lunedì 25 febbraio 2019

Il Fatto 25.2.19
Il Papa: “Pedofilia mostruosa”. Ma le vittime: “Solo parole”


Il vertice sulla protezione dei minori nella Chiesa si è chiuso, ma il lavoro è appena iniziato. Per dare l’esempio, il Vaticano si doterà di una legge di contrasto alla pedofilia valida per il territorio dello Stato Città e per la Curia, quindi anche per il personale diplomatico in forza all’estero. La legge, che sarà presentata a breve, accompagnerà un Motu Proprio del Papa e delle Linee guida per il Vicariato della Città del Vaticano.
Dice papa Francesco: “Vogliamo che tutte le attività e i luoghi della Chiesa siano sempre pienamente sicuri per i minori; che si prendano tutte le misure possibili perché simili crimini non si ripetano”. Il Papa ha chiuso il summit con un discorso duro: “Ogni abuso è una mostruosità. Nessuno abuso deve essere coperto, come era abitudine”. Le vittime, però, che si aspettavano un cambiamento nella Chiesa, non sono soddisfatte: “Nelle parole del Papa, il Vaticano si ritiene vittima. Allora si costituisca parte civile nei tribunali contro i preti pedofili, non li copra”. dice Francesco Zanardi, presidente di Rete l’Abuso.

La Stampa 25.2.19
Il Papa prepara un Motu proprio contro chi copre i preti pedofili
di Domenico Agasso Jr


Per difendere i bambini dalla pedofilia il Vaticano lancerà tre «iniziative concrete»: un Motu proprio del Papa, un vademecum per i vescovi e task forces nelle diocesi. Lo annuncia, a conclusione del summit per la protezione dei minori, il portavoce padre Federico Lombardi. Poche ore prima il Pontefice ha riconosciuto che, anche se la piaga degli abusi è diffusa in vari ambiti, nella Chiesa diventa ancora più «mostruosa» e «scandalosa».
Secondo l’arcivescovo di Malta monsignor Charles J. Scicluna, simbolo della lotta alla pedofilia, «l’abuso è un crimine gravissimo, ma anche il suo insabbiamento. E su questo non si può più tornare indietro». Per decenni «ci siamo concentrati sul crimine: ora abbiamo capito che l’insabbiamento è altrettanto importante». E questo aspetto, oltre ai temi della responsabilità e della trasparenza, saranno affrontati nelle imminenti misure normative.
Si tratta anzitutto di un «nuovo Motu proprio (documento decisionale, ndr) del Papa “sulla protezione dei minori e delle persone vulnerabili”, per rafforzare la prevenzione e il contrasto contro gli abusi». È prevista poi la pubblicazione da parte della Congregazione per la Dottrina della Fede di «un vademecum che aiuterà i vescovi del mondo a comprendere chiaramente i loro doveri e i loro compiti».
E infine Francesco vuole «la creazione di task forces di persone competenti» per aiutare le diocesi ad affrontare «i problemi e realizzare le iniziative».
Il Papa promette con forza: «Se nella Chiesa si rilevasse anche un solo caso di abuso - che rappresenta già di per sé una mostruosità - sarà affrontato con la massima serietà». Poi il suo grido: «Nella rabbia, giustificata, della gente, la Chiesa vede il riflesso dell’ira di Dio, tradito e schiaffeggiato».
Bergoglio indica inoltre un percorso in otto punti, direttive che partono anche dalle «Best Practices» dell’Organizzazione mondiale della Sanità. Tra questi, la «Serietà impeccabile», ribadendo che «la Chiesa non si risparmierà nel compiere tutto il necessario per consegnare alla giustizia chiunque abbia commesso tali delitti». Senza più coperture.
Tutto ciò peraltro non basta ai gruppi di vittime che in piazza San Pietro lamentano «rabbia e delusione», perché il convegno si sarebbe concluso solo con «parole» e «nessun fatto concreto». Secondo Francesco Zanardi, presidente della Rete l’Abuso, «molti vescovi sarebbero dovuti uscire senza abito talare».

Corriere 25.1.17
L’intervista
«Un patto tra etica e tecnologia
Oppure robot e algoritmi comanderanno noi uomini»
Monsignor Paglia e il convegno «Robo-ethics» in Vaticano
di Paolo Conti


Comincia oggi nella nuova Sala del Sinodo in Vaticano il convegno «Robo-ethics», tre giorni di riflessione sull’umanità che si confronta sul progresso scientifico in occasione del 25° anniversario della Pontificia Accademia per la vita, presieduta dall’arcivescovo Vincenzo Paglia. Interverranno studiosi e scienziati da tutto il mondo. Tra i tanti relatori, anche Hiroshi Hishiguro, creatore del robot umanoide «Geminoid» che oggi alle 20 terrà anche un incontro pubblico alla cappella-auditorium dell’università «La Sapienza» di Roma, dialogando con il teologo Paolo Benanti.
Monsignor Paglia, questo incontro internazionale svela un timore: che l’intelligenza artificiale, e la sua capacità operativa, possa sostituirsi all’uomo in alcuni snodi importanti.
«Il timore è legittimo. La precisione e l’affidabilità di alcuni strumenti rende possibile sostituire funzioni valutative e decisionali abitualmente svolte dall’intelligenza umana».
Per usare termini immediati?
«Ci troviamo di fronte a un panorama nuovo: una sorta di invasione della tecnica che aiuta certamente l’umanità a risolvere problemi oggettivi, come l’autosufficienza di alcuni anziani o di chi deve fare i conti con gravi handicap: ma il rischio è che possa essere la macchina a guidare l’uomo, non viceversa. Non dimentichiamo che il termine robot significa “servo”, cioè deve restare al servizio dell’umano. Oggi urge un nuovo patto tra umanesimo e tecnica».
Partendo da quale considerazione?
«La tecnica è frutto del lavoro dell’uomo che deve mantenere la signoria sull’intelligenza. Prendiamo gli algoritmi: utilissimi, ma non possono governare senza essere a loro volta governati dall’uomo. Un algoritmo è matematica: ma l’uomo, che ha studiato quell’algoritmo, è anche mistero».
Altro tema è la sostituzione del robot nel lavoro, la possibile cancellazione di aree di impiego.
«Il pericolo è concreto. Senza una risposta etica il futuro può diventare denso di insidie legate alla possibilità per l’uomo di avere un’occupazione. Abbiamo riscontrato grande attenzione, su questi temi, da esponenti di diverse fedi religiose: il mondo cristiano, l’ebraismo, l’islam, l’induismo, dalla ricerca accademica. Occorre una nuova alleanza tra etica, diritto, tecnologia, la stessa politica. L’umanità ha malamente affrontato, nel recente passato, la questione ecologica. Abbiamo sfruttato il creato, nel nome del guadagno, provocando danni incalcolabili. Papa Francesco ha risposto con l’enciclica “Laudato si’ ”. Oggi si profila una nuova sfida: cioè che la casa comune dell’uomo, la Terra, resti non solo abitabile dai nostri figli e dai nostri nipoti ma che continui ad avere al suo centro l’Umano. Facciamo l’esempio della cura degli anziani o di chi non è autosufficiente: nessuna macchina potrà mai sostituire la tessitura di relazioni interpersonali che fondano la stessa Umanità. Nessuna macchina potrà mai prendere il posto dell’indispensabile relazione tra medico e paziente».
Qualcuno vi accusa di accantonare i temi «tradizionali»: l’aborto, l’eutanasia…
«Esattamente il contrario. La problematica di cui parliamo riguarda il senso stesso e contemporaneo della vita umana: è importante “ridefinire” cosa significa, alla luce delle nuove tecnologie. Prendiamo la gravidanza. La sua interruzione diventa ancora più scandalosa quando scopriamo, grazie alla ricerca, la quantità di relazioni che apre il nascituro, a cominciare da quella con il padre. Quanto all’eutanasia, noi non siamo chiamati ad aiutare il “lavoro sporco” della morte. Dobbiamo aiutare il lavoro della vita, perché la morte non appartiene solo a chi muore ma a chiunque stia vicino a quell’individuo. Anche questa è una frontiera etica della contemporaneità: la cura della vita intesa non come un universale astratto ma come una stretta intelaiatura di relazioni tra esseri umani».

Repubblica 25.2.19
Vaticano
Il Papa: basta coprire i pedofili Ma le vittime: sono solo parole
La condanna di Francesco: dietro gli abusi c’è Satana. Un Motu proprio con le nuove regole
di Paolo Rodari


CITTÀ DEL VATICANO Dice « mai più insabbiamenti sugli abusi sessuali». E promette la pubblicazione di una nuova legge in merito, insieme a un vademecum e a una task force per proteggere i minori, il tutto partendo dalle "Best Practices" formulate sotto la guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Ma le vittime insorgono: « Molti vescovi dopo questi quattro giorni sarebbero dovuti uscire senza abito talare. Ci aspettavamo di più. Siamo delusi».
Il summit in Vaticano dedicato agli abusi sessuali del clero si chiude con un lungo discorso del Papa che indispettisce le vittime per la mancanza di provvedimenti concreti. E a poco valgono le parole di padre Federico Lombardi, moderatore del summit, che annuncia misure nel prossimo futuro, in particolare un testo papale in forma di Motu proprio. «Abbiamo ascoltato questi impegni per " affrontare gli abusi" molte volte prima. Quando e come è ciò che abbiamo bisogno di sentire, nel dettaglio», tuona Marie Collins, irlandese, che all’età di 13 anni ha subito abusi sessuali da parte di un prete e che ha fatto parte della Pontificia Commissione anti abusi dalla quale si è dimessa in polemica con le resistenze interne. «Chiacchiere pastorali», definisce le parole di Francesco la vittima svizzera Jean-Marie Fürbinger.
La Sala Regia del Vaticano accoglie i 190 vescovi per la messa conclusiva di un incontro nel quale, per la prima volta, i capi delle conferenze episcopali di tutto il mondo sono stati "costretti" ad ascoltare in silenzio le testimonianze delle vittime. E anche se la supponenza nei confronti delle vittime che ha caratterizzato alcuni non sembra esserci più, rimedi concreti ancora non se ne vedono. Ed è su questo punto che le vittime si sentono tradite: chiamate ad esporsi, vedono la speranza di fatti determinati al momento disattesa. Anche se Francesco sembra deciso, le resistenze interne al cambiamento esistono. Da tempo alcuni cardiali e vescovi minimizzano sugli abusi, mentre altri arrivano ad affermare che la vera «piaga» interna è quella dell’«omosessualità». Non a caso è l’arcivescovo di Brisbane Mark Benedikt Coleridge, chiamato a tenere l’omelia della messa finale, a paragonare il passo che serve alla Chiesa a «una rivoluzione copernicana ».
Al termine della funzione è direttamente il Papa a prendere la parola. Come già altre volte ha fatto dedica alla pedofilia del clero pensieri durissimi. Paragona la piaga degli abusi ai sacrifici di « riti pagani ». «Nessun caso — dice — dovrà più essere nascosto o sottovalutato, come è invece successo in passato ». E arriva a stigmatizzare le derive di certi ecclesiastici trasformatisi in « strumenti di Satana » . È però giunto il momento, dice, di ascoltare «l’eco delle grida silenziose dei piccoli» ritrovatisi davanti a « carnefici dai cuori anestetizzati da ipocrisia e potere » . « Crimini abominevoli che devono sparire dalla faccia della terra » , prosegue lanciando un appello a lottare a tutti i livelli perché non si ripetano. Padre Lombardi cita Giovanni Paolo II che nel 2002 disse che « la gente deve sapere che nel sacerdozio e nella vita religiosa non c’è posto per chi potrebbe far del male ai giovani » . Ma per molte vittime il pontificato wojtyliano è ricordo dell’emergere di fatti deprecabili, a cominciare dalle malefatte del fondatore dei Legionari di Cristo. Sulle aspettative delle vittime dice la sua Charles Scicluna, arcivescovo di Malta e segretario aggiunto della Dottrina della Fede: « Le aspettative delle vittime sono fondamentali e devono essere anche le nostre».

Repubblica 25.2.19
Intervista a Francesco Zanardi
"Bisognava cacciare subito qualche vescovo così la Chiesa non è credibile"
Città del Vaticano
di P.R.


«Noi vittime ci aspettavamo un finale differente. Quantomeno l’annuncio del licenziamento di diversi vescovi. Invece, abbiamo dovuto sentire il Papa che addirittura nel discorso finale arriva a dire che "la Chiesa, insieme ai suoi figli fedeli, è anche vittima" dei crimini della pedofilia. La Chiesa vittima?
Questo è troppo, pensavo che le vittime fossimo noi».
Francesco Zanardi, vittima degli abusi di un sacerdote all’età di undici anni e oggi presidente della Rete L’Abuso è furente. Le conclusioni del summit avvenuto in Vaticano per contrastare gli abusi sessuali del clero sui minori sono a suo dire «ridicole».
Quattro giorni fa lei assieme ad altre vittime ha incontrato il Comitato organizzatore del summit. Cosa vi siete detti?
«La cosa più incredibile è che un membro del Comitato ci ha spiegato che loro vogliono intervenire, ma che le gerarchie non ubbidiscono. Una ragione in più per cacciarle via, dico io! I nomi dei vescovi insabbiatori li conoscono. Cosa aspettano?».
Cos’è la Chiesa per lei?
«A questo punto non saprei cos’altro dire se non che è un’organizzazione criminale».
Cosa pensa delle parole del Papa? «Se Francesco ritiene che la Chiesa sia vittima allora denunci i preti pedofili e in sede civile chieda i danni per quanto hanno fatto alla Chiesa. Perché non lo fa?».
In questi giorni ha potuto incontrare il Papa?
«Speravo, ma non si è fatto vedere. Ormai ho chiuso con lui e con la Chiesa. Io e tutti i diciotto rappresentanti delle vittime riteniamo che sia stata tutta una buffonata. Come pensano di essere credibili in questo modo?».
Quando avete incontrato il Comitato avete detto esattamente cosa vi aspettavate da questo summit?
«Eravamo pronti ad alzarci e a sbattere la porta se avessimo compreso che le cose sarebbero andate in questo modo. Ma abbiamo voluto dare fiducia, aspettare la fine. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Ancora una volta solo e soltanto parole. Ma almeno finalmente è chiara una cosa: tolleranza zero significa credibilità zero».
Il Vaticano ha annunciato un nuovo Motu proprio papale.
«Inizi a fare rispettare il Motu proprio precedente. A cosa serve un altro?».
– p. r.

Repubblica 25.2.19
Francia
"Sinistra unita alle europee" la scommessa dei giovani francesi
La proposta del movimento Place Publique a tutti i partiti della gauche: una lista unica Il leader Glucksmann: "Se non ci stanno facciamo un partito vero, verranno loro da noi"
di Anais Ginori,


PARIGI Cominciamo dall’eskimo. Raphaël Glucksmann è apparso qualche settimana fa in copertina degli Inrockuptibles.
Titolo: " Potrà risvegliare la sinistra?". Il trentanovenne aveva in mano un megafono ed era avvolto in un giaccone nero con cappuccio impellicciato. La rivista della gauche intellettuale e rockettara ha deciso di cancellare dalla foto il marchio Canada Goose stampato sulla manica. L’intento era evitare polemiche sul costo eccessivo del capo indossato dalla nuova speranza del progressismo francese. Chiaramente la toppa è stata peggio del buco, per qualche giorno si è parlato solo di quello, e non dell’idea di unire la sinistra in un’unica lista in vista delle europee come propone il leader di Place Publique.
Arriva al ristorante in monopattino elettrico, un altro particolare che potrebbe far precipitare Glucksmann nella casella " bobo", bourgeois- bohémiens, ma lui ribatte con un sorriso: «Da quando lo uso, non arrivo più in ritardo agli appuntamenti » . Indossa jeans e maglione blu. Scherza: « Quell’eskimo mi è stato regalato sei anni fa quando ero con i manifestanti a Kiev. Faceva freddo, siamo rimasti per settimane sulle barricate » . Glucksmann non è alla prima rivoluzione. Dopo studi a Sciences Po, è partito prima per la Georgia, dov’è stato consigliere del presidente Mikheil Saakashvili, e poi è finito dentro alla rivolta arancione dell’Ucraina. Oggi più modestamente è tornato a vivere nel decimo arrondissement, dov’è cresciuto a pane e ideali. Nel grande appartamento di famiglia era abituato a dormire insieme a profughi ospitati dal padre, il filosofo André Glucksmann che lo addormentava leggendo Voltaire e l’Odissea.
Figlio d’arte, è diventato un popolare saggista. Il suo ultimo libro, "Les enfants du vide", ritratto della generazione post- ideologica, ha venduto 85mila copie. Si presenta insieme a Thomas Porcher, ex campione di karaté ed economista "eretico", così si definisce, con cui ha fondato tre mesi fa Place Publique. Glucksman e Porcher ordinano una spigola per fare onore all’altra sodale assente, Claire Nouvian, ecologista inviata a Bruxelles per presidiare il voto dell’Ue contro la pesca elettrica. Trentenni, colti, brillanti, di bell’aspetto: sembrano fatti apposta per conquistare le copertine dei magazine, ma forse sono qualcosa di più. Si sono messi a girare la Francia, riempendo teatri, raccogliendo già trentamila adesioni.
La loro scommessa è unire la sinistra alle elezioni europee, far convergere i vari partiti, almeno cinque, in un unico listone. Una robina da poco. « Certo che ci sono differenze, ma non così tante da dividerci » , spiega Glucksmann. « È quello che vorrebbe il 70% degli elettori di sinistra » , aggiunge Porcher. Per adesso l’unico che ha accettato è il segretario dei socialisti, Olivier Faure. I Verdi invece hanno risposto di no. L’ex candidato socialista alle presidenziali, Benoît Hamon, ora leader di Génération · s, ha traccheggiato, proponendo una consultazione dei militanti. Alla fine presenterà questa settimana la sua lista. Con Jean- Luc Mélenchon le trattative non sono mai iniziate. « Sull’Europa siamo troppo lontani » , spiega Glucksmann. Resta il partito comunista e qualche altra piccola formazione. La strada è piena di insidie. «Sappiamo che la logica dei vecchi apparati spesso prevale » , osserva Glucksmann. E a poco serve citare la dura realtà dei sondaggi secondo i quali nessun partito svetta, si passa dall’ 8% di Mélenchon e Verdi, al 4% di Hamon. L’appello all’unità per le europee è un ballon d’essai. « Vogliamo dimostrare di averci provato » , conclude Glucksmann. «Se falliremo, costruiremo un partito vero e proprio, così saranno gli altri a venirci a cercare».

Il Fatto Quotidiano
Cuba, il voto sulla nuova Costituzione per uno Stato “socialista”: scompare la parola comunista ma non l’egemonia del Partito
I cittadini cubani sono chiamati a promuovere o bocciare la Magna carta che sostituirà quella del 1976. Un grande cambiamento che però porterà a poche modifiche radicali. Tra queste la non discriminazione per identità di genere, orientamento sessuale, origine etnica e disabilità. La vittoria del Sì viene data per scontata, ma prevalgono apatia e disillusione
di Adele Lapertosa


I cittadini cubani sono chiamati a votare nel referendum costituzionale sul testo della nuova Magna carta del Paese, che modificherà quella in vigore dal 1976. La nuova Costituzione, composta da 224 articoli (87 in più di quella vecchia), ne conserva 11 di quella precedente, ne modifica 113 ed elimina 13. Anche se è stata presentata come un grande cambiamento, nella sostanza le modifiche radicali sono poche. Scompare la parola comunista per descrivere il sistema politico, definito ora socialista, ma rimane il ruolo guida ed egemone del Partito comunista cubano. Il principale cambio riguarda il potere esecutivo, finora concentrato nelle mani del presidente del Consiglio dei ministri e del Consiglio di Stato, Miguel Díaz-Canel, che dovrebbe diluirsi leggermente con la creazione dell’incarico del primo ministro. Altro cambio riguarda le tematiche di genere, in particolare sul matrimonio, che non viene più definito come possibile tra un uomo e una donna, ma tra due persone, senza specificare il testo.
Il testo è il frutto di un lavoro partecipato, che dal 13 agosto al 15 novembre scorso ha visto la popolazione presentare le proprie proposte e suggerimenti di modifica alla bozza elaborata dall’Assemblea nazionale in quartieri, università, centri di lavoro e studi, nonché dai residenti all’estero, dibattuti in 130mila riunioni popolari e poi convogliati nelle sedi provinciali del Partito comunista. Complessivamente ci sono state oltre 9mila proposte, di cui la metà incorporate nel testo finale votato dal Parlamento lo scorso 22 dicembre (c’era anche quella dell’elezione diretta del presidente, subito rifiutata).
Nel testo, consultabile anche sul sito del parlamento cubano, viene dunque incorporato il concetto di Stato socialista di diritto, per rinforzare il sistema economico, che mantiene come principi essenziali la proprietà socialista di tutto il popolo sui mezzi fondamentali e la pianificazione, a cui si aggiunge il riconoscimento anche del ruolo del mercato e di nuove forme di proprietà non statali, inclusa quella privata. Il Partito comunista però, “unico, fidelista, marxista-leninista, avanguardia organizzata della nazione cubana, è la forza dirigente e superiore della Società e dello Stato. Organizza e orienta gli sforzi comuni verso la costruzione del socialismo. Il socialismo e il sistema politico e sociale rivoluzionario sono irrevocabili”.
Come ha chiarito il presidente Diaz-Cane, “a Cuba non c’è né si avranno svolte capitaliste”, mentre il segretario del Consiglio di Stato, Homero Acosta, ha spiegato che il modello socialista cubano “non è cambiato nei suoi principi. I concetti fondamentali del nostro socialismo sono qui. Il ruolo del Partito Comunista, dell’economia statale, della proprietà socialista rimangono. Ma c’è bisogno di fare una trasformazione”. Le riforme economiche iniziate da Raul Castro dal 2008 necessitano di una base legale, assente dalla Costituzione in vigore.
Per quanto riguarda il diritto di uguaglianza si aggiunge a quelli già esistenti (colore della pelle, sesso e razza) anche la non discriminazione per identità di genere, orientamento sessuale, origine etnica e disabilità. Viene stabilita inoltre la possibilità di ricorrere al tribunale per la restituzione dei propri diritti, riparazione o indennizzo dei danni subiti per gli atti o omissioni degli organi, direttivi, funzionari o impiegati dello Stato nell’esercizio delle loro funzioni.
La vittoria del Sì viene data per scontata, anche perché la campagna a suo favore ha dominato sui mezzi di comunicazione, mentre sulle reti sociali sono stati bloccati gli hashtag a difesa del No o dell’astensione al voto. Anche se apertamente tutti si dimostrano a favore del Sì, c’è anche apatia e disillusione, come conferma al fattoquotidiano.it Paola Larghi, rappresentante dell’ong Cisp-Sviluppo dei popoli a Cuba: “C’è stata partecipazione alla fase popolare, da molti anche con speranza, ma c’è anche molta rassegnazione. Una delle questioni principali rimane infatti il ruolo superiore al Governo del Partito comunista. In generale i giovani sono disinteressati, vogliono andare via”.

Corriere 25.2.19
Referendum
La prima volta dei cubani: per il voto sulla Costituzione un risultato (quasi) incerto
di Rocco Cotroneo


RIO DE JANEIRO Per la prima volta in sessant’anni di Revolución, il risultato di una giornata elettorale a Cuba potrebbe fornire qualche indicazione interessante. Quanti sì e quanti no avrà raccolto il referendum sulla nuova Costituzione lo sapremo oggi pomeriggio, così come il dato sulla partecipazione alle urne.
Se questi numeri saranno attendibili, come scrive il giornalista Reinaldo Escobar - editore insieme alla moglie Yoani Sanchez del sito indipendente 14 y medio — è possibile che dalle urne si alzi «un magnifico coro libertario, l’accettazione di una sfida civica, incruenta, pacifica e civilizzata». L’aspettativa è che tra i «no» e le astensioni si possa finalmente misurare la forza di una opposizione. Escobar ricorda che l’articolo 137 dell’attuale Costituzione prevede addirittura che le modifiche non vengano approvate se i contrari, più gli astenuti e le schede bianche e nulle, impedissero ai sì di superare la metà del corpo elettorale.
È assai improbabile che ciò avvenga, ma tra il 99 per cento di consensi ai quali il castrismo ha abituato, e un 70-80 per cento che qualche osservatore prevede per oggi, la differenza c’è. L’attuale dirigenza di Miguel Diaz-Canel potrebbe voler dimostrare al mondo che il regime gode ancora di un enorme consenso, ma accetta il dissenso più che in passato. Osservatori e molti oppositori sono convinti che la consultazione popolare, che coinvolge otto milioni di elettori, sia più affidabile che in passato. Lo indicherebbe la tenacia con il quale il governo batte sul tasto del sì e della partecipazione. L’intero sistema mediatico al di fuori di Internet ha parlato in campagna elettorale con una voce unica, ma i criteri con i quali è stato organizzato il voto e i numerosi cittadini chiamati ai seggi come scrutatori o osservatori lasciano ben sperare.
Il malcontento sull’isola resta alto, nonostante le riforme mancano cibo e generi di prima necessità e si teme il tracollo dell’alleato venezuelano. L’opposizione resta divisa. Tra chi invita a votare no e chi — dando per scontata la sconfitta — ritiene che l’astensione massiccia sia un segnale più forte per il regime.
Forme organizzate di campagna per il no, nelle ultime settimane, sono state represse come di consueto. La tattica è quella di intimidire, e arrestare per poche ore. Con scuse come l’attentato all’ordine pubblico, o addirittura com multe per aver sporcato la via pubblica con i volantini. Il regime è anche intervenuto intimidendo religiosi, sia cattolici che evangelici, dato che in moltissime chiese si è fatta apertamente propaganda per il no.Il tema della consultazione è sostituire la Costituzione vigente con una nuova Carta che sostanzialmente riconosca i cambiamenti già avvenuti durante il decennio di Raul Castro (dal 2008 all’aprile dello scorso anno): la fine del monopolio pubblico sull’economia, il riconoscimento della proprietà privata, gli investimenti stranieri, la nascita di un sistema fiscale e finanziario. Nasce la figura di un primo ministro ad affiancare al Presidente e quest’ultimo potrà governare al massimo per dieci anni (due mandati da cinque). Nessuna apertura politica, invece. Il Partito comunista resta unico e la società socialista. I media non possono essere privati.
All’ultimo momento è stato tolto dalla bozza l’articolo che prevedeva il matrimonio tra persone dello stesso sesso, proprio per le forti reazioni dal mondo religioso. Viene però esclusa qualunque discriminazione per ragioni di genere, come avveniva in passato. L’idea è che l’ultima barriera potrà cadere in futuro, dopo una discussione approfondita nella società.

Corriere 25.9.19
Referendum
La prima volta dei cubani: per il voto sulla Costituzione
un risultato (quasi) incerto
di Rocco Cotroneo


RIO DE JANEIRO Per la prima volta in sessant’anni di Revolución, il risultato di una giornata elettorale a Cuba potrebbe fornire qualche indicazione interessante. Quanti sì e quanti no avrà raccolto il referendum sulla nuova Costituzione lo sapremo oggi pomeriggio, così come il dato sulla partecipazione alle urne.
Se questi numeri saranno attendibili, come scrive il giornalista Reinaldo Escobar - editore insieme alla moglie Yoani Sanchez del sito indipendente 14 y medio — è possibile che dalle urne si alzi «un magnifico coro libertario, l’accettazione di una sfida civica, incruenta, pacifica e civilizzata». L’aspettativa è che tra i «no» e le astensioni si possa finalmente misurare la forza di una opposizione. Escobar ricorda che l’articolo 137 dell’attuale Costituzione prevede addirittura che le modifiche non vengano approvate se i contrari, più gli astenuti e le schede bianche e nulle, impedissero ai sì di superare la metà del corpo elettorale.
È assai improbabile che ciò avvenga, ma tra il 99 per cento di consensi ai quali il castrismo ha abituato, e un 70-80 per cento che qualche osservatore prevede per oggi, la differenza c’è. L’attuale dirigenza di Miguel Diaz-Canel potrebbe voler dimostrare al mondo che il regime gode ancora di un enorme consenso, ma accetta il dissenso più che in passato. Osservatori e molti oppositori sono convinti che la consultazione popolare, che coinvolge otto milioni di elettori, sia più affidabile che in passato. Lo indicherebbe la tenacia con il quale il governo batte sul tasto del sì e della partecipazione. L’intero sistema mediatico al di fuori di Internet ha parlato in campagna elettorale con una voce unica, ma i criteri con i quali è stato organizzato il voto e i numerosi cittadini chiamati ai seggi come scrutatori o osservatori lasciano ben sperare.
Il malcontento sull’isola resta alto, nonostante le riforme mancano cibo e generi di prima necessità e si teme il tracollo dell’alleato venezuelano. L’opposizione resta divisa. Tra chi invita a votare no e chi — dando per scontata la sconfitta — ritiene che l’astensione massiccia sia un segnale più forte per il regime.
Forme organizzate di campagna per il no, nelle ultime settimane, sono state represse come di consueto. La tattica è quella di intimidire, e arrestare per poche ore. Con scuse come l’attentato all’ordine pubblico, o addirittura com multe per aver sporcato la via pubblica con i volantini. Il regime è anche intervenuto intimidendo religiosi, sia cattolici che evangelici, dato che in moltissime chiese si è fatta apertamente propaganda per il no.Il tema della consultazione è sostituire la Costituzione vigente con una nuova Carta che sostanzialmente riconosca i cambiamenti già avvenuti durante il decennio di Raul Castro (dal 2008 all’aprile dello scorso anno): la fine del monopolio pubblico sull’economia, il riconoscimento della proprietà privata, gli investimenti stranieri, la nascita di un sistema fiscale e finanziario. Nasce la figura di un primo ministro ad affiancare al Presidente e quest’ultimo potrà governare al massimo per dieci anni (due mandati da cinque). Nessuna apertura politica, invece. Il Partito comunista resta unico e la società socialista. I media non possono essere privati.
All’ultimo momento è stato tolto dalla bozza l’articolo che prevedeva il matrimonio tra persone dello stesso sesso, proprio per le forti reazioni dal mondo religioso. Viene però esclusa qualunque discriminazione per ragioni di genere, come avveniva in passato. L’idea è che l’ultima barriera potrà cadere in futuro, dopo una discussione approfondita nella società.

Corriere 25.2.19
I negoziati con la Cina
La via della Seta è più vicina: l’invito all’Italia di Xi Jinping
di Federico Fubini


La firma con cui l’Italia, prima fra le prime dieci economie del mondo, aderisce alla cosiddetta Via della Seta, che dal 2013 è il grande progetto Xi Jinping, potrebbe essere pronto per il 22 o 23 marzo.
L’ accordo per ora non c’è, ma non sembra affatto lontano e potrebbe essere pronto per il 22 e 23 marzo. In quei due giorni, salvo cambi di programma ormai improbabili, Xi Jinping sarà in visita ufficiale a Roma per poi proseguire il suo viaggio europeo verso Parigi. Il presidente cinese arriva per colloqui politici al massimo livello, per confermare l’importanza degli investimenti già da quasi tredici miliardi di Pechino in Italia ma in agenda potrebbe entrare anche un punto più specifico: la firma del memorandum d’intesa con cui l’Italia, prima fra le prime dieci economie del mondo, aderisce alla cosiddetta Via della Seta che dal 2013 è il grande progetto di proiezione globale di Xi.
«La discussione sul memorandum è a uno stadio molto avanzato» conferma Michele Geraci, il sottosegretario allo Sviluppo economico che sta portando avanti il negoziato e dal 2008 è vissuto per dieci anni in Cina con ruoli principalmente da accademico. L’accordo, al quale guardano con attenzione crescente l’amministrazione americana e vari governi europei, per il momento non è ancora chiuso e non è del tutto certo che lo sarà per l’arrivo di Xi a Roma. «Il memorandum non è stato definito e non lo sarà fino all’annuncio. Stiamo formalizzando alcune parole, ma non credo esistano dubbi sui contenuti», dice Geraci. «C’è la decisione politica di portare avanti la trattativa e sono rimasti solo alcuni punti aperti, penso facilmente risolvibili».
La Via della Seta voluta da Xi, «One Belt One Road Initiative» (Bri) secondo il suo nome internazionale, è un progetto di espansione dei canali commerciali e d’investimento cinesi dall’Asia del Sud-Est, all’Asia centrale fino all’Europa via terra e dai porti di Guangzhou (Canton) e Haikou attraverso Malacca, Singapore, lo Sri Lanka, Gibuti e Suez fino all’Adriatico settentrionale. Anche se formalmente non fa parte del memorandum, le discussioni con i cinesi sono in corso anche per il coinvolgimento di una o più aziende di Pechino nel porto di Trieste. «A noi interessa che qualunque investimento porti a un aumento della capacità dell’infrastruttura», osserva in proposito Geraci.
La Via della Seta ha già coinvolto formalmente 71 Paesi — soprattutto in Asia e in Oceania — e sotto il suo marchio la Cina ha già impegnato 210 miliardi di dollari in infrastrutture e altri interventi all’estero. Uno degli aspetti del progetto di proiezione globale di Xi è che il governo cinese prevede di creare due tribunali internazionali a Shenzhen e a Xian per la risoluzione di eventuali dispute commerciali legate alla Via della Seta, sulla carta un po’ sul modello delle corti commerciali di Dubai e di Singapore. Una seconda caratteristica è che alcuni Paesi più deboli coinvolti dalla Via della Seta — Pakistan, Mongolia e Montenegro fra gli altri — si sono trovati indeboliti e politicamente condizionati dai forti debiti accumulati nei confronti di Pechino. Queste peculiarità non passano inosservate a Washington e fra i principali governi europei. Preoccupa per esempio che molti dei porti coinvolti dall’iniziativa cinese vedano ampliamenti che li rendono potenzialmente adatti al doppio uso, civile e militare. Tempo fa i 28 ambasciatori a Pechino dei Paesi dell’Unione europea avevano concordato una serie di «linee guida» che, nei fatti, equivalevano a un invito a non firmare i memorandum della Via della Seta. La stessa amministrazione americana da prima dell’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca non ha mai nascosto l’irritazione per l’iniziativa di Xi Jinping, anche se non ci sono conferme che l’argomento sia stato sollevato venti giorni fa quando l’ambasciatore Usa Lewis Eisenberg ha visto il premier Conte a Palazzo Chigi.
Di certo Luigi Di Maio è già andato in Cina due volte nelle vesti di vicepremier e ministro dello Sviluppo, a settembre e novembre scorsi. Ma il suo vice Geraci non condivide le riserve degli alleati occidentali dell’Italia. «Forse sì, può esserci un po’ di preoccupazione da parte americana — riconosce —. Ma sarà dissipata quando si comprenderà che i contenuti del memorandum d’intesa sono limitati. L’Italia resta alleata degli Stati Uniti. Non c’è nessun cambio di rotta, non vogliamo spostare l’asse geopolitico del Paese».
Il sottosegretario sottolinea che l’accordo, se sarà firmato, non implica obblighi o vincoli per il governo di Roma. «Non assumiamo impegni finanziari — dice —. Il memorandum ha solo clausole di intenti che mirano a facilitare per le nostre imprese l’accesso al mercato cinese, agli investimenti in Cina e la loro cooperazione con imprese di Pechino in Paesi terzi, per esempio nelle costruzioni, nell’energia e in agricoltura. Cerchiamo solo di recuperare un ritardo». Oggi l’Italia è appena il ventesimo maggiore esportatore in Cina con un fatturato annuo di 18 miliardi di euro, cinque meno della Francia e soprattutto cinque volte più piccolo rispetto alla Germania.
Per ora quattro governi dell’Ue hanno sottoscritto la Via della Seta: l’Ungheria di Viktor Orban e la Polonia, entrambi in rapporti tesi con Bruxelles per le accuse sulla violazione dei principi democratici; il Portogallo dove imprese statali di Pechino controllano i principali gruppi nell’elettricità, nelle rinnovabili, nella rete elettrica, la prima banca del Paese, la prima compagnia assicurativa e la più grande rete ospedaliera; e la Grecia dove Cosco, il colosso di Pechino, controlla il porto del Pireo. Nel 2018 Atene a sorpresa ha bloccato due risoluzioni europee di condanna della Cina sui diritti umani. Ma l’eventuale adesione alla Via della Seta dell’Italia, un’economia del G7, sarebbe evidentemente un fenomeno diverso.

Il Fatto 25.2.19
Spagna, la prima crisi di Podemos: sinistra in panne
Addio – Errejon, Iglesias e Irene Montero alle Cortés.
di Fabien Escalona


Mentre il governo spagnolo annunciava le elezioni anticipate per il 28 aprile, i militanti delle destre riempivano le strade. Sabato 16 febbraio, più di 200 mila persone hanno manifestato a Barcellona per protestare contro il processo politico portato avanti contro i dirigenti indipendentisti catalani. Una questione che divide profondamente le sinistre spagnole.
Di fronte alla radicalizzazione degli avversari la sinistra, in generale, non è al collasso. Ma la questione indebolisce Podemos. I suoi principali fondatori, Pablo Iglesias, attuale segretario generale, e Íñigo Errejón, l’ex numero due, sono infatti al limite della rottura. Errejón ha lasciato la poltrona di deputato dopo aver ufficialmente annunciato la sua adesione a una lista diversa per le elezioni regionali a Madrid.
Diverse chiavi di lettura del divorzio tra Iglesias e Errejón sono possibili. Mediapart ha raccolto il parere di quattro intellettuali francesi, che hanno potuto lavorare in prima persona su Podemos: Laura Chazel, ricercatrice a Sciences Po Grenoble e all’università Complutense di Madrid; Héloïse Nez, sociologa presso l’università di Tours, autrice del volume Podemos. De l’indignation aux éléctions; Lenny Benbara, fondatore del sito Le vent se lève; e Gaël Brustier, politologo e autore dell’introduzione a Construire un peuple, un libro di interviste di Chantal Mouffe e Íñigo Errejón.
Molti osservatori avanzano l’esistenza di importanti divergenze di punti di vista sulla “linea” che il partito, Podemos, dovrebbe seguire. Quanto contano queste divergenze nel conflitto tra i due?Héloïse Nez: “Diverse incompatibilità tra i due uomini sono sostanziali. Errejón dimostra una certa costanza poiché resta fedele alla strategia messa in atto al momento della nascita di Podemos. Si preoccupa più dell’unità del popolo che dell’unità della sinistra. In questa prospettiva, il partito ecologista-comunista Izquierda Unida (Iu-Sinistra unita) non dovrebbe rappresentare un partner ideale. Al contrario, sin dall’arrivo in Parlamento, nel 2016, Iglesias moltiplica nei suoi discorsi i riferimenti e i simboli propri alla storia della sinistra tradizionale. Difende l’idea di un fronte di sinistra classico contro quello che chiama il “blocco monarchico” (che andrebbe dalla destra ai sociodemocratici del Psoe). Il suo stile è globalmente più contestatario di quello di Errejón”.
Lenny Benbara: “Errejón e i suoi amici accordano una grande importanza all’ideologia. I suoi più vicini collaboratori presentano un profilo analogo: sono giovani diplomati provenienti da categorie sociali piuttosto agiate e con un importante bagaglio culturale. Errejón ha accumulato una certa frustrazione nei confronti di Iglesias, che sembra non essere mai al passo con la congiuntura politica. E soprattutto non intende ripiegare, come invece ha fatto Iglesias, sulle tematiche tradizionali della sinistra radicale spagnola (per esempio la questione repubblicana). Attualmente Errejón cerca piuttosto una sintesi tra una comunicazione politica modernista, che potrebbe sembrare quasi macroniana, e un discorso “nazionalpopolare”, nel senso gramsciano del termine, a contenuto popolare e privo di connotazioni xenofobe”.
Laura Chazel:“C’è stato un momento in cui era possibile distinguere chiaramente tra “pablismo” e “errejonismo”. È il periodo compreso tra l’ingresso di Podemos in Parlamento, nel gennaio 2016, e l’investitura del socialista Pedro Sáncheza a primo ministro, nel giugno 2018. L’ironia della situazione attuale è che Iglesias e Errejón, nel frattempo, si sono ravvicinati su questioni di fondo, in particolare sulle relazioni con le istituzioni e il Psoe. Ecco perché la rottura oggi mi pare essenzialmente un banale episodio di lotta tra due attori razionali alla ricerca del potere”.
Gaël Brustier: “Al congresso di Vistalegre 2 abbiamo assistito a una purga. Quello che sta succedendo a Podemos accade a tanti partiti: tra talenti politici si instaura un po’ alla volta una certa diffidenza che può andare fino alla rottura. Entrambi i clan dispongono di un capitale culturale elevato e quindi posseggono gli strumenti per costruire argomenti che legittimano il conflitto”.
Perché la rottura si sta producendo adesso?Héloïse Nez: “Al momento delle elezioni regionali in Andalusia, nel dicembre 2018, l’alleanza Podemos-Iu ha ottenuto un risultato mediocre, mentre le destre sono cresciute, in particolare grazie al netto progresso del partito di estrema destra Vox. Questo episodio ha potuto scatenare la rottura che covava da tempo”.
Laura Chazel: “Quando Podemos è entrato in Parlamento, si sono create delle frizioni sulle possibili alleanze. Quando sono state annunciate le elezioni anticipate del giugno 2016, Iglesias pensava che Podemos dovesse allearsi con Iu per poter sorpassare il Psoe. Errejón riteneva invece che fosse importante conservare un discorso “trasversalista”. Alla fine il partito ha seguito allo stesso tempo le due strade. Nei due anni seguenti, l’opposizione tra “pablisti” e “errejonisti” si è accentuata finendo col ridurre in minoranza i secondi. Ma dal giugno 2018 i due campi hanno sostenuto il ritorno al potere del Psoe, e non sono sicura che si separeranno radicalmente sulle scelte delle alleanze future”.
Quali sono i legami tra queste due sensibilità e il populismo di sinistra?Laura Chazel: “A questo proposito condivido l’opinione del politologo spagnolo Javier Franzé, secondo il quale il “pablismo” e l’“errejonismo”, in particolare tra 2016 e metà 2018, hanno incarnato due interpretazioni alternative del populismo. È impossibile stabilire quale delle due è più giusta, anche perché entrambe si ispirano al pensiero di Ernesto Laclau. Iglesias ha fatto suo soprattutto il concetto di populismo in opposizione all’“istituzionalismo”: da un lato il conflitto diretto o “l’attività politica per eccellenza”, secondo Laclau; dall’altro l’amministrazione delle cose o “la morte della politica”. Di qui un atteggiamento anti-establishment molto più accentuato che in Errejón. Quest’ultimo interpreta il populismo in una dimensione egemonica, come creazione di nuove identità collettive. Errejón ritiene dal 2016 che il sistema politico è parzialmente stabilizzato. Ha quindi concluso che la contestazione dovesse essere accompagnata da un’offerta di “ordine alternativo”. Al contrario Iglesias pensava che l’alternativa di un populismo di opposizione fosse ancora possibile e che Podemos dovesse fare il possibile per mantenere questa “situazione eccezionale”. A partire dal giugno 2018 ha tuttavia scelto la cooperazione istituzionale con il Psoe, cosa che per lui rappresenta, a parole sue, la fine del “momento populista”. Al di là di queste differenze, Iglesias, rispetto a Errejón, ha un legame globalmente più disteso con le idee di Laclau”.
Lenny Benbara: “È evidende che Errejón è il più “laclauiano” dei due, nel senso che non ci sono ambiguità sul suo costruttivismo. Errejón è convinto che il popolo non esista in sé, di qui l’importanza di una strategia populista per tessere una logica di equivalenza tra le domande eterogenee presenti nella società, che non avrebbero nessuna tendenza naturale o meccanica ad assemblarsi. Da parte sua, Iglesias occupa una posizione gramsciana, che non nega l’importanza del fronte culturale nella lotta per l’egemonia ma conserva un fondo marxista materialista”.
La rottura attuale può pesare sulla traiettoria di Podemos e sul suo posto nello scacchiere politico spagnolo?Héloïse Nez: “La situazione è frustrante. Podemos è una delle evoluzioni del movimento degli Indignati, che presentava risorse importanti per la trasformazione del modo di fare politica. La guerra dei capi a cui si assiste adesso è la conseguenza della scelta iniziale di una formazione verticale, individualizzata, molto lontana da quel modello. È un peccato, perché Podemos partecipa a dei governi locali, con un bilancio apprezzabile, ma rischia di non trarne profitto”.
Lenny Benbara: “Iglesias sta cercando di ottenere dei risultati concreti in termini di politiche pubbliche, per dimostrare che Podemos è una forza utile. Ma non sono sicuro che sappia quale direzione prendere alle prossime elezioni generali. Nell’attesa, ha lanciato prematuramente delle primarie interne, mentre ha ancora la mano sul partito, per estromettere i suoi avversari politici. Ciò traduce la cultura di un partito forte che salda i “pablisti” contro gli “errejonisti”, più individualisti e meno emotivamente coinvolti in uno strumento politico di cui fanno un uso strumentale. Non è da escludere l’ipotesi che possano tentare di crearne uno nuovo, se dovessero giungere alla conclusione che Podemos ha ormai perso la sua spinta propulsiva”.

Il Fatto 25.2.19
Reggio Emilia, 18 dirigenti indagati per “violazioni nell’assegnazione di incarichi esterni”. C’è la moglie del sindaco Pd
I dipendenti erano in servizio nel 2013, quando il primo cittadino era l'attuale deputato Graziano Delrio. La Procura della Repubblica contesta a loro i reati di falso ideologico e abuso d’ufficio. Nel 2016 i 5 stelle presentarono una serie di esposti alla Corte dei Conti e si rivolsero all'Anac per segnalare le presunte anomalie
di Paolo Bonacini

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