lunedì 4 settembre 2017

Corriere 4.9.17
Il patto che rovina la scuola
di Angelo Panebianco


La sentenza del Tar del Lazio contro il numero chiuso nei corsi di laurea umanistici dell’Università di Milano ci ricorda uno dei principali «misteri» italiani: come mai nel nostro sistema educativo resistono, accanto a fannulloni e incapaci, così tanti docenti di qualità? Quei docenti di qualità non dovrebbero proprio esserci dal momento che da decenni (la sentenza del Tar è solo l’ultimo episodio) un intero Paese, un’intera classe politica, e tutte le amministrazioni coinvolte (funzionari del Ministero, Tar, eccetera) hanno sempre manifestato il più completo disinteresse per la qualità dell’insegnamento. Sul sistema educativo pesa, dagli anni Settanta dello scorso secolo, un patto che coinvolge, ancora oggi, la politica, l’amministrazione, quella parte dei docenti che ha ottenuto benefici dall’esistenza del patto, e tanti utenti (studenti e famiglie). L’Università, grazie a certe sue guarentigie è stata parzialmente al riparo dalle conseguenze peggiori di quel patto. Ma ne è stata colpita anch’essa. La nefasta «liberalizzazione degli accessi» della fine degli anni Sessanta diede l’avvio a una lunga catena di guai. Le scuole, primarie e secondarie, senza difese, subirono i colpi più duri. Il patto di cui parlo venne tacitamente siglato fra la Democrazia Cristiana, allora al potere, e i sindacati della scuola, e coinvolse anche il Partito comunista. Il patto venne sottoscritto con il consenso tacito dell’opinione pubblica (disinteressata e spesso complice quasi tutta la classe colta, gli intellettuali).
I termini del patto erano i seguenti: la scuola ha un unico vero scopo, assorbire occupazione. Non importa se gli insegnanti reclutati siano capaci o no, preparati o no. Importa solo che siano tanti (il che significa, inevitabilmente, mal pagati). E neppure importa che siano condannati a una lunga e umiliante esperienza di precariato. Gli effetti di tutto ciò sulla qualità dell’ insegnamento erano, per i contraenti del patto, irrilevanti. Anche perché l’assenso degli utenti, famiglie e studenti, poteva essere ottenuto grazie al valore legale del titolo di studio. Ciò che conta è il diploma, il pezzo di carta. Non ha importanza che dietro quel pezzo di carta ci sia o no una solida formazione. Per giunta, contribuiva al mantenimento del patto un clima culturale nel quale il diritto costituzionale allo studio era da molti interpretato come diritto al diploma.
Nell’età post-democristiana le cose non sono cambiate. Non ci sono più quegli attori politici ma l’eredità che hanno lasciato è sempre viva. Tutto ciò che ha a che fare con i processi educativi continua ad essere trattato nello stesso modo. Si pensi all’ultima imbarcata di precari: l’importante era assumere docenti. Il fatto che fossero competenti o no era irrilevante. E tanto peggio per il congiuntivo.
Sappiamo, ad esempio, da molti anni, che uno dei gravi problemi della scuola riguarda l’insegnamento della matematica. Le carenze in questo campo sbarrano di fatto, a tanti futuri studenti universitari, l’ingresso nei corsi di laurea scientifici. La ragione per cui tanti giovani si orientano verso le umanistiche (nonostante le minori probabilità di occupazione post-laurea) anziché verso le scientifiche, ha a che fare con questo problema. Ma qualcuno forse, in tutti questi anni, se ne è mai preoccupato? La ministra Fedeli ha ribadito, anche in questa occasione, ripetendo un antico ritornello, che occorrono più «laureati». Mi dispiace ma detto così non è vero. Occorrono più laureati (anzi, tanti di più) in materie scientifiche. Ne occorrono di meno in materie umanistiche e quei «meno» dovrebbero essere tutti di qualità elevata.
Il Tar del Lazio, in fondo, si è uniformato a un antico andazzo. L’Università di Milano vuole il numero chiuso per garantire la qualità dell’insegnamento? E perché mai dovremmo preoccuparci di una cosa simile? Poi c’è, naturalmente, il paravento della legge. Che però deve essere interpretata. I sistemi giuridici sufficientemente flessibili da essere al servizio degli umani (a differenza di quelli che mettono gli umani al proprio servizio) tengono conto degli stati di necessità. Per rispettare quel rapporto studenti/docenti che è necessario per garantire la qualità dell’insegnamento, l’Università di Milano ha optato per il numero chiuso. Ma poiché la qualità dell’insegnamento non ha alcun valore agli occhi di tanti, lo stato di necessità non è stato riconosciuto e accettato.
Non ci si deve meravigliare se ci sono tanti diplomati e laureati ignoranti. Ciò che invece fa meraviglia (è questo il vero mistero da risolvere) è il fatto che ci siano anche, a dispetto dei santi, molti giovani bravi e preparati, nonché molti docenti bravi e preparati. Sono questi ultimi «i singoli insegnanti appassionati che dedicano, controcorrente, la loro vita agli studenti » (Nuccio Ordine, sul Corriere di ieri).
È tutto abbastanza chiaro: la sentenza del Tar è figlia di una lunga tradizione nazionale. Resta però la curiosità di sapere qualcosa su questi giudici del Tar del Lazio, da molti anni impegnati, come ricordava ieri Aldo Grasso, a dire «no» a tanti provvedimenti positivi. A differenza di ciò che capita nel caso di altre istituzioni, dal Parlamento alla Corte costituzionale, abbiamo idee vaghe sui criteri di reclutamento e sulla composizione. Tenuto conto dell’importanza assunta dalle loro decisioni, ciò meriterebbe più attenzione.

Repubblica 4.9.17
Ragazzi, non tornate
di Ilvo Diamanti


I GIOVANI, in Italia, sono un’emergenza grave. Che non accenna a diminuire.
L’ha riconosciuto, con realismo e onestà, il premier, Paolo Gentiloni, al tradizionale Forum Ambrosetti di Cernobbio. D’altronde, i dati più recenti dell’Istat rilevano che la disoccupazione giovanile è oltre il 33%. Secondo talune stime, anche più elevata. Insomma, oltre 1 giovane su 3 è senza lavoro.
SECONDO i dati Eurostat: il doppio rispetto alla zona Euro. Solo la Grecia e la Spagna starebbero peggio di noi. Naturalmente, occorre aggiungere che i giovani, in Italia, sono ormai una specie rara, in via di estinzione. Ma questa constatazione a me suscita pena ulteriore. Che ha origini lontane e misure crescenti. È, infatti, dagli anni 70 che siamo in declino demografico. Ma, negli ultimi anni, il declino è divenuto un crollo. Perché si associa all’invecchiamento della popolazione. Gli italiani, infatti, invecchiano e non fanno più figli. Perfino gli stranieri, quando si stabilizzano, smettono di “riprodursi”. Ma la popolazione italiana invecchia anche perché i giovani, appena possono, se ne vanno. Verso Nord. Come gli immigrati che, secondo la retorica della paura, ci “invadono”. I nostri giovani, invece, “evadono”. Per ragioni, ovviamente, diverse. Circa 2 italiani su 3, infatti, come abbiamo scritto altre volte (commentando le indagini di Demos- Coop), sostengono che “per i giovani che vogliano fare carriera, l’unica speranza è andarsene”. Fuori dall’Italia. Ed è ciò che fanno, ormai da anni. In generale, emigrano dall’Italia oltre 100 mila italiani, ogni anno. Per capirci, negli anni 90 il flusso annuale era intorno a 30 mila. A differenza del passato, però, oggi non se ne va la “forza lavoro”. Se ne vanno i giovani. Soprattutto i più istruiti. I più qualificati. Circa 3 su 4, in possesso di un titolo di studio. Secondo il Censis, quasi 9 su 10 di essi sono laureati. Si dirigono prevalentemente in Europa. Soprattutto in Germania e nel Regno Unito. Ma anche in Francia, Austria, Svizzera. Insomma: altrove. Perché “altrove” trovano occasioni di impiego migliori rispetto a qui. Carolina Brandi, ricercatrice Irpps-Cnr, al proposito, parla di brain drain, drenaggio dei cervelli, causato da una evidente condizione di overeducation. Sottoccupazione. Così i nostri “dottori”, dopo essersi “formati” in Italia, se ne vanno a fare ricerca altrove. Dove trovano opportunità e soluzioni. Migliori e più adeguate. In altri termini: sono richiesti da più soggetti scientifici, da più istituzioni, da più imprese. D’altronde, in Italia (dati Eurostat) l’investimento e la produzione del sistema formativo restano limitati. Il nostro Paese, infatti, si colloca all’ultimo posto in Europa per il numero di persone che hanno concluso un percorso di istruzione terziaria (24,9%), mentre la media Ue è del 38,5%. Sotto la media Ue (17,6%) risulta anche il numero di laureati in ingegneria e discipline scientifiche (12,5%). Infatti, se, negli ultimi anni, la spesa pubblica in Italia ha continuato a crescere, gli investimenti in ricerca, università e scuola sono, invece, diminuiti. Più in generale, come ha sostenuto ieri Ferdinando Giugliano su queste pagine, «il principale aumento delle disuguaglianze, in Italia, negli ultimi vent’anni, è stato quello fra giovani e anziani». Non per caso. Metà degli iscritti ai sindacati confederali, infatti, sono pensionati. Mentre la maggioranza degli elettori dei partiti di governo (in particolare di centro- sinistra) è composta da persone anziane. Comunque, (molto) adulte. È difficile immaginare che le politiche sociali possano privilegiare i giovani piuttosto che gli anziani. Tutelare i nuovi lavori e lavoratori piuttosto che i pensionati. E i lavoratori già occupati. Che ambiscono (comprensibilmente) ad andare in pensione prima. Mentre, secondo oltre 8 italiani su 10 (Demos-Coop, aprile 2017), “i giovani d’oggi avranno pensioni con cui sarà difficile vivere”.
Tuttavia, il sistema scolastico superiore e le Università, in Italia, dispongono di un credito molto elevato, fra i cittadini e gli studenti. Ma anche presso le istituzioni europee. I dati dell’Ocse, infatti, rilevano che la scuola italiana è ancora uno strumento di rimozione degli “ostacoli di ordine economico e sociale”. Per altro verso, i nostri laureati e i nostri ricercatori trovano spazio e vengono valorizzati, altrove. Mentre in Italia si devono rassegnare a condizioni di sotto- occupazione. Con prevedibili e inevitabili conseguenze di de-qualificazione. Così, per noi si tratta di una perdita “economica”. Di un investimento in-utilizzato. Peggio: sfruttato da altri Paesi. Perché, come osserva la Fondazione Migrantes, “la mobilità è una risorsa, ma diventa dannosa se è a senso unico”. Come avviene in Italia. Che forma ed “esporta” molti talenti. Ma non è capace di attrarne altri, da altri Paesi. Peggio, non è neppure in grado di fare rientrare i propri. Se, un tempo, gli italiani che partivano pensavano — e sognavano — di tornare, oggi avviene raramente. Le figure più qualificate, i nostri “dottori”: partono e non ritornano. Perché, per loro, avrebbe poco senso, tornare in Italia. Non troverebbero spazi e occupazione. Adeguati. Certo, mantengono forti legami con l’Italia. In particolare, stretti e frequenti rapporti con le famiglie di origine. Le quali costituiscono, per loro, riferimenti certi. Essenziali, quando si affrontano percorsi e destini incerti. In tempi incerti.
Per queste ragioni, i nostri giovani continuano a partire, sempre più numerosi. I nostri (miei) figli, i nostri (miei) studenti. E per queste ragioni è forte la tentazione, da parte mia, di rivolgere loro un invito neppure troppo provocatorio. Ragazzi: non tornate. Restate altrove. Fuori dal nostro, vostro Paese. Almeno fino a quando il nostro, vostro, Paese non si accorgerà di voi. E deciderà di investire sui giovani invece che sugli anziani. Sulla scuola. Sui nuovi lavori. Invece che sulle rendite, sulle pensioni, sui privilegi. Ma finché questo Paese che invecchia continuerà ad aggrapparsi al presente — e al passato. Incapace di guardare al futuro. Al destino dei — propri — giovani. Almeno fino ad allora: ragazzi, non tornate!

Corriere 4.9.17
Nella trappola di Tucidide
di Paolo Valentino


La trappola nordcoreana blocca Cina e Usa. Ma uscirne è possibile.
Come da manuale delle provocazioni strategiche, ieri il regime nordcoreano ha letteralmente causato un terremoto nella penisola asiatica, conducendo il più potente test nucleare della sua Storia. Ancora una volta Kim Jong-un spiazza i suoi avversari con una escalation graduale e soprattutto massimizza l’impatto politico, scegliendo per i suoi esperimenti da Dottor Stranamore un altro giorno di festa molto simbolico per l’America: dopo il test del missile balistico intercontinentale del 4 di luglio, giorno dell’Indipendenza, l’esplosione di ieri ha coinciso con il weekend del Labor Day, la festa che segna la fine della pausa estiva e il ritorno al lavoro dell’intera nazione.
Se c’era bisogno di una prova che non siamo di fronte a un pazzo, ma a un megalomane che tuttavia calcola e sfrutta con abilità la sua rendita di posizione geostrategica, la bomba della domenica (all’idrogeno o meno ha un’importanza relativa) l’ha fornita al di là di ogni ragionevole dubbio. Grazie agli errori accumulati in trent’anni dagli Stati Uniti e dalla comunità internazionale, sempre oscillanti tra condanna e procrastinazione, l’uomo nero di Pyongyang, ultimo e forse più crudele erede di una dinastia di satrapi, è ormai a un passo dall’acquisizione di una piena e completa capacità atomica militare, che lo metterebbe in grado di colpire il territorio degli Stati Uniti.
Di più, come ha ammonito di recente Henry Kissinger, la sfida posta da Kim va ben oltre la minaccia all’America. Essa attiene anche alla prospettiva di caos nucleare che una Corea radioattiva potrebbe precipitare nell’intera regione. Paesi come Giappone, Corea del Sud, Vietnam, Australia verrebbero probabilmente spinti a dotarsi anche loro di armi atomiche. Ecco perché quella che va in scena nel teatro asiatico è la prima, vera crisi globale con cui si misura l’Amministrazione Trump. Ma è anche la prima crisi in cui la retorica al testosterone del nuovo presidente tocca con mano i limiti della proiezione strategica americana. A dispetto dei suoi proclami, l’opzione militare contro il regime di Kim appare oggi preclusa a Trump, sconsigliata perfino dai militari che la considerano, James Mattis dixit, «catastrofica».
La ragione di questo vincolo è il convitato (per ora) di pietra dell’intera partita, la Superpotenza cinese, fattore ineludibile della nuova equazione globale. Esasperata non meno degli americani dai fuochi d’artificio radioattivi di Kim, Pechino non vuole e non può abbandonare il suo protegé. Trattiene la rabbia per essersi vista rovinare la festa del vertice dei Brics. Ne subisce perfino le velate minacce, come ci racconta oggi il nostro Guido Santevecchi. Aderisce all’embargo sul carbone, ma non taglia le forniture di petrolio come chiedono gli Usa. Cerca di convincere il leader coreano a negoziare, ma senza crederci troppo. Soprattutto, la Cina non avallerebbe mai un’azione militare, temendo un crollo del regime che porterebbe ai suoi confini o il caos o ancora peggio dal suo punto di vista un’eventuale riunificazione della penisola sotto insegne americane.
Al fondo, c’è la profonda sfiducia di Xi Jinping verso Trump e la potenza americana. A dispetto dell’interdipendenza delle loro economie, il leader cinese è infatti convinto che gli Usa vogliano bloccare l’ascesa mondiale del suo Paese. In questo senso la crisi nordcoreana altro non è che un derivato del conflitto tra Cina e Stati Uniti, sempre a rischio di cadere in quella che Graham Allison ha definito la «trappola di Tucidide», l’inevitabile scontro al quale due potenze, una in crescita l’altra affermata, sono condannate nella lotta per l’egemonia globale, proprio come Sparta e Atene.
Eppure, e torniamo alla saggezza di Kissinger, «un accordo tra Washington e Pechino è il prerequisito essenziale per la denuclearizzazione della Corea del Nord». Un grand bargain , sostenuto da un’offerta di cooperazione al regime di Kim e dall’intesa ferrea che non ci saranno rovesci di alleanze politiche. Uno scenario nel quale anche la Russia e la fin qui latitante Europa potrebbero svolgere un ruolo prezioso. Anche se questo Kissinger non lo dice.

Repubblica 4.9.17
Fermo, estate 2016: un profugo nigeriano viene finito a pugni per aver difeso la moglie da un insulto razzista
“Già libero chi uccise Emmanuel ma io resto: l’Italia è il mio Paese”
di Maurizio Crosetti


FERMO. La fontanella grigia, la fermata della corriera per Porto San Giorgio, il belvedere sui Monti Sibillini che tremolano nella distanza. Tutto come quel giorno. Però Chinyere non se la sente di scendere in strada e tornare qui. «Potrei incontrare quell’uomo e non voglio. Alla mia domanda, “perché?”, non ha mai risposto e non glielo chiederò più».
Quell’uomo si chiama Amedeo Mancini. È l’ultrà fascista della Fermana che il 5 luglio 2016, alle tre del pomeriggio, uccise con un pugno Emmanuel Chidi Namdi, il marito di Chinyere. Mancini l’aveva chiamata «scimmia africana», Emmanuel aveva reagito, l’ultrà l’aveva colpito e ammazzato. Adesso è libero dopo avere patteggiato una condanna a quattro anni. Prima i domiciliari e poi nemmeno quelli. Buona condotta, così ha deciso la giustizia italiana. C’era la provocazione. E adesso chissà cosa c’è, dentro questo vuoto. «Non lo odio. Vorrei solo che avesse il coraggio di guardarmi e dirmi perché, però adesso è tardi».
Lo studio dell’avvocata Letizia Astorri è in un antico palazzo nel cuore di Fermo, si sale uno scalone in marmo ed ecco Chinyere. L’ha accompagnata suor Filomena che ricorda la
suora giovane di Arpino, pare una bimba con gli occhi accesi. Invece quelli di Chinyere vagano senza pace nella stanza, sembrano farfalle che non sanno dove posarsi. Suor Filomena la aiuta con la traduzione, anche se l’inglese della venticinquenne nigeriana è lineare e pastoso, scolastico quanto basta per lasciarsi capire.
«Un anno dopo, faccio quello che Emmanuel mi chiedeva tutte le mattine quando mi diceva “Chini, studia!”. Lo faccio per lui. Ho deciso di riprendere le lezioni di medicina, poi seguo un corso di informatica e un altro di cucina. Voglio lavorare e rimanere in Italia, perché qui sono stata bene e ho trovato gente buona».
Parla così, senza odio, del luogo che ha ucciso il suo amore. Lei che era fuggita dalla Nigeria per colpa dei terroristi di Boko Haram. «Fecero saltare in aria una chiesa uccidendo la nostra bambina, i miei genitori e i miei suoceri: quella sera, con Emmanuel decidemmo di scappare». La fuga in Libia, l’incontro con un trafficante di uomini che malmena Chinyere e le fa perdere il figlio che ha in grembo, la drammatica traversata, resistere nonostante tutto, raggiungere finalmente l’Italia e sperare di nuovo in qualcosa. «Quando siamo arrivati qui, io e mio marito ci siamo detti: la sofferenza è finita».
Il resto è ferocia e destino, sotto forma dell’incontro con la persona sbagliata. Quel Mancini che si vantava di tirare le noccioline ai neri. «Emmanuel era analfabeta e non capiva una parola d’italiano, magari non l’avessi capita neppure io». Magari Chinyere non avesse compreso il senso di quello “scimmia africana”. «Emmanuel era più avanti nella salita, con un amico. Io mi ero fermata per bere alla fontanella ed è stato in quel momento che l’uomo mi ha insultata. Ho gridato, Emmanuel è tornato indietro, l’altro lo ha colpito in faccia».
Quando si sposarono in Italia, fu Chinyere a leggere la formula di rito anche per Emmanuel. Lei era le sue parole, lui la sua forza. «Diceva che ero come uno zainetto, per questo mi portava ovunque. Eravamo rifugiati, a volte ci intervistavano. C’è un video su Youtube dove Emmanuel si presenta e parla, io vado a rivederlo per sentire ancora la sua voce, anche se poi soffro tanto».
Cercare una strada e un senso oltre l’umiliazione e la morte, a dispetto di quella che qualcuno chiama giustizia, con un assassino a piede libero e una vedova costretta a vivere in un altro posto, non più a Fermo, non si può dire dove, Chinyere va protetta il più possibile. «Ora sto abbastanza bene ma non come prima, perché so che sarò per sempre sola. Ogni mattina mi sveglio, mi guardo attorno e non trovo Emmanuel. Eppure non ho mai odiato la persona che l’ha ucciso, so che la devo perdonare perché nella Bibbia ci sono soltanto parole di bontà. Le mie giornate sono semplici: studio, lavoro, prego per l’anima di Emmanuel e del suo assassino, e anche per la mia avvocata Titti che ha un lavoro così difficile. Quando arrivammo in Italia senza documenti, non potevamo dimostrare di essere sposati, e don Vinicio Albanesi ci legò con una promessa di matrimonio. Indossavo lo stesso vestito che ho messo al funerale, quando ho chiesto a Dio di morire anch’io, però adesso non voglio più, adesso devo vivere per Emmanuel».
Dietro la finestra c’è un disordinato disegno di rondini, uno zigzag impazzito. Fa caldissimo. Chinyere s’interrompe per piangere un poco. «Forse era questa la volontà di Dio. La notte in cui Emmanuel è rimasto in coma non ho dormito fino a mattina, poi sono crollata e lui mi è apparso in sogno, ho visto che stava andando via». Chinyere ricorda anche il giorno dal giudice, quando provò a parlare con Amedeo Mancini. «Era agitato, tremava tutto, saltellava sulla sedia. E io pensavo a come reagisce una persona che ha ucciso un altro uomo, a com’è ridotta. Guarda in che stato è, mi dicevo, però lui non mi guardava, forse non gli importava niente. Mi sarebbe bastato un saluto, gli avrei chiesto perché lo hai fatto».
Per quasi un anno Chinyere è andata a trovare Emmanuel al cimitero di Capodarco, ma questo non le bastava. «Il 4 luglio l’ho riportato in Nigeria, perché per la tradizione igbo l’anima di chi muore di morte violenta può riposare solo a casa, e dopo un certo rito. Nella bara mettiamo una scopa, insieme a un coltello per proteggere il defunto. Il padre di Emmanuel mi strappò questa promessa: se mio figlio muore lontano, poi riportalo qui».
Un anno dopo, il dolore ha trovato forse la sua strada. «Emmanuel era un gentleman, trattava tutti bene, sorrideva sempre. Qui eravamo felici, anche per questo non scappo. Non ho paura del futuro. Sono una donna forte perché ho visto morire, ho perduto tutta la mia famiglia e un figlio non ancora nato, e della mia bimba non ho neanche più un pezzetto. Però non odio nessuno». La suora giovane la abbraccia, l’avvocata Titti la accarezza, le rondini continuano le loro picchiate e nessuna traiettoria si perde. Quello che resta dopo l’amore, sembra dire Chinyere, è l’amore.

Il Fatto 4.9.17
“L’Onu è nei campi libici: i trafficanti vero nemico”
Minniti: “Sui diritti umani garantiti a chi non parte più mi gioco la faccia”
di Enrico Fierro


“Migranti a casa di chi?”. Tema che appassiona e divide, lacera l’opinione pubblica. Sul palco della Versiliana, un ministro, Marco Minniti, a capo del Viminale da otto mesi, e due giornalisti, Milena Gabanelli e Furio Colombo. A mettere sul tappeto le questioni che infiammano piazze e dibattito politico, Stefano Feltri, vicedirettore del Fatto Quotidiano. Minniti non ci sta a passare come “il ministro di ferro”, l’ex comunista tutto d’un pezzo e senza anima. “Sono per non perdere un millimetro della nostra umanità, ma non consentiamo ai trafficanti di carne umana di gestire il futuro delle nostre democrazie”.
È Furio Colombo a lanciare sul tavolo le carte più pesanti, senza nascondere amarezza e delusione. “Sono rimasto colpito dal fatto che il mondo cui appartengo e persone che stimo abbiano preso decisioni disumane”. Il ministero dell’Interno parla dei numeri degli sbarchi, fortemente diminuiti rispetto all’anno scorso. Una contabilità che non convince Colombo: “Non possiamo dire che abbiamo meno sbarchi e meno morti, il problema è che gli immigrati, i profughi, sono stati fermati, sono da un’altra parte”. Dove? In Libia. Paese diviso per bande, con un governo fragile. “Avete letto gli articoli e visto i filmati di chi è andato a vedere i campi profughi in Libia – replica l’editorialista del Fatto Quotidiano –, ora sapete in quale modo disumano vengono trattati. Non possiamo lasciare questa gente in mano a persone che sono peggiori dei trafficanti di uomini”. “Sui campi profughi in Libia ci metto la faccia – risponde il ministro dell’Interno – e a Furio, che per me è stato sempre un riferimento, chiedo di essere severissimo se non mi impegnerò su quello che sto dicendo. Sui diritti umani mi gioco tutto”.
Minniti ricorda che la Libia non ha mai firmato la Convenzione di Ginevra del 1951: “Ora abbiamo fatto questo passo avanti e organizzazioni come l’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni) e Unhcr (profughi e rifugiati) potranno entrare e controllare i campi profughi”. Ma c’è tanto lavoro da fare, soprattutto “convincere i libici che il traffico di uomini non può essere l’unica fonte della loro economia, che non possono passare agli occhi del mondo come uno Stato canaglia”. E allora gli incontri con i sindaci libici, i soldi, l’aiuto per “costruire un circuito economico alternativo”. Integrazione e politica della paura.
Milena Gabanelli, con articoli e uno scambio di idee e proposte col ministro dell’Interno, espone il suo “piano” partendo da una critica netta. “L’integrazione non passa da un sistema come è strutturato ora”. Sull’Europa, dice la giornalista, premono 15 conflitti in Africa, una massa enorme di potenziali profughi che guarda all’Europa e all’Italia. Il fenomeno non si fermerà nei prossimi anni. Certo, il piano del governo sulla carta è bellissimo, ma nella realtà non va. Troppe le cooperative che gestiscono come un mestiere qualunque il tema delicato dell’integrazione”.
Gabanelli fa l’esempio della Germania (“sei mesi per l’identificazione, 500 mila profughi siriani accolti, corsi per imparare la lingua e le leggi del Paese”), mentre noi “spendiamo un sacco di soldi per vedere giovani immigrati passare mesi in piena inattività, gente che sparisce, parcheggi delle città piene di ragazzi che chiedono l’elemosina”. La proposta è quella di riutilizzare le caserme dismesse, di applicare “la piccola integrazione sul territorio, dopo i corsi di lingua e di insegnamento delle regole, questioni che vanno gestite con grande competenza e pragmaticità”.
Quindi una grande agenzia pubblica, gestita dallo Stato in grado di coordinare l’intervento del volontariato. Minniti non è d’accordo e annuncia per fine settembre un “piano per l’integrazione”. Immigrazione e voti. Furio Colombo: “Possiamo anche vincere le elezioni, ma i migranti sono le vittime di una seconda Shoah che si compie in silenzio”. Minniti: “Il mio obiettivo non è lo 0-0,5% in più alle elezioni, su questi temi sono in ballo i diritti di chi è accolto e quelli di chi accoglie. Sull’immigrazione si giocano le prospettive del Paese”.

Il Fatto 4.9.17
Non sono una mamma perfetta, ma non merito di morire sotto un asteroide
di Selvaggia Lucarelli


Cara Selvaggia, sono una di quelle mamme che si è indignata per la pubblicità del Buondì in cui la mamma finisce seppellita sotto un asteroide. So che in questi giorni va di moda fare i moderni e gli ironici, dire che chi si è indignato è scemo e serioso, che chi non ci ride su sono le mammine psicopatiche convinte che la maternità consegni superpoteri e dia una superiorità morale che le non-mamme si sognano.
Io non mi sento così. Sono una mamma normale, non sono madre di un piccolo genio, non sono nei forum delle mamme esaurite, non l’ho allattato fino ai 12 anni. Ho un figlio normale, simpatico, mediamente bravo a scuola, lo lascio respirare. Però quella pubblicità mi sta sulle palle. Facciamo un lavoro infame, noi madri, spesso poco compreso e riconosciuto. Le pubblicità ci dipingono sempre come esseri perfetti e poco realistici (donne bellissime, eleganti in casa, il filo di perle a colazione) o delle sfigate esaurite. Mai uno spot che regali una fotografia moderna e onesta di quello che siamo.
Un po’ perfette e un po’ imperfette, un po’ esaurite e un po’ realizzate. Mai uno spot che racconti contraddizioni e sfaccettature. Mai uno spot ironico, Dio santo. Arriva uno spot ironico e come ci racconta? Perfette, col filo di perle e il golfino nel giardino perfettamente verde e curato e l’ironia in cosa consiste?
Nella chiamata dell’amante mentre la bimba ci chiede la colazione? Delle cesoie da giardino che usate maldestramente ci fanno a pezzettini il golfino? Della cacca del piccione che piomba dal cielo sulla nostra messa in piega? Insomma, su quello che siamo, tutti i giorni, noi mamme un po’ perfette e un po’ no? No, sul fatto che ci piombi in testa un asteroide.
Che si crepi così, stupidamente, e che ci si faccia una risata grassa sopra. Francamente, la trovo non tanto una pubblicità di cattivo gusto o pesante o terribile, ma un’occasione persa .
Ok Beatrice. Facciamo pure che la pubblicità sia mediocre e realizzata così così, che non trasudi creatività e guizzi memorabili. Che non racconti con profondità alcuna la maternità. Ora la domanda è: era il caso di fare tutto ‘sto casino? Non potevamo liquidarla come una pubblicità così così anziché parlare di messaggi sbagliati o occasioni mancate come nel tuo caso? L’indignazione è incomprensibile perché la morte per asteroide potrebbe indignare al massimo i parenti di dinosauri periti milioni di anni fa. La lamentela per il messaggio mancato è ancora più incomprensibile perché ritenere che un Buondì debba veicolare messaggi di qualunque tipo, da “le mamme non sono tutte perfette” a “fermiamo la Corea del Nord”, è da Tso. Personalmente, invoco un asteroide su tutti quelli che hanno fatto diventare questo spot un caso nazionale.

Il Fatto 4.9.17
Regno Unito “invaso” dalle scuole islamiche
Gli istituti religiosi privati, finanziati dallo Stato, hanno migliorato la preparazione degli alunni aumentando però il rischio di segregazione
di Marco Lillo


La prima scuola superiore privata (nella categoria free school) in Gran Bretagna per i miglioramenti ottenuti dai suoi alunni è la Tighs, cioé la Tauheedul Islam Girls’ High School. La scuola femminile islamica di Blackburn per ragazzine da 11 a 18 anni supera di poco l’omonima scuola maschile che figura al terzo posto nella classifica: la Tibhs (Tauheedul Islam Boys’ High School). Blackburn, 107 mila abitanti, è una cittadina del Lancashire, impoverita dalla deindustrializzazione, dove gli islamici raggiungono il 36% e ci sono 45 moschee. Nel 2010 è stata inaugurata la più grande moschea della zona, una delle più grandi di Inghilterra: la Masjid-e-Tauheedul, costruita grazie a una donazione di un milione e mezzo di sterline dell’emiro del Qatar, sponsorizzata da una lettera di raccomandazione scritta dal deputato laburista di Blackburn, Jack Straw che aveva usufruito nel 2007 di un viaggio gratis con la moglie per 4 giorni in Qatar, offerto dall’emiro. Straw nel frattempo ha cambiato posizione e ora è critico verso le nuove moschee ma allora era stato criticato perché avrebbe ottenuto il voto della popolazione islamica dopo quell’intervento sull’emiro.
Gli islamici di Blackburn sono in larga parte indiani e pakistani. In alcuni quartieri superano il 70 per cento e le vendite di burqa sono in aumento. Le due scuole private in testa alla classifica nazionale per i miglioramenti didattici sorgono nella città dove – secondo i quotidiani britannici – è più forte la segregazione razziale e dove più della metà dei neonati sono figli di musulmani. Blackburn è l’avanguardia di un movimento scolastico più vasto. Le scuole sono di proprietà del Tet (Taheedul Educational Trust), che oggi controlla 18 scuole nel regno Unito (era una sola nel 2012) e punta a crescere nei prossimi 5 anni con lo stesso ritmo per insegnare a decine di migliaia di ragazzi nelle zone più povere del paese i precetti della religione islamica e – sostiene il Trust – anche “il rispetto dei valori britannici”.
Il Sunday Times del 20 agosto, e prima ancora il Guardian, hanno dato rilievo ai risultati del test denominato “Progress8”, che dimostra appunto i progressi degli alunni delle scuole, tenendo conto però del loro livello all’inizio del corso, in modo da apprezzare l’efficacia della scuola in rapporto al punto di partenza dello studente.
Il servizio del Sunday Times però non era dedicato ai risultati prodigiosi delle due scuole islamiche in testa o ai rischi i di una maggiore segregazione. Il pezzo principale era dedicato alla ricerca del New School Network (Nsn), cioé l’associazione delle new free school create dai privati ma volute (e pagate) dal governo conservatore. Il titolo dello studio del Nsn è “The secret of succesfull school” e per il direttore del Nsn, Toby Young, “il segreto del successo delle scuole del Tahueedul Trust non è dovuto al fatto che gli studenti siano islamici ma che quelle scuole hanno abbracciato la filosofia delle più rigide grammar school britanniche”. Per Young quindi i dati dimostrano che le scuole migliori per far studiare i ragazzi dei quartieri difficili non sono quelle progressiste ma quelle ‘neo tradizionaliste’ dove si obbligano gli studenti a indossare una divisa e a stare molte ore a scuola in un clima severo.
Le due scuole islamiche di Blackburn, con il loro primo e terzo posto in graduatoria, sono messe dallo studio nel calderone delle ‘neo tradizionaliste’ per dimostrare che la ricetta pedagogica della destra funziona. Il direttore del Nsn, Toby Young, è associate editor del settimanale conservatore The Spectatored è un feroce critico di Corbyn, accusato da lui di essere “cieco di fronte al male del nazi-islamismo”. Co-fondatore lui stesso di alcune free school nei quartieri bene di Londra è stato messo per il suo curriculum a capo del network delle free school . Il fatto che un tipo come Young brindi all’ottimo risultato delle scuole islamiche di Blackburn come a un successo dell’educazione neotradizionalista è un sintomo delle contraddizioni della Gran Bretagna multiculturale ma conservatrice di Theresa May. Grazie alle politiche della destra, da David Cameron a Theresa May, in pochi anni sono nate 450 scuole che nel 2020 si stima raddoppieranno fino a 900 scuole per 250 mila posti. Nelle nuove scuole private, nate dal basso grazie ai soldi pubblici, c’è di tutto: dall’insegnamento in mandarino alla scuola della squadra di rugby dei Saracens fino all’istituto d’arte di Liverpool patrocinato da Paul McCartney. Molte nascono promettendo ai più poveri una chance di entrare nelle università più prestigiose e non prevedono i test di ammissione che penalizzano i ragazzi più poveri.
Mentre il leader labourista Jeremy Corbyn punta a ribaltare la situazione rimettendo al centro la scuola pubblica, il rapporto del Nsn esalta i risultati delle new free school e non vede nulla di male nell’aumento della forza didattica e finanziaria delle scuole islamiche.
Eppure il vero fenomeno è proprio il successo delle scuole islamiche di Blackburn all’ultimo esame Gcse (General certificate of secondary education) che testa la preparazione all’età di 16 anni. L’81 per cento delle ragazze ha preso voti molto alti (dal massimo di 9 a 5) in Inglese e Matematica. Nessuna new free school inoltre ha fatto un balzo in avanti dall’inizio alla fine del corso paragonabile a quello fotografato dal test ‘Progress8’ nel 2016 per le ragazze della TIGHS. Subito dopo c’è la Steiner Academy di Hereford, seconda. Mentre al terzo posto ci sono i maschi della Tibhs, la scuola islamica di Blackburn.
Il cambio epocale è stato favorito dallo Stato. Le entrate del Tauheedul Educational Trust salgono da zero a 97 milioni di sterline dal 2012 al 2016 e i fondi sono di provenienza pubblica al 99%. Grazie allo Stato il Tet cresce nelle zone più povere di Lancashire, West Manchester, Midlands, Londra e West Yorkshire e oggi controlla 15 scuole islamiche e tre non confessionali. Le spese del Trust si sono fermate a meno di 31 milioni. Restano così 66 milioni di sterline, da aggiungere all’avanzo degli anni precedenti. Il Trust ora può contare su un tesoretto di 150 milioni di sterline per sviluppare le sue scuole. Nel 2016 sono partite tre nuove scuole private islamiche e due Academy, non islamiche. Il Trust è diventato un colosso da 650 dipendenti, con un corpo docente di 400 persone. I manager non si trattano male. Il presidente del Trust, Hamid Patel, incassa 200 mila sterline all’anno e altri 17 manager guadagnano più di 70 mila sterline.
La crescita è esponenziale. La prima High School è stata quella femminile di Blackburn, nata nel 1984, che oggi vanta 800 studentesse. Nel 2012 parte la versione per maschi: 700 studenti. Nel 2013 apre a Londra la scuola elementare islamica nel borgo londinese di Hackney per 630 alunni. A settembre 2014 tocca alla scuola maschile (800 posti) a Bolton e poi a quella da 700 posti per le ragazze di Coventry. Nel 2015 apre a Birmingham un istituto per ragazzi da 11 a 18 anni per 700 posti; a settembre 2017 tocca alla Eden Boys Academy for leadership a Manchester per altri 800 posti e alla versione femminile per altri 800 posti. E ancora, la Eden per i ragazzi islamici di Preston da 800 posti e la Eden per le ragazze a Slough per altri 800 posti. Non è finita: a Birmigham aprirà un’altra Eden Boy Academy for leadership per 800 persone. Più le scuole primarie di Manchester, Birmigham, Blackburn, Hackney, da 630 posti ciascuna, più quelle di Preston e Bolton da 420 posti l’una. Tutte scuole islamiche in zone povere ad alta densità di islamici spesso asiatici. In teoria il 50% dei posti sarebbero riservati a chi non è di fede islamica ma non deve sorprendere che nessuna ragazza laica o cristiana faccia domanda visto che quando si clicca sulla sezione ‘inclusion’ del sito si vedono solo facce velate e felici in divisa scura.
Alle faith school si aggiungono poi le quattro Academy della divisione non confessionale, acquisite da poco (la più famosa è la Tong Lee di Bradford dove ha studiato l’ex cantante della band One direction, Zayn Malik) per un totale di 5 mila e 200 studenti.
Nel 2014 la trasmissione Dispatches di Channel 4 dedicò un servizio alle scuole islamiche, comprese quelle del Tet di Blackburn.
Un giornalista sotto copertura riuscì a catturare alcune immagini di insegnanti che chiedevano alle ragazze di non applaudire e di non ascoltare musica. Inoltre si mostrava un religioso, invitato a tenere una conferenza alla scuola, che in altra sede aveva attaccato duramente i gay. Ne seguirono ispezioni alle scuole del Trust. Secondo l’ente di controllo pubblico, Ofsted, però tutto filava liscio. Nei report degli ispettori Ofsted si legge che il 70% degli studenti sono di origine indiana e il restante 30% pakistana. Molti parlano l’inglese come seconda lingua. Un dato che rende ancora più interessanti i risultati didattici. Le ragazzine di Blackburn dicevano di essere felici di indossare le loro uniformi nere che includono il velo. Tutti gli alunni sono consapevoli dell’esistenza di altre fedi e nella scuola primaria di Hackney addirittura gli studenti ascoltano conferenze di un rabbino o di un’insegnante cattolica.
Channel 4 pubblicò i rapporti positivi sul sito e la cosa finì lì. Il servizio televisivo però segnalava i rischi di quella segregazione culturale già denunciata dai sindacati degli insegnati nel 2011 e poneva dubbi che restano tuttora sul tavolo.
Tre anni dopo le scuole del Tet sono cresciute e sono destinate a diventare una fucina di islamici dotti ma divisi dal resto della società. La segregazione culturale volontaria non comporta la perdita di occasioni e nozioni ma sembra invece una scelta consapevole e persino redditizia dal punto di vista didattico ed economico. Resta una grande domanda all’orizzonte: i ragazzi e le ragazze del Trust, così fieri della loro formazione islamica, come si comporteranno da adulti? Gli anni nelle scuole islamiche finanziate dallo Stato hanno migliorato la loro preparazione ma hanno favorito o reso più difficile l’integrazione?
Un segnale positivo viene dal sito della scuola maschile di Blackburn. Quando il 24 agosto escono gli ottimi risultati degli alunni islamici al test nazionale Gcse, l’alunno modello Umair Patel, con il massimo dei voti in inglese e letteratura, dichiara: “Ora andrò a studiare chimica, biologia e sport al College Cardinale Newman”. Così il miglior studente islamico andrà nel miglior college cattolico della zona intitolato a un cardinale che diceva: “Molti pensano di essere diversi dagli altri ma quello che accade è che non hanno abbastanza capacità di parlarsi gli uni con gli altri”.

Il Fatto 4.9.17
Un classico massonico o cattolico? La contesa ideologica su Pinocchio
Le logge festeggiano tre secoli di vita e riscoprono il “fratello” burattino contro la lettura teologica di Biffi
di Fabrizio d’Esposito

qui
http://www.ilfattoquotidiano.it/premium/articoli/un-classico-massonico-o-cattolico-la-contesa-ideologica-su-pinocchio/

Il Sole Domenica 3.9.17
inediti
Poesie da un carcere siriano

Pubblichiamo due poesie inedite e una edita di Faraj Bayrakdar, uno degli intellettuali di riferimento dell’opposizione al regime di Assad. Arrestato già più volte negli anni Settanta per aver pubblicato alcuni giovani poeti siriani, nel 1987 entra in carcere per la sua attività politica e vi resta per quattordici anni. In prigione nasce la sua produzione poetica: «Pian piano mi sono accorto che la poesia è per me il più bel volo della libertà. È l'esercizio più pieno della libertà e, insieme, è qualcosa che non può essere imprigionato». La prima poesia, Connivenze, è tratta da Il luogo stretto (a cura e traduzione di Elena Chiti, Nottetempo, pagg. 98, € 10). Le altre due sono tratte da Specchi dell'assenza una raccolta pubblicata nel 2005 in Siria, ma mai distribuita - tipico modus operandi del regime siriano - raccoglie testi redatti dal 1997 al 2000.

Connivenze

C’è chi si nasconde dietro Dio
e Dio dietro di lui
solo noi teniamo
il cuore alto
come un bersaglio.

Carcere militare di Sednaia, 1995

No
non Dio
ma donna
color di frumento e carruba
donna
tra caffè e latte
anzi tra silenzio e parola.
Di mattina
m’insegna la rosa
e prima che sia notte alta
m’insegna la tempesta.

Va bene, Dio, bene
questa è la Siria
ma dove ti inviamo le condoglianze
e con quali nuvole piangerai
con quali nuvole?
(traduzione dall’arabo di Elena Chiti)

Faraj Bayrakdar con Elisabetta Bartuli ed Elena Chiti sarà mercoledì 6 settembre alle 18.30 alla chiesa di san Barnaba a Mantova.

si ringrazia Andrea Piazzi


Ingegnere depresso va
a morire in clinica svizzera. Quando bastava un pronto soccorso italiano qualsiasi.
www.forum.spinoza.it

https://spogli.blogspot.com/2017/09/corriere-4.html