il manifesto 4.3.19
Il partito che ha perduto il popolo
di Rossana Rossanda
In
colloquio con Andrea Bianchi, Mario Tronti fa il punto sul suo modo di
vedere la situazione italiana ad oggi. La conclusione sta nel titolo di
questo suo più recente scritto (Il popolo perduto. Per una critica della
sinistra, Nutrimenti, 2019): è la perdita del popolo, identificato in
quelli che hanno meno dalla quale dipende lo sfascio attuale
dell’orizzonte politico, da parte di chi?, soprattutto da parte del
Partito democratico, che Tronti non ha abbandonato mai e nel quale spera
ancora.
Ma che giudica severamente, tappa per tappa, non senza
assolversi durante il suo proprio cammino: anzi, il leitmoiv di questo
suo lavoro è un severo richiamo agli ammonimenti che in questi anni non
ha mancato di fare, ma che non sono stati ascoltati.
In verità,
lui stesso non vi è stato sempre fedele, perché ha sempre fatto
prevalere la fedeltà al gruppo dirigente del Pd: è il solo appunto che a
questo denso testo mi sento di muovere, perché è in nome di esso che
Tronti ha fatto prevalere la linea della maggioranza del Pd sui suoi
stessi pensieri, e ne è conseguito anche il suo cadere nell’errore, o
almeno nell’omissione, negli anni ‘90 e ’91.
«È stato dunque – è
la tesi del libro – un ”giusto errore”»: come sempre l’unità del partito
gli è parsa essere il fine principale della militanza, anche quando gli
era accaduto di pensarla diversamente, aveva sempre scelto di esprimere
le sue idee esclusivamente nelle sedi interne del partito.
Così
ha fatto quando è stato condannato Pietro Ingrao e quando il partito ha
espulso il Manifesto, per cui non è mai esplicito fin dove fosse
d’accordo o in disaccordo con queste voci critiche, delle quali ora si
sente la mancanza o il silenzio.
In tutto il libro, Tronti ripete
il richiamo al passato del «movimento operaio», al quale egli pensa che
non si può non ritornare.
Questa scelta in realtà gli impedisce di
agire sulla linea del partito ed è quindi, a mio avviso, discutibile:
quale sarebbe infatti il superiore vantaggio che al Partito democratico
ne sarebbe derivato? Esso non ha evitato né perdite né allontanamenti,
come Tronti pareva auspicare.
Il partito dunque come tale non
sbaglierebbe mai, scegliendo come primo e principale obiettivo la sua
omogeneità – tesi che oggi appare un po’ debole, non avendo risparmiato
al medesimo partito nessun errore negli ultimi anni.
L’essenziale,
se ne deriva, non è soltanto la compattezza del partito, ma la sua
«organizzazione». Ci sarà consentito di osservargli che, in tale
visione, il partito si assicura un salvagente per cui ogni volta si
potrà correggere senza uscirne indebolito e forse sarebbe superfluo
obiettargli che questo non è stato sempre vero.
Egli medesimo
appare assai dubitoso della sua ultima veste, dalla quale è scomparso
ogni riferimento di classe, che era presente ancora, sia pur debolmente,
nei nomi precedenti, e rimane soprattutto il riferimento ai Democratici
americani.
Fin dove e fin quando egli potrà rinviare la presa
d’atto degli «errori» dello stalinismo, e di quelli seguenti, senza
arrivare a un punto di non ritorno?
Non ci siamo già, e da un
pezzo, e in questo non ci siamo irrimediabilmente perduti? È la domanda
cui non si può perpetuamente sfuggire.
Tutte le altre proposte
sono giuste ma, io penso, se mai, in ritardo. Sarebbe stato necessario,
penso, risparmiarsi il lungo periodo di Renzi, in modo da non arrivare
indeboliti alla correzione di rotta. Al «che cosa» e al «come» va
aggiunto, credo, anche il «quando» di una correzione politica.