il manifesto 4.3.19
Il partito che ha perduto il popolo
di Rossana Rossanda
In colloquio con Andrea Bianchi, Mario Tronti fa il punto sul suo modo di vedere la situazione italiana ad oggi. La conclusione sta nel titolo di questo suo più recente scritto (Il popolo perduto. Per una critica della sinistra, Nutrimenti, 2019): è la perdita del popolo, identificato in quelli che hanno meno dalla quale dipende lo sfascio attuale dell’orizzonte politico, da parte di chi?, soprattutto da parte del Partito democratico, che Tronti non ha abbandonato mai e nel quale spera ancora.
Ma che giudica severamente, tappa per tappa, non senza assolversi durante il suo proprio cammino: anzi, il leitmoiv di questo suo lavoro è un severo richiamo agli ammonimenti che in questi anni non ha mancato di fare, ma che non sono stati ascoltati.
In verità, lui stesso non vi è stato sempre fedele, perché ha sempre fatto prevalere la fedeltà al gruppo dirigente del Pd: è il solo appunto che a questo denso testo mi sento di muovere, perché è in nome di esso che Tronti ha fatto prevalere la linea della maggioranza del Pd sui suoi stessi pensieri, e ne è conseguito anche il suo cadere nell’errore, o almeno nell’omissione, negli anni ‘90 e ’91.
«È stato dunque – è la tesi del libro – un ”giusto errore”»: come sempre l’unità del partito gli è parsa essere il fine principale della militanza, anche quando gli era accaduto di pensarla diversamente, aveva sempre scelto di esprimere le sue idee esclusivamente nelle sedi interne del partito.
Così ha fatto quando è stato condannato Pietro Ingrao e quando il partito ha espulso il Manifesto, per cui non è mai esplicito fin dove fosse d’accordo o in disaccordo con queste voci critiche, delle quali ora si sente la mancanza o il silenzio.
In tutto il libro, Tronti ripete il richiamo al passato del «movimento operaio», al quale egli pensa che non si può non ritornare.
Questa scelta in realtà gli impedisce di agire sulla linea del partito ed è quindi, a mio avviso, discutibile: quale sarebbe infatti il superiore vantaggio che al Partito democratico ne sarebbe derivato? Esso non ha evitato né perdite né allontanamenti, come Tronti pareva auspicare.
Il partito dunque come tale non sbaglierebbe mai, scegliendo come primo e principale obiettivo la sua omogeneità – tesi che oggi appare un po’ debole, non avendo risparmiato al medesimo partito nessun errore negli ultimi anni.
L’essenziale, se ne deriva, non è soltanto la compattezza del partito, ma la sua «organizzazione». Ci sarà consentito di osservargli che, in tale visione, il partito si assicura un salvagente per cui ogni volta si potrà correggere senza uscirne indebolito e forse sarebbe superfluo obiettargli che questo non è stato sempre vero.
Egli medesimo appare assai dubitoso della sua ultima veste, dalla quale è scomparso ogni riferimento di classe, che era presente ancora, sia pur debolmente, nei nomi precedenti, e rimane soprattutto il riferimento ai Democratici americani.
Fin dove e fin quando egli potrà rinviare la presa d’atto degli «errori» dello stalinismo, e di quelli seguenti, senza arrivare a un punto di non ritorno?
Non ci siamo già, e da un pezzo, e in questo non ci siamo irrimediabilmente perduti? È la domanda cui non si può perpetuamente sfuggire.
Tutte le altre proposte sono giuste ma, io penso, se mai, in ritardo. Sarebbe stato necessario, penso, risparmiarsi il lungo periodo di Renzi, in modo da non arrivare indeboliti alla correzione di rotta. Al «che cosa» e al «come» va aggiunto, credo, anche il «quando» di una correzione politica.
La Stampa 4.3.19
Marx torna in Italia passando per gli Usa
di Giuseppe Salvaggiulo
Dopo il lancio invernale, ecco il secondo numero della versione italiana di Jacobin, il trimestrale del socialismo americano. Jacobin Italia è pubblicato da Edizioni Alegre e diretto da un collettivo di giornalisti, scrittori, ricercatori universitari. Andamento pop, grafica ricercata, illustrazioni originali, contenuti radicali. Tema del secondo numero: lo sciopero. Senza paura di essere tacciati di anacronismo.
Fondato nel 2010 dal giovane Bhaskar Sunkara, Jacobin si è affermato negli Usa come voce di un pensiero di sinistra critico sia della deriva estremista del partito repubblicano sia dei cedimenti liberal. Portando Marx, ha scritto il New York Times, nel dibattito mainstream. E accompagnando l’ascesa di Bernie Sanders tra i democratici. La sfida delle versione italiana è ricavarsi uno spazio non facilmente definibile in un panorama culturale e politico denso di anomalie. Quella che dovrebbe essere l'area di riferimento della rivista è frantumata e immalinconita. Finora la ribellione ha guardato a destra. Eppure fermenti radicali non mancano, sia a livello sociale che dal punto di vista dei diritti individuali.
L’editoriale del secondo numero si apre con una citazione di Pier Paolo Pasolini, voce narrante di un documentario andato perduto sullo sciopero degli spazzini nel 1970. Quasi mezzo secolo dopo, frammentazione produttiva, società dello spettacolo e comunicazione istantanea hanno depotenziato l’arma dello sciopero. Nuove forme di lotta si affacciano. L’8 marzo tocca alle donne, con l’iniziativa «Non una di meno». «Uno sciopero, ma con modi inediti» dicono. Analisi tra semiologia e sociologia, reportage, testimonianze e fumetti indagano un universo - i conflitti nei luoghi di lavoro - presente nella vita di tutti ma ignorato dal discorso pubblico.
La sezione di importazione americana è intitolata «What Bernie Sanders should do» e guarda alle elezioni presidenziali del 2020, traguardo per il quale l’anziano senatore del Vermont si ricandida come alternativa da sinistra al trumpismo. Già, ma con quale agenda? Dal clima alla politica estera, dalla giustizia penale all’economia, Meagan Day analizza lo scenario di una presidenza Sanders dal punto di vista degli equilibri parlamentari, dato che «la maggioranza del Congresso sarebbe probabilmente composta da una combinazione di repubblicani conservatori proni all’austerità e democratici centristi più che disposti a incontrarli a metà strada».
il manifesto 4.3.19
Perché il destino di Radio Radicale ci riguarda tutti
«La stampa serve chi è governato, non chi governa»
Corte Suprema degli Stati uniti, 30 giugno 1971
di Andrea Pugiotto
Ciò che non è riuscito – pur avendoci provato – a molti governi precedenti, è ora a portata di mano di quello felpa-stellato: chiudere Radio Radicale.
Sarà il trailer per le chiusure che seguiranno, con il programmato taglio dei contributi per l’editoria: Avvenire, Il Foglio, questo stesso quotidiano.
Poiché sono i mezzi a prefigurare i fini, c’è da essere seriamente preoccupati. Si tratta infatti di voci molto diverse tra loro, ma con un denominatore comune: pensare altrimenti, rispetto al populismo e al sovranismo imperanti.
Si difende il diritto all’informazione in un solo modo: informando.
È quanto da sempre fa Radio Radicale, fedele al suo motto einaudiano «conoscere per deliberare».
Da un partito eterodosso non poteva che nascere un’emittente inedita nel suo fare informazione: di parte, ma non faziosa; privata, ma capace di fare servizio pubblico; piccola, ma non marginale; senza musica, solo parole; niente pubblicità, tutta informazione; vox populi grazie ai fili diretti e alle interviste per strada, ma non populista; una voce che dà voce a ogni voce; «dentro, ma fuori dal Palazzo».
Un ossimoro radiofonico, insomma, rivelatosi spazio ragionante grazie ai suoi tempi lunghi, e non menzognero grazie alla scelta di trasmettere tutto, da ovunque, per tutti, direttamente.
Così è stata fin dalle origini. Perché l’informazione di potere si batte così, mettendo in rete le istituzioni, i partiti, i sindacati, i movimenti, l’opinione pubblica, consentendo a ciascuno di sapere, capire, farsi un’idea. L’esatto contrario di una controinformazione altrettanto faziosa, destinata a farsi omologato senso comune a rapporti di forza rovesciati.
Se è la durata a dare forma alle cose, si è trattato di una felice intuizione: Radio Radicale, infatti, trasmette ininterrottamente dal 1975.
La sua probabile chiusura – come quella delle testate che seguiranno – segnala lo scontro in atto per la rappresentazione della realtà, di cui si vuole proibire una comunicazione non mediata, capace di mostrarla per ciò che è, fuori dal dominio controllato dei portavoce, dei blog eterodiretti, dei tweet autoreferenziali, dei narcisistici selfie.
Nel caso di Radio Radicale c’è dell’altro. Non è in gioco solo la rappresentazione del presente, ma anche la memoria del passato e del futuro.
Il suo archivio è il più grande tabernacolo audiovisivo di democrazia, dove sono custoditi nella loro integralità oltre quarant’anni di storia politica, giudiziaria, istituzionale. Una memoria collettiva di quel che è stato detto e fatto, fruibile da chiunque.
Sappiamo da Orwell che «chi controlla il passato, controlla il presente; chi controlla il presente, controlla il futuro». Ecco perché l’archivio di Radio Radicale è un’arma nonviolenta per resistere a coloro che nulla sanno e poco vogliono sapere, desiderosi di plasmare una storia semplificata e binaria, dove autorappresentarsi nuovi, giusti, innocenti, arcangeli vendicatori.
Qui lo stop all’attività di registrazione e catalogazione sarà già un colpo mortale per tutti, non solo per Radio Radicale: il suo archivio, infatti, è un fondo alimentato ogni giorno da documentazioni che si aggiungono a quelle già esistenti. Interromperne il flusso significa smarrire per sempre le tracce di quanto accadrà nel nostro Paese. Irrimediabilmente.
Dunque, preoccuparsi per Radio Radicale e occuparsi della sua sorte si deve, ma come?
Il cappio che può stringerla mortalmente è tutto normativo: è la legge di bilancio ad aver dimezzato il contributo per la trasmissione delle sedute parlamentari, rinnovando la relativa convenzione solo per il primo semestre 2019. È la stessa legge a stabilire l’eliminazione del contributo per l’editoria a partire dal 1 gennaio 2020. Solo una sua duplice modifica può consentire di giocare il possibile contro il probabile.
Mi (e vi) domando: dove sono i tanti parlamentari, di ogni schieramento, che mai si sono sottratti ai microfoni di Radio Radicale?
Perché i senatori a vita, custodi di un’autentica memoria collettiva, non si fanno promotori di un’iniziativa legislativa ad hoc?
Si può sperare in un’oncia di ascolto a Palazzo Chigi, dove siede un giurista che conosce il rango costituzionale del pluralismo informativo?
Il film The Post, citando la Corte Suprema, ha ricordato a tutti che «la stampa serve chi è governato, non chi governa». Vale ovunque esista uno stato di diritto che sia ancora tale. Anche per questo la sorte di Radio Radicale prefigura il destino che tutti ci accomuna.
Corriere 2.3.19
la famiglia chiede nuovi controlli
Il mistero Orlandi porta a una tomba dentro il Vaticano
di Fiorenza Sarzanini
Una tomba antica nel cimitero teutonico dentro le mura vaticane. Conduce lì l’ultimo mistero collegato alla scomparsa di Emanuela Orlandi. Alcune segnalazioni giunte mesi fa ipotizzano possa custodire i resti della giovane sparita nel 1983. E ora la famiglia chiede alla segreteria di Stato, in particolare al cardinale Pietro Parolin, di aprire quel loculo.
Roma Porta a una tomba antica che si trova nel cimitero teutonico all’interno delle mura vaticane l’ultimo mistero collegato alla scomparsa di Emanuela Orlandi. Perché alcune segnalazioni giunte qualche mese fa accreditano l’ipotesi che possa custodire i resti della giovane sparita nel 1983. E adesso la famiglia ha presentato formale istanza alla segreteria di Stato, in particolare al cardinale Pietro Parolin per conoscere la storia di quel loculo, e — se i risultati non saranno certi — per ottenerne l’apertura. Una richiesta inviata anche al promotore di giustizia della Santa Sede, proprio nella speranza che vengano svolte ulteriori indagini e trovino risposte tutti gli interrogativi rimasti ancora insoluti. Per questo è stato allegato l’elenco degli alti prelati che negli anni potrebbero aver avuto un ruolo o comunque essere venuti a conoscenza di informazioni preziose per scoprire che fine abbia fatto la quindicenne svanita nel nulla il 22 giugno 1983 .
La statua dell’angelo: «Requiescat in pace»
Appoggiato a una parete del cimitero c’è la statua di un angelo che tiene un foglio con la scritta in latino «Requiescat in pace», «Riposa in pace». Per terra una lastra con una scritta funeraria dedicata alla principessa Sofia e al principe Gustavo von Hohenlohe che nel 1857 fu nominato arcivescovo da papa Pio IX. L’estate scorsa una lettera con allegata la foto della tomba è stata recapitata all’avvocatessa Laura Sgrò che assiste la famiglia Orlandi: «Cercate dove indica l’angelo». A quel punto sono state avviate indagini difensive effettuando verifiche sullo stato dei luoghi e si è scoperto che la tomba è stata aperta almeno una volta e che la datazione della statua è diversa da quella della lastra. Ma si è soprattutto «verificato che alcune persone erano state informate della possibilità che i resti di Emanuela Orlandi fossero stati nascosti nel cimitero teutonico», come spiega la stessa avvocatessa.
La Gendarmeria e gli atti archiviati
«Alcune fonti — è scritto nell’istanza depositata dall’avvocatessa Sgrò il 25 febbraio scorso — riferiscono che più persone da anni sono solite deporre i fiori in segno di pietà nei confronti dell’Orlandi che lì sarebbe seppellita. Per fugare ogni dubbio sul contenuto, si ritiene opportuno una ricerca negli archivi di ogni documento relativo a tale loculo per individuare chi vi risulti essere stato sepolto. In ogni caso si chiede l’apertura della tomba alla presenza della sottoscritta di un rappresentante della famiglia Orlandi e del nostro consulente tecnico, il dottor Giorgio Portera, affinché possa partecipare alle operazioni con tutte le garanzie necessarie vista la gravità del caso».
La scelta di rivolgersi al cardinale Parolin è stata fatta proprio perché autorizzi la Gendarmeria ad acquisire il fascicolo relativo al loculo, tenendo conto che il cimitero è la fondazione tedesca più antica e per statuto «hanno diritto di sepoltura i membri della Arciconfraternita, i membri di molte case religiose di origine tedesca e dei due collegi tedeschi Anima e Germanico», che si trovano nella Capitale. Dunque non è escluso che — se l’istanza sarà accolta — dovranno essere interessate anche le autorità tedesche. Non a caso il legale si rivolgerà anche «al Governatorato proprio per verificare sia la extraterritorialità in favore della Santa Sede sia le piantine che possano consentire di ricostruire eventuali alterazioni».
La lista dei prelati nei ruoli apicali
Nella premessa dell’istanza, l’avvocatessa Sgrò ribadisce al cardinale Parolin la «supplica» della famiglia Orlandi «di dissipare le ombre che hanno coinvolto, sin da subito e non immotivatamente, la Santa Sede nella scomparsa di Emanuela». E per questo, dopo aver ricordato come le rogatorie della Procura di Roma siano sempre state respinte, chiede di «autorizzare l’audizione di tutti i prelati che hanno ricoperto ruoli apicali e in questa veste si sono occupati negli anni delle vicende legate al rapimento di Emanuela». Nell’elenco ci sono il cardinale Giovanni Battista Re, il cardinale Eduardo Martinez Somalo, il cardinale Angelo Sodano, il cardinale Tarcisio Bertone e monsignor Pietro Vergari che ebbe un «ruolo chiave nella vicenda che coinvolge Enrico De Pedis, il boss della banda della Magliana, sepolto incredibilmente nella Basilica di Sant’Apollinare».
L’obiettivo è sempre quello di verificare «quali trattative ci siano state tra le alte gerarchie e i rapitori di Emanuela dopo la sua sparizione», ma l’interesse della famiglia riguarda in particolare «che cosa è accaduto negli anni successivi e di accedere a tutti gli atti custoditi presso la Segreteria di Stato che riguardino il “caso Orlandi”». Qualche mese fa, di fronte a un’analoga richiesta, l’allora sostituto monsignor Angelo Becciu disse che «il Vaticano era pronto a consegnare tutto, ma quando abbiamo saputo che il Movimento 5 Stelle chiedeva una commissione d’inchiesta ci siamo fermati». La commissione parlamentare non è stata istituita e dunque la famiglia Orlandi adesso chiede nuovamente di poter visionare i dossier rimasti segreti .
Il Fatto 2.3.19
Re Bibi alle strette, ora parla di “persecuzione politica”
Corruzione - Netanyahu con un discorso di 16 minuti in tv risponde all’incriminazione con la tattica di Trump: delegittimare chi lo accusa
Re Bibi alle strette, ora parla di “persecuzione politica”
di Fabio Scuto
L’uomo che un tempo era il capo di Gabinetto di Benjamin Netanyahu potrebbe averne l’altra sera decretato l’inizio della parabola discendente. Avichai Mandelblit oggi è il procuratore generale dello Stato d’Israele, capo dell’ufficio che in 57 pagine ha riassunto i capi di imputazione contro il premier uscente che vanno dalla frode alla corruzione, alla violazione della fiducia. Un pacchetto di accuse serie messo insieme in due anni di indagini serrate dalla Lahav 433, l’unità speciale contro la frode e la corruzione, arricchite dalle testimonianze di tre ex intimi collaboratori di Bibi, che hanno collaborato in cambio di un declassamento delle accuse contro di loro.
L’annuncio, anche se ampiamente previsto nei tempi, è piovuto nel pieno della campagna elettorale per le elezioni del 9 aprile che si annunciano come quelle che dopo 13 anni potrebbero segnare la fine del regno di “King Bibi”. Lui – consapevole che questa potrebbe essere la sua ultima battaglia – promette di vender cara la pelle e parla di “persecuzione politica”. Ha imbarcato nel suo schieramento l’ultra destra razzista e xenofoba dei ‘kahanisti’, messi fuorilegge negli anni Novanta e adesso tornati sotto altre sigle, e poi coloni messianici, frange violente del tifo calcistico, per far fronte alla avanzata dell’Alleanza dei generali, i suoi sfidanti: Benny Gantz, Moshe Yaalon e Gabi Askenazi. I tre ex comandanti in capo dell’IDF hanno una fila di medaglie lunga un metro ciascuno e il vento in poppa nei sondaggi, staccano il Likud di Netanyahu di ben 6 seggi. Gantz, che dirige l’Alleanza “Kahol Lavan” (Blu e Bianco, la bandiera di Israele) insieme a Yair Lapid, ha invitato Netanyahu alle dimissioni dopo la formalizzazione delle accuse.
I sedici minuti di discorso di Netanyahu via tv e Facebook l’altra sera sono stati solo il primo assaggio del suo schema di difesa che sembra mutuato da quello del suo sostenitore Donald Trump nei confronti delle indagini dell’Fbi sui di lui: delegittimare chi lo accusa. “Questo intero castello di carte crollerà – ha detto – ne sono assolutamente certo e intendo servire il Paese per molti anni a venire”. E fino a quando al processo non sarà condannato, potrà continuare a servire come primo ministro, a condizione che il suo partito – il Likud – vinca le elezioni della Knesset e rimanga al potere.
La decisione di Mendelblit arriva dopo mesi di lunghe discussioni che hanno coinvolto venti alti funzionari del ministero della Giustizia. Circa 140 testimoni sono stati ascoltati, alcuni hanno fornito prove come gli ex collaboratori del premier Ari Harow , Shlomo Filber e Nir Hefetz; anche cinque ministri del governo attuali o precedenti – Yair Lapid, Gilad Erdan, Yariv Levin, Zeev Elkin e Tzipi Livni – hanno deposto davanti ai giudici.
Benjamin Netanyahu, il Likud e i partiti alleati hanno fatto di tutto perché l’ufficio del Procuratore Generale si pronunciasse dopo il voto del 9 aprile sostenendo che la decisione di Mandelblit avrebbe “influenzato il voto e minato la democrazia”. “Il processo – accusano – è stato spinto dalla pressione dei media e della sinistra”. La decisione di Mandelblit non è definitiva. Netanyahu avrà l’opportunità di capovolgerla in un’audizione che si terrà nei mesi successivi al giorno delle elezioni del 9 aprile. Nell’udienza preliminare l’accusa presenterà tutte le sue prove contro il premier, sarà la prima volta che il collegio di difesa di Netanyahu potrà consultarle nella loro interezza. Il processo potrebbe richiedere fino a un anno. I giudici di Israele hanno già dato prova di non farsi influenzare dalla caratura dei personaggi sotto accusati. In un recente passato hanno condannato un capo dello Stato (Moshe Katsav per molestie sessuali), un vice-premier (Ehud Olmert per corruzione), un ministro ortodosso per bustarelle e un altro per spionaggio. Non si faranno intimidire da Bibi Netanyahu.
La Stampa 4.2.19
Svolta dell’islam sunnita
“Praticare la poligamia è ingiusto per le donne”
L’annuncio del Grande imam Ahmed al-Tayeb in Egitto Avere più mogli non rispetta “il principio di equità”
di Giordano Stabile
La poligamia è «una ingiustizia nei confronti delle donne e dei figli». A dirlo è il Grande imam Ahmed al-Tayeb dell’università Al-Azhar, la massima autorità religiosa sunnita. Una sconfessione aperta di quella che è una pratica non molto diffusa del mondo musulmano ma fin qui considerata ineccepibile. Per Al-Tayeb però, sposare «una seconda, terza, quarta moglie» non rispetta «il principio di equità» che è alla base dell’islam. E quindi, salvo casi eccezionali, meglio evitarlo.
L’annuncio in tv
La presa di posizione, durante la sua settimanale trasmissione televisiva, ha suscitato un dibattito accesissimo sui social media, tanto che il sito dell’università di Al-Azhar ha poi precisato che l’imam non voleva «proibire» la poligamia, anche se l’ha di fatto sconsigliata.
In Egitto ci sono state anche molte reazioni positive, soprattutto da parte delle associazioni delle donne. Al-Tayeb ha assunto una posizione sempre più moderata, soprattutto dopo l’ascesa al potere del generale Abdel Fatah al-Sisi, fautore di una modernizzazione a tappe forzate del Paese, anche in campo religioso. Lo stesso Al-Sisi, nel gennaio del 2015 aveva chiesto ai religiosi di Al-Azhar una «riforma dell’islam» perché non si poteva più tollerare che le interpretazioni estremiste mettessero «l’intera comunità musulmana contro il resto del mondo».
Per il raiss si tratto soprattutto di isolare a livello ideologico i Fratelli musulmani, suoi acerrimi nemici, ma Al-Tayeb ha cominciato un percorso di dialogo interreligioso culminato con l’incontro con Papa Francesco ad Abu Dhabi, un manifesto per la reciproca comprensione.
Gli interventi alla tivù hanno invece una funzione pedagogica interna. Al-Tayyib ha spiegato che i versetti del Corano che riguardano la poligamia vengono letti «in maniera parziale» e che si dimentica che il Profeta autorizza il matrimonio multiplo solo ad «alcune condizioni», la più importante delle quali è «l’equità». «Molti - ha continuano - leggono soltanto “due, tre, quattro” e non leggono l’intero versetto, bisogna andare avanti, quando dice: “Se non credi di poter essere giusto nei loro confronti, allora prendine soltanto una”». Il musulmano «è veramente libero di sposare una seconda, terza o quarta moglie?», si è chiesto. «Questa libertà - ha concluso - c’è solo se si può rispettare la condizione di equità, e se non c’è equità allora è proibito avere più mogli».
L’interpretazione
Al-Tayed si era già espresso in maniera critica sulla poligamia nel 2010, e poi nel 2016, subito dopo che Al-Sisi aveva lanciato la «riforma» dell’islam. È la prima volta che però si esprime in modo così netto. Ed è anche il metodo a essere importante. Un «nuovo discorso religioso» presuppone una lettura del Corano più coraggiosa, in grado di contrastare l’interpretazione «letterale» e spesso parziale dei gruppi salafiti e jihadisti, che citano solo le parti che avvalorano le tesi estremiste, come la necessità di combattere gli «infedeli».
Il Consiglio nazionale delle donne, vicino al governo egiziano, ha accolto con grande favore le tesi di Al-Tayeb. «L’islam onora le donne - ha puntualizzato la presidente Maya Morsi - ha portato giustizia e numerosi diritti che prima non esistevano». Va anche detto che la poligamia è legale in quasi tutti i Paesi musulmani, ma è poco comune. In Tunisia e Turchia è proibita. In Egitto, come in molti altri Stati, l’uomo può sposarsi una seconda volta soltanto con il consenso della prima moglie.
La Stampa 4.2.19
Milionari, politici e star del cinema
Al via l’assemblea che giudica Xi
di Francesco Radicioni
Circa cinquemila delegati da ogni angolo della Cina sono arrivati a Pechino per quello che sulla carta è il rito politico più importante nella Repubblica Popolare: la sessione annuale delle «due Assemblee», la «Liang Hui» in mandarino.
Tra i marmi e i tappeti rossi della Grande Sala del Popolo affacciata sulla Tian’anmen è iniziata ieri la riunione della Conferenza Politica Consultiva: un organo che non ha poteri formali, ma che tra gli oltre 2.000 adviser politici include anche alcuni degli uomini più ricchi della Cina e persino personaggi del mondo dello spettacolo, come l’ex-star della Nba Yao Ming e l’attore di Hong Kong Jackie Chan.
Tremila delegati
Martedì - con la relazione del primo ministro Li Keqiang - prenderanno il via i lavori dell’Assemblea Nazionale del Popolo: il Parlamento della Repubblica Popolare che riunisce quasi 3.000 delegati, dai grigi funzionari locali ai rappresentanti delle minoranze etniche in abiti tradizionali, dai dirigenti delle imprese di Stato ai «lavoratori modello». «È ampiamente riconosciuto che la chiave del successo della Cina sia il suo sistema di democrazia», diceva senza ironia la Xinhua in un video di presentazione dell’evento. Al di là della retorica ufficiale, secondo gli analisti il Parlamento di Pechino ha ruolo soprattutto cerimoniale e quasi sempre i delegati si limitano a mettere il sigillo del voto su decisioni prese nelle segrete stanze di Zhongnanhai. Il primo voto contrario di un delegato si è registrato solo nel 1988 anche se - come ricorda la rivista Caixin - il Parlamento cinese «non ha mai bocciato una proposta di legge».
Quest’anno le «due Assemblee» si riuniscono in un momento in cui la seconda economia del mondo ha mostrato diversi segnali di rallentamento: tra le tensioni commerciali con gli Stati Uniti e i dati che indicano una contrazione dei consumi. Se lo scorso anno la crescita economica è stata del 6,6%, gli analisti si aspettano che martedì il capo del governo Li Keqiang fisserà per il 2019 un obiettivo di crescita tra il 6 e il 6,5%. Altro dato che farà discutere sarà quello sulla spesa militare: nei giorni scorsi i giornali di Pechino prevedevano un aumento dell’8-9%. Gli economisti di Ubs e di Morgan Stanley si aspettano che le «due Assemblee» continueranno anche ad adottare misure pro-crescita e di taglio delle tasse. Mentre l’amministrazione di Trump continua a insistere sulla difesa della proprietà intellettuale e contro il trasferimento forzato di tecnologia, è probabile che il Parlamento cinese approvi una nuova legge sugli investimenti stranieri per rispondere alle richieste delle imprese europee e americane.
Corriere 4.3.19
Il commento
L’ordine di Xi ai dirigenti politici: «Autovalutatevi»
dal corrispondente Guido Santevecchi
Pechino In gergo politico mandarino si chiamano «Due sessioni»: si tratta della riunione annuale della Conferenza consultiva del popolo cinese, inaugurata ieri, e del Congresso nazionale del popolo (tutto è «del popolo» in Cina, anche se il potere è solo del Partito comunista). Così, nella Grande sala del popolo in piazza Tienanmen va in scena per una decina di giorni la rappresentazione teatrale della democrazia con caratteristiche cinesi. L’anno scorso è stata prodotta la riforma della costituzione che ha abrogato i limiti di due mandati per la presidenza, mettendo nelle mani di Xi Jinping la guida a vita dello Stato, se la vorrà e starà bene in salute. Oggi, a 66 anni da compiere a giugno, appare un leader vigoroso, anche se i problemi dell’economia che rallenta e la guerra commerciale con Trump hanno finalmente fatto comparire qualche capello grigio nella sua folta capigliatura nera. La Conferenza consultiva riunisce duemila delegati espressione della «società civile», compresi numerosi miliardari, capitani d’industria privata e statale. Il cuore politico dell’evento «Due sessioni» è il Congresso, versione mandarina del Parlamento, che si apre domani. Verranno annunciati gli obbiettivi di crescita del Pil per il 2019 (previsioni al 6%), il piano economico e sociale del governo con gli investimenti in infrastrutture (qui comanda il movimento Sì Tav, sempre più Tav, che ha superato già i 22 mila km di rete), e il budget militare. Particolare attenzione è promessa per la lotta alla povertà, nel 70° anniversario della fondazione della Repubblica popolare. Sul fronte economico il governo del premier Li Keqiang, che sarà il principale attore della sessione parlamentare con il «rapporto di lavoro» iniziale di domani, si trova a gestire il rallentamento. Su questo fronte Xi Jinping si tiene defilato, anche se si coglie la sua preoccupazione: la stampa statale riferisce di relazioni di «auto-valutazione» richieste dal leader ai dirigenti di alto livello, per saggiarne la lealtà assoluta alla sua linea di comando. Il 2018 si è chiuso con una crescita del 6,6%, il passo più lento in 28 anni per la Cina. Ma Pechino insiste nel far notare che la Cina ha ormai un Pil da 13.600 miliardi di dollari e l’anno passato «ha aggiunto 1.400 miliardi, quanto l’intero Pil dell’Australia»: come a dire che il 6,6% ha prodotto una intera nuova Australia (o due terzi di Italia, visto che il nostro Pil vale 2.083 miliardi di dollari). Dopo le sedute parlamentari, Xi volerà in Italia (prevista anche una tappa turistica a Palermo) dove potrebbe essere conclusa l’intesa diplomatica per il memorandum sulla Via della Seta.
Corriere 4.12.19
Nel dopoguerra furono quasi tutti vani i tentativi di punire le passate ruberie
Le tangenti del littorio
La corruzione dilagava tra i Gerarchi
Farinacci e Rossoni due casi clamorosi
nali e Clemente Volpini (Mondadori) passa in rassegna gli arricchimenti di noti personaggi del regime fascista, Mussolini compreso
di Paolo Mieli
Nel 1975, durante uno spettacolo a Genova, Walter Chiari (che in gioventù aveva aderito alla Repubblica sociale italiana) lanciò una provocazione: «Quando fu appeso per i piedi a piazzale Loreto, dalle tasche di Mussolini non cadde nemmeno una monetina… Se i nuovi reggitori d’Italia subissero la stessa sorte, chissà cosa uscirebbe dalle loro tasche!». La battuta provocò un grande applauso, a dispetto del fatto che la città fosse medaglia d’oro della Resistenza e di lì nell’estate del 1960, per protesta contro la convocazione di un congresso del Msi, fosse partita la rivolta che aveva provocato la caduta del governo Tambroni. Da allora la battuta di Walter Chiari divenne un luogo comune della destra e, più in generale, dei settori qualunquisti e conservatori dell’opinione pubblica italiana. Anche quelli non nostalgici. Mauro Canali e Clemente Volpini sono andati a verificare se le cose andarono veramente nei modi di cui alle parole di Walter Chiari. Se cioè corrisponde alla realtà che i fascisti, ancorché politicamente nefasti, siano stati sostanzialmente onesti. E sono giunti alle conclusioni — esposte in un libro, Mussolini e i ladri di regime. Gli arricchimenti illeciti del fascismo, in procinto di essere pubblicato da Mondadori — che le cose non stanno così.
Mussolini, ricordano Canali e Volpini, aveva fondato nel 1919 il movimento fascista (che diventerà Partito nazionale fascista nel 1921) «per combattere i profittatori di guerra, i “pescecani”, i politicanti, gli egoisti, i corrotti e poi i parassiti dello Stato». Il programma dei Fasci di combattimento proponeva il sequestro dei profitti di guerra o una vera espropriazione parziale di tutte le ricchezze attraverso un’imposta sul capitale. Poi, dopo che Mussolini giunse al potere (1922), non se n’era più fatto niente. Ma nella retorica del regime l’attacco alla plutocrazia, al potere della ricchezza resisterà per tutto il Ventennio. Fisiologico perciò che, dopo la caduta del fascismo (25 luglio 1943), il governo di Pietro Badoglio avviasse immediatamente un’indagine per verificare se sotto il regime fossero state commesse delle ruberie. Il 5 agosto del 1943, la notizia dell’avvio dell’inchiesta sugli illeciti arricchimenti dei maggiorenti mussoliniani — con un’apposita commissione presieduta dal presidente della Corte suprema di Cassazione Ettore Casati — fu data da tutti i giornali e nel giro di pochi giorni i gerarchi finirono sulle prime pagine — scrivono Canali e Volpini — «gettati in pasto a un’opinione pubblica che fino a poco tempo prima li aveva temuti odiati, riveriti, spesso invidiati». Con quei racconti, aggiungono gli autori, la fine tragica del Ventennio assunse «tratti da commedia, da spettacolo del malaffare ridicolo e ricco di colpi di scena». Con «fughe rocambolesche, rotoli di banconote nascosti nell’acqua degli sciacquoni, arresti eccellenti, favolosi patrimoni in ville, tenute, palazzi e castelli». Per arrivare infine «ai sequestri dei beni mobili, con verbali e inventari redatti con una pignoleria da non credersi»: dalle pellicce agli arazzi, dai cavalli purosangue ai posacenere, «passando per i corredi, tovaglie, lenzuola, asciugamani, fino al numero di posate in argento e all’ultima pantofola, calza e mutanda del gerarca inquisito». Il tutto «immerso in un fiume di denaro e in un cerchio fatto di amici, amici degli amici, amanti, mogli, figli, parenti lontani, ricattatori, ruffiani e segretarie compiacenti». Per un ammontare di 118 miliardi di lire dell’epoca di cui l’Erario riuscirà a recuperare solo 19.
In seguito di quel genere di storie che avevano tenuto banco sui giornali nell’estate del 1943 si parlò sempre meno; finché, poco più di trent’anni dopo, fu possibile fare quella battuta a Genova senza che nessuno (o quasi) trovasse alcunché da ridire. Adesso i due storici, sulla base di una nuova, ampia documentazione inedita, sono giunti a un punto definitivo: gran parte dei fascisti di primo piano, a partire dallo stesso Mussolini e dai familiari della sua amante Claretta Petacci, si arricchirono in modo davvero considerevole. Conclusione a cui giunge anche un altro pregevole volume testé edito da Laterza, Il fascismo dalle mani sporche. Dittatura, corruzione, affarismo, che raccoglie saggi di autori diversi, raccolti e curati da Paolo Giovannini e Marco Palla.
Il più grande arricchito del regime risulta essere Costanzo Ciano, padre di Galeazzo, che sarà ministro degli Esteri nonché marito di Edda, la figlia di Mussolini. Alla morte di Costanzo Ciano, raccontano Canali e Volpini, Vittorio Emanuele III aveva confidato a Mussolini, «facendogli strabuzzare gli occhi e lasciandolo senza fiato», che l’uomo aveva accumulato un patrimonio di circa 900 milioni. Ma c’è stato anche di peggio.
I più sorprendenti risultano essere il prefetto Antonio Le Pera e il sottosegretario (futuro ministro dell’Interno nella Rsi) Guido Buffarini Guidi, che lucrano sulle politiche razziali del regime. «La banda che era mossa dal prefetto Lepera in realtà faceva capo a Buffarini che mangiava a quattro ganasce», annotava Galeazzo Ciano sul suo diario. Voci si addensano anche su uno dei principali esponenti dell’antisemitismo italiano, Telesio Interlandi, direttore de «Il Tevere». Alla fine degli anni Trenta, Francesco Peruzzi, questore e alto funzionario dell’Ovra, sostiene che Interlandi avrebbe ricattato per «varie decine di migliaia di lire» l’ebreo Gino Coen, un «facoltoso industriale romano». Il questore riferisce al capo della polizia Arturo Bocchini, il quale a sua volta informa Mussolini. Il Duce, ricostruiscono Canali e Volpini, «vuole certezze e affida al ministro della cultura popolare Dino Alfieri il compito di far luce sul caso Interlandi». Peruzzi raccoglie le prove, le consegna ad Alfieri e poi riferisce anche a Bocchini, che lo liquida con una battuta: «Hai fatto una fatica inutile perché purtroppo Interlandi non sarà mai toccato in quanto nella faccenda degli ebrei troppe personalità sono coinvolte, non esclusi gli stessi familiari di Mussolini».
Interessante è la storia di Roberto Farinacci, il ras di Cremona, squadrista, antisemita, filonazista, al fianco di Mussolini anche durante l’avventura di Salò e per questo fucilato dai partigiani il 28 aprile 1945. L’immagine che tenne a dare di sé fu quella del «paladino della rivoluzione fascista, duro e puro», «integerrimo e votato alla causa», impegnato in una «personalissima battaglia contro gli affaristi, i corrotti, e i profittatori di regime, contro chi sfruttava il partito per arricchirsi». L’inchiesta sui suoi arricchimenti durerà dal 1943 al 1956 e il suo patrimonio sarà valutato, nel 1949, in una cifra astronomica: 614 milioni e 627 mila lire. Tanto per dare un’idea delle proporzioni, precisano Canali e Volpini, nel 1938 un senatore del Regno guadagnava annualmente tra le 20 e le 25 mila lire, un maestro tra le 9 e le 13.500 lire, un operaio 4.238 lire. Farinacci non poté godere del patrimonio accumulato perché fu giustiziato come si è detto nel 1945, ma aveva sistemato le cose in modo che ne potessero usufruire i suoi familiari. Alla fine, dopo undici anni di battaglie legali, i suoi eredi riusciranno a «salvare» una somma di oltre 600 milioni, «pagando una cifra irrisoria in comode rate e cedendo appena poco più di due ettari di terreno e una società in gravissime condizioni economiche, che nessuno più voleva, dopo averla comunque depredata di una bella fetta del suo patrimonio immobiliare».
Più «fortunato» di tutti è il sindacalista Edmondo Rossoni, nato nel 1884 a Tresigallo in provincia di Ferrara. Sindacalista rivoluzionario all’inizio del Novecento, fu denunciato la prima volta nel 1903 quando aveva solo diciannove anni e in seguito fu costretto a fuggire in Francia, negli Stati Uniti, in Brasile. Al momento della marcia su Roma, Rossoni ha già trentott’anni. Non è uno dei più giovani tra i seguaci di Mussolini. Poi però diviene capo dei sindacati fascisti, deputato per tre legislature, consigliere nazionale alla Camera dei fasci e delle corporazioni, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, ministro dell’Agricoltura e Foreste e membro del Gran Consiglio dal 1930 fino all’ultima seduta del 25 luglio 1943, quando con il suo voto favorevole all’ordine del giorno di Dino Grandi è tra i gerarchi che provocheranno la caduta del fascismo. È uno dei protagonisti di Canale Mussolini di Antonio Pennacchi (Mondadori). Tra il 1922 e il 1925, registrano Canali e Volpini, «i contratti conclusi dalle corporazioni fasciste furono peggiori di quelli stipulati dalle associazioni “rosse” negli anni precedenti, sia in termini di paghe che di condizioni di lavoro». E Rossoni divenne improvvisamente agiato. Nel 1924 comprò a Roma un sontuoso appartamento ai Parioli e un podere di cinque ettari a Tresigallo. Ma fu solo l’antipasto.
Nell’ottobre 1925, con il patto di Palazzo Vidoni tra la Confindustria e la Confederazione delle corporazioni fasciste, il gerarca ottenne il monopolio della rappresentanza operaia e nel 1926 il riconoscimento giuridico di un solo sindacato nazionale per categoria. Così Rossoni diviene «uno degli uomini più potenti d’Italia». Nel novembre 1927, lascia i Parioli e si trasferisce in via Veneto «che non è ancora il cuore della “dolce vita” ma è già il grande boulevard degli hotel esclusivi» L’Ovra raccoglie le confidenze di un ufficiale della milizia che racconta di «un appartamento addirittura principesco, con salotti numerati, servi in livrea, camerieri e governanti».
Nel dicembre del 1928, Mussolini — alle cui orecchie sono giunti i mormorii sulla vita da satrapo del «sindacalista» (Curzio Malaparte lo definì «la miglior forchetta del Regime») — prova ad esautorarlo disponendo il cosiddetto «sbloccamento», attraverso il quale l’organizzazione dei lavoratori guidata da Rossoni viene smembrata in sei confederazioni nazionali. La risposta di Rossoni è un dossier su Mussolini che contiene notizie su illeciti del Duce che risalgono addirittura alla stagione che precedette la nascita del fascismo.
Circola anche la voce che Rossoni sia fuggito all’estero «ben foderato di milioni». Ma il ras del sindacalismo fascista resta invece a Roma e nel 1929 compra una lussuosa villa ad Anzio. Magione che incuriosisce il capo del fascismo. Quinto Navarra, il cameriere di Mussolini, racconta nelle sue memorie: «Un giorno il Duce mi passò una lettera anonima nella quale si diceva che Edmondo Rossoni nella sua villa di Anzio possedeva un bagno con acqua di colonia corrente… Mussolini andò su tutte le furie e diede l’incarico a un funzionario della segreteria di assumere informazioni… Si riuscì a sapere, poi, che nel bagno di Rossoni esisteva un rubinetto per il profumo, ma era un rubinetto applicato a un grosso vaso di vetro contenente acqua di colonia».
La villa viene intestata all’amante di Rossoni, Anna Piovani, da cui l’uomo politico ha avuto una figlia, Itala. L’Ovra si accanisce contro la Piovani e scopre che è una prostituta e ha a sua volta un amore: «Batteva il marciapiede di Via Condotti per sovvenzionare l’amante del cuore, un certo Oscar». Secondo un informatore la Piovani è anche comparsa nuda in un film di Augusto Genina. Alla sua sarta di fiducia avrebbe confidato che Rossoni «ha piazzato al sicuro diversi milioni nelle banche d’America». Le piace giocare a poker, balla «in modo un po’ sguaiato» e ha nuovi spasimanti tra i quali «un noto baro, certo Mario Ventunni» definito nella relazione «cocainomane». Ma Rossoni continua ad intestarle i beni.
Giuseppe Bottai nel suo diario riporta una lettera anonima del 1935 che definisce Rossoni «imboscato, poligamo, cornuto, ladro». Bottai e Augusto Turati allertano Mussolini sulle trame di Rossoni; il Duce però lo riabilita e il «sindacalista» riprende la marcia trionfale. Nel dopoguerra Piero Calamandrei troverà il dossier sulle ruberie di Rossoni e le prove che Mussolini sapeva tutto di lui. Ne trarrà questa conclusione: «Gli uomini per governare devono essere corrotti, o meglio devono essere corrotti per poterli ricattare… Quel dossier doveva servire a Mussolini per tenerlo schiavo». Schiavo sì ma fino al 25 luglio del 1943, quando Rossoni lo tradirà. Per riparare subito dopo in Vaticano, in un monastero sull’Appennino, a Dublino e in Canada. E poi tornare in Italia amnistiato nel dopoguerra, concordare un relativamente modesto risarcimento all’erario, tenere per sé qualche decina di milioni e trovare la morte nel 1965, a 81 anni, dopo un’ultima stagione vissuta in un’agiata tranquillità. Grande libro quello di Canali e Volpini.
Corriere 4.3.19
A fil di rete di Aldo Grasso
«Propaganda Live» di Zoro, le liturgie di una scommessa vinta
Prima ancora che un programma televisivo, Propaganda Live è un milieu. Un ambiente, in senso sociologico e culturale, dalle caratteristiche molto distintive, che può diventare il terreno di coltivazione per processi politici, sociali, artistici e letterari. È un milieu molto romano, che può anche non piacere, ma è distintivo, coerente in tutte le sue parti, modellato dalle personalità riconoscibili dei suoi abitanti (La7, venerdì, 21.20).
Propaganda vive delle sue liturgie e, detto affettuosamente, della sua compagnia di giro. La band che accompagna il dibattito in studio (mai che sembri troppo serioso!), Marco Damilano che è riuscito a rendere lo «spiegone» un format accattivante, il grande Marco Dambrosio in arte Makkox che ri-disegna la realtà per di-spiegarla in modo più ironico e poetico. Il tassista Marco Matteucci, Missouri 4, con il suo stralunato sguardo sul mondo (la sua tv in strada, tra la gente comune, ha una freschezza inedita). Paolo Celata in rappresentanza del Tg La7. E, naturalmente, Diego Bianchi (Zoro), il capoclasse, colui che detta l’atmosfera del programma-milieu, costruito a sua immagine e somiglianza. Quando all’interno s’inseriscono voci che non ne fanno parte, l’incantesimo rischia di spezzarsi. Si è visto nel caso dell’intervento di Roberto Saviano, ormai sempre più autoreferenziale, così lontano dal tono di lucido e divertito disincanto che caratterizza Propaganda. L’approdo di Diego Bianchi su La7, in una serata ricca di offerta su tutti i canali principali come il venerdì, era una scommessa non facile e si può intuire la fatica iniziale che c’è stata. Ma, con il tempo, Propaganda è riuscito a ritagliarsi il suo spazio, a costruire la sua comunità fedele, beneficiando dell’autorevolezza nel campo dell’informazione e dell’approfondimento che costituisce uno dei tratti identitari più solidi di La7 e si riflette positivamente anche sul lavoro di Bianchi e della sua squadra.
Repubblica 4.3.19
Tullio Gregory
L’uomo che insegnava a pensare bene (anche a tavola)
di Antonio Gnoli
Lo storico della filosofia, autore di manuali su cui si sono formate intere generazioni, è morto a Roma all’età di novant’anni Accademico dei Lincei, fu attivo tutta la vita nell’Enciclopedia italiana
Certe volte si divertiva all’idea che al severo studioso di testi medievali e secenteschi si sovrapponesse l’intenditore di cibi, l’esperto gourmet in grado di discettare di roast beef, carbonare e amatriciane.
Intendiamoci. Tullio Gregory, morto sabato a Roma a 90 anni, non mescolava i codici di due saperi così diversi. Non si sarebbe mai permesso di accostare il Discorso sul metodo di Cartesio alla Scienza in cucina e l’arte di mangiar bene di Artusi. Eppure nutrì un rispetto assoluto per entrambi.
Ho avuto modo di conoscere abbastanza bene quest’uomo, il cui sguardo conservava qualcosa di rapace.
All’università di Roma, dove a lungo ha insegnato, Gregory era considerato un temuto barone.
Ne era, oltretutto, perfettamente consapevole. Alla domanda se considerasse etico il comportamento con cui decideva chi mandare in cattedra, rispondeva che era molto etico aver appoggiato candidati come Emilio Garroni e Lucio Colletti. Aveva una cattedra anche a Parigi. Le sue lezioni su Montaigne, Gassendi o Descartes furono uno scavo filologico sorretto da erudizione e intuito. Tutto quello che gli piaceva era leggere testi: manoscritti e prime edizioni. In quel territorio si muoveva con una velocità straordinaria. Più che un interprete penso che Gregory sia stato un glossatore di stampo medievale. Un "giurista" della filosofia capace di rivelare le oscure note di un sapere sempre in procinto di perdersi. Per questo amava quei pensatori ritenuti secondari o scarsamente presenti nel dibattito filosofico: sconosciuti libertini o atei pericolosi. E li amava anche per una ragione che può sembrare stravagante: erano il segno che la tradizione ha bisogno di figure marginali perché i grandi risplendano nel loro nucleo più segreto.
Gregory aveva studiato con Bruno Nardi, specialista di filosofia medioevale e in particolare di Dante. Anche Nardi apparteneva alla famiglia dei glossatori, cioè a coloro che ritenevano che l’ordine di un testo fosse di gran lunga più importante dell’interpretazione. Decenni di ermeneutica ci hanno fatto perdere di vista questa verità elementare. Di cui Gregory fu in qualche modo il sostenitore. C’era niente di più medievale in lui del non volere ambire ad alcuna originalità?
Gregory era del 1929, venne al mondo pochi mesi prima che nascesse Emanuele Severino.
Una coincidenza. Ma a volte le coincidenze svelano cose sorprendenti. Tanto il primo fu refrattario a qualunque personalizzazione della filosofia, quanto il secondo ha saputo offrirne una lettura originalissima. Non chiederei mai con quale parte schierarsi.
Però una domanda ce la possiamo porre: perché, in un’epoca in cui tutti i grandi filosofi aspirano ad essere originali, Gregory scelse di non esserlo? Nonostante gli importanti studi sul platonismo e aristotelismo, per lui non esisteva una filosofia in senso stretto. Non aveva senso ai suoi occhi definirsi platonici o kantiani, hegeliani o heideggeriani, crociani o gentiliani. Gli piaceva la filosofia come manifestazione di un sapere in un sapere più grande che è la storia della cultura.
Aveva con un colpo di spugna abolito le gerarchie. Il che non significa aver abolito i codici e le competenze. Questo è il motivo per cui, con altrettanta serietà e convinzione, affrontò il vasto e pittoresco mondo della cucina.
In uno dei nostri incontri, mi pare avvenisse alla taverna Flavia, a Roma, dove a volte amava invitare gli amici, progettammo un piccolo libro in cui un filosofo si spoglia dei suoi panni usuali e indossa quelli del gastronomo. Non se ne fece nulla. Aggiungo per colpa mia.
Però quella sera, oltre a parlare di ricette e dei modi migliori per cucinarle, gli chiesi perché si era lasciato incantare dal Medioevo e dalla prima modernità. Mi rispose che la cosa che lo attraeva di più erano i momenti di passaggio della cultura. Per esempio, precisò, un grande momento di passaggio nella storia della cultura europea fu tra dodicesimo e tredicesimo secolo, quando nel giro di pochi decenni, grazie alla grande enciclopedia della scienza greca e araba, muta radicalmente il quadro mentale. Un altro momento straordinario fu il passaggio dal Rinascimento al Seicento, anche qui con la riscoperta dei classici antichi.
Gli obiettai che così si correva il rischio di perdere il senso della periodizzazione di un’epoca. Al contrario, rispose. E portò a esempio quello che gli aveva insegnato Delio Cantimori per il quale era molto più semplice periodizzare un’epoca in base alle biblioteche, che non con i grandi fatti della storia. Ci sono epoche omogenee in cui per secoli si legge solo Aristotele, poi improvvisamente si cambia autore. Arriva Platone e il platonismo. Non cambia solo la lettura, cambia il mondo. Dal Rinascimento a tutto il Settecento si lesse soprattutto Plutarco. I filosofi che prepareranno la rivoluzione francese leggevano i grandi uomini descritti nelle Vite parallele. Anche qui, sono i libri a riflettere una mutazione. In questo piccolo racconto era evidente che Gregory mostrasse la sua grande passione per i libri. Nella casa romana, posta proprio davanti al Palazzaccio, ne aveva più di trentamila.
Erano ovunque. Capitava che ne estraesse uno dalla libreria e nella miopia estrema avvicinasse la pagina fino quasi a sfiorarla con l’occhio. Quel gesto esagerato, minato dallo sguardo, mi piace immaginarlo come l’ultima testimonianza di una vita di carta.
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Repubblica 4.3.19
Il filosofo
Alla ricerca del sapere senza starsene mai in cima alla Torre
di Massimo Cacciari
qui
Per un anno, dal 1993 al 1994, fece parte del cda della Rai "dei professori". Le sue competenze comprendevano anche la cucina con i famosi "menù" al festival di Modena da lui fondato
La "maschera" o "persona" di Tullio Gregory sommava in sé tutti i caratteri della sua straordinaria, vastissima opera di studioso. O almeno cosi a me era sembrato fin dal primo incontro, durante uno di quei festival di filosofia di Modena , che lui aveva fondato e diretto. Era un volto severo e indagatore, e insieme schivo, pudico quasi, capace di lampi di ironia fino alla dissacrazione, e insieme attento, in ascolto, curioso di chiunque gli sembrasse autenticamente in ricerca, fin quasi all’affetto. Era il volto di chi aveva saputo intrecciare l’intera tradizione filosofica, teologica, letteraria europea da un Medioevo studiato in tutta la sua complessità, attraverso Umanesimo e Rinascimento, fino alla formazione del Moderno. Se un Maestro ha saputo insegnare come ogni identità possa essere compresa soltanto nella sua relazione con l’insieme di un’epoca, come l’analisi più scrupolosa dei distinti sia in funzione del disegno di insieme, questo è Tullio Gregory.
Ed è in questa prospettiva che vanno lette tutte le sue fondamentali monografie, da quelle dedicate alla Scuola di Chartres e al platonismo medievale, a Scoto Eriugena, fino ai grandi saggi su Charron e Montaigne. Vi era sempre in Gregory, nella sua scrittura come nel suo fare, una paradossale commistione di rigore accademico e vivacità anti-accademica, giovanile irrequietezza. Io credo che ciò gli venisse dal piacere che provava nel suo faticosissimo lavoro. Il piacere di accompagnarsi con tanti grandi pensatori, di riscoprirne le tracce più riposte, di accordare autori, epoche, stili tanto diversi. Se non si prova piacere nel leggere Platone e Abelardo, Scoto e Bonaventura, che amore può essere quello per il sapere? Che filo-sofia può essere quella che non ama ciò che studia e non lo sa far amare? Ma da chi, a mio avviso, veniva per Gregory il piacere maggiore? Credo dai suoi cari "scettici", da Montaigne in primis.
Scetticismo, naturalmente, nel senso vero del termine: ricerca, dubbio, interrogazione, senza alcuna concessione a vaghi relativismi.
Montaigne è il culmine di quel "plaisir de la varietè", che connota la stessa scrittura di Gregory. Piacere di una caccia senza preda, come suona il titolo di un suo bellissimo saggio. Caccia senza preda: ecco cosa deve essere per lui una filosofica storia della filosofia! Non l’affermazione di un punto di vista, non la riduzione all’uno di chi la scrive, ma la cura della varietà, cura anti-dogmatica quanto attenta al minimo dettaglio. Saggezza scettica come quella di Charron. Le vie del Moderno nascono anche da essa. Gregory ha voluto ricordarlo, mostrandocene non solo la forza e la complessità, ma anche la bellezza.
Mundana sapientia era la sua: conoscere bisogna, e conoscere è concentrazione, fatica, ma mai ciò significa astrarsi dal mondo, contemplare da chissà quale Torre. La sapientia autentica conosce il sapore delle cose e ne apprezza sempre la bontà. Fino a quando non se ne gusta il vino il sapere resta arido specialismo. I nostri grandi storici(dove storia significa destino e destinazione), di cui questo Paese dovrebbe fare più spesso e più approfonditamente memoria, da Garin a Vasoli, da Paolo Rossi a Gregory, di questo vino che si accompagna a verità, si sono nutriti.
più tardi qui
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