sabato 11 febbraio 2012

l’Unità 11.2.12
Audipress: per l’Unità 306mila lettori al giorno
A fine 2011 un aumento del 5,2 per cento


Crescono i lettori dei quotidiani e aumentano quelli de l’Unità del 5,2 per cento. L’Audipress ha pubblicato i dati sul periodo autunno-inverno 2011 (dal 19 settembre al 18 dicembre) e sulla primavera-estate dell’anno scorso (dal 4 aprile al 10 luglio 2011).
La crisi aumenta l’esigenza di informazione, perché nel terzo rilevamento del 2011 si rileva un aumento complessivo di lettori del 3%. Un dato ancora più positivo per l’Unità, che sale al 5,2% pari a 15mila lettori in più, arrivando a totalizzare 306mila lettori (più persone che leggono una copia).
In generale Audipress rileva che è cresciuto il numero dei lettori di quotidiani in un giorno medio, quindi non cala affatto, come tanti pensano: 24 milioni e 211 mila italiani ogni giorni leggono un giornale, con un incremento in numeri assoluti pari a +717mila. L’incremento maggiore lo ha registrato il Sole 24 Ore con 1,17 milioni di lettori (+16,2%). La Gazzetta dello sport rimane la testata più letta. Secondo posto per La Repubblica in crescita, così come il Corriere della Sera, terzo. Sale anche La Stampa che consolida il quarto posto.
Tra i fogli d’opinione Il Giornale passa a 746.000 lettori (+18.000 unità, +2,5%), mentre cala Libero con 422.000 (-12.000, -2,8%). Avvenire è in rialzo del 15,4% a quota 352.000 e Italia Oggi con +17,3% a quota 203.000. Ottima la performance di alcuni quotidiani locali: L’Eco di Bergamo mette a segno una crescita del 26,4%, L’Adige del 24,5%, Il Giornale di Brescia del 23,5%. Male invece Il Giorno in ribasso del 12,7%. Trend negativo per la free press. In testa resta Leggo con 1.920.000 lettori (-4,2%), seguito da City con 1.746.000 (-2,2%), Metro con 1.542.000 (-4,2%) e Dnews con 262.000 lettori (-18,9%). Il sondaggio, pubblicati sul sito primaonline.it è basato su 32.625 interviste complessive.

il Riformista 11.2.12
Il Manifesto, noi e il precipizio
di Emanuele Macaluso


La vicenda politica ed editoriale del Manifesto è certamente un pezzo della storia travagliata non solo del Pci, ma della sinistra tutta. Il quotidiano ora rischia veramente di chiudere. Da sempre non condivido la linea politica che ha seguito e segue ancora il Manifesto, ma penso che l’assenza di una voce come la sua nel coro afono della sinistra sarebbe una nuova mutilazione. Le esperienze fatte per una “rifondazione comunista” sono fallite, non poteva essere diversamente: l’esperienza del Pci e dei suoi gruppi dirigenti è irripetibile, anche perché il mondo è cambiato.
Il Manifesto si definisce ancora “quotidiano comunista”, segnalando così un’appartenenza storica e un orizzonte ideale, ma la sua quotidianità ci dice che conduce una lotta politica sul terreno sociale e culturale che non hanno più un riferimento a “rifondazioni”, ma alle forze che comunque sono in campo. La reazione di Valentino Parlato e Norma Rangeri, direttrice del quotidiano, determinati nel continuare, è giusta e va sostenuta. Anche per quel che riguarda il contributo pubblico, ridotto drasticamente dal vecchio governo e non ancora ripristinato dal nuovo, ha ragione la Rangeri quando dice che su alcune pubblicazioni che fanno opinione c’è un doppio attacco: «Quello della censura del potere e quello del malaffare di chi ha approfittato i questi anni di quei fondi senza avere diritto». Come i lettori sanno, anche il Riformista è sull’orlo del precipizio. Le nostre difficoltà sono note e pesanti. Ed è bene sapere che questo giornale è l’unica voce che in Italia si batte sul terreno del socialismo democratico europeo. Altre voci, sono rispettabilissime e vanno tutelate, ma fanno capo a “partiti democratici” e gruppi di cattolici politicamente militanti, ma diverse da quelle della sinistra socialista. In ogni caso, da noi come al Manifesto, la partita si deciderà nei prossimi giorni. Vedremo.

l’Unità 11.2.12
Il segretario Pd conclude il viaggio in Tunisia con un incontro con il leader del maggior sindacato
«Destinazione Italia»: annunciato un tour nelle zone del nostro Paese più colpite dalla crisi
Bersani: fare in fretta sul lavoro, ma il governo deve evitare i conflitti
Pier Luigi Bersani conclude il suo viaggio in Tunisia all’insegna del lavoro. Incontra il segretario dell’Ugtt, poi lancia un segnale al governo: «La riforma del mercato del lavoro si faccia in fretta senza conflitti»
di Simone Collini


«I tunisini mi hanno detto che pre ferirebbero avere i nostri problemi, per quel che riguarda il lavoro, e ci credo». Sorride. «Ma anche da noi non è che la situazione sia tanto bella», sospira Bersani scuotendo ora serio la testa. «Bisogna chiudere rapidamente il tavolo sulla riforma del mercato del lavoro, arrivando a un accordo tra le parti perché guai se si aprisse ora una fase conflittuale. Ma soprattutto bisogna smetterla di discutere soltanto di regole, servono politiche che stimolino gli investimenti, misure che diano un po’ di sprint all’economia. Non è possibile che non si affronti mai la questione di come creare più occupazione». Il leader del Pd ha appena finito di parlare con il leader del principale (praticamente unico) sindacato della Tunisia, l’Union générale des travailleurs tunisiens. Si chiama Hassine Abbassi ed è stato eletto per dare un segnale di rinnovamento anche in questo campo dopo la fine del regime di Ben Ali. Per Bersani è l’ultimo incontro di questo viaggio organizzato a un anno dallo scoppio della cosiddetta rivoluzione dei gelsomini.
LA TRANSIZIONE TUNISINA
La primavera araba è partita da qui e le speranze riposte in questo processo democratico sono tante, su ambedue le sponde del Mediterraneo. La transizione però sta incidendo pesantemente su un’economia già debole. Racconta il segretario dell’Ugtt Abbassi che il tasso di disoccupazione ufficiale (20%) nasconde una realtà ben peggiore, che gli effetti del crollo del Pil si sentiranno nei prossimi mesi, che il forte calo del turismo (settore che produceva il 7% del Pil) è tanto immotivato (le zone costiere non sono state toccate dalla violenza) quanto devastante (meno 65% solo dall’Italia) e che se il governo non risponderà in modo adeguato alla tensione salariale che c’è nel Paese la stabilizzazione correrà forti rischi.
Ma per paradossale che possa sembrare, i vertici sindacali e istituzionali tunisini (nei giorni scorsi Bersani ha incontrato il primo ministro Jebali e il presidente Ben Jaafar) si sono mostrati altrettanto preoccupati per la situazione europea. Ma poi non è difficile capire il perché quando viene spiegato che causa crisi, molte aziende del vecchio continente stanno ritirando sia commesse che personale dalla Tunisia, e l’economia nazionale ne risente pesantemente. L’Italia, che è il secondo partner commerciale di Tunisi, è più interessata di altri a produrre un’inversione di tendenza. Dice Bersani mentre lascia la sede nazionale dell’Ugtt: «Noi abbiamo dei problemi ma attenzione che prima o poi li avrà anche la Germania perché rischiano tutti se non si avvia una politica europea che stimoli l’economia, la domanda interna e la produzione industriale». Anche l’Italia, a questo punto, deve cambiare passo. «Il problema è come creare occupazione. Bisogna chiudere rapidamente il tavolo sulla riforma del mercato del lavoro cercando di stare con i piedi per terra. Il problema non è come licenziare. Se poi alla fine, preservandolo perché non c’è nessuna ragione di toglierlo, si vuole ragionare su come perfezionare l’applicazione dell’articolo 18, si vedrà. Ma tutto va fatto in un clima di sforzo comune, perché guai se si aprisse una fase conflittuale».
Discutere di regole però non basta, dice Bersani, «servono politiche che creino occupazione». Il Pd avanzerà le sue proposte, ma per dare un ulteriore segnale a governo e opinione pubblica il leader dei Democratici sta lavorando anche su un’iniziativa protocollata col titolo “Destinazione Italia”. Nelle prossime settimane partirà per un tour nelle zone del Paese che si caratterizzano o per la presenza di aziende in crisi o per l’eccellenza dimostrata in questi anni. Un viaggio «nell’Italia che vuole ripartire», si legge su una bozza di programma a cui stanno lavorando al Nazareno, che toccherà soprattutto realtà del Mezzogiorno e del Nord Est. Al centro ci sarà anche la «riscossa civica» a cui, secondo Bersani, pensava Monti quando ha sollecitato gli italiani ad avere un diverso stile di vita. «Cambiare per avere più civismo, sì. Serve maggiore fedeltà fiscale e che ciascuno faccia il suo mestiere».

l’Unità 11.2.12
Il leader Pd: uscire da un meccanismo ipermaggioritario


Pier Luigi Bersani ha respinto le accuse di Antonio di Pietro al Pd di trattative clandestine sulla legge elettorale. «Per essere creduto da Di Pietro non so più cosa devo dire. Ho detto in tutti i modi che la legge elettorale non si fa da soli e Di Pietro sa benissimo che ne discutiamo anche con lui», ha spiegato il segretario del Pd a margine della sua visita a Tunisi. Dunque, ha aggiunto, «cerchiamo di abbassare i toni».
Quanto alla futura legge elettorale, per il segretario Pd «bisogna uscire da un meccanismo ipermaggioritario che ha portato guai enormi», ha spiegato. «Serve un mix di maggioritario e proporzionale con un meccanismo premiale per le coalizioni», ha sottolineato.

La Stampa 11.2.12
Legge elettorale malumore nel Pd “Si torna indietro”
di Ugo Magri


ROMA I partiti cercano un accordo per modificare il sistema di voto. Con onestà, l’ex-presidente della Camera Violante certifica: sulla legge elettorale «esistono punti di indirizzo che nascono dalla discussione con tutte le forze politiche... ». Non siamo dunque in presenza di una bozza, ma davanti a molto di più: allo scheletro di un’intesa, in buona parte già costruita, che punta a liquidare la Seconda Repubblica e a proiettarci verso una Terza molto somigliante alla Prima. E’ un accordo che punta a tagliare i parlamentari, a ridefinire i compiti del Senato, a rafforzare i poteri del premier e a rimpiazzare il «Porcellum» con un modello alla tedesca, con tanto di «sfiducia costruttiva». Stiamo tornando (nelle intenzioni della maggioranza) a un sistema dove i partiti riprendono in mano il pallino, dopo esserne stati espropriati in nome del «nuovismo», del maggioritario, del leaderismo, del berlusconismo, tutte facce della stessa medaglia bipolare. Protagonista di questo «ritorno al futuro» risulta senza dubbio il Pd, attraverso l’iniziativa di Violante che certo non nasce sotto un cavolo, avendo avuto il via libera preventivo dai vertici.
Non a caso, è contro il parafulmine Bersani che si indirizzano le proteste. E’ a lui che ora si rivolgono i veltroniani con un altolà di Tonini («Il Pd ha un’unica proposta ufficiale approvata nelle sedi istituzionali, il doppio turno di collegio», di altro non si è mai discusso). E’ al segretario democratico che Parisi chiede «di smentire e di intervenire prima che sia troppo tardi» poiché, denuncia l’esponente referendario, «diventa sempre più chiaro che l’obiettivo principale della trattativa è quello di rendere ininfluente il voto dei cittadini sulla formazione dei governi, per riconsegnarla ai capipartito». Contestazioni che Bersani prova a scrollarsi di dosso: «Bisogna uscire da un meccanismo iper-maggioritario che ha portato guai enormi, serve un mix di maggioritario e di proporzionale, con un sistema premiale per le coalizioni», esattamente quello discusso l’altro ieri dal Cavaliere e dai suoi strateghi.
Non è vero che il Pdl frena, come sostiene la «vulgata». Semmai sta alla finestra per capire che succede a sinistra, certo non si impicca sulla proposta Violante. «Esiste una vasta area di possibilità», assicura il capogruppo Cicchitto. Bonaiuti, portavoce berlusconiano, vola alto, «noi vogliamo una legge come la vogliono i cittadini». Il «vicario» al Senato, Quagliariello, mette due paletti: non sia un proporzionale «puro», non si torni alle preferenze. E si seguano le istruzioni di Schifani, il quale considera la legge elettorale come coronamento di una riforma ambiziosa, che tocchi «la seconda parte della Costituzione».
Più dei clamori, contano i silenzi. Tace la Lega, cui la minaccia di sbarramento al 5 o al 10 per cento non fa né caldo né freddo, essendo sicura di farcela ugualmente. Idem i centristi. Casini finge indifferenza, «quello che decidono Pdl e Pd ci sta bene comunque». Bocchino spiega il perché: «Non proveranno mai a darci fregature, perché poi saremmo costretti ad allearci con uno dei due, e chi avesse avuto questa furba idea perirebbe... ».

Corriere della Sera 11.2.12
Ritorno al proporzionale, arrivano i primi «no»
Tensioni nel Pdl e nel Pd. I veltroniani e Parisi sul piede di guerra
di Paola Di Caro


ROMA — Come prevedibile, nel percorso da montagne russe della legge elettorale, dopo la salita ieri è stato il giorno della discesa. Frenate, puntualizzazioni, prese di distanza, avvertimenti hanno scandito le obiezioni di chi, al patto Pd-Pdl su un modello tendenzialmente proporzionale, con alta soglia di sbarramento e premio di maggioranza distribuito fra i partiti e non più destinato alla coalizione vincente, non ci sta.
Un patto ancora non siglato, ma già discretamente avviato se è vero che sulla base del testo messo a punto da Luciano Violante, capo delegazione del Pd che ieri lo derubricava ad una serie di «punti di indirizzo», si era registrata la disponibilità della delegazione del Pdl, formata da La Russa, Quagliariello e Bruno. Lo stesso Quagliariello, che due giorni fa definiva la bozza «uno schema», ieri ha frenato: «C'è una circolazione di idee, ma non si deve parlare di bozze». Ribadendo però che le «idee» che circolano ruotano tutte attorno all'ipotesi di un sistema non del tutto proporzionale ma molto lontano da quello con effetto bipolare secco che era il Porcellum.
E però — nonostante sia Silvio Berlusconi che Angelino Alfano siano ben disposti a una sterzata, e lo stesso pensi Pier Luigi Bersani che ieri ha chiesto esplicitamente di «uscire da un meccanismo ipermaggioritario che ha portato guai enormi» — nel Pd e nel Pdl c'è agitazione. Fra i democratici insorge infatti l'ala storicamente maggioritaria e bipolare che fa capo a Veltroni e che, con Giorgio Tonini, ieri avvertiva che «il Pd ha un'unica proposta ufficiale approvata nelle sedi istituzionali: il doppio turno di collegio». E anche Arturo Parisi, referendario storico, si arrabbia: «Bersani smentisca l'esistenza di bozze» che delineano un sistema dove si consegna «ai capibastone di partito tutto il potere».
Se nel Terzo Polo si ostenta una calma olimpica perché, secondo Casini, tanto tutti dovranno alla fine fare i conti con lui, e per Fli Bocchino svela come («Mettono la soglia alta? E noi ci alleiamo con uno o l'altro e vinciamo: non ci fregano»), nel Pdl è il momento della riflessione. Un vertice la prossima settimana dovrà ufficializzare la posizione sulla bozza di accordo (nel frattempo, si vedranno ancora le delegazioni di Pdl, Pd e forse Terzo Polo), ma intanto Renato Schifani indica la via: «Bisogna cambiare l'articolo 49 della Costituzione», dice il presidente del Senato riferendosi alla riforma dei partiti, ed è necessario fare oltre alla legge elettorale anche le riforme: «Parlare oggi di riforma elettorale a Costituzione invariata significa che si dà per scontato che il processo delle riforme è fallito ed io non mi voglio rassegnare a questo». Il Pdl preme perché le riforme costituzionali e la legge elettorale, oggi incardinate al Senato, lì restino (meglio Schifani che Fini, insomma...), o comunque, prima di passare la legge elettorale alla Camera, pretende che ci sia intesa anche sulle riforme. Intesa complessiva insomma, che ancora non c'è, ma che nessuno può permettersi di non avere. Ne parleranno i leader, forse già la prossima settimana.

Repubblica 11.2.12
Dall’Italia dei Valori ai Radicali il fronte di chi vuole lo status quo


Il fronte del no alla proposta del Pd è variegato: si va dalla Lega e il Pdl a Idv e Radicali. Soprattutto questi ultimi, costretti a raccogliere le firme per partecipare alle elezioni e gran raccoglitori di firme per i referendum non vedono di buon occhio il taglio dei soggetti abilitati a ad autenticare le firme. E lo stesso ragionamento vale anche per Di Pietro impegnato più di una volta nel difficile compito di raccogliere firme in calce ad un referendum. Gli altri puntano invece a mantenere il "privilegio" di partecipare alle elezioni senza raccogliere firme perché già rappresentati in Parlamento o all´Europarlamento o al Consiglio regionale. Per questo gli emendamenti vanno dall´abolizione del "taglio" degli autenticatori, proposta da Idv, Lega e Pdl, alla proposta di Peppino Calderisi (Pdl) di esonerare dalla presentazione delle firme chi sta già in Parlamento, Europarlamento e nei Consigli comunali.


il Fatto 11.2.12
“Sì a Di Pietro, noi insieme contro l’inciucio
Ferrero del Prc risponde all’appello del segretario Idv
di Fabrizio d’Esposito


Paolo Ferrero, ex ministro del governo Prodi, ha appena terminato una riunione con Maurizio Landini, per la manifestazione nazionale che la Fiom terrà a Roma il 18 febbraio, sabato prossimo. Ferrero è il segretario di Rifondazione comunista che insieme con il Pdci di Oliviero Di-liberto forma la Federazione della Sinistra. Sul Fatto di giovedì scorso, Antonio Di Pietro ha proposto una lista civica nazionale contro l’inciucione tra Pdl, Pd e Terzo polo, che vorrebbe una legge elettorale con sbarramento tra l’8 e il 10 per cento per istituzionalizzare la Grande Coalizione permanente e tenere fuori tutti gli altri. L’appello dell’Idv è a Sel, Federazione della Sinistra e nuovi sindaci come Pisapia e de Magistris.
Ferrero, l’inciucione centrista avanza e agita la clava dello sbarramento elettorale contro le cosiddette “estreme”.
Monti non è una parentesi. È un governo costituente che prepara un’uscita da destra dopo il fallimento della Seconda Repubblica.
Un governo di destra appoggiato dal Pd.
Incomprensibile. E peggio di un governo di destra come quello di Berlusconi c’è solo un governo di destra senza opposizione.
Come questo.
Appunto. Perciò dico a Di Pietro che sono d’accordo con lui. Non possiamo solo lamentarci, è l’ora di costruire un polo di sinistra come la Linke in Germania. Dalla crisi della Seconda Repubblica possiamo uscire da sinistra.
La proposta dell’Idv però è legata a un’eventuale soglia di sbarramento alta nella riforma elettorale, se mai il Porcellum sarà archiviato. Altrimenti c’è la foto di Vasto: Pd, Sel e Idv.
Non basta. Guardi che se si votasse oggi con il Porcellum, la foto di Vasto avrebbe bisogno dell’Udc per governare, perché al Senato non ci sarebbe la maggioranza. Sarebbe un governo dal profilo moderato, sotto il ricatto di Casini. Non sarebbe una vera alternativa al liberismo .
Ma Di Pietro vuol salvare il “soldato Bersani” dalle spinte centriste nel Pd.
Basta inseguire il Pd, che a sua volta insegue il Terzo polo. Certo, il Pd resta la cosa più vicina a noi, ma dobbiamo prendere atto del quadro sociale e politico. Il governo Monti sta facendo politiche inique e recessive e vuole demolire i diritti dei lavoratori, con una maggioranza ben determinata.
Cioè: Pd, Pdl e Terzo polo.
Sia in Grecia sia Italia si sta formando un blocco centrista destinato a fare politiche convergenti. Che vinca l’una o l’altra, queste forze sono chiamate ad applicare lo stesso programma.
Non c’è differenza.
Per questo è necessaria l’autonomia dal Pd. Dobbiamo costruire un percorso per un governo di cambiamento radicale. Il dibattito sulla legge elettorale sta portando fuori questa necessità, ma io sono a prescindere per questo nuovo polo, che chiamerei di sinistra e dei beni comuni.
Idv, Sel, Federazione della sinistra, nuovi sindaci.
E comitati, associazioni, reti. Insieme su quattro punti: pace; riconversione ambientale dell’economia; allargamento dei beni comuni; difesa dei diritti dei lavoratori. In questi giorni stanno facendo passare sotto silenzio un’altra vicenda grave: la fine del contratto nazionale di lavoro nelle Ferrovie, come ha fatto Marchionne alla Fiat. Monti vuole demolire il sindacato. Non perdiamo altro tempo facciamo un’opposizione costituente.
A prescindere dalla legge elettorale.
Esatto. Facciamo un blocco frontale e comune in difesa dell’articolo 18, che io vorrei esteso a tutti. Se vanno avanti togliendolo e non ci facciamo sentire poi non possiamo lamentarci.
Il leader?
Il dibattito non mi appassiona. Io penso a una forza partecipata, dal basso. Usciamo dal bipolarismo ma anche dal plebiscitarismo. Io sono per un sistema proporzionale che sia rappresentativo in Parlamento di tutto il popolo. Questo bipolarismo basato sul tifo calcistico ha dato tutto il potere ai mercati, ai banchieri, ai poteri forti.
Nei sondaggi la Federazione della Sinistra è intorno al 2 per cento.
Alle elezioni però raddoppiamo sempre, ma non è questo il punto. Il punto è politico.
I poteri forti adesso hanno anche un altro vantaggio: Berlusconi non c’è più e non possono essere attaccati per questo. Monti non ha opposizione e sta terremotando il quadro politico. È mai possibile che la gente quando sente parlare di riforme pensa ormai sempre al peggio?
La gente è incazzata. Pensa che la politica non serva più a nulla. Non è vero. La politica non è la casta.

La Stampa 11.2.12
Lo sfoggio di entusiasmo dell’America
di Lucia Annunziata


Il viaggio di Mario Monti in Usa è andato bene. Forse troppo bene.
C’è stato infatti un innegabile elemento di esagerazione nell’accoglienza americana al premier italiano, e se alcune reticenze nel discorso pubblico e una serie di sorrisi di imbarazzo valgono una dichiarazione, lo stesso premier sembra essersene accorto.
Mario Monti guida il governo da soli tre mesi, ha fatto un forte intervento sulla strada verso il pareggio del bilancio accompagnato dalla riforma delle pensioni («e solo con tre ore di sciopero» ha raccontato di aver detto ai suoi interlocutori alla Casa Bianca, ascoltato «con grande meraviglia»).
Per quanto riguarda le altre riforme, che sia quella del mercato del lavoro (tema molto comprensibile agli americani) o quella (molto più sottile per questo pubblico) della modifica dei rapporti fra Merkel e l’Italia, sono ancora tutte da provare.
La domanda da porsi è dunque cosa stiano cercando di dirci gli americani con questo inedito sfoggio di entusiasmo.
La più maliziosa interpretazione è che il nuovo clima ha a che fare con il passaggio di governo in Italia - e non c’è dubbio che la differenza fra le impacciate relazioni di Washington con Silvio Berlusconi negli ultimi anni, e quelle di oggi con Mario Monti, è inenarrabile. In effetti ha dell’incredibile che il passato governo non sia mai stato citato in questi incontri, e che l’unico a pronunciare il nome di Silvio Berlusconi (come al solito per dirne bene, nella ormai assodata routine istituzionale della continuità formale fra esecutivi) sia stato proprio Monti. Tuttavia l’America, presa da tali e tanti problemi complessi, non avrebbe sprecato molta energia in questo momento solo per sottolineare diversi toni diplomatici.
La chiave di volta della sua ospitalità è iscritta in realtà nelle novità segnalate dalla agenda del premier in questi giorni. A differenza di quanto sempre avvenuto con altri premier in passato, Monti in effetti ha speso molto meno tempo con le istituzioni politiche – Congresso, governo, Onu –, per investire la maggior parte delle energie nel comunicare direttamente con altri luoghi del potere, think tank come il Peterson, i maggiori media, come la Cnbc di Maria Bartiromo, il Time, il New York Times, e gli investitori di Wall Street, che hanno la capacità di influenzare direttamente le opinioni più vaste del mercato. Non è un caso che il più lungo incontro «politico» sia stato delegato al ministro degli Esteri Terzi che ha trascorso con Hillary Clinton più tempo di quanto Monti con Obama. Così come non un caso è che per ricevere il professore italiano a New York siano scesi in campo i big della finanza, da Bloomberg a Soros.
La vera missione di Mario Monti in America, detta in maniera un po’ poco caritatevole, è stata fin dall’inizio dunque quella di «venditore», di un uomo che alla fin fine era lì per convincere della nostra affidabilità quegli stessi mercati che ci avevano condannato.
Si spiega così anche l’entusiasmo profuso nel far sì che la missione riuscisse: un po’ di esagerazione ci voleva per far ben capire a tutti che i vari punti di influenza del potere americano, media, politica e investitori, ci hanno riaccettato. Quell’«Italy is back», in questo senso è risuonato in effetti nelle orecchie tanto entusiasta quanto accondiscendente nei nostri confronti. Ma è stata anche l’eco di una sorta di autocritica del Paese più arrogante del mondo.
«L’Europa è un terreno scivoloso per gli americani, specie in questa campagna elettorale. Se non si fosse visto un miglioramento, non credo che Obama si sarebbe tanto impegnato», diceva alcune sere fa un insider di Washington, un avvocato che lavora per le industrie della difesa. Con tipico spirito pragmatico, i mercati e la politica Usa hanno fatto negli ultimi tempi una rapida marcia indietro, dopo aver capito che per l’America dei prossimi anni l’Europa è ancora più un beneficio che una palla al piede, come la si descriveva nei momenti peggiori della crisi.
Non solo, come viene ripetuto, la miniripresa americana potrebbe essere affossata da qualunque peggioramento dell’economia della Eu. L’Europa si rivela molto importante in prospettiva anche nell’intreccio fra costi e sicurezza dell’Impero.
La crisi economica sta portando gli Usa a una rimodulazione delle spese militari. I (meno) soldi saranno sempre più impegnati da Washington nei teatri asiatici, per tenere d’occhio i contendenti di domani, Cina soprattutto.
La conseguenza è che il peso della sorveglianza sulla Russia (testate nucleari incluse) e la gestione del Medioriente ricadrà sempre più sull’Europa: il modello Libia - quello in cui la Nato opera e gli Stati Uniti appoggiano - è il modello che gli Usa oggi vedrebbero esteso a tutta la zona di influenza europea. Per questo molto si è parlato fra Monti e Obama della conferenza sulla nuova Nato che si terrà a maggio a Chicago. Molto ne hanno parlato, e poco ce ne è stato riferito. Il terreno è infatti scottante per le opinioni pubbliche europee.
La lezione che si trae da tutto questo, è che l’entusiasmo Usa è come un venticello – capace di cambiare rapidamente direzione a seconda delle necessità (o utilità?) del Paese. Ha soffiato molto bene, sulla visita di Monti ma non dovremmo farci molto affidamento. Anche perché, come dimostra il dossier Nato, porta sicuramente con sé un cartellino con il solito salato prezzo.

il Fatto 11.2.12
Le sparate delle madri ricadono sulle figlie


NON SOLO È PROIBITO criticare i ministri tecnici. Ma pure i loro figli. Michele Serra, su Repubblica, castiga chi ricorda che i figli delle ministre Fornero e Cancellieri, nemiche del posto fisso, hanno posti fissi: “Critiche astiose e stupidi insulti”, perché Silvia Deaglio, figlia della Fornero, è “una brava e giovane scienziata”. Sulla Stampa, Michele Brambilla bacchetta il “moralismo trasversale” e il “giacobinismo invasato” di chi critica, e difende anche lui la bravura di Silvia, docente nell’ateneo dei genitori e ricercatrice in una fondazione finanziata da una compagnia vicepresieduta da mammà. Ma nessuno critica i figli, bensì le madri che pretendono dai figli degli altri il contrario di ciò che fanno i loro. Se le ministre avessero taciuto sul posto fisso, nessuno sarebbe andato a vedere se i loro rampolli hanno il posto fisso.

il Fatto 11.2.12
Il miracolo dei partiti che arraffano soldi anche da morti
di Pino Corrias


LA RIVELAZIONE che la Margherita arraffasse soldi anche dopo morta (con quante mani ancora non si sa) è stata considerata dai più una conferma dell’ultra vita dei partiti. Per i più cinici un dettaglio vagamente horror a metà strada tra Frankenstein e i Morti viventi. Per i più deboli di cuore una conferma del carattere mistico dei partiti ai quali è concessa un brandello di eternità, grazie a una speciale intercessione delle onnipotenti divinità bancarie. In verità sorprende la sorpresa. Come se ci si stupisse dei tempi di digestione di un erbivoro, dell’andamento ciclico delle maree, dei rossori cutanei di Tremonti, quando parla dei banditi che governano l’economia (nel mondo) spalleggiati da altri banditi che fanno i ministri dell’Economia (nel mondo). Accumulare, occultare, spendere con qualsiasi mezzo, dal bonifico, al conto estero, passando per valigette, buste, compravendite immobiliari, appalti e naturalmente mignotte da dopocena, fa parte di quel patrimonio geneticamente modificato che sovrintende la vita di tutti i nostri partiti da una trentina d’anni almeno. Così connaturato da persistere ben oltre la sepoltura, come un tempo la gloria dei faraoni e poi dei craxiani.


il Fatto 11.2.12
Arrivano i bond morte
risponde  Furio Colombo


Caro Colombo, vedo che la Deutsche Bank ha dato vita a un nuovo tipo di bond, fondato sulla durata della vita di gruppi umani fra i 70 e gli 85 anni. Il guadagno probabile è basato sull’età. Incassi di più se muore il più giovane. È uno scherzo macabro o una variazione nell’allegro mondo della finanza?
Benedetta

LA NOTIZIA è vera. Però non dirò il rituale “purtroppo”. Perché trovo perfettamente naturale che il mondo globalizzato della finanza al quale dobbiamo la peggiore disoccupazione in un secolo (guerre escluse), il tuttora inspiegato fallimento della Grecia, l’imposizione di pesi sempre più grandi e di rinunce sempre più dure sulle spalle di lavoratori e di ex lavoratori che sono sempre stati destinatari di prediche severe e mai partecipi delle famose “feste finite” e dello splendido “vivere al di sopra dei nostri mezzi” (livello al quale hanno vissuto esclusivamente coloro che a quel livello sproporzionato vivono ancora) trovo perfettamente naturale, dicevo, che si elabori un “prodotto” (così dicono i tecnici) che abbia a che fare con vita e morte e relativi bond-scommessa. Dopo tutto è un bond del genere anche la pensione, che infatti si minaccia sempre di cambiare, perché i beneficiari si ostinano a non morire e sbancano il banco. Con due salva-vita in più presi alle ore giuste, i beneficiari di pensioni hanno fatto saltare statistiche e tabelle preparate con esperienza e con cura affinché ciascuno vivesse una vita di lavoro, magari anche dura, anche usurante, con la promessa di un periodo retribuito di riposo che alla fine, invece, tabelle alla mano, era già calcolato come impossibile per fine vita, con gran risparmio degli oculati enti previdenziali. Dunque diamo il benvenuto ai “bond-morte” della Deutsche Bank per le seguenti ragioni: Primo, svelano il trucco. Tutto il sistema è basato sullo sgombero rapido del lavoratore dal mondo in cui rappresenta un costo. Se sgombera, ci guadagna sia il possessore del bond sia l’ente previdenziale. Secondo, tutto il dibattito sulla continuamente contestata questione pensioni è fondato sull’ostinata sopravvivenza di un po’ troppi esseri umani. Uno sfoltimento più rapido avrebbe giovato al sistema finanziario, al sistema politico, al sistema presidenziale e persino al sistema sindacale, che è ormai continuamente accusato, con un certo disprezzo, di rappresentare solo i pensionati. Ovvero, come si deduce facilmente dal contesto, gli indebitamente sopravvissuti. Terzo. L’argomento serve anche per un’utilissima invenzione politica: far passare l’idea (che, tutto sommato è passata) che gli zombi dell’Inps non solo si sono impossessati di ciò che spetta ai più giovani, ma intasano i passaggi verso la modernità. Ogni epoca esprime il suo livello di civiltà in tanti modi. Uno è il rapporto con gli anziani. Dobbiamo ammettere (non sono sicuro se con orgoglio) che da Enea ai nostri giorni, la civiltà ne ha fatti di passi. Resta da stabilire in quale direzione.

Corriere della Sera 11.2.12
Troppi cesarei, il ministro manda i Nas negli ospedali
di Margherita De Bac


ROMA — Non c'è argine all'aumento dei cesarei. L'allarme viene rilanciato anno dopo anno in Italia da società scientifiche e organismi sanitari senza che si riesca a innescare un meccanismo di ritorno al travaglio e al parto fisiologico.
L'ultimo rapporto dell'Istituto Superiore di Sanità dello scorso mese conferma la crescita. Italia prima in Europa. Dall'11% del 1980 al 28% del 1996 e al 38% nel 2008, con notevole differenze tra aree geografiche. In Campania sono state raggiunte punte del 60%. In alcune cliniche private del Sud, ma anche a Roma, sono chirurgici 9 parti su 10. «Valori estremamente elevati fanno sorgere l'ipotesi di una utilizzazione opportunistica non basata su reali condizioni cliniche», denuncia il ministro della Salute Renato Balduzzi. Dove e quando il cesareo viene prescritto troppo allegramente lo accerteranno i carabinieri del Nas (nucleo antisofisticazione) che ieri hanno ricevuto l'incarico di svolgere «azioni di controllo a livello nazionale» per accertare il ricorso non appropriato a questo tipo di intervento nei reparti di ostetricia».
L'indagine a campione riguarderà centri pubblici, convenzionati e privati. Gli ispettori raccoglieranno cartelle cliniche e documentazione del ricovero, compresi i referti ecografici autenticati dalla direzione sanitaria. A mali estremi, estremi rimedi. Ma servirà l'intervento dei Nas per modificare comportamenti non corretti da parte di certi operatori? Finora tutte le proposte per tentare di avviare un' inversione di marcia sono rimaste sulla carta. Si è discusso se introdurre tariffe meno vantaggiose per questo tipo di prestazione sicuramente più remunerativa. Ma chi ha sperimentato il sistema del doppio rimborso riferisce di non averne tratto alcun giovamento. Hanno successo soltanto le iniziative basate su cambiamenti di mentalità, su modificazioni culturali e organizzative.
Un esempio è l'ospedale di Castellammare di Stabia dove l'arrivo di un nuovo primario, Ciro Guarino, ha ribaltato la situazione. Ora i cesarei sono un'eccezione. Risultato ottenuto attraverso il coinvolgimento del personale, il confronto quotidiano sui casi, il colloquio con le pazienti, la creazione di locali che favoriscono un percorso al parto non chirurgico. A niente sono servite per determinare lo stesso processo in altre realtà le linee guida pubblicate due anni fa che insistevano sull'importanza della comunicazione tra medici e donne.
Nell'ultimo documento del 26 gennaio scorso l'Istituto Superiore di Sanità ha indicato le uniche tre condizioni in cui, in assenza di controindicazioni, il taglio chirurgico è preferibile al parto naturale per il benessere di mamma e bambino. Sì al cesareo quando il feto è in posizione podalica fino alla fine della gravidanza nonostante le manovre esterne eseguite dal medico sotto controllo ecografico. Secondo: quando la placenta copre parzialmente o completamente il passaggio del feto nel canale del parto. Terzo: donna diabetica e neonato con un peso superiore a quattro chili e mezzo.

Corriere della Sera 11.2.12
Le principesse sulle uova
di Elvira Serra


Per Paolo Emanuele Levi Setti è «la seconda rivoluzione sessuale»: «Congelare gli ovociti libera la donna dal giogo dell'età e pareggia davvero i conti con gli uomini». Ma non gli piace il termine, «social freezing»: «Ha in sé una connotazione negativa, fa pensare a un vezzo, al capriccio di persone ricche e straviziate che si concedono come benefit la possibilità di avere o rimandare nel tempo una gravidanza». Ecco perché il responsabile del dipartimento di Ginecologia dell'Humanitas, professore aggiunto alla Yale University, fa un po' d'ironia: «Qui non si tratta né di social drinking né di happy hour. A mio avviso è una opportunità in più». Così azzarda: «Vorrei che diventasse una forma di prevenzione primaria della infertilità futura. Perché per la maggior parte delle donne che decidono di avere un figlio dopo i quarant'anni e non ci riescono, se prima non hanno congelato i propri ovociti l'unica alternativa è la donazione dei gameti femminili. Deve farci riflettere il fatto che arrivi dall'Italia il 40-50 per cento delle coppie europee che si rivolgono a centri specializzati nella ovodonazione».
In effetti i numeri non incoraggiano. A 23 anni ogni ovulazione si trasforma in una gravidanza nel 28% dei casi, a 39 anni nel 14%, a 40 nel 12%, a 42 nel dieci per cento e a 43 soltanto nell'8 per cento dei casi. Gillian Lockwood sulla rivista scientifica Reproductive BioMedicine Online ha spiegato che sei donne su cento rischiano di restare senza figli quando cominciano a cercare una gravidanza in modo naturale sotto i 30 anni, ipotesi che sale al 14% a trentacinque e arriva al 35% a quarant'anni. Una prospettiva che ha convinto il Comitato etico del governo di Israele ad auspicare il congelamento delle uova per tutelare la fertilità futura delle donne.
Negli Stati Uniti il passaparola è partito dalla anchorwoman di punta della Abc, Diane Sawyer, che ha raccomandato alle sue colleghe di concedersi una chance vitrificando i propri ovociti a uso e consumo futuro. Una spinta alla autonomia riproduttiva. Decidere di scongelarne o abbandonarne uno ha un impatto emotivo diverso dal fare la stessa cosa con un embrione. Alla base della scelta non è sempre una questione di carriera, talvolta manca l'uomo giusto. L'obiettivo è dunque tenersi pronte. Questo almeno è il ragionamento che sta spingendo, secondo alcuni con un po' troppo ottimismo, molte americane a rivolgersi a endocrinologi esperti per mettere da parte i propri gameti (oltreoceano costa 15 mila dollari, qui in Italia 3-4 mila euro).
Non possiamo liquidarlo soltanto come un fenomeno di costume: le principesse sul pisello diventano principesse sulle uova, la seconda puntata del colossal sul controllo delle nascite che nel primo tempo ha avuto per protagoniste la pillola e la legalizzazione dell'aborto. C'è un bisogno, questa è l'evoluzione. In Italia è agli albori. «Da noi è in una fase embrionale. Nel nostro centro a Bologna abbiamo congelato gli ovociti di una trentina di donne con questo specifico obiettivo, soprattutto straniere. Ma per dare un parametro di riferimento, trattiamo circa tremila pazienti l'anno», spiega Andrea Borini, presidente della Società italiana di preservazione della fertilità.
Non c'è ancora esperienza di gravidanze da scongelamento per social freezing, ma si considerano affidabili i risultati certificati con la fecondazione assistita. Nel 2009 i centri che hanno crioconservato le uova, con congelamento lento o vitrificazione, sono stati 121. Quelli autorizzati, cioè iscritti nel registro nazionale della Procreazione medicalmente assistita (Pma), sono 201. «Segnalo questa possibilità a tutte le mie pazienti», racconta Alessandra Graziottin, ginecologa e oncologa. Lei mette in evidenza l'anomalia, così pure il professor Levi Setti, per cui non è ancora prassi informare le donne che stanno per sottoporsi a un ciclo di chemioterapia dell'opportunità di mettere da parte un «tesoretto» di gameti femminili. Prosegue: «La verità è che andrebbe raccomandato anche alle fumatrici; a chi ha avuto cisti ovariche; ha in famiglia precedenti di menopausa precoce; già in partenza fa i conti con un'ovulazione più debole».
L'età, però, deve essere quella giusta. L'ideale è sotto i 35 anni. Racconta Eleonora Porcu, responsabile del servizio di infertilità e Pma del Policlinico Sant'Orsola di Bologna: «Dissuado chi viene da me a 43-45 anni. Gli ovociti dopo i 35 anni hanno chance limitate. E non si tratta comunque di una passeggiata: non è come mettere da parte una ciocca di capelli. Bisogna sottoporsi a un trattamento ormonale, che può avere effetti collaterali; c'è un intervento chirurgico, che per quanto poco invasivo necessita comunque di anestesia». Per lei la deriva statunitense del social freezing è una sconfitta: «L'ennesimo adeguamento a ritmi biologici maschili. Non mi sorprende che la spinta arrivi da New York, metropoli dove c'è una feroce rincorsa degli obiettivi e la scelta di posticipare la maternità serve solo a conquistare un piccolo posto al sole in una realtà maschilista e maschile. Altra cosa è congelare gli ovociti nelle donne col cancro, che con questa tecnica hanno già cominciato ad avere bambini nel mio centro Pma. Ma per le sane, confinare in laboratorio la dimensione procreativa, come evento artificialmente riprodotto rispetto alla naturalità, è una evoluzione del costume che non so se valga la pena di incentivare senza inquietudine».
Resta un pensiero, legato all'unicità del momento in cui nasce una cellula uovo (o uno spermatozoo): la musica di quel giorno, il premier al governo, lo stato d'animo, la qualità delle nostre relazioni, il film visto la sera prima. Possiamo davvero «congelare» tutto questo e «sbrinarlo» a distanza di anni per l'inseminazione con uno sperma che ha un'età biologica differente?

«Ma se quell’appunto è così irrilevante, perché non è stato cestinato prima dal cardinale Castrillon-Hoyos e poi dalla Segreteria di Stato?»
l’Unità 11.2.12
Complotto sul Papa «Appunto irrilevante»
Il Vaticano derubrica a «farneticazioni» che non vanno prese sul serio il documento pubblicato ieri dal Fatto quotidiano
di Roberto Monteforte


Quando si fa cadere un vaso è sbagliato cercare di prenderlo al volo, si fa più danno. Occorre aspettare che cada e poi con pazienza mettere assieme i cocci e ricostruirlo». Una massima usata qualche anno fa dall’allora Nunzio apostolico in Italia, monsignor Paolo Romeo per spiegare con quanta pazienza occorra operare per dipanare le intricate situazioni interne alla Chiesa. Ora dovrà farvi appello, e non solo lui, per affrontare la tempesta che lo ha investito per quell’«appunto» scritto in tedesco, reso noto dal Fatto quotidiano, che il cardinale colombiano Castrillon-Hoyos ha trasmesso alla segreteria di Stato e al pontefice che lo accusa di aver annunciato la morte di Papa Ratzinger entro la fine di quest’anno. Lo avrebbe affermato insieme ad altre considerazioni sulla vita interna della Santa Sede durante una cena tenutasi lo scorso novembre a Pechino. Dando l’impressione ai suoi commensali di essere a conoscenza di un complotto per eliminare il pontefice. Avrebbe parlato anche di altro, dei pessimi rapporti tra il pontefice e il suo segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone. Di un Benedetto XVI impegnato a favorire come suo successore di neo arcivescovo di Milano, cardinale Angelo Scola. Tra l’altro,nella sua conversazione il cardinale Romeo si sarebbe presentato come uno dei consiglieri più ascoltati dal pontefice. Chiacchiere che lo scorso 30 dicembre sono finite in un «report» redatto in tedesco che il porporato colombiano ha trasmesso ai Sacri Palazzi.
In Vaticano non si smentisce l’esistenza della «nota», ma la sua attendibilità. «È evidente che si tratta di farneticazioni che non vanno prese in alcun modo sul serio e che non sono state prese in alcun modo sul serio» taglia corto il direttore della Sala Stampa vaticana, padre Lombardi. Non commenta Castrillon-Hoyos. Dalla curia di Palermo arriva una puntualizzazione del cardinale Romeo. Conferma il suo breve soggiorno «privato» a Pechino avvenuto a metà novembre, di cui si aveva informato i «competenti uffici della Santa Sede». Ma su quanto Il Fatto Quotidiano gli attribuisce, citando il «report», la nota è categorica: «È del tutto privo di ogni fondamento e appare tanto fuori dalla realtà da non dovere essere preso in alcuna considerazione».
Ma se quell’appunto è così irrilevante, perché non è stato cestinato prima dal cardinale Castrillon-Hoyos e poi dalla Segreteria di Stato? Si voleva screditare l’arcivescovo di Palermo? L’aver fatto arrivare ai giornali quello «scritto insignificante», non mostra forse quanto sia pesante l’aria che si respira Oltretevere?

il Fatto 11.2.12
“Omicidi e congiure La lotta per il potere è sempre aperta”
Il professor Rusconi racconta: “La guerra perenne per il papato”
di Stefano Caselli


Il Conclave? È sempre in marcia. Chi mira a diventare papa, per un motivo o per l’altro, agisce continuamente dietro le quinte. E poi è altamente probabile che il prossimo Conclave non sia troppo lontano, non dico per l’età avanzata di Benedetto XVI, ma per la sua volontà – di cui non ha mai fatto mistero – di volersi prima o poi dimettere. Ecco perché prenderei con le molle la tesi del ‘complotto’ contro Ratzinger”. È l’opinione di Roberto Rusconi, docente di storia del Cristianesimo all’Università di Roma Tre.
Professor Rusconi, il documento pubblicato dal “Fatto Quotidiano” ieri sul presunto complotto per uccidere papa Ratzinger riporta in auge un antico topos, quello della congiura dei Palazzi vaticani. È così?
Il tema della congiura, come in qualsiasi sistema altro di potere, è risalente nei secoli, ma quello dell’attentato in senso stretto nasce con i papi contemporanei. L’attentato a Giovanni Paolo II del 13 maggio 1981 in piazza San Pietro, infatti, ha un precedente con Paolo VI, che fu accoltellato a Manila nel 1970. Uno squilibrato lo ferì colpendolo con una lama a tre centimetri dal cuore e fu il cardinale Marcinkus a bloccare l’aggressore. L’evento fu fatto passare il più possibile sotto silenzio, cosa che ovviamente non fu possibile quando Alì Agca sparò a Karol Wojtyla. Giovanni Paolo II, poi, rischiò qualcosa anche a Fatima, esattamente un anno dopo piazza San Pietro, nel maggio 1982, quando un prete spagnolo ultraconservatore, che lo accusava di essere un “agente di Mosca”, tentò di colpirlo con una baionetta. E poi non dimentichiamo che i nazisti minacciarono di deportare Pio XII durante la Seconda guerra mondiale.
Più indietro nei secoli?
Citerei il caso di Clemente XVI, il papa che soppresse la Compagnia di Gesù. Quando morì, nel 1774, si disse che la sua salma non poté essere esposta al pubblico perché avrebbe svelato i segni di una morte violenta per avvelenamento, probabilmente legata proprio alla sua azione contro i gesuiti. Come altro esempio di attentato alla persona del papa possiamo citare lo “Schiaffo di Anagni” della notte del 7 settembre 1303, quando emissari del re di Francia Filippo IV Il Bello, occuparono la residenza papale e sequestrarono Bonifacio VIII, intimando al pontefice il ritiro della bolla scomunica ai danni del sovrano francese. Bonifacio VIII morirà soltanto un mese dopo. Se poi andiamo ancora indietro nel tempo, nel medioevo per esempio, beh, lì non andavano certo per il sottile. Viene in mente il primo caso della storia di omicidio di un papa, quello di Giovanni VIII, ucciso il 16 dicembre 882, a Roma, per motivi – pare – non esattamente spirituali. E poi, nel 964, l’omicidio di Giovanni XII, ma a quel tempo era già stato deposto.
Vedo che ha accuratamente evitato di citare Giovanni Paolo I…
Ricordo che mia moglie, appena seppe della sua morte esclamò: “Lo hanno ucciso”. E chissà quanti italiani lo hanno pensato e lo pensano tuttora. Certo, la morte del predecessore di Karol Wojtyla tolse di mezzo un grande ostacolo per certi ambienti, ma non dimentichiamo che la carriera ecclesiale di Albino Luciani fu da sempre caratterizzata e anche ostacolata da ricorrenti problemi di salute. È possibile che i cumuli di responsabilità e di potere – che sono pesantissimi – che investono un papa le abbiano aggravate. L’unica cosa certa, tuttavia, è che sul caso c’è tanta cattiva letteratura.
Il concetto di regicidio rimanda a poteri assoluti, è forse per questo che i papi continuano a essere soggetti a pericoli di complotto anche mortali?
Certo. Il capo della Chiesa Cattolica è rimasto l’unico sovrano assoluto in terra. C’è chi tenta di negarlo, ma di fatto è e rimane l’unica fonte del diritto della Chiesa. Il tema del complotto, comunque, è legato alla preminente posizione di potere che ancora oggi ha il papato.
Quali – e quanti – riflessi possono avere, nella realtà italiana, gli intrighi di palazzo in Vaticano?
Ci sono diversi livelli, diciamo così, di intersezione. Il Vaticano è anche fisicamente un mondo a sé. Entrarci non è facile, ma se si ha la fortuna di varcare la soglia dei palazzi si ha davvero la sensazione di essere catapultati in un’altra galassia. Le lotte di potere, principalmente, rispondono a logiche interne e su tutto prevale sempre la salvaguardia dell’istituzione. Basta vedere com’è stato affrontato lo scandalo pedofilia: il problema principale è sempre stato tutelare la Chiesa, non le vittime. Ma nel rapporto con l’Italia c’è un bubbone grosso come una casa che non è per nulla di un altro mondo: si chiama Ior, un crocevia di interessi insanabili che non si risolve.

La Stampa 11.2.12
I cattolici spaventano Obama. Dietrofront sui contraccettivi
Sanità, la Casa Bianca teme per le elezioni e cambia la legge
La svolta Obama annuncia alla stampa la decisione di rivedere la norma che obbliga i datori di lavoro a fornire gratis contraccettivi ai dipendenti
di Paolo Mastolilli


Marcia indietro del presidente Obama sul tema della contraccezione, che rischiava di alienargli il voto cattolico in vista delle elezioni di novembre. La Casa Bianca preferisce definire l’annuncio fatto ieri come un «accomodamento», più che un compromesso. Nella sostanza, però, l’amministrazione ha deciso di aggiustare la propria linea, dopo le dure reazioni dei vescovi cattolici, che si erano mobilitati contro la decisione del ministero della Santità di obbligare tutti i datori di lavoro a fornire gratis i contraccettivi alle proprie dipendenti.
La nuova policy era stata annunciata il 20 gennaio scorso dal segretario per gli Health and Human Services, Kathleen Sebelius. L’obiettivo era garantire che tutte le donne avessero accesso gratuito alle pratiche anticoncezionali, attraverso le assicurazioni sanitarie pagate dai loro datori di lavoro. Poi ogni persona avrebbe avuto l’opzione di decidere se usufruire di questa possibilità o no. Subito dopo l’annuncio, però, è scoppiata la polemica. Il problema era che la decisione della Sebelius escludeva le chiese dall’obbligo di fornire i contraccettivi, per motivi di coscienza, ma non esentava le organizzazioni con affiliazioni religiose. Quindi ospedali, università, istituzioni cattoliche della carità avrebbero dovuto obbedire, violando i propri principi sulla protezione della vita. La dottrina cattolica, infatti, concepisce l’atto sessuale all’interno del matrimonio finalizzato alla riproduzione, e considera i contraccettivi come un ostacolo dell’uomo ai piani di Dio.
La Casa Bianca sapeva che andava incontro a questo problema, e nei mesi scorsi c’erano state intense discussioni nell’amministrazione su come procedere. Joe Biden, primo vicepresidente cattolico degli Usa, e Bill Daley, capo dello staff della Casa Bianca anche lui cattolico, avevano cercato di convincere Obama ad ammorbidire la posizione, organizzando un incontro tra lui e l’arcivescovo di New York Dolan. La loro preoccupazione era alienare il voto cattolico, che rappresenta un gruppo fondamentale. Questi fedeli sono circa 70 milioni in America, e vengono considerati «swing voters» chiave, ossia elettori moderati di centro che cambiano posizione di volta in volta in base a quale candidato li convince di più. Nel 2008 avevano votato in maggioranza per Obama, perché erano stati influenzati più dall’idea del cambiamento, che non dai richiami della gerarchia a favorire i politici obbedienti alla dottrina della Chiesa sui temi della vita.
La componente femminile dell’amministrazione ha avuto la meglio, e il presidente ha sottoscritto la decisione della Sebelius. La loro teoria era che fosse più importante soddisfare le attese della base femminista del Partito democratico, piuttosto che andare incontro ai cattolici più conservatori, che comunque non avrebbero votato per Obama. La tempesta scoppiata dopo la decisione, però, ha dimostrato che questa scommessa era sbagliata. I vescovi hanno attaccato l’amministrazione e i candidati repubblicani alla Casa Bianca hanno accusato il presidente di violare la libertà di religione. Obama ha capito che rischiava una battaglia in cui avrebbe perso il sostegno potenzialmente decisivo dei cattolici moderati, e ieri ha fatto marcia indietro. Ora le organizzazioni religiose non avranno più l’obbligo di pagare i contraccettivi, ma le loro dipendenti che li vorranno potranno ottenerli direttamente dalle compagnie assicurative. Il presidente ha giustificato «l’accomodamento» con la necessità di conciliare i diritti delle donne con la libertà religiosa. Il suo compromesso probabilmente non basterà a soddisfare i vescovi, ma dovrebbe depotenziare lo scontro in vista delle elezioni.

La Stampa 11.2.12
L’azione è stata rivendicata da Anonymous
Gli hacker mandano in tilt il sito della Cia


Ieri sera il sito internet dell’agenzia americana di intelligence, la Cia, è stato bloccato e il gruppo di pirati informatici Anonymous rivendica di averlo attaccato. «Cia tango down», ha annunciato un membro di Anonymous sul profilo twitter YourAnonNews. «Tango down», nel gergo militare delle forze speciali, significa che un nemico è stato abbattuto. Il mese scorso Anonymous aveva disattivato per breve tempo i siti del ministero Usa della Giustizia e della polizia federale (Fbi), come rappresaglia dopo la chiusura del sito di download di musica e film MegaUpload, accusato di pirateria informatica.

Corriere della Sera 11.2.12
Khalifa: «Scrittori, denunciate le stragi»


Il siriano Khaled Khalifa, conosciuto in Italia per il suo romanzo l'Elogio dell'odio, ha rivolto un appello agli uomini di cultura affinché denuncino il dramma che il suo popolo sta vivendo. «Carissimi amici, scrittori e giornalisti di tutto il mondo, specialmente quelli che vivono in Cina e in Russia, vi scrivo per informarvi — si legge nel testo — che il mio popolo sta subendo un genocidio. Una settimana fa le forze del regime siriano hanno attaccato le città ribelli, specialmente Homs, Zabadani, i sobborghi di Damasco, Rastan, Madaya, Wadu Barada, Figeh, Idlib e i villaggi di Jabal Al Zawiya. Almeno mille martiri sono caduti, molti di cui bambini, e centinaia di case sono state distrutte sopra la testa dei loro abitanti. (...)
L'aiuto della Russia, della Cina e dell'Iran, insieme al silenzio del mondo di fronte ai crimini commessi alla luce del sole, ha permesso al regime di uccidere la mia gente negli ultimi undici mesi. Ma nell'ultima settimana, dal 2 febbraio in poi, i segni del massacro sono diventati ancora più evidenti. (...). Non posso dire altro in un momento così difficile, ma spero che agirete in solidarietà con il mio popolo. So che scrivere è poca cosa di fronte ai cannoni, ai carri armati, ai missili russi che stanno colpendo le nostre città e i nostri civili ma non voglio che il vostro silenzio vi renda complici dell'assassinio della mia gente».

Corriere della Sera 11.2.12
Quella Madonna islamica ci ricorda l’individuo perduto in ogni massacro
di Mauro Covacich


Nella furia insaziabile della guerra ci sono persone che muoiono, dappertutto, in continuazione. Esseri umani che cadono dalla rupe della nostra consolidata e forse inevitabile indifferenza precipitando nel vuoto, dimenticati per sempre. Veniamo aggiornati in tempo reale sul numero delle vittime di ogni conflitto. Sappiamo dei morti quotidiani in Siria, e anche sugli insorti dello Yemen, volendo cercarle, le notizie non mancano. Poi però arriva la fotografia, la massa indistinta della materia umana si ritira sullo sfondo e appare l'uomo, quest'uomo. Il suo corpo è raccolto nel grembo di una donna in chador. Importa poco che sia la madre, la zia o la sorella: difficile non pensare a un Cristo appena deposto dalla croce, a una pietà islamica. L'uomo è stato ferito durante le proteste contro il presidente Saleh il 15 ottobre scorso, ha la bocca aperta in cerca d'aria, il volto seminascosto nella stretta della donna, una scritta — forse il suo nome — che taglia di traverso l'avambraccio. Entrambi hanno le braccia infilate nei manici della borsa di lei. Una busta di plastica a scacchi, i cosiddetti effetti personali. Lui ce la farà, eppure dal modo in cui la donna lo stringe al petto cogliamo d'un tratto una cosa che avevamo sempre avuto sotto gli occhi, vediamo ciò che stavamo guardando: a morire è sempre un individuo, un uomo con nome e cognome, fatto della sua storia unica e irripetibile. Quando veniamo informati sulle cifre della battaglia di oggi dobbiamo ricordare che perdiamo lui, quest'uomo. Dobbiamo ricordare il dolore di questa madre di Gesù uscita dal Corano. Dobbiamo immaginare una fotografia così per ognuna delle voci dell'enciclopedia dei morti.

l’Unità 11.2.12
La fabbrica della paura. Media e immigrazione
di Flore Murard Yovanovitch


E se la paura nascesse dalle parole? Se alla base dei nostri timori ci fosse proprio l’uso di termini come “vu cumprà” e “clandestino” o la scelta di raccontare l’immigrazione in modo bellico, come “invasione” e “assedio”? È un dubbio inquietante ma che vale la pena di affrontare come ha fatto Giulio Di Luzio, giornalista e collaboratore del Corriere del Mezzogiorno, nel suo ultimo saggio «Brutti, sporchi e cattivi. L’inganno mediatico sull’immigrazione» (Ediesse editore, 2011, pp. 179, euro 10,00).
Dall’analisi dei titoli dei quotidiani e dei Tg degli ultimi anni emerge il contributo della stampa al clima italiano di sospetto e di xenofobia verso lo straniero. I casi sono tanti: la demonizzazione, venata di retorica anti-islamica, di Marzouk, il tunisino di Erba, l’accanimento dei cronisti contro Patrick Lumumba nel caso Meredith, o ancora la caccia al rumeno dopo lo stupro della Caffarella. Tutti esempi in cui lo straniero, innocente, viene additato come colpevole. Ma i casi di parossistico razzismo mediatico sono numerosi: dall’omicidio Reggiani al truce racconto di Rosarno.
Il copione è sempre lo stesso: un ossessivo ritornello sulle origini etniche con la persona che viene ridotta a “nigeriano”, “rumeno” o “slavo”, anche se il riferimento e del tutto ininfluente alla conoscenza dei fatti; l’uso di caricature e clichés negativi; l’infondata equazione tra immigrazione e criminalità. L’ostilità dei media è variabile: albanesi ieri, rumeni oggi, meridionali negli anni Sessanta. Il risultato è lo stesso: costruire uno pseudo soggetto ostile, pronto a commettere reati o ad uccidere. Fantasticare il mostro di un “altro”.
Sui Rom, invece, si catalizza da sempre ogni stereotipo, persino menzogne, su un loro presunto “nomadismo” o “propensione a delinquere”. Una vera e propria campagna discriminatoria, derivata dalle politiche securitarie.
Parlare solo di “emergenza sbarchi” e di “clandestini”, invece di interrogarsi sulle ragioni delle migrazioni non è neutrale. Scarse sono le inchieste sui lavoratori immigrati regolari (la grande maggioranza), nelle fabbriche e nelle scuole e sulle loro culture. E gli stessi migranti raramente vengono utilizzati come “fonti”. Il risultato è un racconto distorto che nega l’oggetto stesso di cui si sta parlando.
I rischi li conosciamo. Le parole sono armi, si radicano nelle menti, lentamente, deformano la visione dell’altro. Non a caso il protocollo deontologico per giornalisti “Carta di Roma” invita a bandire il lessico xenofobo e ad usare termini appropriati. Per scovare e combattere il razzismo che si nasconde proprio lì, nelle parole che usiamo.

Corriere della Sera 11.2.12
Non usa mai il congiuntivo. Devo insistere o lascio correre?
di Federica Mormando, psicoterapeuta


Da un bel po' di tempo, il congiuntivo è quasi sempre sostituito dall'indicativo e il condizionale è fantasma. Per capire l'importanza di questi modi verbali bisogna ricordare che ognuno nasce da un'immagine della mente, e ne suscita una. Il congiuntivo indica una possibilità: usarlo (bene) vuole dire distinguere tra ipotesi e realtà, fantasia e concretezza. Con esso si dà forma a emozioni che colorano il pensiero, il modo di comprendere e inventare la realtà. Senza il congiuntivo, ci si limita a un «reale» perlopiù contemporaneo, ma anche futuro, come se il futuro non avesse sorprese, fosse solo un presente un po' più in là. «Sono contenta che tu sia qui». Ci sei e sono contenta. Avresti potuto non esserci. Tu o il destino avete scelto che tu sia qui. «Sono contenta che sei qui»: ci sei, e basta. Quanto al condizionale, indica un evento che può succedere soltanto se si verifichino determinate condizioni. Possederlo significa avere introiettato la relazione causa-effetto: «Se passassi l'esame, andrei in vacanza». È tutto sospeso all'incerto del passar l'esame. «Andrò se passerò l'esame»: è lo stesso concetto, ma appiattito. Manca il dubbio, l'ansia. La struttura profonda del linguaggio, logica e astratta, s'impoverisce a favore dell'esperienza diretta. Sostituito dall'indicativo sta sparendo anche il passato remoto, che indica avvenimenti compiuti, lontani nel tempo. È il fondamento della storia; la sua assenza attualizza tutto, togliendo la prospettiva temporale, rendendo difficile la comprensione delle cause. L'indicativo è più coinvolgente, perché attualizza, ma distoglie dall'esame obiettivo, dalla riflessione emotivamente distaccata. Anche l'uso dei sinonimi è sempre più limitato. Peccato, perché usare le gradazioni dei vocaboli vuole dire esprimere bene, senza ferire la fantasia, quell'antidoto alla noia che si nutre delle differenze.

Corriere della Sera 11.2.12
Perché Stalin disse a Togliatti di collaborare con Badoglio
risponde Sergio Romano


Mentre leggevo la risposta con cui lei commentava alcune parole di Alcide De Gasperi su Iosif Stalin (Corriere, 26 gennaio), mi
è tornato alla mente un incontro fra il leader sovietico e Palmiro Togliatti al Cremlino durante il quale il primo disse al secondo che dopo la fine della guerra non avrebbe ricevuto alcun sostegno da Mosca nella sua lotta per portare al potere il comunismo in Italia. Stalin avrebbe spiegato a Togliatti che dopo la fine del secondo conflitto mondiale l'Italia sarebbe stata assegnata al controllo angloamericano.
È così?
Berto Binelli

Caro Binelli,
L a sua versione dell'incontro è il risultato di una vecchia leggenda, dura a morire, secondo cui i tre grandi (Churchill, Roosevelt e Stalin), riuniti a Yalta nel febbraio del 1945, avrebbero diviso l'Europa in zone d'influenza e assegnato l'Italia al blocco occidentale. Non è vero, ma questa versione della conferenza tripartita ha un grande merito: quello di compiacere tutti coloro che si ostinano a vedere nella storia la trama dei grandi complotti e la mano invisibile dei «poteri forti». Nella realtà le cose andarono molto diversamente.
Come hanno raccontato Elena Aga Rossi e Viktor Zaslavsky in un libro del 1998 edito dal Mulino di Bologna («Il Pci e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca»), l'incontro fra Stalin e Togliatti ebbe luogo al Cremlino durante la notte del 4 marzo 1944. Nelle settimane precedenti l'uomo politico italiano si era pronunciato contro la partecipazione dei comunisti al governo Badoglio. Stalin, invece, riteneva che la collaborazione fosse utile e dette ordine a Togliatti di esprimersi in questo senso non appena rientrato in Italia (sarebbe sbarcato a Napoli tre settimane dopo). Fu una scelta realistica. Dopo lo sbarco nel Sud e l'armistizio dell'8 settembre 1943, gli inglesi e gli americani avevano creato una Commissione alleata di controllo per gli affari italiani, ma avevano assegnato al rappresentante dell'Unione Sovietica un ruolo esclusivamente consultivo. Per aggirare l'ostacolo e mettere un piede nella penisola, i sovietici presero contemporaneamente due iniziative: accettarono di negoziare con il governo Badoglio la ripresa dei rapporti diplomatici e dettero ordine a Togliatti di annunciare quella che i giornalisti e gli storici avrebbero definito la «svolta di Salerno». Il 24 aprile 1944 fu costituto nella città campana un nuovo governo in cui due comunisti — Togliatti e Fausto Gullo — erano rispettivamente ministro senza portafoglio e ministro dell'Agricoltura.
Il libro di Aga Rossi e Zaslavsky non piacque a tutti coloro per cui la «svolta di Salerno» era la prova dell'autonomia di cui il Pci avrebbe sempre goduto nei suoi rapporti con Mosca. Dopo avere lungamente lavorato sulle carte degli archivi sovietici, gli autori hanno trovato molti documenti da cui emerge con chiarezza il rapporto di subordinazione che ha legato il palazzo di Botteghe Oscure all'ambasciata sovietica di via Gaeta. Perché il Pci conquistasse una maggiore autonomia (lo «strappo» a mio avviso non ci fu mai), fu necessario attendere altri eventi, dal rapporto di Kruscev al XXII congresso del Partito comunista dell'Unione Sovietica, alla crisi cecoslovacca del 1968 e all'invasione sovietica dell'Afghanistan nel dicembre del 1979.

Corriere della Sera 11.2.12
Se gli adolescenti sono messi di fronte all'irrazionalità
di Paolo Mereghetti


Due adolescenti di fronte all'irrazionale, ma anche due modi di fare cinema di fronte al non-senso del mondo. A moi seule (A me sola) di Frédéric Videau e Extremely Loud and Incredibly Close di Stephen Daldry (Molto forte incredibilmente vicino, dal romanzo di Jonathan Safran Foer) affrontano lo stesso tema da due punti di vista opposti. Il film francese (in concorso) si «limita» a registrare le paure di una ragazzina (Agathe Bonitzer) liberata dopo un sequestro di una decina d'anni: di fronte a un atto apparentemente non-razionale (il rapitore non ha chiesto un riscatto né ne ha abusato. E la memoria corre al caso di Natasha Kampusch), il regista-sceneggiatore lascia lo spettatore di fronte al medesimo silenzio della razionalità. Filma la paure della ragazza, la freddezza del sequestratore, i dubbi dei genitori, gli sforzi di una psichiatra, ma evita di offrire a chi guarda un qualsiasi elemento — analitico, sociale, culturale — che possa suggerire una spiegazione. Daldry invece, e prima di lui Safran Foer, affrontano lo stesso vuoto di senso mettendo un ragazzo (Thomas Horn) di fronte alla morte del padre l'11 settembre, ma inventando una specie di «ricerca del Graal» (che cosa apre la chiave che il padre teneva nascosta in un vasetto?) offrono allo spettatore il modo di appassionarsi e soprattutto di sperare in un qualche barlume di senso (perché così è per il piccolo protagonista, con cui si è portati a identificarsi). Da una parte l'autore europeo, che non vede più nel cinema una chiave per «capire» il mondo ma al massimo può registrarne la sua irrazionalità, e dall'altra Hollywood, con il suo bisogno di «consolare» (più che di spiegare) e quindi la necessità di «chiudere» le storie che racconta. Trovando un senso a tutto.

La Stampa TuttoLibri 11.2.12
La lettera inedita all’amico Beckwitt
“Le donne mi fanno paura come il Diavolo”
di Jack Kerouac


Problemi di salute, di alcol, di relazioni con le donne, la voglia di fuggire da New York: nel 1962 Kerouac si sfoga in tre pagine con l’amico Jacques Beckwith. La lettera uscirà sul prossimo numero «Satisfiction», il bimestrale specializzato in inediti, distribuito gratuitamente in 300mila copie nelle librerie.

Caro Jacques, non sono scomparso «senza tanti complimenti». Ero ad Hicksville L. I., vicino l'aeroporto di Idlewild, (a casa del mio avvocato), e ho preso il primo volo che sono riuscito a trovare, perché continuavo a tossire di una tosse soffocante come se avessi la tubercolosi. Ed ero sicuro che il sole della Florida in una settimana avrebbe messo a tacere la tosse. Mi senti mai tossire a New York? (Perlopiù è insonnia per 7 notti consecutive, quindi questione di fumo e nervi) (E comunque, la bronchite aveva messo radici). Ho avuto davvero paura di finire in qualche ospedale di New York.
E tornare a Manhattan da L. I. e ricominciare a bere con Gregory, o con il povero Hugo.
Non sono arrabbiato con te, Jacques, amico mio. Con Lois sì, senza nessuna ragione in realtà, perché lei ha sempre avuto altri uomini. Ma lei, a me, mi ha avuto per la prima volta, per quello che intendo dire, perché questo fottuto coglione psicolabile è andato perso per lei. Ma non sono nemmeno arrabbiato con Lois, in fondo, perché tutte le volte che ho avuto l'occasione di fare l'amore con lei mi sono deliberatamente ubriacato, perché non credo più nel Sangsara, come non ci credevo già quando ci siamo incontrati per la prima volta e lei mi ha inseguito per mesi per fare l'amore con me e io non volevo mai. Sangsara è lavoro per Mara il Tentatore, e io non ho più intenzione di lasciarmi tentare così facilmente. Io nel cuore sono un prete, anche se tiro fuori un «animo» fanfarone e deciso quando sto bene da sbronzo. Io non sono un «duro», solo un imbecille dal cuore tenero, e Lois e Janet e tutte le altre ragazze mi spaventano fin nel profondo (Dodie non mi ha mai spaventato neanche la metà di così!): mi spaventano per la loro affascinante bellezza da serpenti. Cosa vogliono? Qualcosa di me? Se non hanno intenzione di darmi neanche un pezzo di culo perché sono un monaco chiassoso, distratto e ubriacone, perché vogliono vedermi?
Mi fanno paura come il Diavolo. Le loro intenzioni non sono degne di rispetto. Inoltre mi rendo conto che le donne non mi piacciono e non mi sono mai piaciute: mi piacciono solo i loro corpi per fare sesso, ma penso che le donne siano il male assoluto per la loro freddezza nel trattare gli uomini, causando loro un dolore ingovernabile.
Lasciamo che il Diavolo si riprenda Eva.

La Stampa TuttoLibri 11.2.12
Senza progetti ma con braccio teso
L’ascesa di Hitler negli Anni Trenta tra le nuvole fotografate da Hoffman
di Marco Belpoliti


Henri Lefebvre HITLER AL POTERE. CINQUE ANNI DI NAZISMO IN GERMANIA Medusa, pp. 93, € 10

Adolf Hitler saluta con il braccio teso. La foto è presa dal basso; l'ha scattata Heirich Hoffman, il fotografo personale del Führer. Siamo a Norimberga, intorno al 1936, durante le adunate del partito nazista. Il volto del capo è concentrato, serio, duro. Il braccio sinistro, disteso in avanti, è in ombra e sembra quasi staccarsi dal corpo. Il punctum della foto è la mano destra che stringe il cinturone, un gesto maschile, una presa e insieme una forma di incertezza: dove mettere la destra mentre la sinistra si tende nel «Heil Hitler»? La foto è stata tagliata per inserirla sulla copertina del libro di Henri Lefebvre, il sociologo francese: Hitler al potere. Cinque anni di nazismo in Germania (a cura di C. Casalini.
La grafica è costruita intorno a quattro strisce orizzontali: nome dell'autore in altro; immagine; titolo; nome della collana: La zattera; l'editore è sulla destra, in azzurro. Il carattere è uno dei vari typewrite che imitano i caratteri delle macchine per scrivere. Fornisce all'insieme un senso di attualità: appena scritto. L'immagine colpisce proprio per via dell'inquadratura e per le nuvole che scorrono dietro le spalle del Führer, che danno all'intero scatto un che di ieratico, e insieme d'inquietante.
Si tratta di un libro di un' attualità straordinaria, scritto più di settanta anni fa dallo studioso francese. In modo lucidissimo Lefebvre spiega nel 1938 cosa è la Germania nazista, come Hitler abbia conquistato il potere e chi sia davvero questo demagogo che sta per portare l'Europa verso una guerra disastrosa. C'è tutto, in modo lucido, scritto con chiarezza e profondità di visione. Hitler è un manichino: non ha idee, le cambia di continuo.
Non ha linea politica, non ha progetti. Uno solo: il Reich tedesco con lui a capo. Per farlo non esista a usare tutti i mezzi. L'aiuta il capitale finanziario, coloro che sono di fatto falliti e che ora cercano di usare il denaro dello Stato tedesco per sanare i propri debiti: banche e finanzieri. Come nell'immagine di copertina, Hitler è un Messia: la sua forza è la fiducia illimitata in se stesso. Ma è anche un personaggio sull' orlo del ridicolo (Chaplin l'aveva ben compreso), come indica quella mano sul cinturone. Il Messia ha prevalso sul Clown. E sappiamo com'è andata a finire dopo quell'anno, il 1938. Ricordarcelo non è inutile.

La Stampa TuttoLibri 11.2.12
Libertini /1
Un’antologia raccoglie testi, idee avventure di letterati tra XVII e XVIII secolo
Dai nei delle donne è nato l’Illuminismo
di Giovanni Bogliolo


Alberto Beniscelli (a cura di) LIBERTINI ITALIANI. LETTERATURA E IDEE TRA XVII E XVIII SECOLO BUR Rizzoli, p. XLI-911, 16,90
Il volume riscatta una fitta schiera di poligrafi e libellisti sempre relegati tra i minori Si occupavano di fede metafisica, o alchimia ma anche di temi più futili, come l’amore i piaceri, o la bruttezza

Se non fosse per il sottotitolo - «Letteratura e idee tra XVII e XVIII secolo» - il titolo della corposa e gustosa antologia costruita e riccamente annotata da Alberto Beniscelli - Libertini italiani - resterebbe, oltre che ambiguo, oscuro. Ambiguo, perché nell’uso corrente il termine «libertino» accomuna filosofi, eruditi e pensatori che, sfidando dogmi e poteri costituiti, hanno professato il loro libero pensiero alla colorita legione dei tanti estrosi personaggi che hanno praticato e celebrato soprattutto la libertà dei costumi sessuali. Oscuro, perché anche chi ha fatto buone scuole non ricorda di avere mai trovato questa etichetta né nei manuali di letteratura italiana né in quelli di filosofia e si sorprenderà non poco nello scoprire che essa non solo si attaglia perfettamente a scrittori e pensatori ben noti ed eterogenei come Bruno, Campanella, Giannone o Casti, ma riscatta anche la folta schiera di coloro che le storie letterarie definiscono «poligrafi», «mestieranti», «libellisti», «avventurieri della penna» e relegano, spesso limitandosi a citarne il nome, tra i minori e i minimi.
Omissione inspiegabile e anche un pochino sospetta, dal momento che il libertinismo francese, questo sì da tempo riconosciuto come uno dei fermenti che animano e rendono tutt’altro che monolitico il Grand Siècle creandovi le premesse dell’Illuminismo, ha sempre esplicitamente rivendicato le sue origini italiane, Machiavelli, Campanella, Cardano e soprattutto l’averroismo della scuola padovana di Pomponazzi e poi di Cremonini, che Peiresc aveva visitato e Naudé frequentato. Gli alunni italiani di quella e di altre scuole in cui circolava un aristotelismo eterodosso, anziché costituire una solida rete di rapporti come quella che aveva consentito agli omologhi francesi di dar vita, pur con molte precauzioni, a quelle che Naudé chiamava delle débauches philosophiques, si sono dispersi, cercando di passare inosservati, fuggendo come l’irrequieto frate Giulio Cesare Vanini che sarebbe finito sul rogo a Tolosa o usando, «in apparente contraddizione, lo schermo della trattatistica sull’anima per poter dire la loro».
Beniscelli li va a scovare in questa loro diaspora e dietro i loro camuffamenti e dal mare magno delle loro opere di poligrafi troppo spesso debordanti estrae con acume e pazienza le pagine più sapide e rivelatrici, collocandole con sicura dottrina nella precisa intersezione tra le diverse tensioni filosofiche e scientifiche che si sono susseguite nel corso dei due secoli e organizzando l’eterogenea e spesso scottante materia per temi, periodi e generi. Si spazia così dalla metafisica all’astrologia, dalla medicina alla religione, dalla politica all’alchimia, dalla storia alla fisiognomica. I temi più profondi e pericolosi - l’anima, la cosmologia, la natura dell’uomo si alternano con quelli solo in apparenza più futili: i nei, i mostri, la bruttezza, le donne, il niente, le forme e i gradi dell’amore. E alle memorie drammatiche delle vittime dell’Inquisizione - Cardano, Sarpi, Campanella, Bruno, Ferrante Pallavicino - fanno riscontro quelle avventurose di Casanova e di Lorenzo Da Ponte, le satire di Salvator Rosa, gli apologhi dissacratori di Francesco Fulvio Frugoni, le novelle sugli eccessi erotici delle giovani monache e delle antiche matrone, l’edonismo salottiero dell’abate Conti e di Francesco Algarotti, i versi licenziosi del Casti e perfino di Vincenzo Monti, ispirato traduttore della Pulzella d’Orléans di Voltaire.

La Stampa TuttoLibri 11.2.12
Libertini /2
Casanova, De Sade & C., i sapori sensuali tra le lenzuola
Ostriche e punch, questo è Eros
di Elena Loewenthal

Serge Safran L'AMORE GOLOSO. LIBERTINA-GGIO GASTRONOMICO pNEL XVIII SECOLO traduzione di Angelo Mainardi  Le Lettere, pp. 181, 18
«L’amore goloso»: nella sapide letture di Serge Safran inedite combinazioni tra cibo e corpo La raffinata capacità di mobilitare tutti i sensi, di amoreggiare con gli istinti, la fantasia, la mente, la curiosità

Saremo anche l'era della rivoluzione sessuale. Anzi, la rivoluzione ce la siamo lasciata alle spalle: ormai si trasgredisce con l'astinenza, altro che con l'uso - e l'abuso. Però basta poco per constatare quanto abbiamo ancora da imparare. Siamo dei nani sulle spalle dei giganti, e non solo quando si tratta di epica, poesia, arte. Sembra incredibile, ma a dispetto della nostra fiera ostentazione, in fatto di sesso siamo dei pivelli, noi dell'era che viene dopo aver buttato reggiseni e ben altro all'aria.
Serge Safran butta un occhio sul XVIII secolo che non a caso è l'epoca del libertinismo, e ci spiega che i nostri avi imparruccati la sapevano molto lunga. Molto. Il suo saggio L'amore goloso è infatti una divertente, quasi bulimica carrellata di episodi e descrizioni dedicata al «libertinaggio gastronomico» di quel secolo d'oro, almeno sotto questo particolare punto di vista. Sia chiaro, per «libertinaggio gastronomico» non s'intende l'arbitrio di mettere la margarina al posto del burro nella salsa olandese. Di ben altro si tratta… In altre parole, di quella magnetica ed enigmatica commistione che, da che mondo è mondo o quasi, lega il cibo e l'amore. Ma ancora una volta, non troverete in questo libro l'elogio del famoso bacio di cioccolato o la ricetta per un romantico budino. Perché l'amore dei libertini è tutt'altra cosa. E', infatti, l'esercizio di un'arte (pratica) amorosa con un miscuglio di intelletto, fantasia, perversione, esperienza, malizia e curiosità di fronte alla quale tanto le prodezze delle nostre pornostar quanto le elucubrazioni di un certo cinema d'essai fanno la figura di una lezione di educazione sessuale in una scuola primaria.
Naturalmente ci sono in questo libro giganti quali Casanova o il marchese de Sade. Ma ci sono soprattutto comparse e figuranti che fanno e descrivono il sesso con gioiosa libertà, fuori da ogni possibile schema. Il complice costante e fedele di tali avventure è il cibo, nelle sue più classiche manifestazioni afrodisiache e in inedite combinazioni con la carne dei corpi. «Preparato del punch ci divertimmo a mangiare ostriche scambiandole quando già le avevamo in bocca. Lei mi presentava sulla sua lingua la sua nello stesso momento in cui io le imboccavo la mia; non esiste gioco più lascivo, più voluttuoso tra due innamorati», scrive Casanova (e questo è niente, se non fosse che Ttl è in fascia protetta, gran parte del libro non è citabile se non sotto la dicitura VM).
Safran procede per ingredienti: dal cioccolato all'ostrica, dallo champagne al caffè. Ogni cibo ne porta con sé però degli altri, insieme a contesti conviviali, occasioni, divagazioni. Lo studioso abbonda di citazioni e attinge a una vasta bibliografia di testi più o meno noti che spaziano dalla novella Eloisa di Rousseau a «Margot la ravadeuse» (Margot la rammendatrice, una che ne combina di tutti i colori) di Fougeret de Monbron, dall'immancabile autobiografia di Casanova alle opere erotiche di Mirabeau. Insomma, non c'è che l'imbarazzo e il divertimento della scelta. Se non che, di fronte a queste sapide letture bisogna armarsi di umiltà e della consapevolezza che siamo tutti dei principianti. Non tanto in fatto di competenze anatomiche e dell'uso di tali competenze fra le lenzuola o a tavola, come si suggerisce qui. Quanto, piuttosto, nella capacità di mobilitare tutti i sensi, compreso quello dell'umorismo perché, come dice ancora il nostro Casanova, «il comico non guasta nulla, poiché le risa sono fatte soltanto per gli esseri felici». Di amoreggiare con gli istinti, la mente, la fantasia e la curiosità. Senza pudori ma anche senza accanimento di trasgressione. Per questa gaudente gente il cibo non è moda e nemmeno cultura, come piace tanto dire oggi, come se il cibo fosse un' astrazione. E' compagno di vita e di avventure, gemello di Eros in un gioco che non finisce mai e diverte sempre. Mentre noi dell' era post rivoluzione, facciamo così in fretta ad annoiarci, tanto dell'uno quanto dell'altro.

La Stampa TuttoLibri 11.2.12
Laicità. La visione forte di Levi Della Torre: Dio convitato a far memoria di alcune questioni essenziali
Il grande fantasma del non credente
di Gianandrea Piccioli


Stefano Levi Della Torre «Laicità, grazie a Dio» Einaudi pp. 113, 10
"La religione come grande metafora in un mondo in cui si è ormai incapaci di credere Un libretto destinato a irritare sia i portaborse di Dio sia chi fa del laicismo un rigido usbergo"

Ecco un libretto che irriterà sia chi si pretende portaborse di Dio, sia chi, paradossale Jeanne d'Arc della secolarizzazione, fa del laicismo un usbergo. In Laicità, grazie a Dio Stefano Levi Della Torre, pittore e studioso della tradizione ebraica, riprende e sistematizza (come può farlo un frequentatore del Talmùd, testo errabondo e plurale quant'altro mai) spunti accennati in precedenti interventi su un tema più che dibattuto ma trattato qui con sapienza e rispetto particolari.
L'autore parte da una visione «forte» della laicità, non limitata a metodo ma portatrice di valori specifici (tolleranza, interpretazione dello spessore storico alla luce dell'attualità piuttosto che di presupposti fondamenti originari, libertà di coscienza e di religione...). Su tale concezione si potrebbe obiettare. Più che contenuto la laicità è atteggiamento mentale (e morale), stile di pensiero: guardare con distacco le proprie convinzioni, non riconoscere dogmi, distinguere ambiti e competenze senza negare uno dei due termini, considerare senza pregiudizi anche le posizioni che ci paiono detestabili. La laicità è guida, quindi metodo, per un' onesta interpretazione del mondo, della storia e della cultura, e dovrebbe essere virtù di tutti, credenti e secolari. E non mi pare che l'autore la consideri poi di fatto altrimenti, anche nella sacrosanta polemica verso gli integrismi cattolici: «convertire al cristianesimo tanti cattolici italiani è uno dei compiti più ardui dell' evangelizzazione nel XXI secolo». Come non concordare? E altrettanto condivisibili sono i passi che analizzano l'abilità con cui la Chiesa istituzionale sa inserirsi nel «disfacimento dei soggetti sociali» e nella solitudine, frutto dell'ideologia liberista vigente, per soddisfare «il bisogno di sicurezza e di identità comune» con un'«appartenenza confessionale, gerarchica e prescrittiva». E di converso il confluire delle leghe verso un cattolicesimo come garante di «identità tradizionale e appartenenza gregaria, piuttosto che come fede e valori di fondo».
Può destare dissenso anche la trattazione del relativismo e del nichilismo, e quindi del problema della verità, in polemica con la cultura postmoderna. Forse qui Levi estremizza certe posizioni di Rorty declinando una sorta di relativismo amichevole: il «laico» cerca di fondare il vero sul reale, sapendo però che la realtà è sempre una costruzione sociale (chi ricorda più, in tempi di new realism, il fondamentale studio di P. Berger e N. Luckmann, La realtà come costruzione sociale ?). La verità dunque va costantemente ricercata, nella consapevolezza però che possiamo raggiungerne solo frammenti provvisori e storicamente determinati.
Ma il filo di puro pensiero che percorre e anima tutto il saggio sta nel dialogo che il non credente Levi intreccia con la religione, questo universale sistema simbolico in cui Dio è il «grande fantasma, convitato a far memoria di alcune questioni essenziali»: la necessità, naturale e culturale (la «legge» che soccorre nell'«anomia del deserto») ; il libero e servo arbitrio; l'apertura della possibilità; la temporalità, ovvero la «risonanza dell'eterno nell' istante»; l'alterità che ci libera dall'antropocentrismo. Le vecchie parole della religione vanno ridefinite per poter risalire ai pensieri che sottendono. La religione, dunque, come grande metafora in un mondo in cui si è ormai incapaci di credere. Nostalgia o unica possibilità di fede, almeno per molti, oggi, in Occidente?

La Stampa TuttoLibri 11.2.12
Augias
“Con Gobetti sulle vie della libertà”
di Mirella Serri


«Il pensatore torinese è fra gli ispiratori del mio viaggio dall’era mussoliniana a quella berlusconiana» «Tra i primi amori Dumas, l’avventura con cappa e spada è stata per anni il pane quotidiano» «Il romanzo gotico e il giallo? La mia predilezione va ai maestri del crimine meno metafisici» «Spy story, che passione: lo scardinamento dei ruoli tradizionali l'ha portato John Le Carré»

Il conduttore di Babele nel nuovo pamphlet ripercorre la propensione degli italiani a inchinarsi di fronte a doppiopetti e blazer Corrado Augias giallo La vita. Corrado Augias è nato a Roma nel 1935. Giornalista, scrittore, conduttore televisivo (da «Telefono giallo» a «Babele» a «Le Storie-diario italiano») e politico italiano (fu europarlamentare dal 1994 al 1999). Le opere. E’ appena uscito «Il disagio della libertà. Perché agli italiani piace avere un padrone» (Rizzoli). Da Mondadori: «I segreti del Vaticano. Storie, luoghi, personaggi di un potere millenario», «Leggere. Perché i libri ci rendono migliori, più allegri e più liberi», «I segreti di Roma. Storie, luoghi e personaggi di una capitale», «Quel treno da Vienna», «Quella mattina di luglio»
I libri, il bene più prezioso e non è solo un modo di dire. «Quando ero giovane l'acquisto di un romanzo o di un saggio non era alla portata di tutti. Un volume per uno studente squattrinato come me era un bene irraggiungibile», racconta Corrado Augias. «Così mi è capitato di compiere un peccatuccio di cui oggi mi pento: di mettermene uno in tasca senza passare dalla cassa alla libreria Feltrinelli». Galeotto fu Sartre, Il muro, con il suo notevole prezzo, fece cadere in tentazione il giornalista, romanziere, saggista romano. Augias - che ha firmato e condotto molti dei più bei programmi culturali della tivù - ai tomi attribuisce da sempre un valore non da poco: tra i suoi tanti parti letterari ve ne è uno il cui titolo suona: «Perché i libri ci rendono migliori, più allegri e più liberi».
Liberi, proprio così: negli scaffali del suo appartamento, nell'elegante quartiere capitolino dei Parioli, spiccano tormentate e maneggiate le opere di Piero Gobetti, il pensatore che tanto si interrogò sul concetto di libertà e che per questo venne eliminato dai fascisti (morì giovanissimo a seguito delle violenze delle squadracce). Gobetti è uno dei numi ispiratori dell'ultimo, appassionato pamphlet di Augias, dedicato a Il disagio della libertà. Perché agli italiani piace avere un padrone (Rizzoli), in cui lo scrittore ripercorre gli anni dal doppiopetto mussoliniano al blazer berlusconiano come segnati «dalla propensione dei connazionali a spogliarsi delle libertà civili».
Insieme a Gobetti chi sono gli altri pilastri, si fa per dire, della sua raccolta di volumi politici-filosofici?
«Spero che il mio scritto spinga i giovani ad avvicinarsi alla figura di Gobetti, figlio di un modesto droghiere torinese che, tra i suoi tanti meriti, ebbe anche quello di pubblicare Ossi di seppia di Montale, futuro Premio Nobel. Io incontrai La Rivoluzione liberale di Gobetti quando avevo 25 anni e da allora è sempre stata una fonte di sollecitazioni. Come il Saggio sulla libertà di John Stuart Mill che addirittura auspicava la protezione dalla “dittatura della maggioranza” e La democrazia in America di Alexis de Tocqueville. A stimolarmi in questo viaggio intellettuale fu Arturo Carlo Jemolo, che incontrai quando insegnava Diritto ecclesiastico a Roma, e gli amici di piazza del Teatro di Pompeo: lì c'era la sede del Partito radicale. Assomigliava molto a un club inglese con i suoi comodi divani e con la presenza di Nicolò Carandini, Mario Pannunzio, fondatore di Risorgimento liberale e del Mondo, Eugenio Scalfari e altri che costituivano un gruppo con molti punti di contatto con i laburisti d'oltre Manica. Marco Pannella si dedicava a condurre soprattutto le sue battaglie tra i giovani universitari. All'influenza di questo cenacolo politicoculturale, sul cui stile si faceva pure dell'ironia - “se non ci conoscete, guardateci i calzini, noi siamo i liberali del conte Carandini” - devo anche la scoperta dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci. Gli aderenti a quel partito nato nel 1955, furono spesso divisi ma rappresentarono sempre, come avrebbe detto Flaiano, una “schiacciante minoranza” che dava fastidio sia a destra che al Partito comunista».
Quando fa la sua apparizione la letteratura nella sua vita?
« Pinocchio è stato il solo libro che ci era concesso negli anni del conflitto e sul racconto di Collodi abbiamo studiato l'italiano e la matematica. Poi arrivò un cambiamento improvviso: mio padre, antifascista impegnato nella Resistenza, fu costretto ad abbandonare la famiglia e io finii in collegio. Il nostro cortile confinava con via Tasso, dove le SS, durante l'occupazione nazifascista di Roma, rinchiusero oltre duemila oppositori. Di notte le urla per le esecuzioni sommarie e le torture ci tenevano svegli. Una sera arrivò il capo camerata, allora si chiamava prefetto, che ci fece inginocchiare e ci disse di pregare. Era tutto tremendo. Fu poi al ginnasio e al liceo che presi confidenza con i libri».
Il primo amore?
«Dopo l'inevitabile ma sempre piacevole Salgari arrivò Eugène Sue, dandy e viaggiatore che a 26 anni ereditò la fortuna paterna e che sapeva comporre storie inquietanti e meravigliose. Successivamente fu il momento di Flaubert, Maupassant e Dumas con I tre moschettieri, Il conte di Montecristo eIl visconte di Bragelonne. L'avventura con cappa e spada è stata per anni il pane quotidiano. Una delle prime scoperte furono anche I sepolcri di Foscolo, di cui apprezzavo però più che la maestria poetica, la capacità di creare un' atmosfera tenebrosa e romantica. Il romanzo gotico e il giallo, a cominciare da Edgar Wallace, hanno sempre esercitato una forte attrazione su di me. La mia predilezione va ai maestri del crimine meno metafisici: così Edgar Allan Poe con I delitti della Rue Morgue mi ha sempre poco convinto e, per fare un esempio dei nostri giorni, non mi seduce nemmeno Fred Vargas, di cui non solo non condivido l'estremismo politico nella difesa del terrorista Battisti, ma nemmeno l'approccio narrativo troppo fantastico. Mi coinvolge molto il genere pulp, tanto che il mio film preferito degli ultimi anni è Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino».
E gli italiani? Lei è autore di una trilogia che inizia con «Quel treno da Vienna», ambientato nei primi decenni del Novecento e che ha come protagonista Giovanni Sperelli, fratellastro del dannunziano Andrea, commissario che corre rischi mortali. Il Vate l'ha influenzata?
«Per capire e raccontare la Roma d'inizio secolo non si può prescindere da Il piacere. Poi mi sono dedicato a Pavese, Calvino, Cassola che i critici e i narratori dell'avanguardia avrebbero voluto mettere al muro. Brancati lo consideravo soprattutto un bravo scrittore che aveva dato vita alla commedia all'italiana, Moravia mi lasciava freddo e gli preferivo la consorte, Elsa Morante. Di Pier Paolo Pasolini ho amato molto Le ceneri di Gramsci. Suggestionato dalla lettura dei suoi bellissimi versi, sono andato più di una volta a visitare il cimitero degli inglesi dove è appunto sepolto il fondatore del Partito comunista italiano».
La penuria di libri e di cultura del tempo di guerra era dunque un ricordo lontano.
«Frequentando la libreria Rossetti a via Veneto che oggi non esiste più - una sola vetrina, pochi libri di qualità, Cardarelli o Flaiano che erano lì per chiacchierare - e la biblioteca americana, avevo l'impressione di sognare. Nella seconda, a differenza delle oppressive strutture italiane, i volumi li sceglievi da solo, li sfogliavi e li leggevi in poltrona. Impensabile! E così mi sono dedicato ai miei americani preferiti: Faulkner, Caldwell, Walt Whitman».
I grandi maestri del realismo.
«Non c'è dubbio. Con questi autori in valigia mi trasferii a New York dopo aver vinto un concorso ed essere entrato nella grande famiglia, allora appariva così, della Rai. La principale scoperta fu la stampa americana e quel senso di libertà che la ispirava. Nel Sessantotto collaboravo con L’Espresso quando, chino su una telescrivente, leggo “A Roma sta scoppiando una rivoluzione”».
Si lascia travolgere dal vento culturale?
«Non corro a documentarmi sui sacri testi come i libri del guru Marcuse. Anzi, prima di rientrare definitivamente in Italia, a Long Island rileggo
Guerra e pace e rifletto su Marshall McLuhan e sulla sua celebre tesi secondo cui “il medium è il messaggio”, il mezzo tecnologico determina i caratteri della comunicazione e ha effetti sull'immaginario collettivo».
Le sue strade privilegiate continuano ancora oggi ad essere il poliziesco e il noir?
«Una scoperta rivoluzionaria per me è stata la letteratura di spionaggio: lo scardinamento dei ruoli tradizionali l'ha portato la spy story di John Le Carré: gli agenti segreti che lottano dalla parte giusta usano metodi esecrabili quanto quelli che si trovano sul versante opposto, insomma finisce la divisione tra buoni e cattivi. Direi che sono stato molto fortunato. Ero un adolescente mediocre, che non studiava. Poi un prof mi contagiò con la sua passione per i libri. Mi ha cambiato la vita. E della letteratura ho fatto il mio mestiere».

il Riformista 11.2.12
Baudrillard
Internet e la filosofia sono incompatibili
Un saggio allarmistico sulla rete che svela una separazione antica, che fu già dei Greci, tra spiegazione concettuale e arte. Il “doppio” amletico e la “second life”
di Errico Buonanno


La maledizione della Storia è molto semplice e deprimente: riusciamo a capire solo ciò che è passato, senza mai una visione chiara di ciò che abbiamo sottomano. Potremmo prenderla con filosofia, non fosse che proprio la filosofia non resiste alla tentazione di teorizzare intorno a ciò che è ancora in corso e che gli appare totalmente confuso. Internet, ecco, per esempio: non esiste un fenomeno più oscuro, e su cui più si è teorizzato. Il testo di Jean Baudrillard, Lo scambio impossibile (Asterios), è sintomatico di questa voglia incontenibile. Apocalittico, allarmistico, verso fenomeni ormai vintage come virtuale e second life. Ma proprio per questo un trattato esemplare. Un saggio intorno allo sconcerto per la novità, e all’assoluta incapacità del filosofo di prendere atto di ciò che gli sfugge.
La tesi è banale: l’uomo moderno si crea dei doppi. Un doppio mondo, una doppia vita. Il rischio, grave, è delegare a questa immagine allo specchio ogni pulsione e ogni voglia. Con il virtuale il mondo si svuota di senso, e anche la partecipazione politica e la libertà si spengono. Perché lottare, se liberi possiamo già esserlo nel mondo del doppio? «Da qui l’astensione in aumento, l’indifferenza virale». Eh già: «Le persone non solo non vogliono più essere rappresentate, ma non vogliono nemmeno più essere liberate».
Ora, trascorso appena un anno in cui la rete è stato il mezzo della libertà, l’errore di valutazione è chiaro. Ma Baudrillard va più a fondo. Il punto non è tanto la rete come strumento di comunicazione troppo poco allarmante. È l’ontologia a preoccuparlo, il tema del doppio, del clone. Ed è proprio qui che Baudrillard svela l’incompatibilità tra Internet e la filosofia, o meglio l’immensa paura che il web fa alla seconda.
Il doppio ci svuota, impoverisce! Davvero? In una scena dell’Amleto, il principe di Danimarca inchiodava lo zio con uno stratagemma: faceva assistere la corte a una commedia che rappresentava il crimine che aveva compiuto. Splendido esempio di duplicazione: l’uomo comprende e si comprende “uscendo da sé”, guardandosi agire in duplicato, fissando lo specchio della messa in scena. Il teatro, la letteratura, l’arte, non sono in fondo altro che questo: lo stratagemma trovato dall’uomo per duplicarsi e per guardarsi agire. Una “second life”, nonché la prova più plateale che non è affatto il doppio a svuotarci, ma è, casomai, un’arma per capirci.
Se è così, allora, come mai i filosofi odiano la duplicazione? Perché Baudrillard grida all’apocalisse? L’accusa che muove al web è identica a quella che Platone muoveva a tutti i doppi artistici: pittura, teatro, poemi. Secondo il filosofo distoglievano dalla realtà, e portavano il popolo a confondere la vita col sogno, le cose con le loro ombre, e dunque la “life” con la “second life”. Perciò Platone concludeva: l’unica soluzione era instaurare una repubblica governata dai filosofi, diffidare dell’arte e bandire ogni duplicato. Dal suo, Baudrillard sprona alle scienze umanistiche. Voilà spiegato il grande arcano. Quello che è in ballo è una sfida millenaria tra spiegazione e intuizione, cioè tra filosofi e artisti, potere mediato e immediato.
Nelle rivoluzioni, nel quotidiano, Internet vince perché è questo: immediatezza. Informazione, televisione, comunicazione, del tutto libera dai media, dagli intermediari. Lo stesso ruolo degli artisti. L’artista, il pittore, il drammaturgo, come il creatore di mondi virtuali, è per antonomasia il creatore di doppi, di rappresentazioni, cioè qualcuno che permette all’uomo di capirsi in maniera visiva e intuitiva, come davanti a uno specchio: d’istinto. L’esatto contrario del filosofo, dell’ideologo, dell’analista, che è medium per definizione. Baudrillard non capisce Internet semplicemente perché Internet non capisce Baudrillard, non ne capisce più il ruolo e non ha più bisogno di lui. Così, il filosofo grida alla fine del mondo, perché intuisce che nell’altro mondo, il mondo visuale oltre lo specchio, libero, doppio e immediato, un clone del filosofo non c’è. Urla allo scandalo, alla fine dei tempi, perché Internet libera dall’ideologia. E mentre lo urla, e si dispera, la Storia, intanto, fortunatamente, è altrove.

il Riformista 11.2.12
Il web, a ben vedere, è un’idea di Platone
Eidos. L’allievo di Socrate teorizzò il dualismo tra pensiero e visione. Sulla seconda si è modellata la conoscenza occidentale. Una condizione che il 2.0 ha moltiplicato all’infinito
di Corrado Ocone


Nella costante vicenda del rapporto dell’uomo con le sue invenzioni, cioè con la tecnica, la pattuglia degli integrati si contrappone puntualmente a quella degli apocalittici, i progressisti ai conservatori. Da che parte stia Enrico Buonanno è chiaro: Internet è per lui il mondo nuovo, «il mezzo della libertà», la scomparsa di ogni (interessata) mediazione per un vivere in presa diretta che, attraverso la creazione di un “doppio”, «permette all’uomo di capirsi... d’istinto». E se il mondo della rete, in tutti i suoi sviluppi anche futuri, non fosse altro che il già sempre stato, il passato che si reitera, il radicalizzarsi e quindi il manifestarsi nella sua “purezza” dell’essenza stessa dell’Occidente-mondo?
Certo, il progresso della comunicazione web è stato impressionante: da quando, nel 1991, l’informatico inglese Tim Berners-Lee pubblicò il primo sito web è passata una sola generazione! Eppure, nonostante questo, ci si muove sì velocemente, ma all’interno di un cerchio, di un perimetro conchiuso e già delineato. Ma mi si potrebbe chiedere: come fai a dire che Internet è del tutto dentro quell’orizzonte di senso dischiusosi nella Grecia arcaica e portato al pensiero da Socrate-Platone nel V secolo avanti Cristo?
Consiglio a questo proposito di rileggere il primo capitolo della Storia della logica antica di Guido Calogero, del 1967. Partendo da vari indizi, a cominciare da quello che riconduce il termine “idea” alla radice “id” di “vedere”, Calogero osservava come i Greci dell’età arcaica non distinguessero affatto tra visibilità, esistenza e pensiero: essi avevano una «concezione della realtà come spettacolo» (il vero reality è quello in cui i protagonisti, come il Truman del film e gli antichi greci di Calogero, sono inconsapevoli: quando diventa show esso si tiene “per differenza”, rimane nello spazio dell’essere e dell’apparire). Quando poi Platone “scopre” il concetto, esso è appunto una “idea”, è cioè ancora modellato sul vedere, sulla visione di quel mondo dell’iperuranio che è proprio il doppio di cui parla Buonanno. L’uomo che concettualizza vive da sempre in un elemento fondato sul vedere, non immediato: una condizione che la nostra contemporaneità ha solo moltiplicato all’infinito.
Maurizio Ferraris ha osservato che, con il successo dei Pc e degli Sms, c’è stato un ritorno alla scrittura a discapito della cultura visiva che per tanti anni ha avuto l’emblema nella televisione. Ora, a parte il fatto che lo scrivere è comunque un’attività mediata dalla vista, il successo del 2.0 e la circostanza che oggi si vada verso un’integrazione di Tv e Pc tutta all’insegna del vedere sono due elementi che mostrano come stiano veramente le cose.
In ogni caso ritengo che sia più pregnante sottolineare che alcune “strategie di uscita” dal predominio della vista sono state pensate proprio nell’ambito della cultura francese coeva a Baudrillard (il quale, non dimentichiamolo, aveva dato una lettura dell’11 settembre come spettacolarizzazione dell’attacco terroristico). È una traiettoria di pensiero che si può fare iniziare dalla “ontologia del sensibile” di Maurice Merleau Ponty, che ha nel corpo agente e senziente (con tutti e cinque i sensi) il proprio centro “significante”, e che giunge sino a Jacques Derrida, autore nel 2000 di un memorabile Le toucher, Jean Luc Nancy in cui, attraverso la riflessione sul tema del toccare, della palpabilità, si interroga la possibilità di un “pensare altro” che vada oltre la “tirannia” dell’eidos. E che forse richiama quell’abbandonarsi panico e dionisiaco il cui spirito era pure presente secondo Nietzsche, nella grecità. In effetti, la riflessione di Nancy è quella che richiama oggi con più radicalità quello che è forse il vero non pensato della nostra cultura, dell’Occidente: il dualismo anima-corpo.
Su un elemento si può in conclusione concordare senza troppi distinguo con Buonanno: sul futuro la filosofia ha poco da dire perché, come diceva il buon Hegel, essa è come la civetta di Minerva che spicca il volo sul far della sera.

Repubblica 11.2.12
Il punto G della memoria dove il ricordo è eterno
Uno studio Usa: scoperta la zona da stimolare
È nell'attimo esatto in cui l´esperienza viene vissuta che la scintilla la rende indelebile
di Elena Dusi


Una scintilla può fissare i ricordi per sempre. Il segreto è raggiungere il punto preciso, appena scoperto nel cervello, in cui una serie di minuscole scosse elettriche consente di ricordare una volta per tutte dov´è parcheggiata la macchina o sono rimaste le chiavi. Neuroscienziati americani dell´Ucla hanno misurato i risultati del loro esperimento di stimolazione elettrica del cervello proprio così.
hANNO controllato se i loro pazienti (all´interno di un videogioco) ricordavano dove si trovava il parcheggio più vicino, il luogo in cui avevano lasciato le chiavi, il percorso più breve in un intrico di vicoli cittadini.
E loro, dopo aver ricevuto la piccola scossa in un punto molto profondo del cervello, iniziavano a guidare il taxi virtuale nella città ricostruita dal videogioco con la sicurezza di un´intelligenza artificiale. L´applicazione di una "scintilla" alla base di quell´ippocampo che è la centralina dove si formano e si smistano i nostri ricordi rende evidentemente il processo di memorizzazione molto efficiente. Ma il perché questo avvenga lascia ancora gli scienziati senza risposte.
Ripercorrere le orme di Frankenstein non era lo scopo dei neurologi dell´università della California a Los Angeles. L´esperimento descritto sull´ultimo numero del New England Journal of Medicine era nato per curare sette persone con una grave forma di epilessia. Con questo obiettivo ai pazienti sono stati applicati degli elettrodi nella parte più bassa e profonda del cervello. La corteccia entorinale dove è arrivata la sequenza di piccole scosse (impercettibili, un millesimo di volte più leggere del famigerato elettroshock e della durata di 100 microsecondi circa) viene descritta come la "porta di ingresso" dell´ippocampo: una linea quasi metafisica in cui le esperienze del presente si trasformano in ricordi del passato.
È proprio in questo punto - e solo nell´attimo esatto in cui l´esperienza viene vissuta - che la scintilla rende il ricordo permanente. «Ogni esperienza visiva e sensoriale che viene conservata nella memoria deve necessariamente passare per questo snodo del cervello» spiega il coordinatore dell´esperimento, Itzhak Fried. «I nostri neuroni inviano impulsi che passano attraverso questo canale. In questo modo si possono formare i ricordi che poi in un secondo momento vengono richiamati alla mente».
Il videogioco usato per confrontare la memoria prima e dopo la "scintilla" simula la giornata di un tassista, chiamato a orientarsi in una città dalle vie particolarmente intricate e a ricordare le chiamate dei passeggeri che salgono e scendono in continuazione. Divisi in due gruppi, i pazienti sono stati stimolati in diverse fasi del videogioco. E le performance, con o senza la scossa che mette il turbo alla memoria, sono risultate nettamente diverse. «I pazienti riuscivano a orientarsi molto meglio, riconoscevano i punti di riferimento e svoltavano nelle varie strade con molta agilità. Erano anche in grado di trovare autonomamente delle scorciatoie, a dimostrare che l´intera memoria spaziale aveva ricevuto un potenziamento» spiega ancora Fried. «Ci ha colpito però che quando lo stimolo elettrico veniva dato all´ippocampo, non si notava il miglioramento».
Le possibili applicazioni dell´esperimento californiano appartengono per ora più alla fantascienza che alla medicina. Anche se la stimolazione cerebrale profonda viene usata da anni per correggere disturbi del movimento e Parkinson, o per rendere più dettagliata una diagnosi di epilessia, nessuno pensa di ricorrere alla neurochirurgia per ricordare dove ha parcheggiato la macchina od orientarsi meglio in città. Ma aver scoperto questa sorta di "punto G" della memoria, che migliora le performance del nostro cervello quando viene stimolato, apre la porta dell´immaginazione alle potenzialità inesplorate della nostra mente.

Repubblica 11.2.12
San Bernardo di Chiaravalle e Abelardo
Cuore o ragione quella sfida tra due teologie
di Benedetto XVI


Qui anticipiamo un brano che confronta le scuole
In un libro le riflessioni del Papa sui maestri della Chiesa
Per il monastico l´accento va messo sulla fede mentre per lo scolastico bisogna sottoporre le verità ad un esame critico
La disputa fu molto accesa ma questo dimostra anche la necessità e l´utilità di una sana discussione all´interno delle comunità

Tra i rappresentanti della teologia monastica e di quella scolastica del XII secolo, che potremmo chiamare, in un certo senso, rispettivamente "teologia del cuore" e "teologia della ragione", si e sviluppato un dibattito ampio e a volte acceso, simbolicamente rappresentato dalla controversia tra san Bernardo di Chiaravalle e Abelardo.
Per comprendere questo confronto tra i due grandi maestri, è bene ricordare che la teologia è la ricerca di una comprensione razionale, per quanto possibile, dei misteri della Rivelazione cristiana, creduti per fede: fides quaerens intellectum – la fede cerca l´intellegibilità –, per usare una definizione tradizionale, concisa ed efficace. Ora, mentre san Bernardo, tipico rappresentante della teologia monastica, mette l´accento sulla prima parte della definizione, cioè sulla fides – la fede, Abelardo, che è uno scolastico, insiste sulla seconda parte, cioè sull´intellectus, sulla comprensione per mezzo della ragione. Per Bernardo la fede stessa è dotata di un´intima certezza, fondata sulla testimonianza della Scrittura e sull´insegnamento dei Padri della Chiesa. La fede inoltre viene rafforzata dalla testimonianza dei santi e dall´ispirazione dello Spirito Santo nell´anima dei singoli credenti. Nei casi di dubbio e di ambiguità, la fede viene protetta e illuminata dall´esercizio del Magistero ecclesiale. Così Bernardo fa fatica ad accordarsi con Abelardo, e più in generale con coloro che sottoponevano le verità della fede all´esame critico della ragione; un esame che comportava, a suo avviso, un grave pericolo, e cioè l´intellettualismo, la relativizzazione della verità, la messa in discussione delle stesse verità della fede. In tale modo di procedere Bernardo vedeva un´audacia spinta fino alla spregiudicatezza, frutto dell´orgoglio dell´intelligenza umana, che pretende di «catturare» il mistero di Dio. In una sua lettera, addolorato, scrive cosi: «L´ingegno umano si impadronisce di tutto, non lasciando più nulla alla fede. Affronta ciò che è al di sopra di sé, scruta ciò che gli è superiore, irrompe nel mondo di Dio, altera i misteri della fede, più che illuminarli; ciò che è chiuso e sigillato non lo apre, ma lo sradica, e ciò che non trova percorribile per sé, lo considera nulla, e rifiuta di credervi» (Epistola 188,1).
Per Bernardo la teologia ha un unico scopo: quello di promuovere l´esperienza viva e intima di Dio. La teologia è allora un aiuto per amare sempre di più e sempre meglio il Signore, come recita il titolo del trattato sul Dovere di amare Dio (De diligendo Deo). In questo cammino, ci sono diversi gradi, che Bernardo descrive approfonditamente, fino al culmine, quando l´anima del credente si inebria nei vertici dell´amore. L´anima umana può raggiungere già sulla terra questa unione mistica con il Verbo divino, unione che il Doctor Mellifluus descrive come "nozze spirituali". Il Verbo divino la visita, elimina le ultime resistenze, l´illumina, l´infiamma e la trasforma.
Abelardo, che tra l´altro è proprio colui che ha introdotto il termine "teologia" nel senso in cui lo intendiamo oggi, si pone invece in una prospettiva diversa. Nato in Bretagna, in Francia, questo famoso maestro del XII secolo era dotato di un´intelligenza vivissima e la sua vocazione era lo studio. Si occupò dapprima di filosofia e poi applicò i risultati raggiunti in questa disciplina alla teologia, di cui fu maestro nella città più colta dell´epoca, Parigi, e successivamente nei monasteri in cui visse. Era un oratore brillante: le sue lezioni venivano seguite da vere e proprie folle di studenti. Spirito religioso, ma personalità inquieta, la sua esistenza fu ricca di colpi di scena: contestò i propri maestri, ebbe un figlio da una donna colta e intelligente, Eloisa. Si pose spesso in polemica con i suoi colleghi teologi, subì anche condanne ecclesiastiche, pur morendo in piena comunione con la Chiesa, alla cui autorità si sottomise con spirito di fede. Proprio san Bernardo contribuì alla condanna di alcune dottrine di Abelardo nel sinodo provinciale di Sens del 1140, e sollecitò anche l´intervento del papa Innocenzo II.
L´abate di Chiaravalle contestava, come abbiamo ricordato, il metodo troppo intellettualistico di Abelardo, che, ai suoi occhi, riduceva la fede a una semplice opinione sganciata dalla verità rivelata. Quelli di Bernardo non erano timori infondati ed erano condivisi, del resto, anche da altri grandi pensatori del tempo. Effettivamente, un uso eccessivo della filosofia rese pericolosamente fragile la dottrina trinitaria di Abelardo, e così la sua idea di Dio. In campo morale il suo insegnamento non era privo di ambiguità: egli insisteva nel considerare l´intenzione del soggetto come l´unica fonte per descrivere la bontà o la malizia degli atti morali, trascurando così l´oggettivo significato e valore morale delle azioni, un soggettivismo pericoloso.
È questo – come sappiamo – un aspetto molto attuale per la nostra epoca, nella quale la cultura appare spesso segnata da una crescente tendenza al relativismo etico: solo l´io decide cosa sia buono per me, in questo momento. Non bisogna dimenticare, comunque, anche i grandi meriti di Abelardo, che ebbe molti discepoli e contribuì decisamente allo sviluppo della teologia scolastica, destinata a esprimersi in modo più maturo e fecondo nel secolo successivo. Né vanno sottovalutate alcune sue intuizioni, come, per esempio, quando afferma che nelle tradizioni religiose non cristiane c´è già una preparazione all´accoglienza di Cristo, Verbo divino.
Che cosa possiamo imparare, noi, oggi, dal confronto, dai toni spesso accesi, tra Bernardo e Abelardo, e, in genere, tra la teologia monastica e quella scolastica? Anzitutto credo che esso mostri l´utilità e la necessità di una sana discussione teologica nella Chiesa, soprattutto quando le questioni dibattute non sono state definite dal Magistero, il quale rimane, comunque, un punto di riferimento ineludibile. San Bernardo, ma anche lo stesso Abelardo, ne riconobbero sempre senza esitazione l´autorità. Inoltre, le condanne che quest´ultimo subì ci ricordano che in campo teologico deve esserci un equilibrio tra quelli che possiamo chiamare i principi architettonici datici dalla Rivelazione e che conservano perciò sempre la prioritaria importanza, e quelli interpretativi suggeriti dalla filosofia, cioè dalla ragione, che hanno una funzione importante ma solo strumentale. Quando tale equilibrio tra l´architettura e gli strumenti di interpretazione viene meno, la riflessione teologica rischia di essere viziata da errori, ed è allora al Magistero che spetta l´esercizio di quel necessario servizio alla verità che gli è proprio. Inoltre, occorre mettere in evidenza che, tra le motivazioni che indussero Bernardo a "schierarsi" contro Abelardo e a sollecitare l´intervento del Magistero, vi fu anche la preoccupazione di salvaguardare i credenti semplici e umili, i quali vanno difesi quando rischiano di essere confusi o sviati da opinioni troppo personali e da argomentazioni teologiche spregiudicate, che potrebbero mettere a repentaglio la loro fede.
Vorrei ricordare, infine, che il confronto teologico tra Bernardo e Abelardo si concluse con una piena riconciliazione tra i due, grazie alla mediazione di un amico comune, l´abate di Cluny, Pietro il Venerabile. Abelardo mostro umiltà nel riconoscere i suoi errori, Bernardo usò grande benevolenza. In entrambi prevalse ciò che deve veramente stare a cuore quando nasce una controversia teologica, e cioè salvaguardare la fede della Chiesa e far trionfare la verità nella carità. Che questa sia anche oggi l´attitudine con cui ci si confronta nella Chiesa, avendo sempre come meta la ricerca della verità.
Udienza generale, 4 novembre 2009, piazza San Pietro
© Libreria Editrice Vaticana 2012 © 2012 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Corriere della Sera 11.2.12
La Condivisione del pane come fondamento della carità cristiana
di Benedetto XVI


Nel secondo capitolo degli Atti degli Apostoli, San Luca descrive la Chiesa nascente con quattro caratteristiche che ne connotano la vita: «Erano assidui nell'ascoltare l'insegnamento degli Apostoli e nell'unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere» (At 2,42). Alcuni versetti dopo, Luca ritorna nuovamente su quanto aveva detto: «Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore» (At 2,46). Lo spezzare il pane, nominato due volte, appare come elemento centrale della comunità cristiana e ci ricorda l'incontro del Risorto con i discepoli di Emmaus (Lc 24,30 ss.), che a sua volta ci rimanda all'ultima cena (Lc 22,19). Questa è una parola che nella molteplicità dei suoi significati lascia trasparire il centro portante e al tempo stesso tutta l'ampiezza dell'esistenza cristiana.
Certo, essa si riferisce innanzitutto a qualcosa di molto semplice, di quotidiano. Nel mondo ebraico era compito del padrone di casa spezzare il pane dopo una preghiera e distribuirlo tra i commensali; questo sia durante pranzi familiari, o convivi, che in occasione di pasti di carattere rituale, come la sera della Pesah. Gesù padrone di casa e ospite paterno dei suoi ha raccolto questa usanza la quale, nella cena alla vigilia della sua agonia, acquista tuttavia un nuovo significato. Infatti, in quell'ora, Gesù non distribuisce solo pane, ma se stesso: Egli si dona. Già nel pasto quotidiano lo spezzare il pane ha un doppio significato: è allo stesso tempo un gesto di condivisione e di unione. In virtù del pane condiviso la comunità a tavola diventa una: tutti mangiano dello stesso pane. La condivisione è un gesto di comunanza, di donazione, che rende partecipi della famiglia anche gli ospiti.
Questo condividere e unire raggiunge nell'ultima cena di Gesù una profondità mai immaginata prima. Nello spezzare il pane egli compie quel «li amò sino alla fine» (Gv 13,1) in cui egli dona se stesso e diventa pane «per la vita del mondo» (Gv 6,51). Evidentemente il particolare gesto con cui Gesù spezzò il pane è penetrato profondamente nelle anime dei discepoli, come possiamo evincere dal racconto dei discepoli di Emmaus. Ricordando quel gesto, essi vi hanno visto racchiuso tutto il mistero della consegna di sé messa in atto da Gesù.
L'espressione «spezzare il pane» nella Chiesa nascente andò così a designare l'Eucaristia, dunque ciò che la caratterizzò e la tenne unita come nuova comunità. Dal ricordo dell'ultima cena però emergeva anche chiaramente che l'Eucaristia è più di un semplice atto di culto che si esaurisce nella celebrazione liturgica. Lo spezzare il pane era di per sé un'immagine di comunione, dell'unire attraverso la condivisione. I cristiani ora possono vedere nell'atto di spezzare il pane compiuto da Gesù un'immagine dell'ospitalità di Dio, nella quale il Figlio incarnato dona se stesso come pane di vita. Di conseguenza la frazione del pane eucaristico deve proseguire nello «spezzare il pane» della vita quotidiana, nella disponibilità a condividere quanto si possiede, a donare e così unire. È semplicemente l'amore in tutta la sua immensità che si manifesta in questo gesto, e con esso il nuovo concetto cristiano di culto e di cura per il prossimo: l'Eucaristia deve divenire «spezzare il pane» a tutti i livelli, altrimenti il suo significato non si compie. Deve divenire «diaconia», servizio e dono nella vita quotidiana. E specularmente la premura sociale della caritas non è mai solo agire pragmatico, bensì sorge dalle radici profonde della comunione con il Signore che si dona, dalla dinamica dell'amore partecipe di Dio per noi.
Mi rallegro che il cardinale Cordes abbia raccolto e spiegato, con grande energia, l'impulso che ho cercato di avviare con l'enciclica Deus caritas est. Saluto come parte della sua fatica questo suo libro L'aiuto non cade dal cielo. Caritas e spiritualità, in cui viene mostrato da varie prospettive quanto è racchiuso nella parola fondamentale caritas — amore. Perciò auguro a questo libro l'ascolto attento che penetra nei cuori e, andando oltre la ricezione e la lettura, conduce ad agire con amore e a una comunione più profonda con Gesù Cristo.