Corriere 4.9.17
Il patto che rovina la scuola
di Angelo Panebianco
La sentenza del Tar del Lazio contro il numero chiuso nei corsi di laurea umanistici dell'Università di Milano ci ricorda uno dei principali «misteri» italiani: come mai nel nostro sistema educativo resistono, accanto a fannulloni e incapaci, così tanti docenti di qualità? Quei docenti di qualità non dovrebbero proprio esserci dal momento che da decenni (la sentenza del Tar è solo l'ultimo episodio) un intero Paese, un'intera classe politica, e tutte le amministrazioni coinvolte (funzionari del Ministero, Tar, eccetera) hanno sempre manifestato il più completo disinteresse per la qualità dell'insegnamento. Sul sistema educativo pesa, dagli anni Settanta dello scorso secolo, un patto che coinvolge, ancora oggi, la politica, l'amministrazione, quella parte dei docenti che ha ottenuto benefici dall'esistenza del patto, e tanti utenti (studenti e famiglie). L'Università, grazie a certe sue guarentigie è stata parzialmente al riparo dalle conseguenze peggiori di quel patto. Ma ne è stata colpita anch'essa. La nefasta «liberalizzazione degli accessi» della fine degli anni Sessanta diede l'avvio a una lunga catena di guai. Le scuole, primarie e secondarie, senza difese, subirono i colpi più duri. Il patto di cui parlo venne tacitamente siglato fra la Democrazia Cristiana, allora al potere, e i sindacati della scuola, e coinvolse anche il Partito comunista. Il patto venne sottoscritto con il consenso tacito dell'opinione pubblica (disinteressata e spesso complice quasi tutta la classe colta, gli intellettuali). I termini del patto erano i seguenti: la scuola ha un unico vero scopo, assorbire occupazione. Non importa se gli insegnanti reclutati siano capaci o no, preparati o no. Importa solo che siano tanti (il che significa, inevitabilmente, mal pagati). E neppure importa che siano condannati a una lunga e umiliante esperienza di precariato. Gli effetti di tutto ciò sulla qualità dell' insegnamento erano, per i contraenti del patto, irrilevanti. Anche perché l'assenso degli utenti, famiglie e studenti, poteva essere ottenuto grazie al valore legale del titolo di studio. Ciò che conta è il diploma, il pezzo di carta. Non ha importanza che dietro quel pezzo di carta ci sia o no una solida formazione. Per giunta, contribuiva al mantenimento del patto un clima culturale nel quale il diritto costituzionale allo studio era da molti interpretato come diritto al diploma. Nell'età post-democristiana le cose non sono cambiate. Non ci sono più quegli attori politici ma l'eredità che hanno lasciato è sempre viva. Tutto ciò che ha a che fare con i processi educativi continua ad essere trattato nello stesso modo. Si pensi all'ultima imbarcata di precari: l'importante era assumere docenti. Il fatto che fossero competenti o no era irrilevante. E tanto peggio per il congiuntivo. Sappiamo, ad esempio, da molti anni, che uno dei gravi problemi della scuola riguarda l'insegnamento della matematica. Le carenze in questo campo sbarrano di fatto, a tanti futuri studenti universitari, l'ingresso nei corsi di laurea scientifici. La ragione per cui tanti giovani si orientano verso le umanistiche (nonostante le minori probabilità di occupazione post-laurea) anziché verso le scientifiche, ha a che fare con questo problema. Ma qualcuno forse, in tutti questi anni, se ne è mai preoccupato? La ministra Fedeli ha ribadito, anche in questa occasione, ripetendo un antico ritornello, che occorrono più «laureati». Mi dispiace ma detto così non è vero. Occorrono più laureati (anzi, tanti di più) in materie scientifiche. Ne occorrono di meno in materie umanistiche e quei «meno» dovrebbero essere tutti di qualità elevata. Il Tar del Lazio, in fondo, si è uniformato a un antico andazzo. L'Università di Milano vuole il numero chiuso per garantire la qualità dell'insegnamento? E perché mai dovremmo preoccuparci di una cosa simile? Poi c'è, naturalmente, il paravento della legge. Che però deve essere interpretata. I sistemi giuridici sufficientemente flessibili da essere al servizio degli umani (a differenza di quelli che mettono gli umani al proprio servizio) tengono conto degli stati di necessità. Per rispettare quel rapporto studenti/docenti che è necessario per garantire la qualità dell'insegnamento, l'Università di Milano ha optato per il numero chiuso. Ma poiché la qualità dell'insegnamento non ha alcun valore agli occhi di tanti, lo stato di necessità non è stato riconosciuto e accettato. Non ci si deve meravigliare se ci sono tanti diplomati e laureati ignoranti. Ciò che invece fa meraviglia (è questo il vero mistero da risolvere) è il fatto che ci siano anche, a dispetto dei santi, molti giovani bravi e preparati, nonché molti docenti bravi e preparati. Sono questi ultimi «i singoli insegnanti appassionati che dedicano, controcorrente, la loro vita agli studenti » (Nuccio Ordine, sul Corriere di ieri). È tutto abbastanza chiaro: la sentenza del Tar è figlia di una lunga tradizione nazionale. Resta però la curiosità di sapere qualcosa su questi giudici del Tar del Lazio, da molti anni impegnati, come ricordava ieri Aldo Grasso, a dire «no» a tanti provvedimenti positivi. A differenza di ciò che capita nel caso di altre istituzioni, dal Parlamento alla Corte costituzionale, abbiamo idee vaghe sui criteri di reclutamento e sulla composizione. Tenuto conto dell'importanza assunta dalle loro decisioni, ciò meriterebbe più attenzione.