il manifesto 24.2.19
Preti pedofili, j’accuse del vescovo Marx: il Vaticano ha insabbiato
Corpus demoni. Al Sinodo l’alto prelato tedesco schierato con Bergoglio: «Dossier sulle violenze distrutti o mai creati». Scontro con i conservatori
La Chiesa ha messo in atto un’azione sistematica di copertura degli abusi sessuali commessi dal clero per proteggere i preti pedofili, «calpestando» le vittime
di Luca Kocci
La severa accusa alle gerarchie ecclesiastiche è arrivata dal cardinale Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco-Frisinga e presidente della Conferenza episcopale tedesca, intervenuto ieri mattina in Vaticano, all’incontro mondiale sulla «Protezione dei minori nella Chiesa». Una relazione, quella di Marx, in sintonia con il grido che, fuori dall’aula del Sinodo dove sono riuniti i 190 presidenti delle conferenze episcopali e superiori generali di tutto il mondo, si è levato dalle vittime degli abusi riunite nel network internazionale Eca global (Ending clerical abuse) le quali, in una marcia da piazza del Popolo a piazza San Pietro, hanno chiesto «tolleranza zero», invocando «la fine dell’impunità e degli insabbiamenti degli abusi da parte della Chiesa».
«Gli abusi sessuali nei confronti di bambini e giovani sono dovuti all’abuso di potere», ha detto Marx. L’amministrazione ecclesiastica, ha aggiunto, «non ha compiuto la missione della Chiesa, al contrario, l’ha oscurata, screditata e resa impossibile. I dossier che avrebbero potuto documentare i terribili atti e indicare il nome dei responsabili sono stati distrutti o nemmeno creati. Invece dei colpevoli, a essere riprese sono state le vittime ed è stato imposto loro il silenzio. I procedimenti per perseguire i reati sono stati deliberatamente disattesi, anzi cancellati o scavalcati.
I diritti delle vittime sono stati calpestati». Si riferiva in particolare alle diocesi tedesche, ha precisato in conferenza stampa, sottolineando però che «la Germania non è un caso isolato».
Sono indispensabili «trasparenza e tracciabilità», per chiarire «chi ha fatto cosa, quando, perché e a quale fine, e cosa è stato deciso», ha proseguito l’arcivescovo di Monaco, secondo il quale non ci sono obiezioni che tengano: né rispetto al «segreto pontificio» (non vale per «i reati riguardanti l’abusi di minori») né alla preoccupazione di «rovinare la reputazione di sacerdoti innocenti o del sacerdozio e della Chiesa»: la «presunzione di innocenza», la «tutela dei diritti» e «la necessità di trasparenza non si escludono a vicenda». Anzi «non è la trasparenza a danneggiare la Chiesa, ma gli abusi commessi, la mancanza di trasparenza, l’insabbiamento».
È stata anche la volta delle donne.
Prima la testimonianza (venerdì sera) di una vittima che ha subito abusi da quando aveva undici anni da parte di un prete della sua parrocchia: «Da allora – ha raccontato – io che adoravo i colori e facevo capriole sui prati spensierata non sono più esistita», «restano incise nei miei occhi, nelle orecchie, nel naso, nel corpo, nell’anima tutte le volte in cui lui bloccava me bambina con una forza sovrumana, io mi anestetizzavo, restavo in apnea, uscivo dal mio corpo, cercavo disperatamente con gli occhi una finestra per guardare fuori, in attesa che tutto finisse». «Dobbiamo trovare il coraggio di parlare e denunciare – ha concluso –, pur sapendo che rischiamo di non essere credute o di dover vedere che l’abusatore se la cava con una piccola pena», «non può e non deve essere più così».
Poi la relazione di Veronica Openibo, religiosa nigeriana, superiora della Società del santo bambino Gesù, che ha rimarcato l’esistenza di un fenomeno conosciuto già da qualche anno ma ancora in ombra: la violenza subita dalla suore da parte di preti e religiosi, soprattutto in Africa. La Chiesa sta facendo qualcosa, ma «non è ancora abbastanza», ha aggiunto suor Openibo, che ha indicato alcuni problemi da affrontare, come «l’abuso di potere, il clericalismo, la discriminazione di genere», e alcune prassi da abolire: nascondere «per evitare di portare alla luce uno scandalo e gettare discredito sulla Chiesa»; e «la scusa che si debba rispetto ad alcuni sacerdoti in virtù della loro età avanzata e della loro posizione gerarchica».
Oggi il summit termina, con la messa e l’intervento del papa. Le posizioni sono emerse con chiarezza. I conservatori puntano il dito sull’omosessualità: sarebbe questa la causa degli abusi sessuali (però così non spiegano le violenze sulle donne). La maggioranza filo-Francesco indica invece nel clericalismo e nel potere la radice degli abusi e chiede creazione di strutture di ascolto autonome con il coinvolgimento di laici e donne, collaborazione e denuncia alle autorità civili, riforma del segreto pontificio, rimozione di preti colpevoli e vescovi collusi o complici.
Nemmeno sfiorato il tema del celibato obbligatorio – per molti osservatori il vero nodo del problema –, ma su questo punto anche Francesco è inamovibile. Proposte concrete, però, sono state avanzate. L’incontro non ha valore deliberativo, si tratterà quindi di vedere se ora diventeranno regole scritte. «Non crediamo che solo perché abbiamo iniziato a scambiare qualcosa tra di noi, tutte le difficoltà siano eliminate», ha concluso la giornata, con la celebrazione penitenziale. il vescovo ghanese Philip Naameh.
Il Fatto 24.2.19
Pedofilia, card. Marx: “Tanti dossier sugli abusi fatti sparire”
Al terzo giorno del vertice di lotta alla pedofilia nella Chiesa, arriva il mea culpa di Papa Francesco. “Abbiamo ascoltato le voci di vittime sopravvissute a crimini che minori e giovani hanno sofferto”, ha detto Bergoglio, chiarendo che per il futuro si dovrà trovare il coraggio di esaminare a fondo le coscienze, di guardare sinceramente alle situazioni nei diversi paesi, alle azioni singole. Intanto, nel giorno dedicato alla trasparenza, il cardinale Reinhard Marx, coordinatore del Consiglio per l’Economia della Santa Sede, fa scoppiare il caso dei dossier scomparsi dalle diocesi. L’arcivescovo di Monaco denuncia una connessione strettissima tra abuso sessuale e abuso di potere nell’amministrazione della Chiesa. I plichi che avrebbero potuto documentare i crimini e fare i nomi sono stati stracciati o, peggio, non hanno mai visto la luce. Le procedure per perseguire i reati sono state disattese, cancellate. E così i diritti degli abusati “calpestati e lasciati all’arbitrio dei singoli”. Secondo quanto rivelato da L’Espresso da quando Bergoglio è diventato Papa a marzo del 2013 fino al 31 dicembre del 2018 in Vaticano sono arrivate circa 2.200 nuove denunce da tutto il mondo. Una media di 1,2 nuovi casi al giorno.
Corriere 24.2.19
Il vertice
Il consigliere del Papa:
«Distrutti i dossier sugli abusi nella Chiesa»
di Gian Guido Vecchi
Il cardinale Marx al summit: abolire il segreto pontificio
CITTÀ DEL VATICANO «Ora cerco di concentrarmi sul mio diritto divino di essere vivo». Un giovane cileno che fu abusato da un prete racconta la sua storia, chiude gli occhi e imbraccia il violino, le note di Bach risuonano nel silenzio della Sala Regia e delle gerarchie ecclesiali di tutto il mondo riunite per la «celebrazione penitenziale» guidata da Francesco. Prima del mea culpa del Papa («dobbiamo dire, come il figlio prodigo: Padre, ho peccato») e di cardinali e vescovi («confessiamo che abbiamo protetto dei colpevoli e ridotto al silenzio chi ha subito del male»), il Pontefice ha invitato all’«esame di coscienza» spiegando che «si rendono necessarie azioni concrete per le chiese locali»: l’incontro mondiale sulla protezione dei minori finisce con la messa di oggi ma l’essenziale si vedrà da domani.
La questione centrale è quella che ieri il cardinale Reinhard Marx, uno dei consiglieri più stretti del Papa, ha scandito senza perifrasi: «I dossier che avrebbero potuto documentare i terribili atti e indicare il nome dei responsabili sono stati distrutti o nemmeno creati. Invece dei colpevoli, a essere riprese sono state le vittime ed è stato imposto loro il silenzio. Le procedure e i procedimenti stabiliti per perseguire i reati sono stati deliberatamente disattesi, e anzi cancellati o scavalcati. I diritti delle vittime sono stati di fatto calpestati e lasciati all’arbitrio di singoli individui. Sono tutti eventi in netta contraddizione con ciò che la Chiesa dovrebbe rappresentare». Il cardinale, presidente dei vescovi tedeschi, ha spiegato più tardi che si riferiva in particolare a ciò che la Chiesa tedesca ha scoperto nella ricerca, durata tre anni, sugli abusi nelle sue diocesi. Ma «presumo che la Germania non sia un caso isolato», ha aggiunto.
La denuncia di Marx è la premessa di una serie di riforme, a cominciare dall’abolizione o almeno revisione del «segreto pontificio», definito dal documento «Secreta continere» del 1974.
Il cardinale Marx spiega che la «trasparenza» si deve accompagnare alla «tracciabilità» delle «procedure amministrative», in modo che chiunque possa sempre sapere «chi ha fatto che cosa, quando, perché e a quale fine, e che cosa è stato deciso, respinto o assegnato». E aggiunge: «Ogni obiezione basata sul segreto pontificio sarebbe rilevante solo se si potessero indicare motivi convincenti per cui il segreto pontificio si dovrebbe applicare al perseguimento di reati riguardanti l’abusi di minori. Allo stato attuale, io di questi motivi non ne conosco».
In questi giorni si è parlato di «nuove strutture legali» di controllo — legate ai metropoliti (le diocesi più grandi) e composte anche da laici, donne e uomini — cui i vescovi debbano «rendere conto». E di centri di ascolto per raccogliere denunce in ogni conferenza episcopale e diocesi. Ma soprattutto sono state le donne a scuotere le gerarchie. Dalla canonista Linda Ghisoni alla suora nigeriana Veronica Openibo, che ieri ha parlato di «mediocrità e ipocrisia» e avvertito: «Questa tempesta non passerà. Spero e prego che alla fine di questa conferenza sceglieremo deliberatamente di spezzare ogni cultura del silenzio».
Suor Veronica, parlando accanto al Papa, ha evocato il cambio di linea nello scandalo cileno, all’inizio sottovalutato: «La ammiro, fratel Francesco, per essersi preso del tempo, da vero gesuita, per discernere e per essere abbastanza umile da cambiare idea, chiedere scusa e agire: un esempio per tutti noi».
La giornalista messicana Valentina Alazraki non l’ha mandata a dire, a cardinali e vescovi: «Vi aiuteremo a trovare le mele marce e a vincere le resistenze per allontanarle da quelle sane. Ma se voi non vi decidete in modo radicale a stare dalla parte dei bambini, delle mamme, delle famiglie, della società civile, avete ragione ad avere paura di noi, perché noi giornalisti, che vogliamo il bene comune, saremo i vostri peggiori nemici».
Repubblica 24.2.19
Preti pedofili, l’atto di accusa del cardinale vicino al Papa
Marx, presidente della Conferenza episcopale tedesca, parla di carte distrutte e chiede un cambio di passo: “ Basta segreti, le prove devono essere registrate”
di Paolo Rodari
CITTÀ DEL VATICANO Un’accusa durissima, mossa da una delle personalità più importanti del collegio cardinalizio, il cardinale Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco- Frisinga, presidente della Conferenza episcopale tedesca e membro del C9, il consiglio che aiuta il Papa nel governo della Chiesa. Secondo il porporato tedesco intervenuto ieri in Vaticano al summit sulla pedofilia, « in Germania», ma così anche in altre parti del mondo, la Chiesa ha sistematicamente « distrutto » i dossier che denunciavano i preti pedofili: « Ho riferito di uno studio fatto in Germania — ha detto — si tratta di uno studio anonimo, ma il dato non può essere negato e presumo che la Germania non rappresenti un caso isolato».
L’uscita di Marx non sembra essere arrivata a caso. Da tempo la sensazione di molti tra quelli che in Vaticano lavorano per la trasparenza è che dentro la Chiesa vi sia chi remi contro.
Non è un mistero per nessuno che all’inizio dei suoi lavori la Commissione per la tutela dei minori istituita da Francesco abbia dovuto lavorare col freno a mano tirato per resistenze interne. Non a caso, vi furono subito le defezioni di due membri importanti, le ex vittime Marie Collins e Peter Saunders. E, insieme, la frustrazione per alcune dimissioni dallo stato clericale di preti pedofili bloccate all’interno della Dottrina della fede allora diretta dal cardinale Gerhard Ludwig Müller, salvo intervento in extremis dello stesso Bergoglio.
Ma le resistenze non sono ascrivibili soltanto a Roma. In tutto il mondo si verificano casi di vescovi insabbiatori e anche bugiardi. Una delle sacche di resistenza più importanti all’opera di pulizia in corso viene dagli Stati Uniti. Le aperture di Francesco al presidente cinese Xi Jinping irritano il mondo conservatore americano che da tempo, anzitutto tramite l’ex nunzio a Washington Carlo Maria Viganò, chiede al Papa di rinunciare alla sua carica accusandolo di coperture a pedofili e uomini di Chiesa con doppia vita.
Proprio in occasione del summit di questi giorni due cardinali emeriti, uno tedesco e l’altro statunitense, Walter Brandmüller e Raymond Leo Burke, hanno chiesto che i vescovi riuniti più che di abusi dovessero discutere della « piaga dell’agenda omosessuale » . Un tentativo di rovesciare il piano e accusare Bergoglio. Un piano costruito ignorando il dolore delle vittime di pedofilia.
Lo scontro interno ha radici lontane. Tutto ha inizio durante la crisi Vatileaks, nel 2012, quando furono resi pubblici una serie di documenti riservati del Vaticano, allora guidato da Benedetto XVI. Al momento dello scoppio dello scandalo venne alla luce, fra gli altri, un dossier riservato su colloqui avuti in Cina dall’allora arcivescovo di Palermo Paolo Romeo. Si parlava di un complotto per uccidere il Pontefice: era il segno più evidente che le aperture di Ratzinger alla Cina facevano paura a qualcuno. Tanto che iniziò un’opera di destabilizzazione del papato. Si sapeva che le autorità di Pechino stavano vagliando la possibilità di restituire alla Chiesa cattolica i suoi beni e le sue chiese. Ratzinger scrisse una lettera ai cattolici cinesi, voleva aprire, porre fine alla linea della chiusura. Bergoglio ha continuato la sua agenda, non nascondendo di avere simpatie per Pechino più che per Washington.
Le accuse di aperture alla cultura omosessuale, ritenuta dai nemici del Papa la causa prima degli abusi e della pedofilia, sarebbero dunque una vendetta per la politica di Francesco. Fino a chiederne le dimissioni. L’intevento di Marx, che chiede inoltre che il « segreto pontificio » vigente sui processi di abusi abbia fine, serve anche a confermare che il pontificato non arretrerà nonostante vi sia chi ne auspichi una rapida conclusione.
Repubblica 24.2.19
La forza della Chiesa e le marionette in Italia
23 Febbraio 2019
Sovranismo e populismo nel nostro Paese sono strettamente alleati e Di Maio in questa fase politica desidera dimostrarlo in tutti i modi possibili. A cominciare dall'appoggio a Salvini affinché eviti il processo che hanno chiesto giudici di Catania
di Eugenio Scalfari
Ci sono molte cose che accadono in questi giorni in Italia, in Europa e in tutto il mondo. Parleremo soltanto di alcune di esse, quelle che più da vicino interessano la nostra vita e cominciamo con la riunione sugli abusi sessuali del clero convocata da papa Francesco per "inchinarsi sulle ferite".
Ne parla con molta chiarezza l'articolo di fondo di Andrea Monda, direttore de L'Osservatore Romano ricordando l'episodio di San Tommaso (uno degli apostoli) che incontra insieme agli altri suoi compagni Gesù, che era ormai non più un Dio incarnato, ma dopo la crocifissione era ormai trasfigurato. Tommaso e gli altri suoi compagni stentano a riconoscerlo ma, per salutare i suoi apostoli prima di averli con lui in Paradiso alla loro morte, Gesù si reincarnò di nuovo. Tommaso ebbe qualche dubbio sull'immagine che gli stava dinanzi e chiese al Signore di potergli toccare la ferita causata da un colpo di lancia infertogli da una guardia romana nel costato mentre agonizzava sulla Croce. Se quella ferita esisteva ancora, se non altro come cicatrice, Tommaso sarebbe stato certo che si trattava del loro Signore. Gesù socchiuse il manto che lo circondava si fece toccare la ferita ormai rimarginata ma tuttora esistente da Tommaso, il quale trovò naturalmente la cicatrice e disse: "Mio Signore e Mio Dio".
Questo ricordo è ridiventato valido e aleggia sulla riunione convocata da papa Francesco e aperta da un intervento del cardinale Tagle.
In un certo senso ha dominato la riunione che è tuttora in corso alla presenza di 190 vescovi, presidenti delle conferenze episcopali delle rispettive nazioni dove il cattolicesimo è diffuso. Il cardinale Tagle ha precisato che la Chiesa cattolica fa un passo indietro inchinandosi rispetto al male altrui e volutamente si abbassa dal suo normale livello per mostrare pubblicamente quello che sente di fronte al male che alcuni dei suoi membri hanno recato al prossimo, ai giovani e addirittura ai bambini con ripetuti soprusi sessuali. I sacerdoti di tutto il mondo perdono il loro prestigio se l'umiliazione per quanto è accaduto non è considerata un male terribile da tutto il clero: anche da chi non solo non ha partecipato ad essa ma condanna quelli che l'hanno effettuata.
Nell'articolo de L'Osservatore Romano c'è questo passaggio significativo: "La Chiesa indica il mistero dell'incarnazione di Cristo, il Dio che si "abbassa" diventando uomo, assumendo la natura umana. È quello che deve fare la Chiesa fedele a Gesù: abbassarsi, farlo sempre e soprattutto oggi di fronte ai minori abusati con le loro ferite che gridano giustizia". Questo è quanto sta avvenendo e papa Francesco è il primo a incitare la Chiesa da lui guidata a toccare le ferite inferte da alcuni suoi membri e a sentire dentro di sé un dolore estremamente profondo. Questa è un'altra delle iniziative di papa Francesco che svela con un dolore estremamente autentico quello che è diffusamente accaduto nelle file del clero. Alcuni suoi critici, a cominciare dal vescovo Viganò, lo avevano contestato perché non aveva punito chi già dentro la Chiesa aveva commesso quei reati sessuali. Ora papa Francesco ha dimostrato quello che già chi lo conosce profondamente aveva intuito: non ha punito i singoli colpevoli, ha voluto che l'intera Chiesa sentisse quel dolore come proprio ed estirpasse per sempre quanto è accaduto.
La Chiesa è la Chiesa ma l'Italia è l'Italia e l'Europa - per parlare del Continente di cui facciamo parte - è l'Europa. In casa nostra accadono molte cose, cominciando da quel che accade al movimento-partito dei Cinque Stelle. Nelle elezioni in Abruzzo si sono dimezzati nel voto: dalla media cui erano arrivati di circa il 40 per cento sono scesi nelle regionali al 20. Naturalmente Di Maio e i suoi pochi collaboratori si sono mostrati convinti che il voto abruzzese ha delle motivazioni particolari e non conta niente sulle sorti complessive del loro partito. Era importante, secondo Di Maio, non tanto rassicurare i propri seguaci quanto rafforzare l'alleanza con la Lega di Salvini che nei sondaggi è molto più avanti dei Cinque Stelle. Una situazione non limitata al crollo abruzzese ma all'intero Paese, mostrando segni di friabilità proprio laddove la Lega continua a crescere a oltre il 32 per cento.
Di Maio si sta dimostrando un buon attore: sfoggia sicurezza, determinazione, tranquillità. Grillo, primario attore e autore del Movimento che non a caso finora si autodefiniva "grillino" ma ormai non più, sta prendendo le distanze da Di Maio e lo richiama a quella che fu per dieci anni la sua predicazione e il programma del Movimento: distruzione delle caste e terra bruciata per far nascere nuove forze e nuovi programmi. Insomma populismo allo stato puro. Questo fu Grillo e questo lo è ancora ma il movimento-partito di Di Maio non è più questo: ha un programma, ha un contratto con Salvini e non solo non combatte le caste ma addirittura sta diventando e rappresentando una di esse.
Di Maio vorrebbe avere un ruolo importante anche in Europa, specie se otterrà un discreto risultato nelle elezioni europee ormai imminenti. Non che abbia dimenticato di essere alla testa di un partito populista, ma il populismo una finalità la deve avere e in Europa è assai difficile: i populismi sono numerosi ma si abbinano al sovranismo e cioè il peggio del peggio. La coesistenza di populismi, ciascuno con i suoi capi e i suoi obiettivi diversi da quelli degli altri ha un percorso incerto. Sarebbe una sorta di miracolo se l'esistenza di tanti populismi in Europa favorisse la loro unificazione: un continente populista è impossibile? Non è affatto impossibile: Trump ha vinto e domina gli Usa con una politica populista; lo stesso avviene in Cina e in India. Non nella Russia di Putin che ha un regime propriamente zarista.
Comunque abbiamo già segnalato che il populismo europeo convive con il sovranismo e quindi ciascun movimento populista vive per conto proprio senza alleati altrettanto populisti. Sovranismo e populismo per quanto riguarda l'Italia sono strettamente alleati e Di Maio in questa fase politica desidera dimostrarlo in tutti i modi possibili, a cominciare dall'appoggio a Salvini affinché eviti il processo che i giudici di Catania vogliono aprire nei suoi confronti.
Salvini dal canto suo sa bene che l'alleanza con Di Maio è tutta a proprio vantaggio: a lui porta voti, a Di Maio ne fa perdere. Che cosa può accadere di meglio al capo della Lega? Perciò negli ultimi tempi i due fenomeni hanno andamenti difformi ma la loro alleanza si rafforza. Si è visto anche sul problema della Tav, rinviato a non si sa quando e soprattutto nella politica economica dove si adottano provvedimenti che sembrano atti di generosità per il prossimo bisognoso, ma in realtà sono interventi fittizi e privi di valore effettivo. La sostanza del contratto è rimasta inevasa: il contratto esiste come pezzo di carta ma non come programma in corso d'attuazione. Si vedrà quel che accadrà dopo le elezioni del prossimo maggio.
Sul fronte politicamente opposto le elezioni abruzzesi non sono andate male. Neanche bene, ma una via di mezzo che ha unito il Pd a una serie di circoli civici del tipo di quelli che nel loro complesso formano il movimento creato da Calenda. In Abruzzo il Pd all'11 per cento (molto meno dei sondaggi nazionali che lo danno tra il 16 e il 18 per cento), ma l'unione generale di chi la pensa in termini liberal-socialisti o anche semplicemente liberali è notevolmente superiore del previsto toccando il 31 per cento. Sarà dunque quella la strada su cui marciare: Partito e Movimento. A quanto arriveranno? Non meno del 20 e se fosse un miracolo magari al 30. Un partito-movimento che arrivasse al 30 sarebbe già qualche cosa, una discreta minoranza ma non più che questo. Comunque il dopo si vedrà.
Ci sono ancora due questioni da esaminare, che riguardano la politica italiana. Sembreranno a chi mi legge due macchiette come un tempo si usava negli antichi varietà. Una riguarda Renzi ed un'altra Berlusconi. Renzi per molte situazioni da lui create o che gli sono cadute addosso, ricorda Bettino Craxi. Entrambi iniziarono la loro attività politica identificandosi con il partito nel quale avevano scelto di militare e naturalmente - strada facendo - entrambi aspirarono a diventarne i leader e l'obiettivo fu raggiunto: Craxi alla testa del Partito socialista e Renzi a quella del Partito democratico che del socialismo italiano ha qualche traccia.
Craxi tuttavia, dopo un buon servizio adatto alle capacità di un leader, aprì la strada alla corruzione e insieme ad essa alla conquista sia pur transitoria di belle donne para-socialiste. Arrivò al peggio del peggio, fu processato dai magistrati di Milano e fu condannato a qualche anno di reclusione e per evitare il carcere scappò in Tunisia ad Hammamet dove poi morì.
Renzi per fortuna sua e anche nostra non ha questo destino; semplicemente ha perso la leadership del partito. Si era alleato con Berlusconi per fare la legge elettorale e la riforma costituzionale che giovasse a tutti e due. Per averne l'approvazione fu indetto il referendum dove i No batterono di gran lunga i Sì e dove Renzi ci rimise tutta la sua carriera politica, perse la leadership del partito, lasciò la guida del governo. Non era tuttavia un personaggio casalingo e quindi dopo un paio di mesi tornò in battaglia e lo è tuttora: vuole tornare alla testa del Pd e vuole portarlo ad alte vette numeriche e politiche.
Non sembra tuttavia che abbia molti seguaci: ha con lui parecchi sindaci delle zone centrosettentrionali ed anche un notevole numero di parlamentari iscritti al Pd. C'è anche una parte, ma assai limitata, del movimento che fiancheggia il Pd. Insomma Renzi è di nuovo in battaglia e ha scritto un libro di agevole lettura sulla sua vita politica, come fu, come è e come sarà.
Ho già detto che somiglia poco a Craxi, anzi per nulla salvo che i partiti cui appartenevano e di cui erano stati i capi li hanno vissuti quasi nello stesso modo. Il finale di Craxi fu una condanna giudiziaria, di Renzi sono stati invece arrestati i genitori: non sono cose identiche ma in qualche modo analoghe. Di lui purtroppo si è visto il finale; il finale di Renzi è ancor a piuttosto lontano e la sua partita è ancora tutta da rigiocare ma l'esito è ignoto ed anche le previsioni formulate dagli esperti della materia sono molto incerte.
L'ultimo personaggio che sta tornando in palcoscenico è Berlusconi. Visto in televisione dove è in grado di usare un buon trucco capace di diminuirne l'età anagrafica, sembra ancora in piena forma e forse lo è. Il legame con Salvini è molto forte salvo che Berlusconi mantiene le finalità proprie che non coincidono con quelle di Salvini. I voti di Berlusconi attualmente oscillano tra l'8 e il 10 per cento: è già notevole ma probabilmente un'ulteriore crescita ci sarà. Ho detto più volte e lo ripeto ancora che Berlusconi è un personaggio che scrive il libretto dell'opera che vuole mettere in scena ma poi fa anche il primo attore sul palcoscenico. Non è il solo che riesca a coniugare le capacità dell'autore e l'abilità dell'attore, ma lui è certamente il più notevole in questa duplice personalità.
Il suo libretto è quello di tornare al governo, magari non come premier ma con una carica molto importante per lui e diffusa anche nel suo stato maggiore. Quanto al suo atteggiamento verso Salvini, lo appoggia e continuerà sempre ad appoggiarlo per evitargli guai giudiziari. Rispetto a Di Maio populista, Berlusconi è un populista della forza di un dio olimpico. Ricorderete che ai tempi in cui governò l'Italia per parecchi anni cambiava abito e cappello secondo i luoghi e gli interlocutori che doveva vedere.
Una volta arrivò addirittura a mettersi un cappello da bersagliere durante la visita a quel corpo militare. Ricordiamo anche l'eleganza dei suoi doppi petti blu quando la sera ballava con le ragazze invitate a cena, eccetera eccetera. Mi viene in mente che anche Gabriele D'Annunzio si vestiva durante la guerra '15-'18 secondo i vari corpi militari che frequentava; non mise mai il cappello da bersagliere, ma quello di alpino, quello di cavalleggero, quello di fante. E il blu lo usava anche lui e le donne pure. Ovviamente D'Annunzio è e resterà nella storia della poesia italiana mentre la storia politica di Berlusconi parlerà poco o niente con il passar degli anni. In realtà il personaggio al quale somiglia è piuttosto Grillo: il populismo di Berlusconi batte di gran lunga quello del comico che ha dato vita ai Cinque Stelle.
Questo è il quadro della povera Italia. Molto da divertirci non c'è.
Governo
Repubblica 24.2.19
Il ritorno di Francis Fukuyama
Cara sinistra svegliati, la Storia non è finita
Intervista con Francis Fukuyama di Federico Rampini Fotografie di Mark Peterson
Il professor Francis Fukuyama ha il dono di scatenare le controversie. A tutt’oggi non si sono ancora placate le polemiche furibonde sul testo che lo rese celebre nel mondo intero — scritto ben trent’anni fa. Il saggio La fine della storia e l’ultimo uomo, la cui primissima stesura ( sotto forma di articolo) precedette di pochi mesi la caduta del Muro di Berlino nel 1989, lui lo scrisse quando aveva appena 36 anni. Fukuyama vi teorizzò la prevalenza del modello occidentale cioè capitalismo più liberaldemocrazia. Il crollo dell’Unione sovietica, la conversione della Cina all’economia di mercato, il “ momento unipolare” di egemonia americana, sembrarono dargli ragione. Temporaneamente. Oggi quel testo è citato per lo più come un modello di profezia ottimistica, e smentita dall’evoluzione successiva. Lo stesso Fukuyama ha pubblicato ampie e approfondite revisioni autocritiche. Molti lo contestano anche a sproposito, senza averlo letto, fissandosi sul solo titolo e quindi sulla semplificazione estrema della sua tesi. È il prezzo del successo: da Marx a Gramsci per la sinistra, da Adam Smith a Karl Popper per la tradizione liberale, i più grandi pensatori spesso vengono criticati da chi li ha letti poco. L’ultimo libro di Fukuyama, Identità, ha già costretto una delle più autorevoli riviste americane, Foreign Affairs, a ospitare un consistente numero di recensioni ostili. Tra gli attacchi si distingue quello di una neo- celebrity della sinistra, la politica afroamericana Stacey Abrams, candidata ( sconfitta per un soffio) al ruolo di governatrice della Georgia. L’accusa che la Abrams rivolge a Fukuyama è condivisa da gran parte dell’intellighenzia progressista e si può riassumere così: lo studioso di scienze politiche fa il gioco di Donald Trump, con la sua analisi sulla “deriva identitaria” della sinistra assolve il razzismo della destra, che dell’identità etnica fa un uso ben più spregiudicato e distruttivo. Alla vigilia dell’uscita in Italia lo intervisto all’università di Stanford, in California, dove insegna.
Una delle tesi controverse di questo saggio è che la sinistra “ ha scelto di celebrare delle forme particolari d’identità, si è concentrata su gruppi sempre più piccoli e marginalizzati”, a scapito di un principio di adesione a un patrimonio di valori universali, a un’idea di cittadinanza che è il fondamento stesso della democrazia liberale. Per lei questa è un’evoluzione che viene da lontano e coincide con l’attenuarsi delle rivendicazioni economiche per le classi lavoratrici. Può approfondire cos’è accaduto alla sinistra?
« Durante gli anni Novanta sia in America che in Europa la sinistra fece la pace col capitalismo, e così facendo si staccò dalle sue tradizioni precedenti. Al punto che, retrospettivamente, è difficile vedere la differenza tra un cancelliere socialdemocratico come Gerhard Schröder e una democristiana come Angela Merkel. La definizione delle ingiustizie, che nel XX secolo guardava soprattutto alle diseguaglianze economiche e sociali, si spostò. Un grande partito della sinistra europea come il Pci aveva una base tra i lavoratori bianchi. Nell’ultima generazione invece si è guardato soprattutto agli immigrati e alle minoranze etniche come le vittime di ingiustizie. Naturalmente queste categorie sono davvero vittime di ingiustizie. E tuttavia la sinistra parlando soprattutto a loro ha perso il contatto con le vecchie classi lavoratrici. Trump ha catturato consensi tra queste; almeno quanto basta per essere presidente degli Stati Uniti. Tanti operai che avevano perso il loro lavoro, che non vivono nelle città delle due coste, e si sentono vittime della globalizzazione, si sono sentiti ignorati dalle élite benestanti».
Questo schema si sta ripetendo nella controversia sul muro col Messico? Se Trump riesce a spingere una parte della sinistra su posizioni estreme — del tipo “quando si è poveri le leggi sull’immigrazione si possono violare” — finirà per mantenere il suo zoccolo duro di consenso?
«L’immigrazione è diventato il tema centrale, lo è negli Stati Uniti come lo è in Italia per quei disperati che tentano di attraversare il Mediterraneo. Il sostegno alle posizioni moderate fra i democratici si è indebolito. Io non metto in discussione l’obbligo morale di aiutare i profughi. Questo non significa che possano varcare le frontiere tutti quelli che vogliono farlo. Bisogna controllare i flussi, è importante che ci sia una capacità d’integrazione, è essenziale che i nuovi arrivati adottino i valori della nostra società. Ma questa posizione ragionevole e centrista sta scomparendo nel dibattito politico. Voi italiani avete da un lato Matteo Salvini, dall’altro una sinistra che si radicalizza e sembra contraria a ogni limite. Ma non c’è democrazia possibile, se non sappiamo chi è, come si definisce, “il popolo” su cui si fonda questa democrazia».
Repubblica 24.2.19
Se questa è l’élite meglio la Thatcher
La provocazione di Donald Sassoon
di Donald Sassoon
Non credo che si possa insegnare un’identità. Non credo che si possa fare dell’Europa uno stato-nazione di stati-nazione, il che non significa che la lenta e dolorosa costruzione dell’Unione europea, nonostante i problemi, gli errori, le sciocche regole, il deficit democratico e la bassa affluenza alle urne, non sia la cosa migliore successa nella storia europea. Bisogna inoltre riconoscere che in certi paesi alcuni elementi d’identità europea si sono sviluppati anche grazie alla valuta comune, all’abolizione del passaporto nell’area Schengen, allo scambio universitario noto come programma Erasmus.
Quello che manca è l’insegnamento adeguato della storia degli altri paesi europei. Ma non dimentichiamo che la maggior parte delle persone non basa le proprie conoscenze storiche solo su quanto è stato appreso a scuola. La storia che conoscono la ricavano in parte dai ricordi distorti e dai pregiudizi di genitori e nonni, in parte dagli incompleti riferimenti al passato che racimolano nei telegiornali, nei quotidiani, nei libri (romanzi in particolare) e, soprattutto, alla televisione e nei film. (...) Per costruire una nazione, la cosa migliore è avere uno stato, esigere tasse, controllare l’istruzione e i media, avere una forza di polizia e un esercito. All’Unione europea mancano questi meccanismi e pochi vorrebbero che li avesse. È impossibile costruire l’identità europea nel modo in cui è stata realizzata quella francese, britannica o tedesca.
Inoltre, proprio ora, mentre lo stato-nazione resta il principale focus dell’identità, una crescente porzione di europei è arrabbiata con i propri politici e vota sempre più massicciamente per partiti euroscettici antisistema di destra, partiti che agitano lo spauracchio dell’immigrazione, o non vota affatto. Si votano anche persone che non sono mai state politici, come se un lavoro nel campo immobiliare o in quello televisivo ( Donald Trump e Silvio Berlusconi), nella finanza ( Emmanuel Macron), nell’intrattenimento (Beppe Grillo), o nell’industria alimentare (il leader ceco Andrej Babiš) offra garanzie d’integrità politica.
Anche nel caso di Jeremy Corbyn, il suo ovvio disinteresse verso la convenzionale politica di partito, nonostante una vita spesa in politica, è stato un vantaggio. I commentatori hanno notato che “il popolo” è arrabbiato con le “élite”. Bisognerebbe dedicare più tempo a esaminare come mai la qualità del personale politico in Occidente sia tanto scaduta. Spero non sia visto come un aggrapparsi ai “bei tempi andati” fare confronti tra i vecchi leader come Harold Macmillan, Harold Wilson, Margaret Thatcher, Helmut Schmidt, Willy Brandt, Konrad Adenauer, Giulio Andreotti, Enrico Berlinguer, Aldo Moro, Charles de Gaulle, François Mitterrand, Adolfo Suárez, Felipe González, Andreas Papandreou e suo padre Georgios e i nuovi leader politici. A favore dei primi.
Ma a fare la differenza non sono i grandi uomini e le grandi donne, bensì le circostanze che li producono. Dove sarebbero Franklin Delano Roosevelt, De Gaulle e soprattutto Churchill senza la Seconda guerra mondiale? I russi non avrebbero pianto in massa la morte di Stalin nel 1953 se non fosse stato considerato il vincitore della guerra, invece del paranoico assassino che era. In epoche morbose la metafora latina nanos gigantum humeris insidentes (nani sulle spalle di giganti) non funziona. Questa è un’epoca di pigmei che dei giganti non hanno alcuna memoria.
Repubblica 24.2.19
Imprese da manuale
Il mio Kant libero, la filosofia è per tutti
Intervista con Maurizio Ferraris di Marco Bracconi
Perché un ragazzo del liceo dovrebbe studiare filosofia? «Perché la mente non funziona come i sensi: un formaggio dal gusto forte anestetizza le papille e cancella quello più delicato. L’intelletto invece fa l’opposto: quando prova un pensiero forte, diventa più abile in tutto, anche nell’affrontare questioni accidentali, transitorie. Vuole un esempio? Leggere la Metafisica di Aristotele aiuta a fare un cruciverba, il contrario no».
La filosofia serve. E serve ancora di più in tempi frenetici e cangianti. Per questo Maurizio Ferraris, il filosofo del nuovo realismo e della documedialità, è tornato al liceo. Non da studente, ma da autore di un pacchetto di manuali fortemente innovativi. Si chiamano Pensiero in movimento (Paravia, gruppo Pearson Italia): salti temporali e interdisciplinari, articoli di giornale, esercitazioni, simulazioni, app digitali e interviste allo stesso Ferraris. « La filosofia apre strade oltre sé stessa. Comprenderla vuol dire formare le competenze del futuro. Qualsiasi esse siano. Pensi a Sergio Marchionne o a Franco Tatò, manager globali, entrambi laureati in filosofia».
Immaginiamolo, questo ragazzo del liceo che studia la storia del pensiero.
«Un grande del ’900, Jacques Derrida, mi raccontò che dopo gli studi alla Normale Superiore di Parigi, luogo formalissimo, era andato a Harvard ed era rimasto scosso da uno studente che, stravaccato sull’ultimo banco, alzò la mano e disse al professore: “Signore, su questo punto sono in disaccordo con Platone”. È l’atteggiamento giusto nei confronti della filosofia. Purché si sappia che cosa ha detto Platone...».
Il “movimento” del titolo è la cifra del tempo o della storia filosofica?
«È la cifra dell’umanità. Non abbiamo idea se gli elefanti abbiano storicità, potrebbe essere, visto che hanno la memoria. Ma nulla ci lascia pensare che evolvano culturalmente: sono sempre vestiti allo stesso modo, non hanno libri, non modulano diversamente i barriti. Certo, sono diversi dai mammut, ma meno di quanto un umano di oggi sia diverso dal bisnonno. Per capire questo movimento bisogna saper vedere da lontano meglio che da vicino. Questa presbiopia è ciò che cerco nella filosofia. E su questa linea mi sono mosso con chi mi ha aiutato in questo lavoro: Enrico Terrone, Daniela Tagliafico, Alessandra Saccon».
Nei suoi manuali si rispetta la cronologia. Poteva essere altrimenti?
«Molti sostengono di sì, ma come metti insieme tanti autori se non raccontando una storia di famiglia? Kant che generò Hegel che generò Nietzsche… Con molti Edipi (i filosofi sono litigiosi) e poche Giocaste (la filosofia è stata a lungo monopolizzata da uomini). Poi certo la storia di famiglia non basta».
E infatti, spesso, quest’ordine viene integrato con incursioni nella contemporaneità. Per esempio mettendo a confronto quello che diceva Pitagora sulla matematica e quello che oggi dice Carlo Rovelli.
«Esatto. Non basta dire che Kant era stato impressionato da Newton e da Hume. Bisogna prendere sul serio la Critica della ragion pura, metterla alla prova con lo stato attuale delle conoscenze, e poi magari scoprire che molti conti non tornano».
Avete addirittura inserito articoli apparsi sui giornali. Come nel caso di Massimo Cacciari.
«Qui la risposta ci viene servita su un vassoio d’argento da Hegel che, dopo aver pubblicato la Fenomenologia dello spirito, diresse un piccolo quotidiano, la Gazzetta di Bamberga: la filosofia è il proprio tempo compreso con il concetto. Il che, se ci pensiamo, è un buon motto non solo per un filosofo, ma anche per un giornalista».
Il cuore dei manuali è il racconto classico delle “ filosofie”: nel suo è arricchito da rimandi ad altre discipline, connessioni tra autori e salti temporali. Il testo è ricco di link. Molto internettiano, no?
«Sì, ma solo nella misura in cui il web non è una mutazione genetica che determina una nuova specie. Il web, come ogni trasformazione tecnico- sociale, il capitalismo industriale, la falange macedone o l’invenzione del fuoco, non è alienazione che ci porta lontani da ciò che noi siamo veramente: è piuttosto rivelazione della nostra essenza. La tecnica, come in una processione, porta alla ribalta cose antiche: Aristotele diceva che l’uomo è un animale dotato di linguaggio e il telefonino lo ha dimostrato a oltranza. Specie nei vagoni silenzio di Trenitalia».
Il punto di vista dell’arte è una delle strutture “fisse” di rimando interdisciplinare. Si può capire Nietzsche anche attraverso un quadro di Matisse. Perché l’arte e non il cinema o la letteratura, per esempio?
«Cinema e letteratura sono rappresentati, ma l’arte visiva lo è un po’ di più perché permette di cogliere un concetto con un solo colpo d’occhio. La trasformazione del gusto in età alessadrina, che è anche il trapasso da Platone e Aristotele agli Stoici e agli Epicurei, si può spiegare con una immagine del Laocoonte o con la lettura delle Argonautiche di Apollonio Rodio. Solo che nel secondo caso serve molto più tempo, e mentre gli studenti leggono le Argonautiche il professore di filosofia è già arrivato a Tommaso d’Aquino».
La scrittura filosofica. Al tempo dell’emoticon si possono gustare i testi di un Erasmo o di un Hegel (che lei propone, ovviamente tradotti)?
«Mi verrebbe da rispondere come Mario Praz quando gli chiesero se avesse letto
Guerra e pace in russo: “Certo, mica è scritto in turco!”. Nell’età del telefonino e del tablet non siamo regrediti ( e se lo siamo è colpa nostra e non sua). I nuovi metodi espressivi si aggiungono, non sostituiscono. Apparirebbe futile andare a insegnare agli studenti l’uso delle faccine ( è un concetto balordo di modernità), ma come professori possiamo insegnargli ad apprezzare testi che vengono dal passato ma che illuminano il presente. E poi tutti quanti, studenti e allievi, possiamo continuare serenamente con le nostre faccine».
Il “ pubblico” a cui si rivolge è abituato alla vulgata delle frasi filosofiche che viaggiano via meme sui social.
«Quei meme stanno alla filosofia come le reliquie stanno alla santità. E, come le reliquie, sono tutt’altro che inutili. Da giovani le immagini contano. Io ho deciso di fare filosofia guardando la scena del Conformista di Bertolucci in cui il professore antifascista racconta il mito della caverna di Platone».
Auto-interviste. Mappe. Test. Esercizi di logica: uno sforzo titanico per rendere ciò che sembra astratto più concreto agli occhi di un ragazzo? continua?
Il manifesto 24.2.19
Nel cocktail di «Roma», canzoni e politica nel Messico del 1970
Musica . Nel film di Alfonso Cuarón lo spazio sonoro della capitale, silenzi inclusi, viene ricostruito da Lynn Fainchtein. Una colonna sonora che si muove tra il pop dell’argentino Leo Dan ai divi come Javiér Solís e Juan Gabriel
di Dimitri Papanikas
Nel film Roma di Alfonso Cuarón – che con le sue dieci nomination è tra i favoriti nella corsa agli Oscar di questa notte a Los Angeles – lo spazio sonoro della capitale messicana, silenzi inclusi, viene ricostruito da Lynn Fainchtein, responsabile del disegno musicale della più fortunata cinematografia e serialità televisiva internazionale degli ultimi anni. Suo il compito di ricostruire il variopinto universo sonoro di quel che resta dell’antica Tenochtitlan, tra il 1970 e il 1971, gli anni in cui è ambientata la pellicola.
Sono gli anni, e i paradossi, del PRI – il Partido Revolucionario Institucional – al governo ininterrottamente dal 1930 al 2000 (e poi di nuovo tra il 2012 e il 2018 con l’ultimo effimero colpo di coda del presidente Enrique Peña Nieto che lo resuscitò per poi affossarlo definitivamente nelle elezioni politiche dello scorso luglio). Un partito fondato per porre fine alle lotte intestine tra caudillos e unificare le varie forze nate con la Rivoluzione del 1910. Un rompicapo fin dal nome (quell’ossimoro «rivoluzionario» e «istituzionale») che per più di settant’anni ha condotto le sorti di un paese tra passato e modernità, rivoluzione e reazione, in una neanche troppo originale miscela di riformismo e repressione. Un cocktail che convertì per molti anni il Messico in rifugio prediletto da tutti gli esiliati, rivoluzionari e condannati della terra. Se la riforma agraria e le politiche di difesa dell’istruzione pubblica, della sanità, fino alla nazionalizzazione dell’industria del petrolio trasformarono il paese nell’Ultima Thule di tanti sognatori, ben presto la sua classe dirigente finì per mostrare ben più solide radici nella tradizione antiliberale dell’ispanismo medievale, cattolico e coloniale, che nei seguaci di Rousseau. Paternalismo, presidenzialismo verticista, autoritarismo che non disdegna l’ausilio dei sempreverdi militari per garantire pace, ordine e status quo, per inibire ogni possibile via extraparlamentare alla mobilità sociale. Le Olimpiadi del 1968 e il Mondiale di Calcio del 1970 furono le due enormi operazioni di propaganda volute dal governo, con la colpevole complicità internazionale, che, sfuggite di mano, finirono per mostrare al mondo che il re, in realtà, era nudo. È questo il contesto in cui si muovono i protagonisti di Roma.
SULLA SCIA della Primavera di Praga e del Maggio francese nacque così il Movimento studentesco 1968. Si trattava di studenti provenienti in gran misura dalla UNAM e dal Politecnico della capitale che scioperavano in favore di un cambiamento democratico, del ripristino dell’autonomia universitaria violentemente interrotta, di maggiori libertà politiche e civili. Accusati da una violenta campagna denigratoria governativa di voler instaurare un regime sovversivo e comunista, le loro marce furono represse nel sangue. Circa quattrocento furono gli studenti e civili assassinati nella plaza de las Tres Culturas di Tlatelolco il 2 ottobre del 1968, appena dieci giorni prima dell’inaugurazione delle Olimpiadi. Stessa sorte toccò a più di cento di ragazzi tre anni dopo, con il bagno di sangue del 10 giugno 1971, passato alla storia come El Halconazo. Cuarón lo racconta attraverso una straziante ricostruzione della repressione da parte di paramilitari reclutati tra i quartieri più poveri della città, armati di bastoni di bambù, spade di kendo e manganelli di legno, a cambio di qualche peso per il disturbo.
A STRUGGENTE monito di quegli anni rimangono, indelebili, i dischi di Óscar Chávez (México 1968) e di Judith Reyes. Quest’ultima, portavoce del movimento contadino contro i latifondisti e militari, è l’autrice di opere imprescindibili come La otra versión de la historia, Aquí está el Che (1967) fino al fondamentale Cronología del Movimiento estudiantil (1968). Con quest’album, debitore della grande tradizione dei corridos della Rivoluzione, la Reyes girò mezzo paese, cantando in carceri, mercati, campagne e fabbriche, per sensibilizzare l’opinione pubblica alla causa. I ribelli ne subirono tutte le conseguenze del caso. Intimidazioni, provocazioni, infiltrazioni nel movimento, repressione giuridica, processi sommari, incarceramenti, uso esteso di delazione, tortura, paramilitari, CIA, propaganda mediatica a ritmo di musica romantica e ballata tradizionale. L’effimero servito su un piatto d’argento.
IN QUESTO SENSO Roma è una perfetta occasione per conoscere la musica che suonava per le strade di Città del Messico tra il 1970 e il 1971. Quali erano le hit parade radiofoniche in voga nelle case? Lynn Fainchtein compie un ammirevole lavoro di cesello nel ricostruire lo spazio sonoro della classe media del Messico di allora. Una polarizzazione sociale che si riflette nell’universo sonoro dei suoi abitanti. Accantonata la canzone protesta per evidenti motivi di galateo, i protagonisti di Roma (dal nome del celebre quartiere di classe media a cui è dedicato il film) si muovono in un contesto sociale che ne determina i gusti e i consumi culturali. Tra le varie opzioni disponibili Cuarón sceglie il pop dell’argentino Leo Dan (Te he prometido), la spagnola Rocío Dúrcal (Más bonita que ninguna), Lupita D’Alessio in una gettonatissima Corazón gitano, cover de Il cuore è uno zingaro portato al successo da Nicola Di Bari, fino ai fragili e perfettamente prescindibili successi internazionali di Roger Whittaker (Mammy Blue), la band Christie (Yellow River) o Yvonne Elliman nei panni della Maria Maddalena cantando I don’t know how to love him tratta dal fortunato musical Jesus Christ Superstar. Immancabili i grandi divi come Javiér Solís (Sombras), Juan Gabriel e José José impegnati rispettivamente in cavalli di battaglia come No tengo dinero e La Nave del olvido. Restano invece fuori la tradizionale ranchera di Pedro Infante e José Alfredo Jiménez, le irriverenti canzoni di Tin Tan e poi ancora Álvaro Carrillo, Agustín Lara e Jorge Negrete. Non c’è spazio per tutti. Per questo non deve stupire l’assenza della salsa e del rock nacional. Troppo presto per la prima (i tempi non erano ancora maturi), troppo tardi per il secondo. Clamorosa, in questo senso, fu la censura governativa del musical Hair durante la tournee ad Acapulco, con immediata deportazione degli attori e produttori stranieri. Si sfiorò lo scandalo diplomatico. Ad ogni modo, per quanto riguarda il rock, fa eccezione Javier Bátiz (tra i principali pionieri del genere, maestro di Carlos Santana) con una cover in spagnolo di The House of the Rising Sun e La Revolución de Emiliano Zapata con Ciudad perdida.
MA QUALCOSA stava iniziando a cambiare. Lo spartiacque sarà il Festival di Avándaro dell’11 e 12 settembre 1971, passato alla storia come il «Woodstock messicano». Si trattò del maggior evento rock della storia del paese. Furono due giorni di rock psichedelico, amore libero, controcultura e droghe a volontà. Un evento originalmente concepito per cinquemila spettatori, ne vide arrivare quasi trecentomila in una sorta di catarsi sociale per esorcizzare la paura. Si trattò del trionfo de La Onda, un movimento di avanguardia all’insegna di ecologia, pacifismo, spiritualità e diritti umani creato dagli jiptecas (hippies messicani) insieme al sacerdote Enrique Marroquín. Puro underground in salsa messicana, sulla falsariga dei loro cugini statunitensi, che auspicava un cambio di governo in forma pacifica, in nome di una nuova morale contraria a pregiudizi e ai valori imposti dall’Occidente. Un richiamo alla libertà che avveniva paradossalmente proprio attraverso l’esaltazione del rock britannico e statunitense. La Coca-Cola finanziò la radiotrasmissione dell’evento su scala nazionale… onde evitare equivoci. Ad ogni modo la reazione del governo non si fece attendere. Si gridò al pubblico scandalo. Da allora, per diversi anni, si proibirono le grandi riunioni giovanili e si chiusero le porte del paese ai grandi gruppi di rock internazionali. Alle radio fu imposta la censura e il ritorno a generi più autoctoni e meno conflittivi come il folklore, la canzone melodica e la ballata degli anni ’50. Per sopravvivere la mitica band La Revolución de Emiliano Zapata finì per tradire il suo pubblico abbandonando il rock per dedicarsi a nuove e improbabili ballate neomelodiche in stile vintage. Fu la definitiva sconfitta del movimento hippie, un salto indietro nel tempo di vent’anni. Nuovi scenari si sarebbero aperti. Il mondo ormai andava da un’altra parte e nuovi anni stavano per arrivare. Anni di edonismo e postmoderno, di new age e pensiero debole, delle filosofie orientali un tanto al chilo, del mangiar sano e tornare alla natura, del Mercato possibilmente equo e solidale, del narcisismo di parrucchieri barbuti eco-compatibili a chilometro zero, anni di selfies e di democrazia a portata di click, della straordinaria capacità di sostenere cause il più lontano possibile, attraverso petizioni on-line e sottoscrizioni web, nell’ossessivo tentativo di lavare la coscienza senza sporcare troppo le mani.
Repubblica 24.2.19
Casta Diva
Ho già vinto il mio Oscar vendicando noi indios
Intervista con Yalitza Aparicio di Laura Tillman
Yalitza Aparicio, la protagonista di Roma di Alfonso Cuarón, è seduta su una panchina nell’assolato Parque México, a poche traverse dal quartiere di Città del Messico che dà il titolo al film. Ha scelto il parco per questa chiacchierata perché, dice, le ricorda la sua cittadina natale. Aparicio, che ha venticinque anni, si era appena laureata in Scienze dell’educazione e viveva proprio a Tlaxiaco, ventimila abitanti tra i monti dell’Oaxaca, quando per caso sostenne il provino per il ruolo principale in Roma, quello della tata Cleo; oggi è additata come modello per le donne e le popolazioni indigene del Messico e la critica ancora parla della sua interpretazione. In giro la riconoscono continuamente, ora? « Qui? No » , risponde. « Mi riconoscono se esco in abiti eleganti, ma se sono al naturale, no. Molti non hanno ancora visto il film, e sullo schermo sembriamo diversi da come siamo di persona». Il parco ferve di attività: chi fa jogging, chi passeggia con dieci o dodici cagnolini al guinzaglio, chi telelavora ai tavolini dei caffè. Yalitza Aparicio ci è venuta la prima volta nel corso delle riprese, due anni fa: «Qui mi sento più libera rispetto a quando sono circondata dai palazzi. Sentirmi rinchiusa non mi è mai piaciuto » . In pochi minuti, però, viene circondata da qualcos’altro: i fan. Compaiono alla spicciolata, osservandola da lontano, poi si avvicinano per stringerle la mano e farsi un selfie con lei. Complimenti, Yali... film pazzesco. Io sono cresciuto qui, mi ha riportato indietro. Anch’io avevo una tata. Ho pianto tipo cinque volte quando l’ho visto.
In Messico Roma è qualcosa di più del progetto di un regista famoso: ha dato il via a un dibattito sulla disuguaglianza, sul trattamento dei lavoratori domestici e su chi calca di più i red carpet in un paese dove le donne amerindie non appaiono sulle riviste, tanto meno nelle dirette tv dei premi di Hollywood. A dicembre Yalitza è apparsa in copertina su Vogue México: una svolta, nella storia della rivista, per una donna indigena. Essere un’eccezione però non le basta: vorrebbe usare la sua influenza di star emergente a beneficio di un futuro più inclusivo nel suo paese. Segnali di cambiamento si erano visti anche prima della messa in onda del film su Netflix. Sempre in dicembre la Corte Suprema messicana ha stabilito che gli oltre due milioni di lavoratori domestici, in maggioranza donne, devono avere accesso al welfare nazionale; e il nuovo presidente, Andrés Manuel López Obrador, ha promesso impegno nella lotta alla miseria e all’oppressione dei popoli indigeni. Cuarón non aveva l’intento di girare un film politico, ma ne ha sposato gli esiti. Qualche settimana fa, a un’anteprima della Cineteca Nacional di Città del Messico, ha chiamato sul palco un’attivista per i diritti dei lavoratori domestici: “Tutte le colf messicane sono Libo, ci riconosciamo in lei”, ha detto Marcelina Bautista riferendosi a Liboria Rodríguez, la tata d’infanzia che ha ispirato al regista il personaggio di Cleo. Aparicio intanto, pur celebrata, è anche diventata oggetto di aggressioni razziste online. Da principio l’hanno ferita; poi si è concentrata sui tanti che la definiscono un modello e le inviano foto e disegni. «Però non sono il volto del Messico», aggiunge, perché il paese ha molte facce.
Nel parco Yalitza Aparicio siede ancora al sole. La sua migliore amica nella vita e nel film, Nancy García García (che interpreta Adela, la cuoca) le ha detto che ha l’aria stanca; e lei si sente stanca davvero. Lo scorso agosto è stata a Venezia per la prima di Roma, e lì ha visto il film la prima volta. A mezz’ora dall’inizio si è messa a piangere e non ha smesso fino ai titoli di coda. Dopo è partito un vortice di viaggi a Londra, San Francisco, New York, Toronto, Los Angeles.
Ma il vero viaggio di Yalitza era iniziato due anni prima. Il direttore di un centro culturale di Tlaxiaco aveva invitato sua sorella maggiore, Edith, a un misterioso casting. Si sarebbe poi rivelato quello per il cine- ritratto di Cleo e della Città del Messico anni 70 pensato da Cuarón, che cercava la sua protagonista da mesi e aveva visionato i provini di oltre tremila donne, nessuna delle quali gli pareva quella giusta. Ma prima dell’audizione Edith Aparicio, che era incinta, chiese a Yalitza di provarci lei, così avrebbe potuto raccontarle tutto. Il regista la conobbe a una seconda chiamata. «Cominciavo a disperare, e all’improvviso arriva Yalitza: un po’ timida, ma molto sincera», ricorda al telefono. Lui voleva ricreare la sensibilità di Libo, la stessa empatia nel rapporto con gli altri. Quando disse ad Aparicio che voleva affidarle la parte, lei vacillò. Si era appena laureata, doveva parlarne con i suoi. Poco dopo Yalitza lo richiama: c’è tempo prima di fare domanda per degli incarichi di insegnamento. « “ Boh” mi fa “ direi che posso venire” » , ricorda Cuarón. « “ Non ho niente di meglio da fare” ». Per prepararsi alle riprese il regista chiede a lei e a Nancy García di improvvisare delle scene, e rimane stupefatto dalla rapidità con cui le due si mettono a recitare Cleo e Adela, anziché replicare un qualunque scambio di battute dopo una lezione in facoltà. «Quella che si vede nel film non è Yalitza, quella è Cleo » , dice Cuarón. « Lei lo ha costruito, quel personaggio, mi spiego? E con abbondanza di particolari». Le due attrici non hanno mai visto un copione, neanche un intreccio. Aparicio attinge al mondo complesso del set, basato sui ricordi d’infanzia di Cuarón, e alla sua personale visione del personaggio, fondata in parte sulle esperienze della madre, collaboratrice domestica; e si cala nel ruolo al punto che quando viene colpita da una tragedia, la sua Cleo soffre con un realismo straziante.
Sul set Cuarón ha creato una realtà a cui Yalitza Aparicio potesse dare vita; adesso lei spera di creare in Messico una realtà nuova, dimostrando che le donne amerindie sono in grado di raggiungere i livelli più alti in qualunque campo. È un’aspirazione che incontra parecchi ostacoli: oltre il settanta per cento della popolazione amerindia messicana vive in povertà, e le discriminazioni — sul lavoro, nell’istruzione e nel sistema giudiziario — sono all’ordine del giorno. Con la nomination all’Oscar, dove stanotte è candidata come miglior attrice accanto, tra le altre, a Lady Gaga e Glenn Close, Yalitza è certa di aver «infranto lo stereotipo che siccome siamo indigeni, il colore della nostra pelle ci impedisce di fare certe cose. La nomination ha dato un bello schiaffo a parecchie idee preconcette: apre delle porte ad altri — a tutti, anzi — e può rafforzare la convinzione che quelle cose, adesso, possiamo farle». Non è certa, invece, che continuerà a recitare. Da insegnante si rende conto che il cinema può trasmettere messaggi importanti: plasmare la mente e il cuore dei bambini è molto più facile che cambiare le credenze radicate degli adulti, dice, eppure è rimasta attonita nello scoprire che Roma sta facendo proprio questo. «Alla fine, non è un mestiere molto diverso da quello che volevo fare. Ho capito che il cinema può educare persone di tutte le età, e in modo efficace».
Il manifesto 24.2.19
Salvare Radio Radicale, una missione per tutti
Editoria. Mauro Palma: «Senza costruttori culturali cresce solo la cultura populista»
di Eleonora Martini
«Quando nel 1976 Marco Pannella entrava alla Camera dove era stato appena eletto, si metteva subito a raccogliere tutti gli stenografici degli interventi integrali dei deputati – che a quel tempo non venivano conservati ma erano destinati al macero – e poi li fotocopiava e li distribuiva. Ecco: “conoscere per deliberare” è nel Dna radicale». Nel secondo giorno dell’8° Congresso del Partito Radicale nonviolento transnazionale e transpartito (Prntt), Rita Bernardini, che siede al tavolo della presidenza insieme a Sergio D’Elia e Maurizio Turco, evoca l’amato leader scomparso quasi tre anni fa per ricordare alla cronista del manifesto che la decisione di Radio Radicale di concentrare tutte le forze per fornire un reale servizio pubblico al Paese, non è solo una scelta di campo ma è una vocazione.
Che ha radici profonde, affondate in quel «diritto alla conoscenza» che Pannella considerava tra i principali dell’essere umano e che fu la sua ultima battaglia. Il congresso del Prntt non poteva dunque che essere incentrato, quest’anno, sulla lotta per la sopravvivenza che Radio Radicale è nuovamente costretta ad affrontare a causa dei tagli alla convenzione con il Mise (dagli 8 milioni al netto dell’Iva, ai 4 milioni previsti da quest’anno) e di quelli all’editoria, scientemente assestati dal governo giallobruno all’«organo della lista Marco Pannella» così come ai quotidiani editi da cooperative, tra i quali il manifesto.
Colpi di mannaia sulla libertà di informazione volutamente calati, nel caso della radio, proprio «per evitare che i cittadini possano ascoltare tutto quello che viene detto in Parlamento», come ha sottolineato il primo giorno Massimo Bordin, già direttore della radio e curatore della seguitissima rassegna stampa mattutina.
D’altronde per raccontare la realtà senza censure o retorica (cosa molto difficile, a qualunque latitudine), come è suo solito, Radio Radicale fa molto di più che seguire i lavori delle Aule di Camera e Senato, alla maniera di Rai Gr Parlamento: fa entrare i microfoni nelle commissioni, registra le audizioni, i processi, le inaugurazioni dell’anno giudiziario, i congressi di partito, i convegni sindacali, le sedute del Consiglio superiore della magistratura. Motivo per il quale anche il vicepresidente del Csm, David Ermini, nel rivolgere un saluto agli iscritti riuniti nell’hotel Quirinale di via Nazionale, ha giudicato «atto ingiusto e grave» l’attentato alla storica emittente radiofonica. Il cui valore sta anche nel preziosissimo archivio che contiene quarant’anni di documenti audio.
Un pezzo di storia italiana che neppure Giulio Andreotti avrebbe pensato di chiudere, almeno stando a quanto riportato da suo figlio Stefano che in un’intervista a Michele Lembo ha rivelato come suo padre avesse seguito il proprio processo giudiziario ascoltandolo da quella che era allora la radio più distante possibile dalle sue posizioni politiche.
«I tagli all’editoria, la compressione generale impressa a tutte le attività culturali e il colpo al cuore di Radio Radicale dimostrano un’iniziativa governativa volta a far crescere l’ignoranza», ha affermato nel suo intervento Vincenzo Vita. Ma la “scomodità” politica dell’emittente sta anche, come hanno fatto notare molti interventi, nella sua agenda politica, fatta di giustizia, di carcere, di diritti umani e civili, dal fine vita alle droghe, dagli abusi dello Stato democratico alla repressione delle dittature.
E nel vizio all’«osservazione», come ha sottolineato il Garante dei detenuti Mauro Palma: «Anche la fisica ci insegna che l’osservazione non è neutra, è un intervento attivo che modifica l’evento osservato». E infatti la paura, di chi vuole cambiare tutto per non cambiare niente, è lo sguardo del cittadino. Prendiamo il carcere: «L’aumento dei detenuti è dovuto non ad un surplus di ingressi ma ad un calo drastico delle uscite – ha riferito Mauro Palma – 1800 persone in questo momento stanno scontando in carcere una pena inferiore ad un anno, ed è per evidente minorità sociale (non hanno buoni avvocati, per esempio). Il diritto alla conoscenza serve anche per combattere le condizioni di minorità sociale.
Tanto più perché il modello penale si sta esportando anche fuori dal carcere, come dimostra il decreto sicurezza che ha istituito 3 nuovi modi di intrattenimento e 4 nuovi luoghi per detenere». I tempi sono bui, ha concluso Palma: «Mai avrei pensato di dovermi difendere da minacce che vengono dai corpi di polizia». E allora difendiamoci, esorta Palma, perché «senza costruttori culturali, cresce soltanto la cultura populista».
Il manifesto 24.2.19
Nel cocktail di «Roma», canzoni e politica nel Messico del 1970
Musica . Nel film di Alfonso Cuarón lo spazio sonoro della capitale, silenzi inclusi, viene ricostruito da Lynn Fainchtein. Una colonna sonora che si muove tra il pop dell’argentino Leo Dan ai divi come Javiér Solís e Juan Gabriel
di Dimitri Papanikas
Nel film Roma di Alfonso Cuarón – che con le sue dieci nomination è tra i favoriti nella corsa agli Oscar di questa notte a Los Angeles – lo spazio sonoro della capitale messicana, silenzi inclusi, viene ricostruito da Lynn Fainchtein, responsabile del disegno musicale della più fortunata cinematografia e serialità televisiva internazionale degli ultimi anni. Suo il compito di ricostruire il variopinto universo sonoro di quel che resta dell’antica Tenochtitlan, tra il 1970 e il 1971, gli anni in cui è ambientata la pellicola.
Sono gli anni, e i paradossi, del PRI – il Partido Revolucionario Institucional – al governo ininterrottamente dal 1930 al 2000 (e poi di nuovo tra il 2012 e il 2018 con l’ultimo effimero colpo di coda del presidente Enrique Peña Nieto che lo resuscitò per poi affossarlo definitivamente nelle elezioni politiche dello scorso luglio). Un partito fondato per porre fine alle lotte intestine tra caudillos e unificare le varie forze nate con la Rivoluzione del 1910. Un rompicapo fin dal nome (quell’ossimoro «rivoluzionario» e «istituzionale») che per più di settant’anni ha condotto le sorti di un paese tra passato e modernità, rivoluzione e reazione, in una neanche troppo originale miscela di riformismo e repressione. Un cocktail che convertì per molti anni il Messico in rifugio prediletto da tutti gli esiliati, rivoluzionari e condannati della terra. Se la riforma agraria e le politiche di difesa dell’istruzione pubblica, della sanità, fino alla nazionalizzazione dell’industria del petrolio trasformarono il paese nell’Ultima Thule di tanti sognatori, ben presto la sua classe dirigente finì per mostrare ben più solide radici nella tradizione antiliberale dell’ispanismo medievale, cattolico e coloniale, che nei seguaci di Rousseau. Paternalismo, presidenzialismo verticista, autoritarismo che non disdegna l’ausilio dei sempreverdi militari per garantire pace, ordine e status quo, per inibire ogni possibile via extraparlamentare alla mobilità sociale. Le Olimpiadi del 1968 e il Mondiale di Calcio del 1970 furono le due enormi operazioni di propaganda volute dal governo, con la colpevole complicità internazionale, che, sfuggite di mano, finirono per mostrare al mondo che il re, in realtà, era nudo. È questo il contesto in cui si muovono i protagonisti di Roma.
SULLA SCIA della Primavera di Praga e del Maggio francese nacque così il Movimento studentesco 1968. Si trattava di studenti provenienti in gran misura dalla UNAM e dal Politecnico della capitale che scioperavano in favore di un cambiamento democratico, del ripristino dell’autonomia universitaria violentemente interrotta, di maggiori libertà politiche e civili. Accusati da una violenta campagna denigratoria governativa di voler instaurare un regime sovversivo e comunista, le loro marce furono represse nel sangue. Circa quattrocento furono gli studenti e civili assassinati nella plaza de las Tres Culturas di Tlatelolco il 2 ottobre del 1968, appena dieci giorni prima dell’inaugurazione delle Olimpiadi. Stessa sorte toccò a più di cento di ragazzi tre anni dopo, con il bagno di sangue del 10 giugno 1971, passato alla storia come El Halconazo. Cuarón lo racconta attraverso una straziante ricostruzione della repressione da parte di paramilitari reclutati tra i quartieri più poveri della città, armati di bastoni di bambù, spade di kendo e manganelli di legno, a cambio di qualche peso per il disturbo.
A STRUGGENTE monito di quegli anni rimangono, indelebili, i dischi di Óscar Chávez (México 1968) e di Judith Reyes. Quest’ultima, portavoce del movimento contadino contro i latifondisti e militari, è l’autrice di opere imprescindibili come La otra versión de la historia, Aquí está el Che (1967) fino al fondamentale Cronología del Movimiento estudiantil (1968). Con quest’album, debitore della grande tradizione dei corridos della Rivoluzione, la Reyes girò mezzo paese, cantando in carceri, mercati, campagne e fabbriche, per sensibilizzare l’opinione pubblica alla causa. I ribelli ne subirono tutte le conseguenze del caso. Intimidazioni, provocazioni, infiltrazioni nel movimento, repressione giuridica, processi sommari, incarceramenti, uso esteso di delazione, tortura, paramilitari, CIA, propaganda mediatica a ritmo di musica romantica e ballata tradizionale. L’effimero servito su un piatto d’argento.
IN QUESTO SENSO Roma è una perfetta occasione per conoscere la musica che suonava per le strade di Città del Messico tra il 1970 e il 1971. Quali erano le hit parade radiofoniche in voga nelle case? Lynn Fainchtein compie un ammirevole lavoro di cesello nel ricostruire lo spazio sonoro della classe media del Messico di allora. Una polarizzazione sociale che si riflette nell’universo sonoro dei suoi abitanti. Accantonata la canzone protesta per evidenti motivi di galateo, i protagonisti di Roma (dal nome del celebre quartiere di classe media a cui è dedicato il film) si muovono in un contesto sociale che ne determina i gusti e i consumi culturali. Tra le varie opzioni disponibili Cuarón sceglie il pop dell’argentino Leo Dan (Te he prometido), la spagnola Rocío Dúrcal (Más bonita que ninguna), Lupita D’Alessio in una gettonatissima Corazón gitano, cover de Il cuore è uno zingaro portato al successo da Nicola Di Bari, fino ai fragili e perfettamente prescindibili successi internazionali di Roger Whittaker (Mammy Blue), la band Christie (Yellow River) o Yvonne Elliman nei panni della Maria Maddalena cantando I don’t know how to love him tratta dal fortunato musical Jesus Christ Superstar. Immancabili i grandi divi come Javiér Solís (Sombras), Juan Gabriel e José José impegnati rispettivamente in cavalli di battaglia come No tengo dinero e La Nave del olvido. Restano invece fuori la tradizionale ranchera di Pedro Infante e José Alfredo Jiménez, le irriverenti canzoni di Tin Tan e poi ancora Álvaro Carrillo, Agustín Lara e Jorge Negrete. Non c’è spazio per tutti. Per questo non deve stupire l’assenza della salsa e del rock nacional. Troppo presto per la prima (i tempi non erano ancora maturi), troppo tardi per il secondo. Clamorosa, in questo senso, fu la censura governativa del musical Hair durante la tournee ad Acapulco, con immediata deportazione degli attori e produttori stranieri. Si sfiorò lo scandalo diplomatico. Ad ogni modo, per quanto riguarda il rock, fa eccezione Javier Bátiz (tra i principali pionieri del genere, maestro di Carlos Santana) con una cover in spagnolo di The House of the Rising Sun e La Revolución de Emiliano Zapata con Ciudad perdida.
MA QUALCOSA stava iniziando a cambiare. Lo spartiacque sarà il Festival di Avándaro dell’11 e 12 settembre 1971, passato alla storia come il «Woodstock messicano». Si trattò del maggior evento rock della storia del paese. Furono due giorni di rock psichedelico, amore libero, controcultura e droghe a volontà. Un evento originalmente concepito per cinquemila spettatori, ne vide arrivare quasi trecentomila in una sorta di catarsi sociale per esorcizzare la paura. Si trattò del trionfo de La Onda, un movimento di avanguardia all’insegna di ecologia, pacifismo, spiritualità e diritti umani creato dagli jiptecas (hippies messicani) insieme al sacerdote Enrique Marroquín. Puro underground in salsa messicana, sulla falsariga dei loro cugini statunitensi, che auspicava un cambio di governo in forma pacifica, in nome di una nuova morale contraria a pregiudizi e ai valori imposti dall’Occidente. Un richiamo alla libertà che avveniva paradossalmente proprio attraverso l’esaltazione del rock britannico e statunitense. La Coca-Cola finanziò la radiotrasmissione dell’evento su scala nazionale… onde evitare equivoci. Ad ogni modo la reazione del governo non si fece attendere. Si gridò al pubblico scandalo. Da allora, per diversi anni, si proibirono le grandi riunioni giovanili e si chiusero le porte del paese ai grandi gruppi di rock internazionali. Alle radio fu imposta la censura e il ritorno a generi più autoctoni e meno conflittivi come il folklore, la canzone melodica e la ballata degli anni ’50. Per sopravvivere la mitica band La Revolución de Emiliano Zapata finì per tradire il suo pubblico abbandonando il rock per dedicarsi a nuove e improbabili ballate neomelodiche in stile vintage. Fu la definitiva sconfitta del movimento hippie, un salto indietro nel tempo di vent’anni. Nuovi scenari si sarebbero aperti. Il mondo ormai andava da un’altra parte e nuovi anni stavano per arrivare. Anni di edonismo e postmoderno, di new age e pensiero debole, delle filosofie orientali un tanto al chilo, del mangiar sano e tornare alla natura, del Mercato possibilmente equo e solidale, del narcisismo di parrucchieri barbuti eco-compatibili a chilometro zero, anni di selfies e di democrazia a portata di click, della straordinaria capacità di sostenere cause il più lontano possibile, attraverso petizioni on-line e sottoscrizioni web, nell’ossessivo tentativo di lavare la coscienza senza sporcare troppo le mani.
Corriere la Lettura 24.2.19
Visioni Le scienze naturali allargano la prospettiva degli studi tradizionali sul mondo omerico
Darwin combatteva a Troia
di Sandro Modeo
Il mondo tardo-miceneo dell’Iliade torna ora con diverse proposte editoriali italiane, tra cui spicca una nuova traduzione di Franco Ferrari (Mondadori): un nuovo corpo a corpo con l’esametro dattilico in cui si è depositato, alla metà dell’VIII secolo avanti Cristo, un plurisecolare flusso di narrazioni orali.
Può essere l’occasione per accostarsi a quel mondo — nello stesso tempo a noi alieno come il frammento storico di una Terra extrasolare e prossimo, anzi intimo, come pochi altri per le tante domande che continua a insinuare — in una prospettiva meno battuta: quella delle scienze naturali, cioè di discipline — dalla biologia evoluzionistica alla neuropsicologia — che negli ultimi anni e decenni hanno letto i poemi omerici (in particolare proprio l’Iliade) per integrare, non per contrastare, le acquisizioni in campo umanistico. Il tutto cercando di far confluire, senza confonderle, filologia e fisiologia, critica letteraria e bio-antropologia.
Un buon avvio, in quest’ottica, può essere la lettura della nuova, densa sintesi dell’archeologo Eric H. Cline (La guerra di Troia, Hoepli). Ricordando il lungo apogeo (1700-1200 a.C.) delle due forze in campo (Micenei e Ittiti, dei quali i Troiani erano vassalli nella stessa area anatolica, oggi turca), Cline ne individua il simultaneo declino-collasso — tra XIII e XII secolo — in un incrocio di cause geologiche (i sismi, entro una crisi climatica globale), conseguente tracollo socio-economico e spostamenti migratori (la data-spartiacque simbolica è il 1177 a.C., anno dell’invasione dei cosiddetti Popoli del Mare). Contesto in cui si conterebbero almeno tre-quattro conflitti tra Micenei e Ittiti/Troiani (un tempo partner commerciali): al punto che il poema, più che riferirsi a una guerra specifica (magari all’assedio della Troia cosiddetta VIIa, successiva alla VIh, distrutta dal terremoto), sembrerebbe «condensarne» diverse. Così come condensa tratti e riferimenti dell’Età del Bronzo (guerrieri con una lunga lancia singola, lo scudo «a torre» di un Aiace) con quelli dell’Età del Ferro, epoca delle prime redazioni (guerrieri con due lance, lo scudo di Achille con la Gorgone).
È un’ottica che muta la guerra omerica da «evento» a «processo», a conferma di una trasmissione orale (dimostrata a partire dagli studi di Milman Parry sui cantori jugoslavi) stratificata almeno quanto le Ilio archeologiche e culminata nelle versioni dei rapsodi di Chio, probabile luogo nativo di «Omero»; e quindi del fatto che il poema sia una concentrazione-trasfigurazione (a lungo strutturata e aperta, tra il canone dei formulari e le infinite variazioni) di un paesaggio storico-sociale in divenire.
Tutt’altro che secondario è l’inciso di Cline sul «versante ittita» della guerra, con la simmetria lessicale (Wilusa/Wilusiya per Troia/Ilio; Alaksandu per Alessandro/Paride; gli Ahhiyawa per gli Achei/Micenei) che può diventare ancora più avvincente col profilarsi di una possibile Wilusiade. Tra le tavolette ritrovate dagli archeologi tedeschi a Hattusha (capitale ittita a 200 chilometri dall’odierna Ankara) ce ne sono infatti alcune in luvio, antico dialetto anatolico, contenenti due «versi» di un ipotetico contro-poema, in cui il riferimento alla «ripida Wilusa» richiama la «ripida Ilio». È una specularità minima, molecolare; ma lo studio delle tavolette è solo agli inizi.
La risalita all’inizio della dark age greca — al declino-collasso del mondo miceneo — è la base da cui parte The Rape of Troy, testo originale e provocatorio di Jonathan Gottschall (studioso di letteratura in chiave darwiniana), in cui l’attenzione all’incidenza del contesto storico-sociale si allarga a quella per le invarianze bio-antropologiche (ai tratti stabili della «natura umana»).
L’opprimente aura di «competizione ossessiva» (il «conflitto permanente») del poema viene infatti ricondotta a una società in decadenza (villaggi spopolati, assenza di legalità, crisi produttiva e commerciale) in cui la guerra intesa come conquista di risorse è una necessità quotidiana. Ma tutto questo è acuito — è uno dei passaggi più innovativi del libro — dalla carenza di giovani donne, dovuta alla diffusa poliginia (vedi le 28 schiave offerte da Agamennone ad Achille come compenso per la sottrazione di Briseide) e alla morte precoce, per abbandono o denutrizione, della prole femminile, non funzionale a una società così militarizzata. Non a caso, i poemi omerici sono incentrati affettivamente quasi solo su rapporti padri-figli: nell’Ade, l’ombra di Agamennone, parlando a Odisseo, rimpiange il figlio e dimentica le tre figlie. L’implicazione primaria è evidente: per quanto la guerra dipenda dalle citate ragioni socio-economiche (in particolare il controllo dell’Ellesponto come passaggio-chiave dal Mediterraneo al Mar Nero) e per quanto ogni guerriero combatta per molte altre ragioni (status, prestigio, fama, bottino, addiction paradossale dalla guerra stessa), nell’Iliade le donne sono un obiettivo «in sé», come ratifica Achille (che passa «giornate sanguinose» «a lottare coi nemici per catturarne le compagne», IX, 326-7); e Briseide ed Elena, in questo senso, diventano ben più che casus belli poetici.
Per dare un’idea del peso e della forza archetipica di questa componente adattativo-riproduttiva nel «muovere» il conflitto, Gottschall ne paragona l’epilogo (il sacco-ratto cui allude il titolo del libro, con uomini massacrati e donne schiavizzate) a quello di Nanchino del 1937-38, in Cina, quando l’esercito imperiale nipponico stermina migliaia di maschi e sequestra tra le 20 e le 80 mila donne.
In coerenza con la prospettiva darwiniana della sua lettura, Gottschall non poteva non soffermarsi anche sul lessico dell’Iliade, specie sul mix di freddezza e vividezza anatomo-fisiologica che registra il supplizio dei corpi nelle tante sequenze splatter. Lessico cui era stato sensibile, prima di lui, un altro studioso, lo psicologo sperimentale Julian Jaynes, tanto da dedicarvi un capitolo del suo Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza (longseller Adelphi).
La teoria portante del libro è a dir poco eterodossa, dato che riconduce la genesi della coscienza nel cervello del Sapiens al dissolversi di quel diaframma tra i due emisferi (razional-linguistico e irrazional-trascendente) ancora presente nei personaggi dell’Iliade, tormentati dagli dèi come certi psicotici lo sono dalle «voci» o dalle «allucinazioni». Eppure — oltre a ricordare, in questo modo, la matrice onirico-visionaria del «realismo» omerico — Jaynes svolge due messe a fuoco interessanti.
Per mostrare nel poema l’assenza di una visione «dualistica» in chiave platonica (mente versus corpo), legge molti termini-chiave dell’Iliade in senso strettamente fisiologico: psyché, ad esempio, non è ancora l’«anima», ma indica solo sostanze vitali come il sangue o funzioni come il respiro (spesso esalato dal guerriero al momento della morte); e il thymós non è ancora l’«anima emotiva» ma solo il «movimento» o l’«agitazione» corporea. Non tutti concordano: lo storico della filosofia Anthony A. Long vede in quei termini, più compiutamente, versanti plastici di un’unità funzionale e nelle figure omeriche «identità psicosomatiche»: thymós — secondo i contesti — vale già anche come «carattere» o «animo». Ma anche accettando questa correzione, Jaynes, nella sostanza, ha ragione: nel senso che quelle identità — pur dotate di mente e coscienza nel modo più compiuto, senza che sia necessario alcuno «scarto» dualistico — sembrano muoversi in un mondo di gradazioni di materia, dalle più intense alle più tenui (o, al limite, di materia e astrazione insieme).
Basta rileggere, al riguardo, la discesa di Odisseo all’Ade, con la madre e le altre «anime» («ombre» o «sogni» i cui «nervi» non congiungono più ossa e carne) che prima di parlare all’eroe bevono il «sangue fumante» delle bestie sacrificate. In più, per negare ai personaggi il libero arbitrio, che solo una «coscienza» presuppone, Jaynes li presenta come semplici automi degli dèi-burattinai. Anche qui, legittimamente, non tutti concordano: la filosofa bulgaro-francese di origine ebrea Rachel Bespaloff (di cui sempre Adelphi ha riproposto i densi micro-saggi sull’Iliade) pensa che «un margine di libertà» resti, anche solo per garantire agli dèi capricciosi e annoiati uno spettacolo «non preordinato». Ma, anche qui, Jaynes centra il punto: il «piano di Zeus» annunciato nell’incipit del poema si realizza in pieno; e le «identità» omeriche — pur vivendo con angoscia la soggezione al Fato e al ferreo determinismo divino — non sono in grado di ribellarsi in maniera frontale: per quello, ci vorranno — oltre due secoli dopo — le figure dei Tragici, da Prometeo ad Antigone.
Alla fine, le «identità psicosomatiche» del poema (ma in fondo anche gli dèi, immortali ma a loro volta sopraffatti dal páthos: libidine e furia, astio e vendetta) sembrano più che altro in lotta con le loro radici bio-evolutive, «animali tra altri animali», come rimarca il vasto ventaglio di similitudini che li assimila a sparvieri e colombe, aquile e serpi. Intitolando il suo studio sul tema Tra uomini e leoni, il classicista Michael Clarke si riferisce alla natura «ferina» di Achille, dominato dalla mênis, (l’«ira»). Eppure anche Achille, nell’abbraccio finale con Priamo che reclama il cadavere di Ettore — chiusura circolare del poema, in rimando alla richiesta iniziale dell’anziano Crise per il riscatto della figlia — è un carattere mutato. Sembra ricordare a tutti noi la tensione tra i vincoli della nostra animalità e le aspirazioni della nostra umanità. Ed è proprio questo uno dei bagliori, forse il più intenso, che continuano a rilucere dal «mondo buio» (Nietzsche) della civiltà greca arcaica.
Corriere La Lettura 24.2.19
La morale identitaria disumanizza i migranti
Leader come Matteo Salvini, giornalisti come Maurizio Belpietro, sovraniste come
Francesca Totolo rimuovono l’imperativo di «salvare tutti i corpi» richiamato da Albert Camus. La smania di mostrarsi «cattivi» li induce a considerare inevitabile sacrificare vite secondo una logica particolaristica e rattrappita. Rimuovono un dato decisivo: non può esserci etica che non sia universale
di Luigi Manconi
Alcune settimane fa, nel corso di un intervento televisivo sull’immigrazione, mi è sembrato che Massimo Cacciari si commuovesse fino a piangere. Si è trattato, probabilmente, di un mio abbaglio e chiedo scusa innanzitutto all’interessato ma — vera o falsa che sia — trovo credibile la circostanza. Il fatto mi ha colpito. Da tempo, da circa metà della mia vita, sono impegnato a superare certe rappresentazioni puerili e certe letture per un verso emotive, per l’altro manichee, che sono state un elemento significativo della mia concezione della politica. Per esempio, la tendenza ad attribuire all’avversario una sorta di deficit morale. È proprio della lotta politica fare dell’antagonista l’oggetto della massima riprovazione etica: muovere dal disprezzo e dalla delegittimazione consente di indirizzare contro di esso il massimo di ostilità e quindi di mobilitazione. Avendo riconosciuto, dolorosamente, come questa «eticizzazione» del conflitto avesse contribuito alla degradazione della politica e del suo linguaggio e avesse incentivato il ricorso alla violenza fino ad attenuare la condanna verso il terrorismo, ci si è trovati costretti a correre ai ripari precipitosamente. Mi riferisco, va da sé, ad alcune componenti dell’area della sinistra. Ne è conseguito, in quelle componenti, un processo di secolarizzazione dell’attività pubblica che, rovesciando il precedente paradigma, ha portato a sostituire alla figura del nemico quella dell’avversario e a derubricare i più radicali antagonismi a «differenti opinioni». Si è avviato, così, un percorso di laicizzazione della politica, che va considerato come positivo.
Eppure.
Eppure si sentono e si vedono, di questi tempi, parole e gesti, pulsioni e sentimenti che sembrano collocare chi li esprime fuori da un perimetro di idee e valori condivisi. Perché questo accada è necessario un fatto traumatico. Per esempio, il manifestarsi — nello scenario attuale e domestico, qui e ora — di una contraddizione radicale come quella vita/morte. La stessa che Albert Camus, nel 1946, indicò con queste parole: «Non tutto si può salvare», e dunque bisogna scegliere di salvare «almeno i corpi». Non una nuova profezia o un’ideologia alternativa, bensì un patto tra gli individui che non vogliono essere «né vittime né carnefici». Attenzione: «salvare i corpi» è, in realtà, l’obiettivo rivendicato da tutti. Anche coloro che vogliono la chiusura dei porti e il respingimento alle frontiere dicono di volerlo perché così, e solo così, sarebbe possibile ridurre il numero dei morti. Dunque, l’autenticità di quell’asserita determinazione a «salvare» non è agevolmente verificabile — a meno di saper sondare gli angoli più riposti della coscienza individuale. D’altra parte, io non so che cosa abbia in fondo al cuore Matteo Salvini (e francamente non me ne importa un fico secco), ma se egli si fa leader di un movimento di intolleranza etnica, è fatale (a meno di non attribuirgli una dissociazione psicotica) che «diventi» intollerante. In altre parole, per sostenere quella politica di discriminazione, Salvini è «costretto» a organizzare i suoi sentimenti e le sue emozioni, oltre che i gesti e le parole, in senso discriminatorio.
Non so chi sia Francesca Totolo e che mestiere faccia e, tantomeno, conosco cosa abbia in fondo al cuore (e francamente non me ne importa un fico secco). Di lei so solo che è l’autrice del seguente post: «Josefa con le unghie perfette laccate di rosso dopo 48 ore in mare». Come è noto, in pochi minuti, il post si rivelò un falso indecente e l’autrice dovette goffamente ridimensionarne il senso. Resta che, se si coltiva l’attitudine a trattare in maniera tanto sprezzante la sofferenza altrui, una qualche alterazione della personalità è altamente probabile.
Insomma, non so se Salvini, Totolo e l’infinita schiera dei coreuti del Nuovo Conformismo Nazionale siano davvero cattivi, ma so che mostrarsi costantemente tali e parlare e gesticolare in tal modo, condizionando in qualche misura la loro sfera emotiva, li induce a considerare inevitabile, e addirittura giusto, non salvare tutti i corpi. Se i corpi da salvare sono troppi, si accetta la loro selezione. Il che è la premessa della disumanizzazione.
Chi non l’accetta si assume tutto il peso di una scelta tragica, e dunque può piangerne. Chi, al contrario, accetta la selezione-disumanizzazione perché giusta — in quanto «sono troppi» o «sono tutti delinquenti» — deride come buonista chi piange. Difficilissimo — nonostante la consapevolezza di precipitare ancora nel vizio capitale della superbia — non essere tentati da un senso di superiorità morale. Quando, per esempio, un direttore di giornale tanto accorto quanto callido, Maurizio Belpietro, rifiuta ostentatamente di rispondere alla domanda, reiterata, sul destino dei naufraghi «restituiti» ai centri di detenzione libici, viene da chiedersi il perché di quella voluttuosa automortificazione intellettuale. E viene da pensare che il tema superiorità/inferiorità debba interpellare innanzitutto coloro che, negando l’esistenza di una «questione morale», rivendicano con improntitudine la propria «inferiorità».
È ovvio che quanto fin qui detto non assolve e non condanna alcuno in maniera netta e definitiva. Innanzitutto perché chi scrive non ha alcun titolo né alcuna autorità etica per giudicare altri se non sé stesso. Dunque, la valutazione morale è, anch’essa, oggetto del contendere e materia del conflitto, anche politico.
Ma proprio per questa ragione gli atti politici che hanno implicazioni morali (perché producono sofferenze, richiamano diritti fondamentali, mettono in gioco la vita umana) vanno considerati anche con criteri non-politici. Criteri universali che valgono a prescindere da qualsivoglia considerazione contingente e da qualsivoglia criterio utilitaristico. È questo che traccia un discrimine nitido tra opzioni alternative e inconciliabili. Oggi sembra prevalere, se non trionfare, una politica che si restringe e si rattrappisce. Una politica che rifiuta — qualificandola come capriccio delle élite e perversione dei radical chic — ogni dimensione che non sia quella del «particulare», del corporativo, dell’identitario. E che su questo pretende di fondare una peculiare moralità, ignorando che non può esservi morale che non sia universale. Ecco perché chi non piange i morti nel Mediterraneo sentendoli come propri, si condanna a una involuzione angusta e arida. È ovvio che, quanto detto, non si riferisce a una contraddizione destinata a tagliare nettamente le culture e, tanto meno, a qualificare la frattura destra-sinistra. Qui la responsabilità è, e non può che essere, tutta soggettiva e individuale.
Corriere La Lettura 24.2.19
Parla l’autrice di origine nigeriana che vive negli Stati Uniti
Non ci si deve adeguare alla mentalità dominante
Il mio demone africano sfida le vostre certezze
di Viviana Mazza
«Akwaeke è temporaneamente irreale o è stata momentaneamente divorata da un romanzo in corso di realizzazione. L’accesso all’email sarà intermittente. Risponderà quando il romanzo si prende una pausa per pulirsi i denti con uno stecchino. Oppure quando il malfunzionamento della realtà volgerà a vostro favore». Se mandi un’email a Akwaeke Emezi, l’autrice di Acquadolce, ricevi questa risposta automatica. D’altronde, si definisce «una scrittrice che vive negli spazi liminali».
Il suo romanzo d’esordio — in uscita il 28 febbraio in Italia con il Saggiatore — è stato nominato dal «New York Times» tra i cento migliori libri del 2018 ed elogiato dal «Wall Street Journal» per la prosa «serpentesca» che «affonda i denti nel lettore». È la storia della giovane Ada, che proprio come l’autrice ha un papà nigeriano di etnia igbo, una madre malaysiana di etnia tamil e una sorella sopravvissuta a un brutto incidente (fu investita da un camion) a sei anni. Ada lascia la Nigeria per andare a studiare negli Stati Uniti, ma a differenza dei compagni d’università, Lei è anche un Noi: nella sua mente dimorano gli ogbanje, demoni di fumo e ombra, che l’hanno seguita nel mondo quando è nata poiché le porte che separano la nostra realtà dall’«altra parte» non si sono chiuse in tempo. Sono loro l’io narrante del libro. E quando un compagno di college violenta Ada, l’episodio risveglia dentro di lei Asughara, uno spirito femminile di rabbia e lussuria.
Quanto del libro è autobiografico?
«Ho usato la mia vita come scheletro cronologico e ho adoperato il “male” come lente attraverso la quale guardarla. Troppo spesso si pensa che sia reale e vero solo ciò che si basa su concetti occidentali e coloniali. Il colonialismo ha negato la realtà indigena, definendola falsa, superstiziosa, malvagia, arretrata, e l’ha sostituita con la propria: un’operazione deliberata e di grande violenza. Non c’è niente di magico o di folkloristico in quello che racconto, questo è un libro autobiografico. Per me questa è la realtà. E l’ho messa al centro della storia. Il romanzo spiega anche che esistono molteplici realtà e ci sono modi in cui possono intersecarsi, non una sola verità che nega tutte le altre, specialmente quando parliamo di spiritualità. Acquadolce è proprio questo: un libro che esplora concetti metafisici».
Che cosa vuol dire il nome Akwaeke?
«Uovo di pitone. Il pitone è una manifestazione fisica della divinità Ala, che viene menzionata nel libro (“Ala è la terra stessa, giudice e madre, dispensatrice di legge” e “alimenta in grembo l’oltretomba”, ndr). E l’uovo è prezioso perché figlio di una dea».
Lei e sua sorella Yagazie, che fa la fotografa, siete state ritratte da Annie Leibovitz per un servizio di «Vogue» sulle famiglie che stanno cambiando il mondo. «C’è una realtà considerata mainstream, con una certa idea di bellezza. Noi ne usciamo fuori e non ci sposteremo», ha detto nell’intervista parafrasando Toni Morrison, che affermò: «Mi sono messa in piedi sul confine, sul margine, e ho dichiarato la sua centralità, lasciando che il resto del mondo si spostasse dov’ero io». Morrison è un modello per lei?
«È rarissimo che qualcuno sostenga che scegliere come centro il confine sia valido. C’è una direzione, un mainstream verso il quale ci si aspetta che tu ti muova. Devi assimilarti, arrenderti alla narrazione dominante, qualunque sia, devi tradurre te stesso. Grazie a Toni Morrison ho scoperto l’idea radicale che non è necessario farlo, non devi spostarti dalla tua marginalità: puoi restare dove sei e far sì che il mondo venga verso di te, perché il tuo centro, la tua realtà sono validi. Avrei potuto tradurre Acquadolce in una storia più appetibile alla mentalità occidentale, avrei potuto raccontarla semplicemente attraverso le lenti della malattia mentale e questo avrebbe avuto senso per molti. Ma non era la verità: non voglio dire che la malattia mentale non sia un aspetto della storia ma non ne è il centro. Morrison mi ha dato il permesso di raccontare la mia realtà. E poi sta al lettore decidere se vuole venire a incontrarmi».
Qualche critico ha sostenuto che, affrontando attraverso gli «ogbanje» il fenomeno della malattia mentale, non le si rende pienamente giustizia.
«Penso che chi fa questa critica dimentichi che la sua esperienza è soggettiva. Se leggi Acquadolce e credi che sia un libro sulla malattia mentale, arrivi a questo giudizio da una certa percezione, basata sulla psicoterapia occidentale. Ma il libro è al di fuori di quell’esperienza e rifiuta l’assimilazione. La gente è così convinta della propria visione del mondo che non accetta che possano esisterne altre. Nei casi peggiori un simile atteggiamento porta alle deportazioni, ai bombardamenti, alle guerre, perché il modo migliore per disfarsi di una realtà che non ti piace è di far fuori le persone che la vivono. Ci sono genitori eterosessuali che uccidono figli gay perché non si “assimilano” alla loro realtà: preferiscono letteralmente avere un figlio morto che deviante. Ecco, in un certo senso, Acquadolce è deviante. Ma mi è capitato anche di essere contattata da lettori che soffrono di disturbo dissociativo dell’identità e si riconoscono nella mia storia. E sono liberi di farlo: un libro può essere cose diverse allo stesso tempo».
Ha spiegato di non avere un vero luogo di appartenenza, di essere «diventata» nigeriana solo dopo aver lasciato la Nigeria. Lì sua madre era considerata bianca perché «la parola per definire i bianchi e gli stranieri è la stessa». E l’America cos’è per lei? Terra di colonizzatori o luogo spirituale?
«Nessuna delle due cose. Non c’è alcun luogo al mondo dove non si sentano gli effetti del colonialismo: li sentivo in Nigeria come qui. Quanto alla spiritualità, io non l’associo a nessun luogo geografico specifico. Per me è uno stato al quale si può accedere da qualunque posto».
Repubblica 24.2.18
Angelo Del Boca
di Antonio Gnoli, ritratto di Riccardo Mannelli
Certe volte, quando la luce della giornata declina, il vecchio uomo guarda dalla finestra del settimo piano: «C’è un momento in cui il riflesso della luce che piove sulla stazione sembra renderla invisibile. In quell’attimo vedo solo i treni che da Porta Susa vanno dove vogliono o dove devono andare. E io sono qui che penso ai viaggi fatti, alle persone conosciute, alle situazioni vissute: Africa, India, Israele, ma anche la Resistenza in val d’Ossola o sull’Appennino » . Una stazione, penso, è anche un catalogo di emozioni, di storie in movimento, di volti che fuggono. Una sintesi che ritrovo nelle parole di Angelo Del Boca, lo storico e il giornalista che negli anni Settanta dimostrò, documenti alla mano, che in fondo non eravamo stati così buoni nelle nostre conquiste coloniali: « Se non ci fosse da piangere verrebbe da ridere al pensiero che oggi trattiamo queste ondate di disgraziati, giunti dalle coste libiche, come se ci stessero rubando la vita. Quando la vita gliela abbiamo scippata noi. Per anni Indro Montanelli si ostinò a ribadire che i miei erano solo pregiudizi, che tutto quanto avevo documentato, i gas e i morti, fosse inattendibile. Si scusò solo verso la fine della vita. E quello mi parve un bel gesto dopo tanto contrasto ».
Qual è l’immagine più forte o più cara che lei conserva dell’Africa?
«Sono tante perché per anni ho vissuto con passione e partecipazione le vicende di quel continente. Ma c’è un’immagine su tutte: i tre giorni che passai a Lambaréné, nel Gabon, con il dottor Schweitzer».
Che anno era?
« Giugno 1959. Atterai con un piccolo Cesna ai bordi della foresta. Qui era venuto a seppellirsi Albert Schweitzer: alsaziano, scrittore, musicista, medico ed esperto di filosofia e teologia. Si specializzò in malattie tropicali. Neppure quarantenne abbandonò gli agi dell’Europa per curare gli indigeni. Costruì un lazzaretto e un ospedale. La sua fama si sparse nel paese. Era il “dottore bianco”. L’uomo che con tenerezza si chinava sui lebbrosi».
Che impressione le fece?
«Di un uomo fedele alla missione che si era dato. Agiva nel piccolo ma pensava in grande. Afferrandomi le mani mi disse: “Scriva che il mondo è in pericolo e che l’umanità va incontro al disastro”. Una sera lo ascoltai suonare all’organo il suo adorato Bach: “ Avevo qualche chance come musicista”, ironizzò. Fu un momento suggestivo. Quando ripartii, dalla piroga ammirai la sua figura: l’immancabile casco coloniale, le folte sopracciglia, gli enormi baffi. Alzò la mano per salutarmi. Ero commosso. Era quella l’Europa migliore».
Torneremo a parlare della “sua” Africa. Lei dove nasce?
«Sono nato a Novara, ma dal 1945 vivo qui a Torino. Durante la guerra decisi di non arruolarmi. Fuggii nel modenese da certi parenti. Nel 1943 arrestarono mio padre. Lo tennero in ostaggio, poi dissero a mia madre che la sua libertà dipendeva da me. Se avessi accettato di entrare nella Repubblica Sociale, lui si sarebbe salvato. Tornai a Novara e mi presentai al distretto. Liberarono mio padre e mi spedirono in Germania con tutta la divisione degli alpini».
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