roccella, ad Assuntina Morresi e ai loro emuli voglio dire che le storie delle donne morte per aborto sono sempre tragiche, come lo sono sempre quelle, purtroppo più numerose, delle donne che muoiono in gravidanza. Aggrapparsi a loro per vietare la Ru486 è disonesto ed ha il sapore di una mossa disperata, poiché allo stato attuale la RU486 non è un farmaco pericoloso e i vantaggi superano di gran lunga gli svantaggi.
* ginecologo dell’ospedale Sant’Anna di Torino
Repubblica 8.3.08
Su Lancet uno studio francese realizzato su piccoli che hanno raggiunto i 5 anni: a soffrire soprattutto il cervello
"Bambini prematuri, troppi rischi Tre su quattro non sono sani"
Uno su cinque non cammina, il 25 per cento ha invece un handicap lieve
di Elena Dusi
ROMA - Vivi, ma a quale prezzo. Ai bambini nati prematuramente la medicina offre più chance di vita rispetto al passato. Ma non sempre garantisce anche la salute. Lontano dai dibattiti etici e basandosi su indagini mediche, lo studio francese "Epipage" è andato a controllare come stanno oggi i bambini che 5 anni fa nacquero prematuri. I risultati sono pubblicati sulla rivista scientifica Lancet.
Su 2901 bambini venuti alla luce nel 1997 in Francia con meno di 33 settimane di gestazione alle spalle, 2357 sono arrivati al quinto compleanno. Ma tutti avevano passato almeno 24 settimane nel pancione: nessuno dei neonati di 22 o 23 settimane è vivo oggi. Il 77% ha un problema di salute. A soffrire in modo particolare è il cervello, che impiega più tempo a maturare nel pancione. Non a caso i deficit ricorrenti nei prematuri sono proprio neurologici: difficoltà nel coordinare i movimenti, ritardi mentali, cattivo funzionamento degli organi di senso e deficit cognitivi proprio alla vigilia dell´ingresso a scuola. Il 5% dei piccoli studiati ha 5 anni ma non cammina, ha funzioni mentali ridotte al minimo e gravi problemi di vista o udito. Il 9% riesce almeno a camminare, se aiutato. Al 25% dei bambini è stato diagnosticato un handicap lieve: un punteggio tra 70 e 84 in un test di intelligenza che ha 100 come media e problemi lievi a occhi e orecchie.
A tre giorni dal parere del nostro Consiglio superiore di sanità che raccomanda di rianimare qualunque prematuro, Lancet aggiunge spunti di discussione. «Se il bambino presenta segni di vitalità il medico non ha scelta: deve rianimarlo. Non possiamo mai essere sicuri dell´età gestazionale» sostiene Claudio Fabris, presidente della Società italiana di neonatologia e professore all´università di Torino, uno degli esperti consultati dal Consiglio superiore di sanità. «I progressi medici, oltre a far aumentare la sopravvivenza, riducono anche i problemi della crescita». Béatrice Larroque che ha diretto Epipage solleva dei dubbi: «La riduzione della mortalità ci invita a riflettere sull´alta percentuale di bambini con seri problemi di sviluppo» scrive. Aggiungendo: «Bisogna prestare molte attenzioni alle cure e ai costi per i prematuri. I disturbi cognitivi richiedono attenzioni speciali lungo tutto il corso della vita». In Italia nel 2003-2004 è stato avviato lo studio Action, ma i bambini dovranno aver compiuto almeno 5-6 anni prima di consentire diagnosi eloquenti. «Il problema - spiega Maria Serenella Pignotti, neonatologa dell´ospedale pediatrico Meyer di Firenze - è la mancanza di assistenza alle famiglie. Non possiamo tenere il neonato in terapia intensiva, farlo sopravvivere e poi restituirlo ai genitori come fosse un pacchetto». La Pignotti nel 2006 curò la Carta di Firenze, il documento dei neonatologi che raccomandava "solo cure compassionevoli" al di sotto della 23esima settimana. «Dovremmo basarci più sulle evidenze scientifiche che non sulle questioni di principio. "Vita" e "morte" sono parole altisonanti e hanno un impatto sull´opinione pubblica. Ma non possiamo permetterci di infischiarci della vita che questi bambini faranno crescendo».
Repubblica 8.3.08
Diliberto lascia per l'operaio Thyssen
di Paolo Griseri
Polemica col Pd, poi l´annuncio del leader comunista: rinuncio al seggio
Il delegato Fiom, Argentino, prima escluso, correrà come capolista in Piemonte
ROMA - Alle quattro del pomeriggio il delegato di fabbrica Ciro Argentino, rappresentante della Fiom alla Thyssen di Torino, reparto cinque, diventa, nei fatti, parlamentare della Repubblica. Lo nomina, rinunciando al suo posto di capolista, Oliviero Diliberto, segretario nazionale del Pdci, con una breve dichiarazione: «I comunisti sono diversi da tutti gli altri. Per questo lascio il Parlamento e al mio posto ci sarà Ciro Argentino». Gesto subito apprezzato da compagni di partito e avversari. Gesto arrivato dopo una mattinata di passione con il Pd che ironizza sul partito operaio che esclude dalle liste gli operai.
Fin dalla lettura dei giornali l´esclusione di Argentino dalle liste della Sinistra Arcobaleno fa discutere. Due erano infatti gli operai della Thyssen che avevano dato la disponibilità a presentarsi alle elezioni: Angelo Boccuzzi, delegato Uilm, sopravvissuto al fuoco della linea 5 e candidato nelle liste del Pd. E Ciro Argentino, da sempre iscritto al partito di Diliberto. Ma a Torino le liste della Sinistra Arcobaleno vengono presentate in conferenza stampa alle 11,30 e, come previsto, Ciro non c´è. Nel complicato puzzle che deve mettere insieme Pdci, Verdi, Sd e Prc, i posti sicuri finiscono ai dirigenti: alla Camera, per Torino e provincia vengono candidati Diliberto, Grazia Francescato e Daniela Alfonzi, parlamentare uscente di Rifondazione. Il fatto è che Argentino non è un esterno, un operaio della società civile. Da anni è un militante organico dei Comunisti italiani e come tale viene trattato. Per il Pdci c´è un solo posto sicuro e quello finisce a Diliberto.
L´ironia del Pd si spreca. Brucia la critica di Paolo Nerozzi, segretario confederale della Cgil, una lunga storia che parte dallo Psiup e che arriva alla candidatura al Senato nel partito di Veltroni: «Che fine hanno fatto - chiede Nerozzi - tutti quelli della Sinistra arcobaleno che rimproveravano operai e sindacalisti di stare in lista nel Pd vicino agli imprenditori? Perché nessuno oggi alza un dito contro l´esclusione di Argentino?». Chi di Calearo ferisce di Argentino perisce. «Tra Diliberto e Argentino uno dei due era di troppo, l´operaio», dice un altro sindacalista Cgil candidato da Veltroni, Achille Passoni, facendo il verso a Bertinotti.
A metà mattinata la situazione è già imbarazzante. Parte verso mezzogiorno la controffensiva di Manuela Palermi, capogruppo del Pdci in Senato: «Il Pd è ridotto male se ricorre a queste volgarità. Ciro sta partecipando alla campagna elettorale di Diliberto ed è felice di poter sostenere il segretario». Ma è fin troppo facile per il collega di fabbrica di Argentino, Boccuzzi affondare il colpo: «Mi sarebbe piaciuto essere in Parlamento assieme a Ciro. Leggo sui giornali che non sarà così perché le logiche della vecchia politica hanno fatto saltare la sua candidatura».
Così, alle 16,09, Oliviero Diliberto annuncia il colpo di teatro: «Si può fare politica anche fuori dalle istituzioni». La mossa spiazza tutti. Fausto Bertinotti appare imbarazzato: «Diliberto rinuncia? No comment». Ma il leader del Prc, Franco Giordano, si complimenta: «Scelta meritoria». È evidente che la scelta del segretario del Pdci toglie parecchie castagne dal fuoco al partito sul piano dell´immagine. Si capisce dalla reazione immediata di chi in mattinata difendeva l´esclusione di Argentino e ora loda il passo indietro di Diliberto. Manuela Palermi si dice «orgogliosa della scelta del segretario del mio partito che rinuncia alla candidatura a favore dell´operaio comunista della Thyssen».
Repubblica 8.3.08
La sinistra in crisi che si inventa una tradizione
di Marc Lazar
La questione peraltro è meno nuova di quanto appaia: ha fatto scorrere fiumi di inchiostro nel corso della lunga traiettoria del movimento operaio; ma di fatto si impone con più forza dalla fine degli anni ´80, con la profonda crisi che scuote la socialdemocrazia. Una crisi che si articola in quattro dimensioni principali.
Innanzitutto il suo progetto. In seguito alle prodigiose mutazioni delle società occidentali, e in particolare al progredire dell´individualismo e al crollo del comunismo, che non l´ha lasciata indifferente, la socialdemocrazia ha rinunciato all´utopia di una società perfetta, fondata sugli interessi generali della classe operaia. In secondo luogo, la crisi del suo modello di welfare, le cui capacità redistributive non reggono a fronte della globalizzazione dell´economia, delle forti critiche di segno liberale e di un crescendo delle più diverse rivendicazioni – dalla protesta contro l´alto livello impositivo alla richiesta di misure specifiche in favore delle donne o dell´ecologia. C´è poi una crisi strategica, contrassegnata dagli interrogativi sulla scelta delle alleanze politiche e sociali: è il caso di privilegiare i rapporti con le forze alla sua sinistra, con quelle di centro o con i Verdi? Come rivolgersi ai ceti medi senza perdere il contatto con le fasce popolari, sempre più inquiete per gli sviluppi in atto nella società e nel mondo? Infine, la socialdemocrazia è in crisi anche rispetto alle sue forme organizzative. Il partito di massa, o "acchiappatutto", non può più avere la sua passata funzione di struttura di identità e di cultura collettiva, anche perché i legami storici con le confederazioni sindacali, che costituivano il segno distintivo della socialdemocrazia, si sono ormai allentati.
La socialdemocrazia non è rimasta inerte di fronte a queste sfide. Ciascun partito reagisce in funzione della propria storia, del rispettivo sistema politico, delle caratteristiche della società in cui opera; tuttavia le convergenze prevalgono sulle differenze. In teoria tutto è semplice. Come dimostra Norberto Bobbio nel suo libro Destra e Sinistra, che è già un classico, la differenza essenziale tra i due schieramenti è rappresentata dal concetto di uguaglianza. Da qui discendono i principi che Anthony Giddens ha ricordato nel suo articolo pubblicato su Repubblica del 6 marzo: la sinistra si impegna nell´attuazione di politiche sociali, e intende regolare l´economia di mercato per evitare la catastrofe pronosticata da Karl Polanyi nel suo memorabile libro La grande trasformazione.
In pratica però la faccenda è più complessa. Sia nelle sue proposte che nelle politiche portate avanti quando è al potere, la sinistra socialdemocratica esplora quattro grandi piste contraddittorie. Vuole assicurare la giustizia sociale e lottare contro le disuguaglianze d´ogni natura, senza però cadere nella trappola dell´egualitarismo. Al tempo stesso ha assimilato il programma liberale, accettando le privatizzazioni, la competitività delle imprese e la modernizzazione dello stato sociale. Recepisce con entusiasmo – tranne che in Italia – le esigenze post-industriali di tipo libertario, riservando ampi spazi all´individualismo, al femminismo, all´ambiente, alla libertà dei costumi, alla difesa delle minoranze, all´accettazione delle differenze (che non sempre si concilia col principio dell´uguaglianza). Ha fatto proprie anche le tematiche della legalità, dell´ordine e della sicurezza, sulla spinta populista manifestata dall´elettorato dei ceti meno abbienti. Infine si sforza di parlare agli esclusi, ai precari, ai giovani, a chi è "out" e non solo a chi è "in". Vuol dire che la linea di confine rispetto alla destra è assai meno netta? Indubbiamente; ma al termine di un duplice processo, che riflette bene l´evoluzione delle nostre società. Difatti, se la sinistra presenta evidentemente qualche punto in comune con la destra, quest´ultima assume a sua volta varie connotazioni della sinistra, nella misura in cui ammette la necessità di politiche sociali, e non osa mettere in discussione le conquiste sul piano della liberalizzazione dei costumi.
Quest´importante mutazione dell´antagonismo tra destra e sinistra ha molte conseguenze. Innanzitutto tra gli elettori, che non di rado si trasformano in strateghi, strumentalizzando la destra o la sinistra a seconda dei momenti e in funzione dei propri interessi. Votano per la prima sperando in un rafforzamento della crescita, nel taglio delle tasse o in una più energica repressione della delinquenza. E si rivolgono a sinistra quando avvertono il bisogno di protezione, di redistribuzione sociale o di misure di emancipazione. Altri, soprattutto a sinistra, esprimono incomprensione o scontento per i mutati atteggiamenti dei loro rappresentanti: sono quelli che vorrebbero sempre "farla pagare ai ricchi", e sognano cambiamenti drastici. Ci vuole tempo per modificare le culture e le mentalità politiche.
Oltre tutto, i dispositivi adottati dalla destra e dalla sinistra sono diversi. La destra è più unificata intorno ai suoi leader e ad alcuni valori essenziali in cui la tradizione si mescola alla modernità. E fa riferimento a un solido blocco sociale, composto da due principali pilastri: da un lato, liberi professionisti, commercianti, artigiani, titolari di imprese; dall´altro un elettorato popolare a basso livello di istruzione, spesso avanti con gli anni, impoverito dalla modernizzazione. Quanto alla sinistra, è più che mai divisa in tre grandi componenti. La sinistra tradizionale comprende un filone radicale, generalmente di estrazione comunista, e le correnti di sinistra dei partiti socialisti; anticapitalista e antiamericana, preconizza l´estensione dello stato sociale, criticando le "capitolazioni" del riformismo. E´ minoritaria, ed esercita un´influenza culturale e politica non trascurabile in Paesi quali ad esempio l´Italia, la Francia e la Germania, dove l´ex socialdemocratico Oskar Lafontaine ha formato con gli ex comunisti il partito Die Linke. Il secondo filone è quello della sinistra che si adatta, rimanendo però fedele alla sua storia; in questo senso è emblematico il Ps francese, che si dichiara riformista ma si adopera per non avere nemici a sinistra.
Resta l´ultima componente – ben rappresentata dal Labour, dall´Spd e oggi dal Pd - che vuol andare al di là delle frontiere abituali della sinistra aggregando tutte le sensibilità del riformismo. E si propone di avviare un cambiamento ragionato, reale e sistematico della società attraverso un´azione pragmatica e durevole. La posta in gioco è di vasta portata, il disegno ancora vago, i metodi incerti, l´operazione rischiosa. Ma quest´invenzione di una tradizione tratteggia forse una risposta politica alle mutazioni delle società.
Traduzione di Elisabetta Horvat
Repubblica 8.3.08
Come è hard il sesso nell'Antico Testamento
di Enrico Franceschini
In Gran Bretagna esce un libro sull´erotismo, spesso perverso e violento, raccontato nella Bibbia Stupri, bigamia, infedeltà, incesti: l´autore è un professore ebreo, che ha interpellato esperti e rabbini
Il saggio Salomone aveva un harem di 700 mogli e più di 300 concubine
Negli anni Settanta, all´epoca della liberazione sessuale, in America uscì un manuale intitolato «The joy of sex», che descriveva minuziosamente tutti i modi per ricavare il massimo della gioia da questa fondamentale attività umana. Diventò un best-seller mondiale. Adesso arriva nelle librerie del Regno Unito un volume che riecheggia quel titolo, con una provocatoria aggiunta: si propone infatti di narrare la gioia del sesso «nell´Antico Testamento». Di gioia, per la verità, nel libro sacro di ebrei e cristiani, non ce n´è tanta, perlomeno collegata al sesso; ma di quest´ultimo, in effetti, se ne può trovare in abbondanza. Sebbene sia improbabile che un parroco vi dedichi ampio spazio durante le lezioni di catechismo, la Bibbia, o meglio l´Antico Testamento, narra di incesti, bigamia, stupri, mutilazioni corporee, infedeltà e amore - inteso come «fare l´amore» - in tutte le salse.
Prendendo lo spunto da questa circostanza, generalmente trascurata dai credenti, un docente della Bangor University del Galles, il professor Nathan Abrams, di origine ebraica ma laico, ha scritto per l´appunto un libro sull´argomento, «Sex and the Jews» (Il sesso e gli ebrei - per quanto avrebbe potuto includere nel titolo anche i cristiani). O per essere precisi, è stato il curatore del libro, affidando la stesura dei vari capitoli a colleghi, esperti e rabbini. Uno di questi, un accademico americano, Jay Michaelson, scrive per esempio un saggio su se stesso, cercando di spiegare come è possibile essere contemporaneamente gay ed ebrei ortodossi, nonostante il noto passo dell´Antico Testamento in cui si afferma che gli uomini che vanno a letto con altri uomini dovrebbero venire uccisi. Un altro, Geoffrey Dennis, rabbino del Texas, esamina minuziosamente i passaggi di «teologia erotica», ovvero dei numerosi punti dell´Antico Testamento che affrontano il tema del sesso.
C´è la celebre storia di Onan, fulminato da Dio per avere «sparso il proprio seme» anziché averlo usato per dare un figlio alla moglie di suo fratello, precedentemente ucciso per avere peccato: un episodio diventato nell´educazione religiosa e nel linguaggio comune sinonimo della condanna della masturbazione, anche se dal racconto biblico sembra in verità di dedurre, scrive il rabbino, che Onan si fosse limitato a un «coitus interruptus» piuttosto che al cosiddetto «vizio solitario».
C´è Tamara, che finge di essere una prostituta per sedurre Giuda. C´è Amnon, figlio di re Davide, che stupra Tamara quando lei rifiuta di giacere con lui. C´è Dina, figlia di Lea e di Giacobbe, violentata da Shechem. C´è Lot, che dopo essersela spassata nella peccaminosa città di Sodoma, viene ubriacato e sedotto dalle proprie figlie. C´è Davide, che va a letto con Betesda, e poi ne fa uccidere il marito in battaglia per poterla sposare. C´è il saggio Salomone, che accumula un harem di 700 mogli e principesse, più 300 concubine. E così via. «Non sono un teologo e non parlo a nome di nessuno», dice il curatore del volume Nathan Abrams al quotidiano Independent di Londra, che ieri ha pubblicato un´anticipazione del suo libro. «Vorrei solo aprire una franca discussione su questioni che finora non sono state discusse in dettaglio», cioè sull´atteggiamento scioccante e repressivo, spiega, del Dio dell´Antico Testamento in materia di sesso. L´Independent ricorda in proposito che quando lo scrittore Evelyn Waugh si ritrovò intrappolato in Europa durante la seconda guerra mondiale insieme a Randolph Churchill, figlio del premier Winston, gli diede da leggere la Bibbia per «passare il tempo» e Churchill junior «ne fu visibilmente eccitato». Per tacere del protagonista del romanzo di Anthony Burgess (e del film ricavatone da Kubrick) Arancia meccanica, che rinchiuso in carcere per curarsi dalle sue devianze sessuali si procura una copia della Bibbia e sogna scene di sesso a occhi aperti, mentre i suoi guardiani credono che stia finalmente diventando un bravo cristiano.
Repubblica 8.3.08
Il passato dell'uomo in una cellula
La grande scoperta di un gruppo di genetisti
All´Università di Stanford sono stati studiati quasi mille individui di ogni parte del pianeta. Ed è confermata la tesi che l´evoluzione dell´uomo moderno è partita dall´Africa orientale
L´attuale ricerca ripercorre quella condotta, con minori mezzi, nel 1963
Un genoma è fatto di 3,2 miliardi di posizioni elementari dette nuecleotidi
Craig Venter ha completato l´analisi del proprio Dna e quello dei genitori
STANFORD. Fra le novità più straordinarie portate dalla biologia contemporanea c´è la possibilità di ricostruire il passato dell´Uomo guardando all´interno delle nostre cellule. Questo può sembrare stupefacente al profano, e senz´altro lo è. Come succede?
Ciò che più distingue gli organismi viventi dalla materia inanimata è la capacità di riprodurre se stessi, cioè di formare una copia molto precisa di sé, che in genere continua a vivere anche dopo che è scomparso l´individuo che l´ha generata. Ma nulla è perfetto a questo mondo. Nemmeno una patata è sempre del tutto identica al suo genitore. Di generazione in generazione si verificano piccoli errori di copia del materiale ereditario, il Dna (le mutazioni), che sono poi trasmessi alle generazioni successive e tendono ad accumularsi nel corso del tempo. Alcune mutazioni hanno fortuna, e si diffondono a tutti gli individui di una popolazione, magari perché portano un piccolo vantaggio, o semplicemente sotto la spinta del caso. Leggendo il Dna di moltissimi individui di ogni continente è possibile ricostruire la storia di queste mutazioni, e capire come si sono mossi per il mondo i loro portatori nell´arco di decine di migliaia di anni.
E ciò che ha fatto una recentissima ricerca compiuta nel Dipartimento di Genetica dell´Università di Stanford, diretta da Rick Myers, Luca Cavalli-Sforza e Marc Feldman, appena pubblicata sulla rivista Science. Sono stati studiati 938 individui provenienti da ogni angolo del pianeta, ricostruendo la diffusione della nostra specie negli oltre 100.000 anni trascorsi da quando Homo sapiens sapiens è apparso sulla Terra. Per capire cosa è stato fatto e cosa aggiunge alle nostre conoscenze, è bene fare un passo indietro ed entrare un po´ più nel dettaglio.
La prima analisi del genoma umano è stata conclusa nel 2002. Sono stati pubblicati due diversi genomi completi, a poca distanza uno dall´altro. Uno era, quasi per intero, quello di Craig Venter, che aveva diretto una sua iniziativa privata di ricerca. L´altro, realizzato dal Centro del Genoma Umano del governo americano, era composto di molti pezzi provenienti da individui diversi.
Il genoma di ciascuno di noi non è quello di un solo individuo, perché ognuno riceve un genoma dal padre e uno dalla madre. Molto di recente, Craig Venter ha completato l´analisi del proprio Dna descrivendo i genomi che ha ricevuto da entrambi i genitori e valutandone esattamente le differenze. Sempre di recente, è stato sequenziato il genoma di Jim Watson, co-scopritore del Dna e fra i promotori dello studio governativo. Ora è stato sequenziato anche il genoma di un africano non identificato. Altri verranno nei prossimi anni: il governo americano si propone di sequenziarne 1000 da tutto il mondo.
Sappiamo che un genoma è fatto di 3,2 miliardi di posizioni elementari, che chiamiamo nucleotidi, di cui esistono 4 forme possibili (A, C, G e T). Il genoma viene spesso descritto come un grande libro, scritto con un alfabeto di 4 lettere, che si compone di 23 volumi (i cromosomi), di cui ciascuno di noi ha due copie (un volume ereditato dal padre e l´altro dalla madre). La situazione è un poco più complessa di così, perché ciascun filamento di Dna è doppio (due copie complementari di ogni volume dal padre, e due dalla madre), ma per i nostri fini è sufficiente semplificare dicendo che in ogni posizione del genoma paterno, come di quello materno, si trova un solo nucleotide.
Nel genoma di Craig Venter si riscontra che il contributo materno e paterno differiscono solo per 1 nucleotide su 200, quindi per 15 milioni di nucleotidi. Venter è figlio di genitori anglosassoni, ma se i suoi genitori fossero venuti da popolazioni diverse e lontane la differenza fra i contributi rispettivi non sarebbe stata molto superiore, perché sappiamo che la percentuale del genoma che varia fra diverse popolazioni è sempre la stessa, vicina all´11% della variazione complessiva tra individui.
Sarebbe importante poter confrontare molti genomi individuali, ma il sequenziamento è ancora troppo costoso, e occorrerà un tempo non indifferente per conoscere i risultati dei mille che saranno sequenziati dal governo USA. A quel punto sarà possibile capire meglio l´influenza genetica sulle malattie. Si lavora anche per arrivare a sequenziare un intero genoma con una spesa di 1000 dollari, così da poter offrire un nuovo servizio importantissimo alla medicina. Fra qualche anno questo sarà possibile, ma quando è difficile dire.
Da un paio d´anni esiste però un´alternativa poco dispendiosa, resa possibile da una tecnologia messa a punto da varie industrie americane, che permette di studiare abbastanza rapidamente una frazione importante dei nucleotidi per cui il contributo paterno e materno è diverso in un individuo. Lavorando su questa strada, il Dipartimento di Genetica di Stanford ha studiato 650.000 nucleotidi (grosso modo 1/20 dei geni variabili noti) in quasi 1000 individui, provenienti da 51 popolazioni di tutto il mondo: 7 in Africa, 8 in Europa, 3 in Medio Oriente, 9 in Asia centrale, 17 in Asia orientale, 2 in Oceania e 5 nelle Americhe. Si tratta solo di indigeni, cioè di popolazioni che erano stanziate nel luogo dove ancora vivono prima dell´arrivo di Colombo, e quindi prima del grande rimescolamento di popoli portato dalla navigazione transoceanica.
Tutti gli individui esaminati vengono da una collezione di globuli bianchi del sangue, che possono fornire quantità indeterminate di Dna, stabilita su iniziativa di Luca Cavalli-Sforza. Sono stati necessari 11 anni e il contributo di una ventina di ricercatori di tutto il mondo, che hanno donato le colture cellulari al laboratorio parigino della Fondazione Jean Dausset, premio Nobel per la scoperta dei geni Hla, responsabili dell´identità immunologica degli individui. Il sangue è stato liberamente donato dagli oltre mille soggetti da cui proviene, e la collezione (Hgdp) è stata fin da principio disponibile a qualsiasi laboratorio di ricerca non commerciale (inizialmente a titolo gratuito, poi, cresciute le richieste fin quasi a cento, a prezzo di costo). Si evita così l´applicazione di brevetti al Dna, perché i laboratori sono tenuti a pubblicare in dettaglio tutti i loro risultati, e questo esclude la brevettabilità.
Si tratta dell´indagine più completa condotta finora. È comparsa su Science a un giorno di distanza da una ricerca analoga pubblicata su un´altra rivista scientifica, Nature, condotta su metà degli individui della stessa collezione HGDP e con metà degli stessi nucleotidi. Le due ricerche hanno dato risultati molto simili.
L´analisi segue i metodi, molto arricchiti da allora, introdotti per la prima volta in un articolo del 1963 dal più anziano degli autori di questo articolo e applicati ai pochi geni noti a quel tempo. Si trattava allora di soli 15 geni di gruppi sanguigni: il numero e la qualità dei geni studiati è andata sempre aumentando, ma i risultati più generali sono cambiati poco (come era del resto da aspettarsi).
Cos´è un gene? Lo scopritore dell´eredità, il monaco Mendel, aveva studiato sette caratteri trasmissibili nei piselli, e chiamò «elementi» i fattori della trasmissione ereditaria. Il più semplice di essi è un solo nucleotide del Dna. Quelli che oggi si chiamano «geni» sono segmenti di Dna piuttosto lunghi, che producono una o talora più proteine speciali. Le proteine sono gli esecutori dello sviluppo biologico (spesso paragonate ai mattoni di cui è costruito un organismo): ce ne sono almeno 30.000 tipi diversi tra loro. I geni invece trasmettono l´informazione che permette di costruire le singole proteine e assicurano la somiglianza fisica e chimica tra genitori e figli.
Fino agli anni ´80 è stato possibile studiare l´evoluzione solo su proteine, poi è diventato possibile analizzare direttamente il Dna. Nel 2005 si è riusciti ad esaminare per la prima volta un numero di geni abbastanza elevato (circa un migliaio). Tutti gli studi hanno portato alle stesse conclusioni statistiche.
Non è sorprendente che i risultati del 2008 confermino quelli del 1963, perché la storia dell´umanità è stata una sola. Ma il livello di precisione oggi è aumentato di oltre 1000 volte rispetto a pochi anni fa, e di 400.000 volte rispetto al 1963. La conclusione principale riconferma risultati più antichi: in particolare che l´evoluzione dell´uomo moderno è avvenuta, per una buona metà della sua storia, in un piccolo gruppo che viveva in Africa orientale, non distante dalla parte est dell´Etiopia. Da questo discendono tutti gli uomini oggi viventi. L´occupazione del mondo è avvenuta attraverso una lenta espansione, durata 60.000 anni, a partire da questo minuscolo gruppo, che è cresciuto di numero e ha mandato piccole colonie di pionieri nelle più o meno immediate vicinanze. Queste colonie si sono moltiplicate a loro volta e hanno mandato altri pionieri, e questo processo si è ripetuto centinaia o forse migliaia di volte.
Ogni volta che da un piccolo gruppo partono pionieri che vanno verso l´esterno e fondano un gruppo nuovo si ha un effetto genetico speciale, che si chiama «effetto fondatori», perché in un piccolo sottogruppo di individui non possono comparire tutte le varianti genetiche presenti nella popolazione di partenza. In realtà, lo stesso fenomeno si verifica non solo alla formazione di una nuova colonia, ma ad ogni nuova generazione. Quando un piccolo numero di individui fonda una popolazione nuova si ha però un momento più critico, perché i fondatori sono poco numerosi. Nei gruppi che così si formano compaiono col tempo varianti originali, ma diverse e distinguibili rispetto all´insieme di quelle della popolazione di partenza.
Poiché l´espansione è stata graduale, ci si attende che dall´inizio alla fine ci sia stata una piccola perdita progressiva di variazione genetica, che di fatto si può osservare ancor oggi in tutta la popolazione indigena del mondo. Si parla di «effetto fondatori seriale» (o «sequenziale»). Si riscontra con qualunque gene, ed è visibile in modo estremamente regolare: partendo dall´Africa orientale si ha una diminuzione progressiva della varietà genetica, fino ad arrivare alle popolazioni più lontane, nell´estremo sud dell´America meridionale e in alcune isolette più distanti dalla costa. L´effetto è modesto ad ogni nuovo passo e la sua osservazione richiede un grande numero di individui e di geni.
Per spiegare a fondo l´importanza di queste osservazioni bisognerà studiare i 6 miliardi di nucleotidi del genoma materno e paterno. In passato, la differenza tra popolazioni era stata stimata fra il 5 e il 15 per cento al paragone di quella tra individui di una stessa popolazione. Questi lavori recentissimi trovano una stima esatta dell´11 per cento, quasi esattamente la stessa percentuale per tutti i cromosomi, con una differenza importante: nel cromosoma X la differenza è del 15 per cento, per ragioni largamente casuali, che semplici teorie matematiche spiegano e prevedono.
La conclusione più elegante di questo lavoro è che aumentando il grado di dettaglio della ricerca aumenta corrispondentemente la precisione dei risultati. Lo studio del genoma fa della genetica una scienza esatta, mentre una volta la biologia era una scienza più qualitativa che quantitativa. Oggi la biologia ha raggiunto un livello di precisione paragonabile a quello della fisica: è possibile fare previsioni teoriche sull´evoluzione, in termini numerici, che risultano esatte, con i criteri più sofisticati del calcolo delle probabilità.
Corriere della Sera 8.3.08
Il caso Sputi e insulti contro Lanna al dibattito di Azione universitaria sulle donne
Sapienza, blitz delle femministe Aggredito il direttore del «Secolo»
I collettivi: ha fatto il saluto fascista. La replica: li prendevo in giro
Ritanna Armeni, invitata al confronto: la violenza è da condannare. La Polverini: persa un'occasione di dialogo
di Fabio Caccia
ROMA - Megafoni, fischietti e cori anni 70. Stavolta, all'università La Sapienza, «l'assedio sonoro» c'è stato. Non come a gennaio, quando invece saltò per la rinuncia in extremis del Papa, l'atteso bersaglio. Ieri mattina, un gruppo dei collettivi di sinistra, in tutto una quarantina di persone, per la maggior parte giovani femministe, alcune con in testa la finta tiara del popolo «No Vat», hanno contestato la tavola rotonda (intitolata «Otto marzo: pensiamo donna») organizzata a Giurisprudenza da Azione Universitaria, il braccio studentesco di An. C'erano le femministe fuori e i convegnisti dentro. Sono dovuti intervenire gli agenti del locale commissariato, diretti da una donna, Ornella De Santis, per evitare il peggio. Le ragazze con in testa la tiara «No Vat» lanciavano in aria preservativi, gridavano slogan e distribuivano volantini sull'aborto «libero e gratuito». All'uscita, però, sarebbero volati anche sputi e spintoni ai danni di due giornalisti del quotidiano di destra «Il Secolo d'Italia», il direttore Luciano Lanna e la collega Annalisa Terranova. Annalisa Bertè, di Azione Universitaria, è amareggiata: «Avevamo invitato donne di tutte le parti politiche, anche la giornalista Ritanna Armeni che certo di destra non è...». «Oltretutto - aggiunge Annalisa Terranova, la cronista aggredita - le donne contestatrici erano state invitate a parlare. Ma si sono rifiutate ». «Io quando sono arrivata - racconta Ritanna Armeni, che ogni sera conduce Otto e mezzo su La7 - ho subito capito che non era aria di convegno, sono entrata nell'aula, era vuota e così sono andata via. Non ho visto gli sputi e gli spintoni, ma la violenza è sempre sbagliata, anzi trovo umiliante per le donne ripetere certi modelli maschili. Però è indubbio che ci sia in atto, in Italia, un attacco al corpo femminile. Così mi ha fatto piacere leggere sui volantini distribuiti da quelle ragazze parole chiare sull'autodeterminazione delle donne ». C'era anche Renata Polverini, ieri mattina, segretario generale del sindacato Ugl: «Poteva essere una bella occasione di confronto, invece niente. Ma attenzione, perché quando le donne non parlano tra loro, si arretra pian piano anche sul terreno dei diritti».
Replicano i collettivi della Sapienza: «È stata una legittima e pacifica contestazione contro un'iniziativa sessista e fortemente strumentale». E non c'è stata alcuna «aggressione», secondo loro: «Il direttore del Secolo ha volutamente provocato gli studenti salutandoli con il braccio destro alzato, cioè con il saluto romano fascista. Gli studenti non hanno risposto in alcun modo, se non verbale». Lanna, però, si difende e spiega: «Loro ci gridavano fascisti e allora io, sì, ho alzato il braccio, ma solo per prenderli in giro ». Ai due giornalisti è giunta in serata la solidarietà dell'Associazione stampa romana e della Federazione nazionale della stampa: «È veramente triste che in un luogo deputato al sapere, alla formazione delle coscienze e delle idee - afferma la Fnsi in una nota - si ripetano ciclicamente episodi di violenta intolleranza».
Corriere della Sera 8.3.08
Sì dei ginecologi all'idea dell'organismo ministeriale. «Accesso facilitato al farmaco del giorno dopo»
La pillola gratis che divide i medici
Proposta della Commissione Salute. I dottori cattolici: superficiale
Ora vengono rimborsate dal servizio sanitario solo le pillole di dosaggio medio, più datate e meno usate
ROMA — Il Paese meno aperto alla pillola (la prendono appena il 25% delle italiane in età fertile) apre alla pillola. Proprio così. Per la giornata dell'8 marzo fra le proposte della Commissione salute della donna, ministero della Sanità, vicepresidente Maura Cossutta, c'è la gratuità degli anticoncezionali a basso dosaggio. Quelli di ultima generazione con una quantità di estrogeni inferiore ai 20 microgrammi. Tra i punti salienti del Rapporto Osservatorio Donna un accesso agevolato alla pillola del giorno dopo, da prendere entro le 48 ore dal rapporto sessuale potenzialmente a rischio. Chi la richiede al pronto soccorso potrebbe ricevere il cosiddetto codice verde, cioè una priorità nel ricevere l'assistenza dei medici. Idea definita «delirante » da Luca Volontè, Udc.
Dunque contraccezione orale per tutte. Ora vengono rimborsate solo le pillole di dosaggio medio, più datate. Michele Grandolfo, epidemiologo dell'Istituto superiore di sanità, precisa e polemizza: «La pillola gratuita è già prevista dalla legge 405 istitutiva dei consultori. Se ancora non è così, è perché in Italia c'è qualche problema ».
Comunque sia, la proposta della Commissione di Livia Turco va considerata una sorpresa se non altro per le reazioni. Perplessi i medici cattolici, presieduti da Vincenzo Saraceni che temono che un simile allargamento conduca ad un «uso superficiale. Sono contrario ad ogni pratica che porti all'aborto diretto o indiretto ». E Isabella Bertolini, FI: «Facilitare un uso scriteriato impedisce la maturazione sessuale». Per Vittoria Franco, Pd, invece «è giusto puntare sulla contraccezione per prevenire l'aborto». Favorevoli anche i ginecologi dell'Associazione Aogoi, che riunisce gli ospedalieri. Erminia Emprim, Sinistra arcobaleno: «Per prevenire l'aborto serve educazione sessuale nelle scuole».
Il ministero propone inoltre che vengano messi in commercio confezioni da 6 blister in un'unica scatola, anziché singole, e che siano gratuite per le donne meno abbienti la spirale - al rame o il tipo medicato con estrogeni - e il diaframma, in realtà caduto in disuso perché scomodo e legato all'applicazione di crema spermicida. Attualmente sono una decina le pillole al di sotto dei 20 microgrammi in fascia C, a pagamento, oltre a cerotto e anello anticoncezionale (15 mg). Organon Shering Plough, una delle aziende all'avanguardia nella ricerca di contraccettivi sicuri, si sta muovendo nella direzione di estrogeni naturali che rendano la pillola ancora più tollerata.
Il Rapporto insiste, poi, sulla presenza di ginecologi non obiettori della legge 194 sull'aborto nei distretti territoriali, corrispondenti più o meno a una Asl. Dovrebbero essere presenti almeno quattro volte la settimana. Infine attenzione al percorso nascita. Dovrebbero essere chiusi i centri maternità con meno di 550 parti l'anno, selezione che garantirebbe maggiore sicurezza per mamma e bambino.
Margherita De Bac
Corriere della Sera 8.3.08
Biografie. Spielrein, pioniera trascurata e fraintesa
Sabina, Jung e l'eros: così la paziente amata divenne una psichiatra
di Marco Garzonio
La storia d'amore tra Carl Gustav Jung e Sabina Spielrein è ormai nell'immaginario collettivo. Sulla vicenda Roberto Faenza ha realizzato una pellicola di successo, Prendimi l'anima. Come appare in maniera amplificata nel film, il «caso» contiene gli ingredienti dello «scandalo », della curiosità, di un certo voyeurismo. V'è lui, Jung, trentenne psichiatra di sicuro successo, che fa saltare le regole della «giusta distanza» (l'espressione al proposito è di Mario Trevi, il grande vecchio dello junghismo italiano, nel recente Invasioni controllate, scritto col figlio Emanuele). V'è lei, Sabina, dieci anni di meno, la paziente, ebrea russa, conquistata da chi l'ha tratta fuori da una brutta isteria, per la quale fu ricoverata dal 17 agosto 1905 al 1˚ giugno 1906 al Burghoelzli, l'ospedale psichiatrico di Zurigo. Su di lei Jung, medico senior, applicherà per la prima volta il «metodo freudiano». V'è Freud, il padre della psicoanalisi.
Quando il giovane collega gli confessa il pasticcio (grazie alla Spielrein cominceranno i rapporti tra i due; sino ad allora Jung aveva solo letto i libri di Freud) collude con lui, un po' per cultura maschilista diranno i critici, un po' per indulgenza verso il collega di cui vede il valore e grazie al quale punta a nuove alleanze oltre i circoli ebraici, un po' per tutelare la «sua» nuova scienza.
Tanto materiale scabroso negli anni ha finito per tenere nell'ombra l'«altra verità». Soprattutto quella di lei, di Sabina Spielrein, che diventerà anch'ella psichiatra, sarà accolta nella cerchia di Vienna, opererà a Ginevra (Piaget farà analisi con lei), anticiperà di almeno 15 anni i lavori della Klein, di Winnicot, la infant obsevation e, tornata in Russia col marito e le due figlie, vi introdurrà la psicoanalisi, cavandosela rispetto alle difficoltà poste dal regime sovietico, sino all'arrivo dei nazisti nella sua Rostov sul Don, nel '42, e alla scomparsa in una forra con altri ebrei.
Un libro ora restituisce alla Spielrein l'immagine forse più dolente e autentica di fiera, autorevole, feconda «pioniera dimenticata della psicoanalisi». L'eros c'è. Ci sono attrazione e passione, ma non v'è conferma del sesso fissato nei corpi nudi avvinghiati di Emilia Fox (Sabina) e Iain Glen (Jung), locandina della lettura di Faenza. È messa in discussione la teoria delle «vittime» (lei dell'«abuso» di lui, il potere terapeutico, lui della «seduzione » di lei, l'isterica) a favore, invece, di un complicato intreccio intellettuale e umano «alla pari» tra due spiriti liberi, assetati di vita, proiettati nell'avventura delle scoperte sorprendenti dell'inconscio. Scriverà la Spielrein alla madre (il libro contiene pagine inedite del diario di lei, lettere di Jung, le cartelle cliniche, materiale per la prima volta tradotto in italiano): «Siamo entrambi colpevoli o non colpevoli allo stesso modo».
Soprattutto viene fatta giustizia dell'influenza che Sabina ha avuto sui suoi illustri interlocutori, che finirono per schiacciarla. Le scriverà Jung da «amico» e collega ormai nel 1912: «Forse sono io ad avere attinto da lei». E «nonno Freud»
La lettera/ 1
La mia mente ha raggiunto il fondo.
Io, che ho dovuto rappresentare una salda torre per molte persone deboli, sono il più debole di tutti. Lei mi perdonerà se sono come sono? Mi perdonerà se La offendo nell'essere così e nel dimenticare i miei doveri di medico nei Suoi confronti? (...) Sono alla ricerca di qualcuno che capisca come amare, senza penalizzare l'altro, renderlo prigioniero o dissanguarlo completamente; cerco questa persona non ancora realizzata che renda possibile un amore indipendente da vantaggi o svantaggi sociali. Per mia sfortuna io non posso vivere senza che nella mia vita vi sia la gioia dell'amore, dell'amore impetuoso e sempre in trasformazione. (...) Quando in me nasce l'amore per una donna, la prima cosa che provo è il rincrescimento, la pietà per la povera donna che sogna la fedeltà eterna e altre cose impossibili, ed è destinata a un doloroso risveglio. (...) Vorrei avere delle certezze precise, di modo che io possa tranquillizzarmi circa le Sue intenzioni.
Lettera di Jung a Sabina Spielrein, 4 dicembre 1908
(secondo il termine ironico che sempre Jung userà in una lettera a Sabina) inventò il nome di «controtransfert » per esorcizzare i demoni delle complicazioni erotiche della terapia dopo quanto successo al giovane e impetuoso collega zurighese. Come, peraltro, alla Spielrein Jung deve la scoperta dell'Anima, componente femminile della psiche dell'uomo. Le scrive il 4 dicembre 1908: «Comprenderà che io sono uno dei più deboli e dei più instabili degli esseri umani? Ora mi restituisca qualcosa dell'amore, della pazienza e dell'altruismo che io riuscii a darle nel momento della sua malattia. Ora sono io il malato». E Freud, a sua volta, le è debitore del concetto di «pulsione di morte». Il padre della psicoanalisi riconoscerà in
Al di là del principio del piacere (1920) l'influenza di quanto dalla Spielrein aveva sentito dire poco meno di una decina d'anni prima, quando aveva letto a lui, Federn, Rank, Sachs, Stekel, Tausk uno scritto dal titolo La distruzione come causa della nascita.
«È una donna molto intelligente; tutto quanto dice ha un significato », aveva scritto Freud a Jung. Ma ad accorgersene e a rendere il dovuto merito a Sabina il mondo ci ha messo tanti, troppi anni. Un po' anche a causa dei due ingombranti colleghi, che l'hanno schiacciata, vaso di coccio tra vasi di ferro. Inconsciamente? Per gelosia e competizione? Per pregiudizi verso una collega creativa e libera? Fu lei a scrivere nel saggio
Le origini delle parole infantili papà e mamma, che la figlia Renata dice papà «quando è scontenta e quando vuole qualcosa esclama mamma». Già, è difficile ammettere di aver bisogno.
Corriere della Sera 8.3.08
A casa dell'Imperatore
Nell'abitazione di Ottaviano restituita al suo splendore il mito dei Trionfi Romani e il fascino del Rosso Pompeiano
di Paolo Conti
Il pendio del Palatino accompagna lo sguardo fino alla cupola di San Pietro, che nella prospettiva del panorama viene preceduta dalla doppia vela del Tempio maggiore israelitico, lì a un passo sul lungotevere. L'erba profuma d'amaro, è il carattere rude dell'antico agro romano. Lì sotto c'è lo stretto varco del Lupercale. Qui una porta a vetri si apre sullo scrigno delle meraviglie: la Casa di Augusto, costruita quando il trono era lontano e si trattava dell'abitazione di Ottaviano, figlio adottivo ed erede di Giulio Cesare. Si comincia dalla rampa e bisogna liberare le scarpe dal fango prima di affrontare la visita.
Il timbro cromatico più forte è il Rosso Pompeiano, vivissimo e ignaro dei secoli passati. E poi uccellini, vasi, festoni vegetali, un tripudio di aeree colonnette. Sulla volta, stucchi candidi e pitture dove compare l'azzurro cobalto, il viola. Roma assorbe e rielabora tutto: sono già le «grottesche» care al Rinascimento. Le radici sono qui, nella terra del Palatino. E il tempo non ha alterato il loro splendore.
Poi ecco lo Studiolo, un miracolo di gusto egizio-alessandrino. Accanto ancora, la Stanza delle Maschere (la spettacolare vivacità di una scena teatrale ellenistica), il Locale delle Prospettive (indimenticabili i vasi di vetro pieni di frutta), la Stanza dei Festoni di Pino (con i leggerissimi finti porticati).
Una meraviglia che torna a disposizione dei visitatori, anche se la Casa di Augusto non tollererà più di cinque persone a turno (niente visite guidate, occorrerà mettersi pazientemente in fila e civilmente attendere). La restituzione della Casa di Augusto alle visite è il pezzo più pregiato della riorganizzazione dell'Area archeologica centrale di Roma che ruota su due perni. Cioè il mito del Trionfo Romano. E il carattere opulento del Rosso Pompeiano, che ha segnato il gusto pittorico di un'intera civiltà affascinando per secoli i posteri e diventando un inevitabile riferimento.
I Trionfi Romani è il titolo della mostra organizzata al Colosseo dal 5 marzo al 14 settembre dalla Soprintendenza speciale per i beni archeologici romani: i simboli e l'inconfondibile identità di un rito fondamentale per Roma.
Rosso Pompeiano è la fortunata rassegna allestita nella sede di palazzo Massimo del Museo nazionale romano, prorogata all'1 giugno, un completo panorama della decorazione pittorica nelle collezioni archeologiche di Napoli e di Pompei. Quello stesso Rosso che caratterizza la straordinaria Casa di Augusto.
Il Trionfo Romano ci riconduce alla Via Sacra, al tratto compreso tra l'Arco di Costantino e quelli successivi, di Tito e di Settimio Severo. Qui approdiamo all'operazione legata all'Area archeologica centrale di Roma. Dal 10 marzo l'ingresso ai Fori romani non sarà più gratuito. Nasce il biglietto unico per Colosseo-Palatino-Foro Romano. La Soprintendenza speciale per i Beni archeologici di Roma da tempo segnalava problemi di conservazione e di vigilanza. Spiega il soprintendente Angelo Bottini: «Con l'apertura gratuita la Via Sacra si era trasformata in uno spazio pubblico dov'era impossibile controllare ingressi ed uscite. Per ovvi motivi di sicurezza, siamo stati costretti a chiudere tutte le aree a destra e a sinistra della Via Sacra e di Piazza del Foro. Per non dire dei segnali di usura e degrado. Diciamo che la gratuità ha provocato una drastica riduzione della visibilità del complesso». Fino alla decisione di tornare al pagamento, affidando all'Electa la biglietteria, distribuendo con diversi criteri il personale. Così si potrà ammirare di nuovo, nei prossimi tempi, il Tempio di Romolo, l'Oratorio dei Quaranta Martiri, la Casa delle Vestali, Santa Maria Antiqua. L'area verrà presto spiegata da esaurienti didascalie, che adesso mancano.
Ancora Bottini: «Potremmo aprire ancora e di più ma purtroppo ci mancano i numeri, abbiamo grossi problemi di personale: parliamo di tesori che vanno vigilati a vista. Ma qui il problema diventa più politico che tecnico».
Intanto una mano arriva da Maratonarte, la raccolta di fondi per i restauri organizzata dalla Rai col ministero per i beni e le attività culturali che ha assicurato 400 mila euro per sostenere i lavori di ripristino e consolidamento della Casa di Augusto. Il solo World Monuments Fund ne ha stanziati 300 mila. Un incentivo all'ottimismo per il nostro retaggio culturale, così ricco di beni e tanto povero di risorse.
Corriere della Sera 8.3.08
Alleanze, tattiche e strategie culturali per conquistare l'eredità politica e il potere
E così Augusto «arruolò» gli intellettuali
di Luciano Canfora
Nel «partito» di Cesare, nei luogotenenti che con Cesare avevano combattuto in Gallia e poi nella guerra civile contro Pompeo e il Senato, Ottaviano ha avuto i suoi avversari più tenaci. Li ha giocati gli uni contro gli altri, con alleanze tattiche durevoli fintanto che giovavano al suo unico fondamentale disegno: impadronirsi completamente dell'eredità politica e della successione di Cesare. In Antonio, fidato collaboratore e compagno d'arme di Cesare, ha avuto l'avversario più tenace e non ha avuto pace finché non l'ha annichilito completamente. «Dopo l'ultima sconfitta — narra Svetonio nella Vita di Augusto — Antonio fece un ultimo tentativo di pace, ma Augusto lo costrinse ad uccidersi e ne rimirò poi il cadavere». Solo con la scomparsa, anche fisica, di Antonio (31 a.C.), Augusto poté considerare di avere saldamente in mano l'intera eredità di Cesare e l'intero potere carismatico sull'esercito e sulla compagine statale. Erano passati tredici anni dalla morte di Cesare (44 a.C.): tredici lunghi anni di inesorabile, programmata, sapiente conquista del potere.
Diversamente da Cesare, che affrontava la polemica aperta anche con gli avversari sconfitti, Ottaviano, ormai divenuto Augusto, preferì irreggimentare, conquistandone ad uno ad uno i protagonisti, la vita intellettuale. Creò un'arte volta a glorificare la sua azione politica, le sue parole d'ordine. E soprattutto prevenne e zittì ogni voce che intendesse eventualmente esprimersi in modo dissonante. Gli scrittori cominciarono ad autocensurarsi: Virgilio, il maggiore, cancellò un intero pezzo delle Georgiche e lo sostituì con un'insulsa tirata sulle api. Poeti d'amore, come l'elegiaco Properzio, si misero a scrivere odi «romane», in cui si parlava del «principe», nei modi graditi alla sua propaganda; giovani promettenti e di bassa estrazione sociale come Orazio furono catturati e portati a scrivere odi di esaltazione del vincitore di Azio.
Naturalmente c'era anche chi riteneva di potersi non piegare. Un vecchio amico di Antonio, il generale Asinio Pollione, ritiratosi a vita privata già prima di Azio, decise di scrivere un'opera di storia che prendeva le mosse dal «primo triumvirato», cioè dagli esordi, trent'anni prima, di Caio Giulio Cesare: ma Orazio scrisse apposta un'ode per spiegargli che si trattava di un'iniziativa pericolosa. E ci fu anche chi decise di non scrivere più nulla, pur di non accodarsi al coro. Proprio perché promotore e artefice di un così forte controllo sulla cultura — per la prima volta nella storia di Roma — Augusto sapeva anche concedersi la civetteria della liberalità: come quando scoprì un nipote che leggeva di nascosto un libro di Cicerone, gli tolse dalla manica della tunica il libro, non rimproverò il fanciullo, ma disse pensosamente che l'autore in questione — della cui morte era stato a suo tempo correPoeti Foto in alto Virgilio; sotto Quinto Orazio Flacco
Corriere della Sera 8.3.08
Ricordi Da Goethe a Clinton: tutti ammaliati dal Foro
Quelle passeggiate «illustri» tra le rovine dei Cesari
Questo è Trilussa, nel sonetto La Terza Roma: «Infatti, sur più bello d'un lavoro,/ te ritrovi l'Impero giù in cantina/ con una strada che va dritta ar Foro». Per dire che, a Roma, la relazione con i millenni precedenti è di carattere assai confidenziale. Fu così che il mito dei Fori, delle rovine romane, venne creato soprattutto da europei che non avevano in casa pietre tanto antiche. Shakespeare ambienta naturalmente al Foro l'orazione funebre di Antonio per Giulio Cesare, con tutta probabilità senza esserci mai stato. Qualcosa vide invece, quasi due secoli più tardi, Johann Wolfgang Goethe, erede dei viaggiatori che fin dal '600 scendevano in Italia da Francia, Inghilterra e Germania. Subito Goethe coglie che a Roma «si trovano vestigia di una magnificenza e di uno sfacelo che superano, l'una e l'altro, la nostra immaginazione » ( Viaggio in Italia, 1786).
Una sera passeggia sul Palatino, «tra le rovine del palazzo dei Cesari» e scrive: «Nulla di tutto ciò si può rendere a parole! In verità, lassù non si sa cosa sia piccolezza». Quando Goethe lascia Roma, a modo di saluto sale sul Campidoglio, quindi scende sull'altro versante, «e davanti ai miei occhi interamente oscuro e gettando grandi ombre apparve l'arco di Settimio Severo; nella solitudine della Via Sacra, i monumenti così noti, sembravano quella sera strani e spaventosi. Ma quando mi avvicinai al Colosseo e a traverso le grate potei gettare uno sguardo nell'interno, fui preso da una specie di tremito e affrettai il ritorno. Ogni oggetto faceva un'impressione speciale, ma sublime e comprensibile nello stesso tempo». Esaltato l'animo di Goethe, più malinconico e riflessivo quello di Byron, qualche decennio più avanti, che nel Manfred racconta il «circo del Colosseo, mirabile reliquia del romano poter» e nota come «dei Cesari, la vile edera usurpa il seggio dell'allòr ».
Nel pieno dell'Ottocento archi e colonne diventano calamita per gli artisti sull'altra sponda dell'Atlantico. Ecco la poesia Il Colosseo: «Noi non siamo impotenti, noi pallide pietre: non ogni potere è spento, non ogni nostra gloria, non tutta la magia dell'alta rinomanza, non tutta la meraviglia che ne circonda, non tutti i misteri che giacciono in noi...». Firmata Edgar Allan Poe, maestro di misteri.
Altri americani verranno poi. Bill Clinton sui Fori con Hillary. Lei: cappello nero con nastro rosa, ma tacchi alti che la fanno sbandare sui basoli (1994). George W. Bush, in camicia, mano nella mano di Laura. Commenta: «Questo posto incute soggezione» (2001). Ma c'è anche, tenero, Russell Crowe, a Roma per promuovere A beautiful mind, che fa tardi, anzi tardissimo, a una conferenza stampa: è fuggito per scoprire in solitudine il Foro, lui, che tutto il mondo ormai chiama "il gladiatore". C'erano stati il turista americano Locuzzo, al quale Totò, sedicente guida, aveva venduto un finto sesterzio romano ( Guardie e ladri, 1951). E Gregory Peck aveva raccolto su una panchina con vista sull'arco di Settimio Severo la principessina Anna, deliziosamente Audrey Hepburn (Vacanze romane, 1953).
Ennio Flaiano, nel 1972 su L'Espresso, immagina il diario di un turista americano: «Abbiamo visitato The Roman Forum, dove fu ucciso Julius Caesar. L'erba tra i ruderi era molto alta e a un certo momento ho visto un piccolo serpente che mi guardava. Ho chiesto a un guardiano perché non tagliano l'erba e non catturano i serpenti, ma lui ha risposto che la Sovrintendenza(?) non era interessata un katzo all'erba e ai serpenti e che del resto le "Belle arti erano in agitazione"».
il Riformista 8.3.08
L'etica della vita secondo Boncinelli
Quei quattordici giorni pre-embrionali
di Orlando Franceschelli
Una salutare lezione di scienza e laicità. È questa la convinzione suscitata dal recente libro di Edoardo Boncinelli L'etica della vita. Siamo uomini o embrioni? (Rizzoli). Un racconto chiaro e piacevole sulle «sottigliezze della natura», descritte con l'autorevolezza di un protagonista della ricerca biologica. In grado come pochi di illuminare con costruttiva sobrietà anche questioni eticamente delicate come quelle dell'inizio e della fine della vita. Senza indulgere ad alcuna preconcetta e sterile logica di schieramento amico-nemico. Anzi: stimolando ognuno di noi a simulare nella propria mente quella «sorta di dialogo con un Socrate immaginario» che invita a revocare in dubbio le proprie convinzioni. Scienza e laicità, appunto. Due risorse imprescindibili per chiunque si senta impegnato a costruire una sfera pubblica e istituzioni democratiche capaci di favorire la ricerca e di prendere decisioni informate e sagge sulle applicazioni dei suoi risultati.
Arricchito da un utile glossarietto, il libro fa il punto su tutto ciò che stiamo imparando su «l'alfabeto elementare» della vita. Dai primissimi istanti dell'incontro tra la cellula-uovo e lo spermatozoo, fino alla nascita e al successivo formarsi di una personalità e infine di una coscienza. È la storia biologica e socio-culturale di ognuno di noi. Scandita dalla capacità della natura di plasmare e cesellare le forme che dalle prime cellule del preembrione (blastocisti) porteranno al feto e poi a completare la nostra prima nascita biologica mediante la formazione della nostra seconda natura culturale e sociale. Ossia a maturare esperienze, ricordi, competenze e conoscenze grazie alle quali «impariamo ogni giorno» ad essere uomini e donne tra altri uomini e altre donne, «ma anche e soprattutto individui singoli, unici, e irripetibili».
E tuttavia, proprio mentre ci ricorda come non si finisca mai di stupirsi «nel considerare quali e quante sottigliezze la natura usi per raggiungere i propri scopi», Boncinelli invita a concedersi anche una pausa di riflessione critica, di cui sarebbe difficile esagerare la portata e l'opportunità. È vero che in ognuno di noi c'è come una tendenza spontanea a descrivere l'opera della natura con un linguaggio figurato che suggerisce di vedere «un progetto e quasi una volontà dietro le diverse operazioni naturali». E tanto più dietro quelle particolarmente accurate e ben riuscite.
Eppure, per quanto difficile, si tratta di una tentazione a cui bisogna imparare a resistere. Dietro ai processi biologici non c'è alcun «instancabile regista». Anzi: essi sono naturali appunto perché, più che da una Causa Prima che progetta e vuole, sono diretti e coordinati dalle istruzioni contenute nel patrimonio genetico. Più precisamente: nei geni esecutori e in quelli che li attivano mediante la produzione di proteine che svolgono la funzione di veri e propi interruttori molecolari: i geni architetti, come a suo tempo li definì il loro scopritore, ossia lo stesso Boncinelli. Senza temperare in questo modo il nostro antropocentrismo, compromettiamo la nostra capacità di «raccontare in maniera plausibile il maggior numero possibile di eventi». Nonché quella di rispondere con laicità alle questioni bioetiche sull'effettiva origine della vita di un essere umano e sulla «liceità di interrompere una vita in caso di necessità».
Boncinelli ci ricorda quanto sia inevitabile e giusto che ognuno di noi abbia il proprio sistema di opinioni. Incluse quelle religiosamente ispirate: ognuno deve appunto poter «trovare la propria risposta personale», sulla base delle proprie conoscenze, convinzioni ed esperienze. È la laicità che sorregge anche il pluralismo tipico delle nostre società.
Ma non meno auspicabile sarebbe che ognuno si preoccupasse anche della logicità e della coerenza delle proprie opinioni. Evitando così l'arroganza dogmatica che pretende di aver trovato una risposta valida per tutti. E che debba essere imposta a tutti per legge. Insomma: dobbiamo imparare a coltivare veramente il dialogo con il «Socrate immaginario», prima richiamato. E che difficilmente induce a non riconoscere la competenza scientifica, la rettitudine intellettuale e la sensibilità umana della «posizione personale» sostenuta dallo stesso Boncinelli: le cellule prodotte dalle prime suddivisioni dello zigote fino al quattordicesimo giorno non sono né un embrione, né sono «irreversibilmente avviate ad esserlo». Perciò sono cellule staminali totipotenti.
Certo la strada del futuro potrebbe essere quella di ridare una seconda giovinezza staminale alle cellule adulte. Ma intanto, conclude opportunamente l'autore, un equivoco - anzi: un'offesa - andrebbe rimosso: ritenere che chi è impegnato a migliorare la nostra vita anche mediante la ricerca scientifica stia sfidando con tracotanza la divinità e attentando alla natura e alla dignità dell'uomo. Un'offesa che veramente vorremmo non sentire mai più anche nel nostro Paese.
Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
giovedì 6 marzo 2008
l'Unità 6.3.08
Mussi: il duopolio Pd-Pdl amputa la democrazia
di Simone Collini
«Si risale la china», dice con un sospiro di sollievo Fabio Mussi. Passato un mese da quando è stato sottoposto a un doppio trapianto di reni, il ministro dell’Università è alle prese con le terapie anti rigetto. «La scienza italiana, nonostante quello che ci investiamo, raggiunge straordinari livelli di eccellenza».
È questa la cosa che più le dispiace di questi 20 mesi di governo, che non avete fatto di più per la ricerca?
«Questa, ma anche un’altra, di carattere più generale. Il Partito democratico aveva 18 ministri su 25, il presidente del Consiglio, due vicepremier, tutti i ministeri chiave, il gruppo parlamentare più forte, ma non ha avuto il coraggio e la serietà di assumersi la responsabilità anche di ciò che è andato storto, addossandola invece tutta agli alleati minori».
Veltroni dice che i ministri in piazza non hanno aiutato.
«Non so bene di cosa si parli. Immagino ci si riferisca a Fioroni, che ha partecipato al Family day contro una legge del governo, i Dico, o alle manifestazioni di Di Pietro contro l’indulto».
Veniamo al futuro: la Sinistra arcobaleno è data sotto l’8% in diverse regioni. È preoccupato?
«No, sono sondaggi di inizio di campagna elettorale, vedremo alla fine. La cosa importante, di grande valore strategico, è affermare la presenza consistente di una sinistra politica rinnovata e unita. Oggi è in corso una battente campagna tesa a dimostrare che c’è un solo voto utile, che è bene una riduzione a due del sistema politico italiano, che i voti che non si danno alle due maggiori formazioni sono sprecati. Campagna che si è spinta fino al paradosso di esponenti del Pd che dicono di votare o Veltroni o Berlusconi».
Non se l’aspettava?
«No, però lo trovo sintomatico. Per questo è molto importante, per l’avvenire di questo Paese, che esista una sinistra politica. Caratterizzazione, quella di sinistra, che mi pare non interessi minimamente al Pd, come dimostra anche l’intervista di Veltroni al Pais: siamo riformisti, non di sinistra».
Riformisti di centrosinistra, ha precisato.
«Sì, va bene. Quel che è certo è che, se non la parola, è la sostanza che è rimasta incustodita. Ecco perché non è auspicabile un gioco a due, anche per evitare attrazioni fatali e magari qualche progetto di riforma costituzionale che veda protagonisti esclusivi il Pdl e il Pd».
È più auspicabile la frammentazione?
«Figuriamoci, ma da venticinque partiti a due c’è un salto che porta all’americanizzazione, che porta fuori dal quadro europeo dove ovunque c’è bipolarismo e aggancio con le grandi tradizioni politiche sorte sul continente, e in nessun paese c’è bipartitismo. Quello che è auspicabile è la presenza di una, per quanto ridotta, pluralità di soggetti. In un paese come il nostro, escludere gran parte della rappresentanza politica e di parti sostanziali della società è un azzardo. Nel duopolio si amputa la democrazia».
Addirittura?
«Sì, se si pensa che questa campagna elettorale ha due poste in gioco. La prima è il governo dei prossimi cinque anni. La seconda, oserei dire persino più importante, sono gli assetti della democrazia italiana e del sistema politico dei prossimi cinquanta anni».
Vede il rischio di una scomparsa di una sinistra politica?
«Vedo il Pd che fa l’appello a non votare più a sinistra, perché non gli dispiacerebbe che scomparisse questo competitore, sino a ieri alleato».
Magari non gli dispiace che scomparisse perché, come dice Veltroni, siete dei conservatori e impedite la modernizzazione del paese.
«Questa è una bella boutade. Le categorie destra e sinistra sono state sostituite con moderno-antico. Categorie politicamente insignificanti. Anche se quando si sente pronunciare in politica troppo spesso la parola moderno ci si deve mettere con le spalle al muro, perché qualcuno cerca di fregarti. In nome della modernità Calearo sostiene che la legge 30 è ottima e che sarebbe bene abrogare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Mi ha impressionato».
Non è Calearo ma Veltroni che vi ha detto che siete rimasti agli anni 50.
«Non siamo noi, è la situazione che è tornata quella degli anni 50: morti sul lavoro e salari da fame. E abbiamo visto la posizione pazzesca assunta da Confindustria, e in special modo dal suo vicepresidente Bombassei, smontare tutta quella versione armonica del rapporto tra imprenditori e lavoratori nella quale è impegnato il Pd. Alla prima prova, di fronte a una strage insopportabile di lavoratori come quella in corso, Confindustria si è detta contraria ai decreti che rafforzano i controlli e le sanzioni. Questo a riprova che tra l’imprenditore e il lavoratore c’è anche qualche conflitto».
Però un patto per la crescita tra imprenditori e operai può incidere sui salari, non crede?
«I salari sono fermi dal 2000. Dal rapporto Mediobanca dello scorso anno emerge che la parte di valore aggiunto destinata ai salari scende dal 40 al 30%, e i profitti salgono di 11 punti. Prendiamo il lungo periodo, gli ultimi 35 anni: la quota del Pil che va al lavoro dipendente scende dal 59 al 48%. E quand’era a questa percentuale? A metà degli anni 50. Quello che manca ai salari finisce ai profitti e alle rendite. E lo ritroviamo in altri indicatori, che dicono che in Italia il 10% dei più ricchi possiede il 45% di tutta la ricchezza mobiliare e immobiliare privata. La malattia italiana si chiama diseguaglianza, prima ancora che scarsa crescita».
D’alema non esclude in futuro una collaborazione tra voi e il Pd. Che ne pensa?
«Mi fa piacere, vuol dire che c’è qualcuno che ancora riflette. Neanch’io la escudo, anzi mi auguro che in futuro si riapra la possibilità di un’alleanza di centrosinistra, perché altrimenti vedo difficile la possibilità di governare questo Paese. Ma oggi c’è competizione. Almeno finché non si capisce qual è la posizione del Pd, se quella di Calearo e Ichino o quella di Paolo Nerozzi, almeno nella versione che ho conosciuto io».
Dice che è diversa da quella odierna?
«Fu il principale organizzatore dei tre milioni in piazza contro l’abrogazione dell’articolo 18. Oggi è candidato per il Pd in Senato in Veneto, dove c’è capolista alla Camera Calearo».
A proposito di candidature, la Sinistra ne presenta pochissime di esterni.
«Sì, siamo al di qua del necessario e del possibile. Tuttavia, si fa un passo alla volta».
Repubblica 6.3.08
Sicurezza, nessun accordo Confindustria boccia il decreto
Palazzo Chigi: oggi approviamo le nuove norme
Nulla di fatto nel confronto. Contributi alle piccole imprese per la prevenzione
di Marco Reggio
ROMA - Sul decreto sicurezza Confindustria ribadisce la sua linea: è confuso, troppo oneroso per le aziende, serve tempo per chiarire. E l´incontro con le parti sociali, che si è chiuso ieri sera poco dopo le 21, ha confermato le posizioni. Gli imprenditori avevano già parlato in mattinata, e in serata la delegazione di Confindustria ha preso atto senza commentare della scelta del governo di andare avanti per la sua strada. Oggi il Consiglio dei ministri è convocato per le 17, prima il testo definitivo del decreto verrà reso noto alle parti sociali, ma senza modifiche. Tra le misure allo studio di Palazzo Chigi l´utilizzo di una parte dei fondi del "tesoretto" dell´Inail, che ammonterebbe a 12 miliardi di euro, per finanziare l´adeguamento delle misure di sicurezza delle piccole imprese.
E arrivano le reazioni dei partiti. «È necessario che il governo vari immediatamente il decreto - commenta Fausto Bertinotti - senza farsi condizionare, perché c´è una pressione che viene dalla tragedia, più forte di qualunque resistenza». Rassicura Massimo D´Alema: «La posizione del Partito Democratico non è quella non è quella dei falchi di Confindustria. La nostra è quella del responsabile del Lavoro Cesare Damiano».
E il sottosegretario alla Salute Giampaolo Patta, che è uno dei relatori del decreto, parla chiaro: «La linea di Confindustria è ormai svelata: passiamo un altro mese a discutere, sarà il nuovo governo a riprendere le fila della questione. Quindi tutto rimandato alla fine dell´estate 2008. Impossibile. La legge delega votata dal Parlamento non è soggetta alla firma di un protocollo con le parti sociali, ma è un atto autonomo. Il Consiglio dei ministri lo approverà così come è stato scritto».
Perché Confindustria ha deciso il muro contro muro? Cosa, in realtà, non condivide? Il primo punto: i responsabili delle aziende dove si svolgono attività particolarmente pericolose sono obbligati a redigere e rendere pubblico il "documento di valutazione del rischio". Se non lo fanno sono punibili con l´arresto. I responsabili di tutte le altre aziende, se non lo fanno, rischiano un ammenda fino all´arresto. Tutto questo viene ritenuto "eccessivo" da parte di Confidustria.
Secondo: tutte le imprese che hanno in servizio più del 20 per cento di lavoratori in nero, che non rispettano le misure antincendio, l´esposizione all´amianto, rischiano la sospensione dell´attività e l´interdizione dagli appalti pubblici. Terzo: se accade un incidente grave, con morti o feriti, scatta una sanzione amministrativa fino ad un milione e mezzo di euro, il blocco dell´attività e degli appalti pubblici, oltre alle imputazioni di carattere penale, come le lesioni o l´omicidio colposo, per il numero uno dell´impresa. Anche questo non va bene per Confindustria.
Eppure il punto più "indigesto" per l´associazione degli industriali potrebbe essere la nascita dei "rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza". Cosa sono? Delegati eletti in ogni azienda che, assieme ai dirigenti dell´impresa, gli ispettori delle Asl e dell´Inail avranno libero accesso a tutti gli impianti per verificare, sempre, se le misure di sicurezza previste dalla legge vengono rispettate. «Misure e scelte già concordate con la Thyssenkrupp e l´Ilva di Taranto - afferma il sottosegretario Giampaolo Patta - mentre la Fiat si è sempre opposta a firmare un accordo».
Repubblica 6.3.08
Il vice presidente degli industriali Bombassei: troppa fretta, il decreto non serve
"Pene più severe? È demagogia se ne occupi il prossimo governo"
di Luisa Grion
ROMA - Confindustria chiede qualche giorno in più, tempo necessario a mettere in piedi «un sistema di norme e di sanzioni che possano davvero mettere un freno al dramma delle morti bianche». Perché per Alberto Bombassei, vicepresidente dell´associazione degli imprenditori, «la fretta non aiuta a evitare le tragedie e se il decreto in discussione passerà così com´è non cambierà nulla».
A cosa servirebbero questi giorni in più?
«A esaminare seriamente i 300 articoli del testo che ci hanno consegnato solo pochi giorni fa. A verificare che ci sia davvero, come il governo ci aveva promesso, un sistema di sanzioni proporzionato alle responsabilità e un insieme di norme tecniche chiare. Adesso mancano».
Gian Paolo Patta, il sottosegretario alla Salute, sostiene che voi in realtà cercate solo di perdere tempo: se il decreto non passa adesso, dice, non se ne parlerà più. Fra un mese ci saranno le elezioni, e poi ci sarà un nuovo governo. Ha senso aspettare ancora?
«Voglio essere chiaro: questa è demagogia che m´indigna. Non ci possono essere contrapposizioni su un tema come questo. Le imprese vogliono il testo unico, sono state le prime a chiederlo. Il fatto è che ora per motivi di propaganda elettorale, per mettersi la coscienza a posto, si vuol concludere in fretta e approvare un documento che non avrà l´efficacia che invece dovrebbe avere. Tutti dicono di essere d´accordo sulla estrema urgenza del tema, allora che problema c´è? Messe a punto le nuove norme il governo che uscirà dalle urne lo metterà al primo posto in agenda e varerà un sistema davvero valido. Questo non lo è».
Perché il decreto, così com´è, secondo lei non servirà a nulla?
«Perché è impostato soprattutto sull´inasprimento delle sanzioni. Ma l´esperienza dimostra che aumentare le pene non fa diminuire i reati. Invece bisogna agire a largo raggio: norme chiare, ma anche prevenzione, formazione e educazione alla sicurezza, sia per le imprese che per i lavoratori. C´è a disposizione un fondo d´impresa, usiamolo per fare prevenzione, per diffondere conoscenza. E aumentiamo i controlli».
Ma le sanzioni devono aumentare o no, secondo lei? E in caso di inadempienza grave perché non ci dovrebbe essere l´arresto?
«In caso di responsabilità gravi devono esserci sanzioni alte e arresto, questo è fuori dubbio. Ma non è corretto che le stesse sanzioni colpiscano semplici errori di compilazione di documenti formali. Creare un apparato sanzionatorio indiscriminato finirà per mettere in difficoltà le imprese serie e aumentare il livello di economia sommersa».
Tutti sono contro di voi. Anche Berlusconi e la Cei dicono di fare in fretta. Questa comunanza di vedute non mette qualche dubbio alle vostre posizioni?
«Io rispondo alla mia coscienza e voglio una cosa fatta bene, la soluzione improvvisata non mi interessa».
Repubblica 6.3.08
Saviano non corre e attacca "Si parla poco di criminalità"
LONDRA - L´autore di «Gomorra» non sarà candidato alle prossime elezioni politiche, né con il Partito Democratico, come affermavano alcune indiscrezioni dei giorni scorsi, né con alcun altro partito. Roberto Saviano lo ha detto ieri a Londra, dove si trova per il lancio dell´edizione inglese del suo libro, accolto da recensioni molto positive anche in Gran Bretagna. «Non mi candiderò a queste elezioni politiche», ha affermato lo scrittore durante un´affollata conferenza stampa, «perché il mio mestiere è fare lo scrittore e la mia responsabilità è dunque quella della parola, non della politica. Il mio nome come possibile candidato era stato fatto nell´ottica di affrontare in maniera nuova il tema della criminalità organizzata. Ma devo dire che purtroppo, in un Paese come il nostro in cui l´economia sommersa e la criminalità organizzata sono uno dei settori più redditizi dell´economia, la parola criminalità organizzata non è mai stata usata in maniera esplicita nell´attuale campagna elettorale. Comunque vadano le elezioni - ha aggiunto - la sfida per me è sconfiggere il meccanismo del voto di scambio, che consegna il potere nelle mani dei gruppi camorristi e mafiosi». Alla domanda di un giornalista che gli ha chiesto se abbia paura a girare sempre sotto scorta a causa delle minacce che ha ricevuto dopo la pubblicazione in Italia del libro, Saviano ha risposto: «Non mi sarei mai immaginato di trovarmi in una situazione simile. Mi dispiace per la mia famiglia, che ne è stata coinvolta». Domani lo scrittore avrà un dibattito con docenti e studenti all´università di Oxford.
(e. f.)
Corriere della Sera 6.3.08
Giorgio Israel attacca gli integralisti del progresso tecnologico Giorello: troppi pregiudizi spiritualisti. Pievani: una caricatura
Scienza, il nuovo tabù
Un pamphlet critica i sostenitori più accesi del darwinismo e il «disastro educativo» dell'istruzione pubblica italiana
di Antonio Carioti
Lo scientismo nuoce alla cultura scientifica. Lo afferma il matematico Giorgio Israel, firma del Foglio, nel libro Chi sono i nemici della scienza? (Lindau, pp. 346, € 21,50), in cui accusa la sinistra orfana del marxismo di aver abbracciato una fede acritica nel progresso tecnologico, che la porta a scomunicare chiunque voglia fissare dei limiti alla manipolazione della natura e della stessa vita umana. L'attacco è rivolto a studiosi portatori di concezioni molto diverse: alcuni ritengono che la scienza abbia un valore oggettivo, altri la considerano una fonte di conoscenze provvisorie e relative. Ma tutti costoro, secondo Israel, «marciano separati per colpire uniti», perché sono compatti nel contrapporre nettamente scienza e religione, così come nel respingere ogni critica al darwinismo.
Gli interessati non gradiscono. Giulio Giorello, chiamato in causa, respinge le accuse di Israel: «Non ho mai pensato che le verità scientifiche siano fondate sulla roccia o che gli scienziati debbano decidere tutto. Ma l'Italia non è minacciata dallo scientismo. Vedo piuttosto avanzare pregiudizi antiscientifici che si nutrono di spiritualismo e di timore per gli aspetti più emancipativi delle biotecnologie. Un'offensiva cui l'ex comunista Israel si unisce con uno zelo da prete spretato». Analoga la reazione di un altro filosofo della scienza, Telmo Pievani: «Israel dipinge uno scientismo caricaturale. Nessuna persona ragionevole pensa che le tecnoscienze debbano correre a briglia sciolta senza vincoli, specie nel campo più delicato della biogenetica. Tutti concordano, per esempio, sul divieto di far nascere bambini per clonazione».
Vi è tuttavia tra gli studiosi chi condivide i timori di Israel per il predominio delle tecnoscienze. Così Lucio Russo, autore del saggio Flussi e riflussi
(Feltrinelli): «C'è una biforcazione crescente tra la ricerca scientifica teorica e quella puramente tecnologica. Le applicazioni concrete hanno sempre svolto una funzione essenziale di stimolo alla scienza, ma non credo sia giusto invocare la libertà di ricerca come giustificazione ideale del lavoro di messa a punto di qualsiasi prodotto o tecnica per fini commerciali. Esistono casi in cui l'opportunità di sviluppare e applicare una determinata tecnologia non dovrebbe sfuggire a un giudizio morale, che andrebbe dato caso per caso».
In difesa della ricerca si schiera Enrico Bellone, direttore della rivista Le Scienze, anch'egli preso di mira da Israel: «Sulle biotecnologie circolano molte sciocchezze. Per esempio le cosiddette chimere, presentate dai media come creature mostruose, sono uno strumento prezioso per capire come funzionano le cellule e trovare una cura a malattie terribili come l'Alzheimer. La polemica di Israel lascia disarmati perché non è argomentata. Basta vedere come stronca il mio libro L'origine delle teorie (Codice edizioni), di chiara matrice evoluzionista: non entra nel merito e si limita a proclamare che il darwinismo è dannoso». Ma davvero non si possono avanzare dubbi sulla teoria dell'evoluzione? «Bisogna distinguere — risponde Pievani — perché un conto è il dibattito scientifico sul programma di ricerca neodarwiniano, al quale si possono muovere obiezioni pienamente legittime, come quelle esposte di recente da Massimo Piattelli Palmarini sul Corriere. Madiverso è il tentativo di screditare l'evoluzione per dare spazio a teorie di stampo religioso, come il "disegno intelligente", del tutto estranee alla scienza». Non a caso Pievani è autore, con Carla Castellacci, del pamphlet anticlericale Sante ragioni
(Chiarelettere). Ma si dichiara distante dalla «metafisica materialista» denunciata da Israel: «Ci sono studiosi, come Richard Dawkins, secondo i quali il darwinismo porta necessariamente all'ateismo. Se Israel ce l'ha con loro, sono d'accordo con lui. Infatti l'evoluzione non esclude affatto l'esistenza di Dio, ma semplicemente permette di spiegare lo sviluppo della vita sulla terra senza ricorrere a ipotesi sovrannaturali».
Giorello è sulla stessa linea: «È appena uscito, nella collana che dirigo per Raffaello Cortina, il libro
Preghiera darwiniana di Michele Luzzatto, uno studioso di fede ebraica che traccia un suggestivo parallelo tra Darwin e alcuni personaggi biblici. Noi liberi pensatori relativisti siamo aperti alla cultura religiosa, ma non ci pieghiamo ad alcuna ortodossia, mentre mi pare che Israel aspiri a fare la mosca cocchiera di Benedetto XVI».
Più critico verso la comunità degli scienziati si mostra Russo: «Noto nell'accademia una triste omogeneità di pareri: sembra che l'unica esigenza sia difendere tutto ciò che ha un'etichetta scientifica da nemici più immaginari che reali. E non credo che la scienza sia minacciata dall'oscurantismo della Chiesa cattolica. Commettono un grave errore gli scienziati laici in buona fede che, confondendo la razionalità scientifica con l'adozione della logica di mercato come unico possibile criterio di scelta, lasciano ai religiosi il monopolio dei giudizi di valore. E poi quando sento tuonare contro i padri inquisitori non posso fare a meno di ricordare che, per conciliare il desiderio di sentirsi paladini degli oppressi con i vantaggi derivanti dall'acquiescenza ai potenti, il metodo più seguito è sempre stato quello di difendere gli oppressi di epoche precedenti, ponendosi in sintonia con i detentori del potere del proprio tempo». Bellone concorda solo in parte: «La Chiesa non è monolitica e non tutti i cattolici considerano la scienza una minaccia. Ma anni fa Ratzinger scrisse che la biogenetica era una patologia della ragione, addirittura peggiore del totalitarismo di Pol Pot».
Corriere della Sera 6.3.08
Cina a Palazzo Strozzi
Quel Rinascimento venuto dall'Oriente
di Wanda Lattes
Si prova una certa invidia per il vasellame prezioso dei sovrani e per l'oreficeria in giada e bronzo
Statue enormi in pietra decorata con intagli artistici, gruppi stupefacenti in bronzo, figure vivaci in terracotta colorata o minuscole in argilla, oro e argento, pitture fantastiche e ritratti veritieri, scrigni e vasi lussuosi in metallo prezioso, quali oggi nessun superpotente, divo, magnate o politico, oserebbe commissionare.
Qualunque tempo il visitatore abbia programmato per vedere, capire la mostra «Cina: alla corte degli Imperatori» probabilmente dovrà, alla fine, allontanarsi con rimpianto da Palazzo Strozzi. Perché questa incursione nel tempo, nello spazio, nelle culture di un mondo lontano risulta davvero stupefacente.
Dopo l'itinerario intrapreso oltre un anno fa a Roma con la mostra alle Scuderie del Quirinale sulla Cina del primo millennio a. C., il periodo di miracolosa produttività qui esemplificato comprende uno spazio temporale che va dal 25 d. C. al 907, dalla tradizione della dinastia Han allo splendore di quella Tang. In Europa nel frattempo si assiste al trionfo e poi al declino dell'impero romano, alle invasioni barbariche, alla minaccia musulmana che arriva alle porte di Parigi, al primo concetto di Europa unificata con l'incoronazione di Carlo Magno. Un lungo periodo cupo e minaccioso dove l'unico salvataggio della cultura a un certo punto è costituito dal certosino lavoro nei monasteri.
Ebbene, nella Cina che ci raccontano a Firenze, una nazione proiettata in spazi infinitamente più grandi dell'intera Europa, due dinastie, la Hang e la Tang, riescono a primeggiare e a diventare fari di civiltà: laboratori politici, sociali, scientifici, terreni fertili per sfide e raffinatezze artistiche. Tutto mentre il Confucianesimo cede il passo, per qualche secolo, al Buddismo.
La magnifica eleganza della corte Tang (617-907) viene vantata come il Rinascimento cinese. Ma qui a Firenze, ad interpretare una Rinascita umanistica e libera, intellettuali e artisti ci arrivarono mezzo millennio dopo. La mostra, ovviamente, non è tanto una riflessione su quel periodo Tang che lo storico Charles Fitzgerald definiva «grande epoca creativa», né soltanto pentimento per quella ignoranza che accredita Marco Polo e pochi altri viaggiatori come portatori di civiltà tra gente semplice, quando invece la Via della Seta era già da tempo legame ininterrotto di merci e cultura.
È un'occasione per ammirare il talento dei pittori che lavorarono su seta e ceramica, l'abilità dei modellatori di urne e vasi ma anche di minuscole e realistiche torri, case, porcili e perfino esseri umani. All'opposto di questa arte minuta ci sono l'imponente Budda (alto due metri e mezzo) sistemato al centro del cortile del palazzo e l'incredibile processione di cavalli e carri di bronzo. Si prova una certa invidia per il vasellame prezioso dei sovrani, per l'oreficeria in giada e bronzo. E si va avanti con stupore nella ricca vita di corte fino ai ritratti delle impudiche, seducenti concubine dell'imperatore.
Corriere della Sera 6.3.08
Arte&potere Un'epoca che unì virtù civili e religiose
La burocrazia celeste che plasmò la storia
di Alessandra Lavagnino
L'impero raggiunge la sua massima espansione e la floridezza economica. Epoca d'oro di poesia e arte (terracotta e porcellana)
Quale storia racconta questa mostra? La storia di un grande Paese che costruisce la propria, solida, identità culturale attraverso una quantità straordinaria di sfaccettature. Il filo conduttore degli oggetti esposti non è solo la loro fattura, che definire «squisita» appare a dire poco riduttivo, ma soprattutto il possesso per ognuno di essi di una qualità peculiare, un tratto geniale che deriva da una gestualità del tutto imprevista o dalla torsione in un corpo inaspettata e vitale, dall'inaspettato panneggio danzante in una tunica o da un azzardato accostamento di colore, improbabile e forse orribile se raccontato ma straordinariamente toccante una volta visto: indescrivibile ad esempio è il lucore delle invetriature sulle statuine funerarie, oggetti che accompagnavano nella tomba un onorabile defunto e costituivano il suo doppio nel regno degli inferi: ecco i sontuosi cortei, con carrozze e cavalli, ecco le sinuose musicanti e danzatrici che ne dovevano allietare il soggiorno nell'aldilà, la profusione di case e granai, cortili e piccole pagode che costruiscono un villaggio dell'oltretomba nel quale l'altra vita del defunto sarà gioiosa e serena. Un'abitudine, questa dei cortei funebri in bronzo e poi in terracotta, che attraversa costante tutta la storia culturale cinese, e costituisce non soltanto una preziosa testimonianza della vita quotidiana nella Cina imperiale, impeccabile supporto scenografico che racconta l'ordine e il decoro della vita sociale, ma soprattutto dà prova della continuità culturale di tradizioni, abitudini, costumi e credenze.
Si inizia con la seconda dinastia Han, quegli Han Orientali che raccolgono e mantengono alto il nome della Dinastia imperiale degli Han per quasi tre secoli (nome che rimarrà ancor oggi a designare la principale etnia cinese Han ren, gente Han), e il cui impero centralizzato si sgretola sotto i colpi delle contese interne e le pressioni delle genti barbariche del nord ovest (220 d.C). Ma nei successivi tre secoli di divisione del Paese, di frammentazione in mille piccole dinastie, in quello che la storiografia occidentale ha definito con una interessante analogia il Medioevo cinese, non si costruisce, come in occidente, un qualche sistema che si propone come coerente alternativa a quello imperiale, legittimato da millenni attraverso il «mandato del Cielo» al governo per il Sovrano, che di quel Cielo è il Figlio (Tianzi); al contrario, il tempo che trascorre dall'inizio del III sec. d.C. fino alla fine del VI sec. costituisce il periodo nel quale si vanno gradualmente ricostituendo le condizioni che porteranno alla formazione di strutture sociali ed economiche peculiari del sistema imperiale. È l'epoca feconda in cui nello sterminato territorio che chiamiamo Cina — pur spezzettato in regni e dinastie barbariche al nord e in mille famiglie in discordia al sud — arriva dall'India, attraverso la Via della Seta, il Buddismo. Contemporaneamente, nei circoli degli Eruditi si discute dell'importanza della scrittura (wen) come fondamentale elemento di civiltà, dell'essenza stessa della letteratura, si teorizzano i canoni della pittura, si parla del «vuoto e del pieno», si dipingono ritratti e si affrescano prodigiosi santuari rupestri. Qui verranno poi stipati testi su carta e su seta, rotoli buddisti di preghiere e di dipinti.
Ed è proprio nella ritrovata unità dell'impero, realizzata dall'effimera quanto interessante dinastia Sui — artefice, tra l'altro, del prodigioso Canale imperiale (605 d. C.), un'immensa rete di vie navigabili, collegamento materiale e unione simbolica tra il Sud e il Nord del Paese — che troveranno certezza e solidità, rassicurazione e coesione le mille istanze di uno straordinario mosaico di cultura. Il governo viene esercitato mediante il predominio delle virtù «civili» (wen, «segno scritto/ cultura/civiltà») che vincono su quelle «militari» (wu «arma/guerra»), e il costante riconoscimento, di chiara derivazione confuciana, verso il sistema imperiale viene garantito dal solido perpetuarsi della «burocrazia celeste », fedele garante della continuità istituzionale, accuratamente selezionata in base al sistema degli esami imperiali, colonna portante della stabilità del sistema.
Lo splendore della dinastia Tang, che risalta, unico, nei pezzi qui in mostra, nasce da tutto questo: la solidità di un sistema, quello imperiale, che conta su di un meccanismo perfetto, nel quale ciascun ingranaggio fornisce il proprio ordinato contributo: si tratta sempre di un incastro sociale che deve essere costantemente riverificato, ma nel quale possono agevolmente entrare — purché attentamente vagliati in base al criterio principe dell'efficacia — nuovi elementi, costituiti vuoi dalle componenti religiose, il Buddismo venuto dall'India come il Cristianesimo nestoriano o l'Islam, che si mescolano con il Taoismo e i culti locali, ma sono prodigiosamente tenuti insieme dal collante sociale costituito dalla burocrazia confuciana. Una burocrazia che, ricordiamolo, basa il proprio potere sulla conoscenza, sul sapere, sulle «virtù civili».
Mussi: il duopolio Pd-Pdl amputa la democrazia
di Simone Collini
«Si risale la china», dice con un sospiro di sollievo Fabio Mussi. Passato un mese da quando è stato sottoposto a un doppio trapianto di reni, il ministro dell’Università è alle prese con le terapie anti rigetto. «La scienza italiana, nonostante quello che ci investiamo, raggiunge straordinari livelli di eccellenza».
È questa la cosa che più le dispiace di questi 20 mesi di governo, che non avete fatto di più per la ricerca?
«Questa, ma anche un’altra, di carattere più generale. Il Partito democratico aveva 18 ministri su 25, il presidente del Consiglio, due vicepremier, tutti i ministeri chiave, il gruppo parlamentare più forte, ma non ha avuto il coraggio e la serietà di assumersi la responsabilità anche di ciò che è andato storto, addossandola invece tutta agli alleati minori».
Veltroni dice che i ministri in piazza non hanno aiutato.
«Non so bene di cosa si parli. Immagino ci si riferisca a Fioroni, che ha partecipato al Family day contro una legge del governo, i Dico, o alle manifestazioni di Di Pietro contro l’indulto».
Veniamo al futuro: la Sinistra arcobaleno è data sotto l’8% in diverse regioni. È preoccupato?
«No, sono sondaggi di inizio di campagna elettorale, vedremo alla fine. La cosa importante, di grande valore strategico, è affermare la presenza consistente di una sinistra politica rinnovata e unita. Oggi è in corso una battente campagna tesa a dimostrare che c’è un solo voto utile, che è bene una riduzione a due del sistema politico italiano, che i voti che non si danno alle due maggiori formazioni sono sprecati. Campagna che si è spinta fino al paradosso di esponenti del Pd che dicono di votare o Veltroni o Berlusconi».
Non se l’aspettava?
«No, però lo trovo sintomatico. Per questo è molto importante, per l’avvenire di questo Paese, che esista una sinistra politica. Caratterizzazione, quella di sinistra, che mi pare non interessi minimamente al Pd, come dimostra anche l’intervista di Veltroni al Pais: siamo riformisti, non di sinistra».
Riformisti di centrosinistra, ha precisato.
«Sì, va bene. Quel che è certo è che, se non la parola, è la sostanza che è rimasta incustodita. Ecco perché non è auspicabile un gioco a due, anche per evitare attrazioni fatali e magari qualche progetto di riforma costituzionale che veda protagonisti esclusivi il Pdl e il Pd».
È più auspicabile la frammentazione?
«Figuriamoci, ma da venticinque partiti a due c’è un salto che porta all’americanizzazione, che porta fuori dal quadro europeo dove ovunque c’è bipolarismo e aggancio con le grandi tradizioni politiche sorte sul continente, e in nessun paese c’è bipartitismo. Quello che è auspicabile è la presenza di una, per quanto ridotta, pluralità di soggetti. In un paese come il nostro, escludere gran parte della rappresentanza politica e di parti sostanziali della società è un azzardo. Nel duopolio si amputa la democrazia».
Addirittura?
«Sì, se si pensa che questa campagna elettorale ha due poste in gioco. La prima è il governo dei prossimi cinque anni. La seconda, oserei dire persino più importante, sono gli assetti della democrazia italiana e del sistema politico dei prossimi cinquanta anni».
Vede il rischio di una scomparsa di una sinistra politica?
«Vedo il Pd che fa l’appello a non votare più a sinistra, perché non gli dispiacerebbe che scomparisse questo competitore, sino a ieri alleato».
Magari non gli dispiace che scomparisse perché, come dice Veltroni, siete dei conservatori e impedite la modernizzazione del paese.
«Questa è una bella boutade. Le categorie destra e sinistra sono state sostituite con moderno-antico. Categorie politicamente insignificanti. Anche se quando si sente pronunciare in politica troppo spesso la parola moderno ci si deve mettere con le spalle al muro, perché qualcuno cerca di fregarti. In nome della modernità Calearo sostiene che la legge 30 è ottima e che sarebbe bene abrogare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Mi ha impressionato».
Non è Calearo ma Veltroni che vi ha detto che siete rimasti agli anni 50.
«Non siamo noi, è la situazione che è tornata quella degli anni 50: morti sul lavoro e salari da fame. E abbiamo visto la posizione pazzesca assunta da Confindustria, e in special modo dal suo vicepresidente Bombassei, smontare tutta quella versione armonica del rapporto tra imprenditori e lavoratori nella quale è impegnato il Pd. Alla prima prova, di fronte a una strage insopportabile di lavoratori come quella in corso, Confindustria si è detta contraria ai decreti che rafforzano i controlli e le sanzioni. Questo a riprova che tra l’imprenditore e il lavoratore c’è anche qualche conflitto».
Però un patto per la crescita tra imprenditori e operai può incidere sui salari, non crede?
«I salari sono fermi dal 2000. Dal rapporto Mediobanca dello scorso anno emerge che la parte di valore aggiunto destinata ai salari scende dal 40 al 30%, e i profitti salgono di 11 punti. Prendiamo il lungo periodo, gli ultimi 35 anni: la quota del Pil che va al lavoro dipendente scende dal 59 al 48%. E quand’era a questa percentuale? A metà degli anni 50. Quello che manca ai salari finisce ai profitti e alle rendite. E lo ritroviamo in altri indicatori, che dicono che in Italia il 10% dei più ricchi possiede il 45% di tutta la ricchezza mobiliare e immobiliare privata. La malattia italiana si chiama diseguaglianza, prima ancora che scarsa crescita».
D’alema non esclude in futuro una collaborazione tra voi e il Pd. Che ne pensa?
«Mi fa piacere, vuol dire che c’è qualcuno che ancora riflette. Neanch’io la escudo, anzi mi auguro che in futuro si riapra la possibilità di un’alleanza di centrosinistra, perché altrimenti vedo difficile la possibilità di governare questo Paese. Ma oggi c’è competizione. Almeno finché non si capisce qual è la posizione del Pd, se quella di Calearo e Ichino o quella di Paolo Nerozzi, almeno nella versione che ho conosciuto io».
Dice che è diversa da quella odierna?
«Fu il principale organizzatore dei tre milioni in piazza contro l’abrogazione dell’articolo 18. Oggi è candidato per il Pd in Senato in Veneto, dove c’è capolista alla Camera Calearo».
A proposito di candidature, la Sinistra ne presenta pochissime di esterni.
«Sì, siamo al di qua del necessario e del possibile. Tuttavia, si fa un passo alla volta».
Repubblica 6.3.08
Sicurezza, nessun accordo Confindustria boccia il decreto
Palazzo Chigi: oggi approviamo le nuove norme
Nulla di fatto nel confronto. Contributi alle piccole imprese per la prevenzione
di Marco Reggio
ROMA - Sul decreto sicurezza Confindustria ribadisce la sua linea: è confuso, troppo oneroso per le aziende, serve tempo per chiarire. E l´incontro con le parti sociali, che si è chiuso ieri sera poco dopo le 21, ha confermato le posizioni. Gli imprenditori avevano già parlato in mattinata, e in serata la delegazione di Confindustria ha preso atto senza commentare della scelta del governo di andare avanti per la sua strada. Oggi il Consiglio dei ministri è convocato per le 17, prima il testo definitivo del decreto verrà reso noto alle parti sociali, ma senza modifiche. Tra le misure allo studio di Palazzo Chigi l´utilizzo di una parte dei fondi del "tesoretto" dell´Inail, che ammonterebbe a 12 miliardi di euro, per finanziare l´adeguamento delle misure di sicurezza delle piccole imprese.
E arrivano le reazioni dei partiti. «È necessario che il governo vari immediatamente il decreto - commenta Fausto Bertinotti - senza farsi condizionare, perché c´è una pressione che viene dalla tragedia, più forte di qualunque resistenza». Rassicura Massimo D´Alema: «La posizione del Partito Democratico non è quella non è quella dei falchi di Confindustria. La nostra è quella del responsabile del Lavoro Cesare Damiano».
E il sottosegretario alla Salute Giampaolo Patta, che è uno dei relatori del decreto, parla chiaro: «La linea di Confindustria è ormai svelata: passiamo un altro mese a discutere, sarà il nuovo governo a riprendere le fila della questione. Quindi tutto rimandato alla fine dell´estate 2008. Impossibile. La legge delega votata dal Parlamento non è soggetta alla firma di un protocollo con le parti sociali, ma è un atto autonomo. Il Consiglio dei ministri lo approverà così come è stato scritto».
Perché Confindustria ha deciso il muro contro muro? Cosa, in realtà, non condivide? Il primo punto: i responsabili delle aziende dove si svolgono attività particolarmente pericolose sono obbligati a redigere e rendere pubblico il "documento di valutazione del rischio". Se non lo fanno sono punibili con l´arresto. I responsabili di tutte le altre aziende, se non lo fanno, rischiano un ammenda fino all´arresto. Tutto questo viene ritenuto "eccessivo" da parte di Confidustria.
Secondo: tutte le imprese che hanno in servizio più del 20 per cento di lavoratori in nero, che non rispettano le misure antincendio, l´esposizione all´amianto, rischiano la sospensione dell´attività e l´interdizione dagli appalti pubblici. Terzo: se accade un incidente grave, con morti o feriti, scatta una sanzione amministrativa fino ad un milione e mezzo di euro, il blocco dell´attività e degli appalti pubblici, oltre alle imputazioni di carattere penale, come le lesioni o l´omicidio colposo, per il numero uno dell´impresa. Anche questo non va bene per Confindustria.
Eppure il punto più "indigesto" per l´associazione degli industriali potrebbe essere la nascita dei "rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza". Cosa sono? Delegati eletti in ogni azienda che, assieme ai dirigenti dell´impresa, gli ispettori delle Asl e dell´Inail avranno libero accesso a tutti gli impianti per verificare, sempre, se le misure di sicurezza previste dalla legge vengono rispettate. «Misure e scelte già concordate con la Thyssenkrupp e l´Ilva di Taranto - afferma il sottosegretario Giampaolo Patta - mentre la Fiat si è sempre opposta a firmare un accordo».
Repubblica 6.3.08
Il vice presidente degli industriali Bombassei: troppa fretta, il decreto non serve
"Pene più severe? È demagogia se ne occupi il prossimo governo"
di Luisa Grion
ROMA - Confindustria chiede qualche giorno in più, tempo necessario a mettere in piedi «un sistema di norme e di sanzioni che possano davvero mettere un freno al dramma delle morti bianche». Perché per Alberto Bombassei, vicepresidente dell´associazione degli imprenditori, «la fretta non aiuta a evitare le tragedie e se il decreto in discussione passerà così com´è non cambierà nulla».
A cosa servirebbero questi giorni in più?
«A esaminare seriamente i 300 articoli del testo che ci hanno consegnato solo pochi giorni fa. A verificare che ci sia davvero, come il governo ci aveva promesso, un sistema di sanzioni proporzionato alle responsabilità e un insieme di norme tecniche chiare. Adesso mancano».
Gian Paolo Patta, il sottosegretario alla Salute, sostiene che voi in realtà cercate solo di perdere tempo: se il decreto non passa adesso, dice, non se ne parlerà più. Fra un mese ci saranno le elezioni, e poi ci sarà un nuovo governo. Ha senso aspettare ancora?
«Voglio essere chiaro: questa è demagogia che m´indigna. Non ci possono essere contrapposizioni su un tema come questo. Le imprese vogliono il testo unico, sono state le prime a chiederlo. Il fatto è che ora per motivi di propaganda elettorale, per mettersi la coscienza a posto, si vuol concludere in fretta e approvare un documento che non avrà l´efficacia che invece dovrebbe avere. Tutti dicono di essere d´accordo sulla estrema urgenza del tema, allora che problema c´è? Messe a punto le nuove norme il governo che uscirà dalle urne lo metterà al primo posto in agenda e varerà un sistema davvero valido. Questo non lo è».
Perché il decreto, così com´è, secondo lei non servirà a nulla?
«Perché è impostato soprattutto sull´inasprimento delle sanzioni. Ma l´esperienza dimostra che aumentare le pene non fa diminuire i reati. Invece bisogna agire a largo raggio: norme chiare, ma anche prevenzione, formazione e educazione alla sicurezza, sia per le imprese che per i lavoratori. C´è a disposizione un fondo d´impresa, usiamolo per fare prevenzione, per diffondere conoscenza. E aumentiamo i controlli».
Ma le sanzioni devono aumentare o no, secondo lei? E in caso di inadempienza grave perché non ci dovrebbe essere l´arresto?
«In caso di responsabilità gravi devono esserci sanzioni alte e arresto, questo è fuori dubbio. Ma non è corretto che le stesse sanzioni colpiscano semplici errori di compilazione di documenti formali. Creare un apparato sanzionatorio indiscriminato finirà per mettere in difficoltà le imprese serie e aumentare il livello di economia sommersa».
Tutti sono contro di voi. Anche Berlusconi e la Cei dicono di fare in fretta. Questa comunanza di vedute non mette qualche dubbio alle vostre posizioni?
«Io rispondo alla mia coscienza e voglio una cosa fatta bene, la soluzione improvvisata non mi interessa».
Repubblica 6.3.08
Saviano non corre e attacca "Si parla poco di criminalità"
LONDRA - L´autore di «Gomorra» non sarà candidato alle prossime elezioni politiche, né con il Partito Democratico, come affermavano alcune indiscrezioni dei giorni scorsi, né con alcun altro partito. Roberto Saviano lo ha detto ieri a Londra, dove si trova per il lancio dell´edizione inglese del suo libro, accolto da recensioni molto positive anche in Gran Bretagna. «Non mi candiderò a queste elezioni politiche», ha affermato lo scrittore durante un´affollata conferenza stampa, «perché il mio mestiere è fare lo scrittore e la mia responsabilità è dunque quella della parola, non della politica. Il mio nome come possibile candidato era stato fatto nell´ottica di affrontare in maniera nuova il tema della criminalità organizzata. Ma devo dire che purtroppo, in un Paese come il nostro in cui l´economia sommersa e la criminalità organizzata sono uno dei settori più redditizi dell´economia, la parola criminalità organizzata non è mai stata usata in maniera esplicita nell´attuale campagna elettorale. Comunque vadano le elezioni - ha aggiunto - la sfida per me è sconfiggere il meccanismo del voto di scambio, che consegna il potere nelle mani dei gruppi camorristi e mafiosi». Alla domanda di un giornalista che gli ha chiesto se abbia paura a girare sempre sotto scorta a causa delle minacce che ha ricevuto dopo la pubblicazione in Italia del libro, Saviano ha risposto: «Non mi sarei mai immaginato di trovarmi in una situazione simile. Mi dispiace per la mia famiglia, che ne è stata coinvolta». Domani lo scrittore avrà un dibattito con docenti e studenti all´università di Oxford.
(e. f.)
Corriere della Sera 6.3.08
Giorgio Israel attacca gli integralisti del progresso tecnologico Giorello: troppi pregiudizi spiritualisti. Pievani: una caricatura
Scienza, il nuovo tabù
Un pamphlet critica i sostenitori più accesi del darwinismo e il «disastro educativo» dell'istruzione pubblica italiana
di Antonio Carioti
Lo scientismo nuoce alla cultura scientifica. Lo afferma il matematico Giorgio Israel, firma del Foglio, nel libro Chi sono i nemici della scienza? (Lindau, pp. 346, € 21,50), in cui accusa la sinistra orfana del marxismo di aver abbracciato una fede acritica nel progresso tecnologico, che la porta a scomunicare chiunque voglia fissare dei limiti alla manipolazione della natura e della stessa vita umana. L'attacco è rivolto a studiosi portatori di concezioni molto diverse: alcuni ritengono che la scienza abbia un valore oggettivo, altri la considerano una fonte di conoscenze provvisorie e relative. Ma tutti costoro, secondo Israel, «marciano separati per colpire uniti», perché sono compatti nel contrapporre nettamente scienza e religione, così come nel respingere ogni critica al darwinismo.
Gli interessati non gradiscono. Giulio Giorello, chiamato in causa, respinge le accuse di Israel: «Non ho mai pensato che le verità scientifiche siano fondate sulla roccia o che gli scienziati debbano decidere tutto. Ma l'Italia non è minacciata dallo scientismo. Vedo piuttosto avanzare pregiudizi antiscientifici che si nutrono di spiritualismo e di timore per gli aspetti più emancipativi delle biotecnologie. Un'offensiva cui l'ex comunista Israel si unisce con uno zelo da prete spretato». Analoga la reazione di un altro filosofo della scienza, Telmo Pievani: «Israel dipinge uno scientismo caricaturale. Nessuna persona ragionevole pensa che le tecnoscienze debbano correre a briglia sciolta senza vincoli, specie nel campo più delicato della biogenetica. Tutti concordano, per esempio, sul divieto di far nascere bambini per clonazione».
Vi è tuttavia tra gli studiosi chi condivide i timori di Israel per il predominio delle tecnoscienze. Così Lucio Russo, autore del saggio Flussi e riflussi
(Feltrinelli): «C'è una biforcazione crescente tra la ricerca scientifica teorica e quella puramente tecnologica. Le applicazioni concrete hanno sempre svolto una funzione essenziale di stimolo alla scienza, ma non credo sia giusto invocare la libertà di ricerca come giustificazione ideale del lavoro di messa a punto di qualsiasi prodotto o tecnica per fini commerciali. Esistono casi in cui l'opportunità di sviluppare e applicare una determinata tecnologia non dovrebbe sfuggire a un giudizio morale, che andrebbe dato caso per caso».
In difesa della ricerca si schiera Enrico Bellone, direttore della rivista Le Scienze, anch'egli preso di mira da Israel: «Sulle biotecnologie circolano molte sciocchezze. Per esempio le cosiddette chimere, presentate dai media come creature mostruose, sono uno strumento prezioso per capire come funzionano le cellule e trovare una cura a malattie terribili come l'Alzheimer. La polemica di Israel lascia disarmati perché non è argomentata. Basta vedere come stronca il mio libro L'origine delle teorie (Codice edizioni), di chiara matrice evoluzionista: non entra nel merito e si limita a proclamare che il darwinismo è dannoso». Ma davvero non si possono avanzare dubbi sulla teoria dell'evoluzione? «Bisogna distinguere — risponde Pievani — perché un conto è il dibattito scientifico sul programma di ricerca neodarwiniano, al quale si possono muovere obiezioni pienamente legittime, come quelle esposte di recente da Massimo Piattelli Palmarini sul Corriere. Madiverso è il tentativo di screditare l'evoluzione per dare spazio a teorie di stampo religioso, come il "disegno intelligente", del tutto estranee alla scienza». Non a caso Pievani è autore, con Carla Castellacci, del pamphlet anticlericale Sante ragioni
(Chiarelettere). Ma si dichiara distante dalla «metafisica materialista» denunciata da Israel: «Ci sono studiosi, come Richard Dawkins, secondo i quali il darwinismo porta necessariamente all'ateismo. Se Israel ce l'ha con loro, sono d'accordo con lui. Infatti l'evoluzione non esclude affatto l'esistenza di Dio, ma semplicemente permette di spiegare lo sviluppo della vita sulla terra senza ricorrere a ipotesi sovrannaturali».
Giorello è sulla stessa linea: «È appena uscito, nella collana che dirigo per Raffaello Cortina, il libro
Preghiera darwiniana di Michele Luzzatto, uno studioso di fede ebraica che traccia un suggestivo parallelo tra Darwin e alcuni personaggi biblici. Noi liberi pensatori relativisti siamo aperti alla cultura religiosa, ma non ci pieghiamo ad alcuna ortodossia, mentre mi pare che Israel aspiri a fare la mosca cocchiera di Benedetto XVI».
Più critico verso la comunità degli scienziati si mostra Russo: «Noto nell'accademia una triste omogeneità di pareri: sembra che l'unica esigenza sia difendere tutto ciò che ha un'etichetta scientifica da nemici più immaginari che reali. E non credo che la scienza sia minacciata dall'oscurantismo della Chiesa cattolica. Commettono un grave errore gli scienziati laici in buona fede che, confondendo la razionalità scientifica con l'adozione della logica di mercato come unico possibile criterio di scelta, lasciano ai religiosi il monopolio dei giudizi di valore. E poi quando sento tuonare contro i padri inquisitori non posso fare a meno di ricordare che, per conciliare il desiderio di sentirsi paladini degli oppressi con i vantaggi derivanti dall'acquiescenza ai potenti, il metodo più seguito è sempre stato quello di difendere gli oppressi di epoche precedenti, ponendosi in sintonia con i detentori del potere del proprio tempo». Bellone concorda solo in parte: «La Chiesa non è monolitica e non tutti i cattolici considerano la scienza una minaccia. Ma anni fa Ratzinger scrisse che la biogenetica era una patologia della ragione, addirittura peggiore del totalitarismo di Pol Pot».
Corriere della Sera 6.3.08
Cina a Palazzo Strozzi
Quel Rinascimento venuto dall'Oriente
di Wanda Lattes
Si prova una certa invidia per il vasellame prezioso dei sovrani e per l'oreficeria in giada e bronzo
Statue enormi in pietra decorata con intagli artistici, gruppi stupefacenti in bronzo, figure vivaci in terracotta colorata o minuscole in argilla, oro e argento, pitture fantastiche e ritratti veritieri, scrigni e vasi lussuosi in metallo prezioso, quali oggi nessun superpotente, divo, magnate o politico, oserebbe commissionare.
Qualunque tempo il visitatore abbia programmato per vedere, capire la mostra «Cina: alla corte degli Imperatori» probabilmente dovrà, alla fine, allontanarsi con rimpianto da Palazzo Strozzi. Perché questa incursione nel tempo, nello spazio, nelle culture di un mondo lontano risulta davvero stupefacente.
Dopo l'itinerario intrapreso oltre un anno fa a Roma con la mostra alle Scuderie del Quirinale sulla Cina del primo millennio a. C., il periodo di miracolosa produttività qui esemplificato comprende uno spazio temporale che va dal 25 d. C. al 907, dalla tradizione della dinastia Han allo splendore di quella Tang. In Europa nel frattempo si assiste al trionfo e poi al declino dell'impero romano, alle invasioni barbariche, alla minaccia musulmana che arriva alle porte di Parigi, al primo concetto di Europa unificata con l'incoronazione di Carlo Magno. Un lungo periodo cupo e minaccioso dove l'unico salvataggio della cultura a un certo punto è costituito dal certosino lavoro nei monasteri.
Ebbene, nella Cina che ci raccontano a Firenze, una nazione proiettata in spazi infinitamente più grandi dell'intera Europa, due dinastie, la Hang e la Tang, riescono a primeggiare e a diventare fari di civiltà: laboratori politici, sociali, scientifici, terreni fertili per sfide e raffinatezze artistiche. Tutto mentre il Confucianesimo cede il passo, per qualche secolo, al Buddismo.
La magnifica eleganza della corte Tang (617-907) viene vantata come il Rinascimento cinese. Ma qui a Firenze, ad interpretare una Rinascita umanistica e libera, intellettuali e artisti ci arrivarono mezzo millennio dopo. La mostra, ovviamente, non è tanto una riflessione su quel periodo Tang che lo storico Charles Fitzgerald definiva «grande epoca creativa», né soltanto pentimento per quella ignoranza che accredita Marco Polo e pochi altri viaggiatori come portatori di civiltà tra gente semplice, quando invece la Via della Seta era già da tempo legame ininterrotto di merci e cultura.
È un'occasione per ammirare il talento dei pittori che lavorarono su seta e ceramica, l'abilità dei modellatori di urne e vasi ma anche di minuscole e realistiche torri, case, porcili e perfino esseri umani. All'opposto di questa arte minuta ci sono l'imponente Budda (alto due metri e mezzo) sistemato al centro del cortile del palazzo e l'incredibile processione di cavalli e carri di bronzo. Si prova una certa invidia per il vasellame prezioso dei sovrani, per l'oreficeria in giada e bronzo. E si va avanti con stupore nella ricca vita di corte fino ai ritratti delle impudiche, seducenti concubine dell'imperatore.
Corriere della Sera 6.3.08
Arte&potere Un'epoca che unì virtù civili e religiose
La burocrazia celeste che plasmò la storia
di Alessandra Lavagnino
L'impero raggiunge la sua massima espansione e la floridezza economica. Epoca d'oro di poesia e arte (terracotta e porcellana)
Quale storia racconta questa mostra? La storia di un grande Paese che costruisce la propria, solida, identità culturale attraverso una quantità straordinaria di sfaccettature. Il filo conduttore degli oggetti esposti non è solo la loro fattura, che definire «squisita» appare a dire poco riduttivo, ma soprattutto il possesso per ognuno di essi di una qualità peculiare, un tratto geniale che deriva da una gestualità del tutto imprevista o dalla torsione in un corpo inaspettata e vitale, dall'inaspettato panneggio danzante in una tunica o da un azzardato accostamento di colore, improbabile e forse orribile se raccontato ma straordinariamente toccante una volta visto: indescrivibile ad esempio è il lucore delle invetriature sulle statuine funerarie, oggetti che accompagnavano nella tomba un onorabile defunto e costituivano il suo doppio nel regno degli inferi: ecco i sontuosi cortei, con carrozze e cavalli, ecco le sinuose musicanti e danzatrici che ne dovevano allietare il soggiorno nell'aldilà, la profusione di case e granai, cortili e piccole pagode che costruiscono un villaggio dell'oltretomba nel quale l'altra vita del defunto sarà gioiosa e serena. Un'abitudine, questa dei cortei funebri in bronzo e poi in terracotta, che attraversa costante tutta la storia culturale cinese, e costituisce non soltanto una preziosa testimonianza della vita quotidiana nella Cina imperiale, impeccabile supporto scenografico che racconta l'ordine e il decoro della vita sociale, ma soprattutto dà prova della continuità culturale di tradizioni, abitudini, costumi e credenze.
Si inizia con la seconda dinastia Han, quegli Han Orientali che raccolgono e mantengono alto il nome della Dinastia imperiale degli Han per quasi tre secoli (nome che rimarrà ancor oggi a designare la principale etnia cinese Han ren, gente Han), e il cui impero centralizzato si sgretola sotto i colpi delle contese interne e le pressioni delle genti barbariche del nord ovest (220 d.C). Ma nei successivi tre secoli di divisione del Paese, di frammentazione in mille piccole dinastie, in quello che la storiografia occidentale ha definito con una interessante analogia il Medioevo cinese, non si costruisce, come in occidente, un qualche sistema che si propone come coerente alternativa a quello imperiale, legittimato da millenni attraverso il «mandato del Cielo» al governo per il Sovrano, che di quel Cielo è il Figlio (Tianzi); al contrario, il tempo che trascorre dall'inizio del III sec. d.C. fino alla fine del VI sec. costituisce il periodo nel quale si vanno gradualmente ricostituendo le condizioni che porteranno alla formazione di strutture sociali ed economiche peculiari del sistema imperiale. È l'epoca feconda in cui nello sterminato territorio che chiamiamo Cina — pur spezzettato in regni e dinastie barbariche al nord e in mille famiglie in discordia al sud — arriva dall'India, attraverso la Via della Seta, il Buddismo. Contemporaneamente, nei circoli degli Eruditi si discute dell'importanza della scrittura (wen) come fondamentale elemento di civiltà, dell'essenza stessa della letteratura, si teorizzano i canoni della pittura, si parla del «vuoto e del pieno», si dipingono ritratti e si affrescano prodigiosi santuari rupestri. Qui verranno poi stipati testi su carta e su seta, rotoli buddisti di preghiere e di dipinti.
Ed è proprio nella ritrovata unità dell'impero, realizzata dall'effimera quanto interessante dinastia Sui — artefice, tra l'altro, del prodigioso Canale imperiale (605 d. C.), un'immensa rete di vie navigabili, collegamento materiale e unione simbolica tra il Sud e il Nord del Paese — che troveranno certezza e solidità, rassicurazione e coesione le mille istanze di uno straordinario mosaico di cultura. Il governo viene esercitato mediante il predominio delle virtù «civili» (wen, «segno scritto/ cultura/civiltà») che vincono su quelle «militari» (wu «arma/guerra»), e il costante riconoscimento, di chiara derivazione confuciana, verso il sistema imperiale viene garantito dal solido perpetuarsi della «burocrazia celeste », fedele garante della continuità istituzionale, accuratamente selezionata in base al sistema degli esami imperiali, colonna portante della stabilità del sistema.
Lo splendore della dinastia Tang, che risalta, unico, nei pezzi qui in mostra, nasce da tutto questo: la solidità di un sistema, quello imperiale, che conta su di un meccanismo perfetto, nel quale ciascun ingranaggio fornisce il proprio ordinato contributo: si tratta sempre di un incastro sociale che deve essere costantemente riverificato, ma nel quale possono agevolmente entrare — purché attentamente vagliati in base al criterio principe dell'efficacia — nuovi elementi, costituiti vuoi dalle componenti religiose, il Buddismo venuto dall'India come il Cristianesimo nestoriano o l'Islam, che si mescolano con il Taoismo e i culti locali, ma sono prodigiosamente tenuti insieme dal collante sociale costituito dalla burocrazia confuciana. Una burocrazia che, ricordiamolo, basa il proprio potere sulla conoscenza, sul sapere, sulle «virtù civili».
Docente di lingua e cultura cinese all'Università degli Studi di Milano
il Riformista 6.3.08
Ho cercato di fare un giornale scomodo
di Paolo Franchi
Di sinistra (e non come la destra della sinistra, perché i riformisti, almeno secondo me, non sono questo). E di frontiera, perché certezze non ce ne sono più, e nemmeno rifugi sicuri dove attestarsi, e quindi bisogna, anche a sinistra, mettere in circolo idee nuove, rischiare e rischiarsi. Così scrissi del Riformista che volevo fare venti mesi fa, quando lasciai il Corriere, una corazzata, per assumere la direzione di questo piccolo naviglio. A ripensarci adesso, nel momento del commiato dai lettori, la prima cosa che mi viene da dire è che, credo, il mio Riformista questo impegno lo ha rispettato; o almeno ha fatto tutto il possibile per rispettarlo, tra difficoltà di ogni tipo, in tempi che non sono esattamente i migliori per simili avventure... (il seguito più tardi)
il Riformista 6.3.08
Non troverete più il vostro em.ma
di Emanuele Macaluso
Mi corre l’obbligo di avvertire i lettori che nel momento in cui cambia la direzione del Riformista cessa anche la mia collaborazione col giornale: non ci sarà più “em.ma”, non ci saranno i miei interventi del martedì e altro. E spiego perché. Quando Antonio Polito, insieme ad altri, fondò questo giornale mi chiese di collaborare, spiegandomi quale era il suo piano editoriale, e le intenzioni politico-culturali che avrebbero segnato il carattere del nuovo giornale. Conoscevo Antonio, dato che aveva lavorato con me all’Unità, e avevo seguito e apprezzato il suo lavoro a Repubblica. Tuttavia gli manifestai i miei dubbi dovuti al complesso dei miei impegni, visto che dirigevo una rivista e collaboravo, come editorialista, con tre quotidiani. Ma Polito non si arrese, insistette, e io, tentato da un’avventura giornalistica per tanti versi nuova avviata sotto il segno del Riformista, accettai. E devo dire che la collaborazione con Polito è stata sempre cordiale, anche nei momenti in cui i nostri punti di vista non collimavano... (il seguito più tardi)
Ho cercato di fare un giornale scomodo
di Paolo Franchi
Di sinistra (e non come la destra della sinistra, perché i riformisti, almeno secondo me, non sono questo). E di frontiera, perché certezze non ce ne sono più, e nemmeno rifugi sicuri dove attestarsi, e quindi bisogna, anche a sinistra, mettere in circolo idee nuove, rischiare e rischiarsi. Così scrissi del Riformista che volevo fare venti mesi fa, quando lasciai il Corriere, una corazzata, per assumere la direzione di questo piccolo naviglio. A ripensarci adesso, nel momento del commiato dai lettori, la prima cosa che mi viene da dire è che, credo, il mio Riformista questo impegno lo ha rispettato; o almeno ha fatto tutto il possibile per rispettarlo, tra difficoltà di ogni tipo, in tempi che non sono esattamente i migliori per simili avventure... (il seguito più tardi)
il Riformista 6.3.08
Non troverete più il vostro em.ma
di Emanuele Macaluso
Mi corre l’obbligo di avvertire i lettori che nel momento in cui cambia la direzione del Riformista cessa anche la mia collaborazione col giornale: non ci sarà più “em.ma”, non ci saranno i miei interventi del martedì e altro. E spiego perché. Quando Antonio Polito, insieme ad altri, fondò questo giornale mi chiese di collaborare, spiegandomi quale era il suo piano editoriale, e le intenzioni politico-culturali che avrebbero segnato il carattere del nuovo giornale. Conoscevo Antonio, dato che aveva lavorato con me all’Unità, e avevo seguito e apprezzato il suo lavoro a Repubblica. Tuttavia gli manifestai i miei dubbi dovuti al complesso dei miei impegni, visto che dirigevo una rivista e collaboravo, come editorialista, con tre quotidiani. Ma Polito non si arrese, insistette, e io, tentato da un’avventura giornalistica per tanti versi nuova avviata sotto il segno del Riformista, accettai. E devo dire che la collaborazione con Polito è stata sempre cordiale, anche nei momenti in cui i nostri punti di vista non collimavano... (il seguito più tardi)