Repubblica 4.3.19
Il filosofo
Alla ricerca del sapere senza starsene mai in cima alla Torre
di Massimo Cacciari
qui
Per
un anno, dal 1993 al 1994, fece parte del cda della Rai "dei
professori". Le sue competenze comprendevano anche la cucina con i
famosi "menù" al festival di Modena da lui fondato
La "maschera" o
"persona" di Tullio Gregory sommava in sé tutti i caratteri della sua
straordinaria, vastissima opera di studioso. O almeno cosi a me era
sembrato fin dal primo incontro, durante uno di quei festival di
filosofia di Modena , che lui aveva fondato e diretto. Era un volto
severo e indagatore, e insieme schivo, pudico quasi, capace di lampi di
ironia fino alla dissacrazione, e insieme attento, in ascolto, curioso
di chiunque gli sembrasse autenticamente in ricerca, fin quasi
all’affetto. Era il volto di chi aveva saputo intrecciare l’intera
tradizione filosofica, teologica, letteraria europea da un Medioevo
studiato in tutta la sua complessità, attraverso Umanesimo e
Rinascimento, fino alla formazione del Moderno. Se un Maestro ha saputo
insegnare come ogni identità possa essere compresa soltanto nella sua
relazione con l’insieme di un’epoca, come l’analisi più scrupolosa dei
distinti sia in funzione del disegno di insieme, questo è Tullio
Gregory.
Ed è in questa prospettiva che vanno lette tutte le sue
fondamentali monografie, da quelle dedicate alla Scuola di Chartres e al
platonismo medievale, a Scoto Eriugena, fino ai grandi saggi su Charron
e Montaigne. Vi era sempre in Gregory, nella sua scrittura come nel suo
fare, una paradossale commistione di rigore accademico e vivacità
anti-accademica, giovanile irrequietezza. Io credo che ciò gli venisse
dal piacere che provava nel suo faticosissimo lavoro. Il piacere di
accompagnarsi con tanti grandi pensatori, di riscoprirne le tracce più
riposte, di accordare autori, epoche, stili tanto diversi. Se non si
prova piacere nel leggere Platone e Abelardo, Scoto e Bonaventura, che
amore può essere quello per il sapere? Che filo-sofia può essere quella
che non ama ciò che studia e non lo sa far amare? Ma da chi, a mio
avviso, veniva per Gregory il piacere maggiore? Credo dai suoi cari
"scettici", da Montaigne in primis.
Scetticismo, naturalmente, nel
senso vero del termine: ricerca, dubbio, interrogazione, senza alcuna
concessione a vaghi relativismi.
Montaigne è il culmine di quel
"plaisir de la varietè", che connota la stessa scrittura di Gregory.
Piacere di una caccia senza preda, come suona il titolo di un suo
bellissimo saggio. Caccia senza preda: ecco cosa deve essere per lui una
filosofica storia della filosofia! Non l’affermazione di un punto di
vista, non la riduzione all’uno di chi la scrive, ma la cura della
varietà, cura anti-dogmatica quanto attenta al minimo dettaglio.
Saggezza scettica come quella di Charron. Le vie del Moderno nascono
anche da essa. Gregory ha voluto ricordarlo, mostrandocene non solo la
forza e la complessità, ma anche la bellezza.
Mundana sapientia
era la sua: conoscere bisogna, e conoscere è concentrazione, fatica, ma
mai ciò significa astrarsi dal mondo, contemplare da chissà quale Torre.
La sapientia autentica conosce il sapore delle cose e ne apprezza
sempre la bontà. Fino a quando non se ne gusta il vino il sapere resta
arido specialismo. I nostri grandi storici(dove storia significa destino
e destinazione), di cui questo Paese dovrebbe fare più spesso e più
approfonditamente memoria, da Garin a Vasoli, da Paolo Rossi a Gregory,
di questo vino che si accompagna a verità, si sono nutriti.