La Lettura del Corriere 2.7.17
I testimoni della foresta
La preghiera degli ultimi Yanomami
I cercatori d’oro ci distruggono, aiutateci
In sette anni sono morti ventimila Yanomami
di Angelo Ferracuti
La
Asatur gran turismo parte puntuale alle 20.30, supera la periferia di
Manaus e imbocca a velocità ridotta la Br 174, inghiottita dal buio.
Sdraiato sul mio sedile letto nel piano basso sul lato finestrino,
guardo il paesaggio notturno, l’oscurità avvolge tutto, si vede solo una
lunga linea grigia che taglia la foresta. La strada, quasi mille
chilometri, fu costruita nel 1974 dal governo militare per andare da
Manaus fino a Boa Vista e poi fino al confine con il Venezuela. Causò
molti morti tra le popolazioni indigene, i villaggi furono decimati
dalle malattie portate dagli operai. Nello stesso periodo iniziarono i
lavori di un’altra via di comunicazione, la Perimetral North, costruita
scavando dentro la foresta abitata dagli indigeni Yanomami. All’inizio
degli anni Ottanta molti allevatori e contadini poveri del Nord-Est del
Paese, in particolare della regione di Maranhão, emigrarono qui spinti
dal miraggio dell’attività mineraria; proprio da questa, che fu definita
«la strada maledetta», cominciò la corsa all’oro in una parte del
Brasile piena di risorse, per cercare fortuna nell’Eldorado di Boa
Vista. La popolazione della regione in pochi anni raddoppiò, passando a
più di 80 mila abitanti, i minatori invasero i territori, portando
malattie, alcol, violenze di ogni tipo, l’attività estrattiva inquinò
l’acqua e l’aria, e in soli sette anni morirono 20 mila Yanomami, una
strage.
Quando mi sveglio nel cuore della notte, l’Asatur è già in
sosta davanti a un chiosco dove vendono panini e bibite. Un ragazzo
zoppicante e scalzo, che stringe in mano una borsa, è seduto ai bordi
della strada, gli immancabili cani randagi pigri e magri, ricoperti di
piaghe rognose, girano lentamente avvicinandosi ai viaggiatori assonnati
nella speranza di ricevere cibo di scarto.
All’alba, lungo la
strada, oltre i pali con i fili elettrici dell’alta tensione, immerse
nella natura lussureggiante, le luci delle poche case sparse, fazendas
seminascoste tra la vegetazione, e piccoli paesi con edifici molto
colorati: c’è già qualcuno che cammina o si sposta in bicicletta, le
prime automobili con i fari accesi avanzano a bassa velocità nella
direzione opposta. Da un ponte scorgo la lingua di un fiume dalle acque
scure che attraversa una zona di foresta fitta di vegetazione.
La
stazione delle corriere di Boa Vista è affollata di gente quando
arriviamo. Nella strada sterrata, sono in sosta alcuni taxi, ma nessuno
li prende. Mi tocca in sorte quello di un ometto anziano dalla faccia
rossa e rugosa che parla a scatti; quando gli stendo il biglietto con
l’indirizzo, Rua Josimo de Alencar Macedo, 413 nel Barrio do Calungà, fa
una smorfia di scetticismo, poi mi fa capire che invece ha capito. Boa
Vista al primo colpo d’occhio mi appare nel suo povero squallore di
strade e edifici deteriorati e spenti, tutti bassi e a un piano, le vie
fangose poco trafficate. Invece, comprenderò più tardi, le strade sono
pulite e ordinate, c’è un discreto benessere dovuto essenzialmente
all’attività illegale dei cercatori d’oro e alle risorse economiche che
arrivano dal governo alle lobbies politiche locali.
Imbocchiamo
uno stradone, poco più avanti giriamo a sinistra, e già siamo arrivati
alla Missione Consolata. Superato il cancello, si attraversa una strada
rossa sterrata con ai lati alberi rigogliosi e siepi con fiori colorati.
Più avanti, quando il tassista arresta l’auto in fondo, e dà un colpo
di clacson, risponde la voce di una donna dalle cucine che non riesco a
vedere e che dice buongiorno.
A pranzo, padre André, che è
portoghese, ma parla un buon italiano, dice che per raggiungere i
villaggi degli Yanomami a Catrimani, o si va con l’aereo privato oppure
con la barca, almeno tre o quattro giorni di navigazione se la guida è
esperta, però il viaggio lungo il fiume è davvero un’avventura, ma «non
come immaginiamo un’avventura noi europei», tende a precisare,
ridacchiando, «un’avventura» ripete molto sorridente, «bisogna cercare
una persona esperta capace di guadare tra le correnti e non è facile
trovarla». Dice che in foresta il pericolo maggiore è la pantera (nera,
rossa e maculata), soprattutto gli animali vecchi che non riescono più a
cacciare e si accontentano di quello che trovano nei loro immediati
dintorni. Nel fiume, invece, la raja, il piranha e l’elettroforo, e in
foresta tutti i tipi di serpenti. Mi dice che proprio nel giardino qui
davanti la settimana scorsa è comparso un anaconda. «Era piccolo, solo
un paio di metri, ha mangiato due pulcini». Alla missione sono rimasti
in pochi, oltre a lui. Carlo Zacquini, padre Luigi Palombo, un sacerdote
leccese molto anziano, Corrado che adesso si trova a Catrimani; poi
fratello Francesco di Pinerolo, il naso lungo e i capelli bianchi corti e
lisci, due preti africani che sono in missione nella regione di Surumu
dove vivono gli indios Macuxi. Quando più tardi Carlo Zacquini si
materializza in cucina, è un tipo di uomo diverso da come l’avevo
immaginato, nel senso che ha un’aria giovanile, nonostante che di anni
ne abbia già compiuti 80, di cui 53 passati qui, molti dei quali dentro
la foresta. La sua sordità, che combatte con un apparecchio attaccato ai
padiglioni auricolari, è forse dovuta alle tante volte che ha contratto
la malaria. Capelli grigi folti, un pizzetto risorgimentale, l’aria
benevola dell’esploratore, quando rimarco il suo stato invidiabile, dice
semiserio che «mangiare scimmie mantiene in forma».
Mi fa
accomodare nella sala riunioni, con i divani e la tv, a tre quarti un
lungo tavolo e una scaffalatura con molte riviste, il salotto buono
della missione. Quando arrivò nel 1965, dice che al villaggio c’era una
baracca non ancora finita, costruita dal missionario che stava già là:
«Dentro c’erano ancora i ceppi degli alberi e, intorno, molti insetti, a
dieci metri invece si trovavano delle capanne di foglie con varie
famiglie Yanomami; tutti i giorni dovevo andare a caccia se volevo
mangiare». Le foto dell’epoca lo ritraggono alto e magro come adesso, il
viso pallido e scarnito, un pizzetto nerissimo scolpito sul mento. Lui
dice che nel primo contatto con gli Yanomami lo avevano colpito la
semplicità, l’allegria, la gioia che trasmettevano, del fatto che
fossero nudi non te ne accorgevi neanche. «Si arrampicavano sugli alberi
— racconta con un sorriso di nostalgia — per andare a prendere il miele
sugli alveari. Con scioltezza, velocità. Avevo una carabina calibro 22
con una pallottolina piccola ma efficiente, con quella sono riuscito a
uccidere anche qualche tapiro», sostiene adesso con fierezza, ricordando
quei primi difficili mesi nella foresta. «All’inizio ho imparato una
cinquantina di parole — mi spiega — cercavo di trascriverle come le
sentivo, a modo mio, ma il significato ogni tanto cambiava, e allora
capitava di mostrare una foglia e chiedere come si chiamava, e uno mi
diceva un nome, uno me ne diceva un altro, un altro ancora un altro; uno
diceva la parola foglia, l’altro che era sottile, un altro che era
verde, oppure che era liscia». Per farmi capire meglio, racconta che una
volta era andato a caccia con uno Yanomami e a un certo punto lungo il
tragitto quello gli fece vedere delle orme sul terreno, ma lui non
capiva di quale animale fossero, gli chiedeva como xama , come si
chiama? «Allora lui mi rispondeva xama . Como xama? Chiedevo con
insistenza. Xama , continuava a ripetere quello. Alla fine sono riuscito
ad ammazzare quest’animale che era un tapiro. Quando tornai al
villaggio, l’altro missionario, vedendo la bestia mi disse: ah, bravo, è
un tapiro, gli indios lo chiamano xama ». Ridiamo.
«In mezzo agli
alberi — racconta divertito — è più facile prendere una scimmia all’amo
che un pesce. Ho fatto la fame non poche volte, i primi anni è stata
molto dura». Più tardi le cose sono migliorate, mise in piedi una
piantagione di banane, bonificò la pista d’atterraggio e dalla missione
di Boa Vista cominciarono ad arrivare viveri. Aveva una piccola radio,
dove la sera captava i messaggi dalla città, potendo capire quando
sarebbe arrivato l’aereo. «Quando cominciavo a orientarmi, ed erano già
passati alcuni anni — continua a dire — è arrivata la strada, la
Perimetrale nord, che è stata costruita nel 1974. Ricordo un ingegnere
italiano, il direttore dei lavori che controllava il tracciato, una
ventina di operai tutti stracciati, in condizioni pietose». Subito dopo
giunsero altre squadre, soprattutto dal Nord-Est, con l’inganno di
salari da sogno. «Ogni lavoratore abbatteva cinquecento metri, un
chilometro di foresta, e uno di loro portò il morbillo, si scatenò
l’epidemia e gli indios più vicini alla missione riuscimmo a curarli, ma
non avevamo i vaccini, era molto triste, avevo un’angoscia terribile»,
ricorda con la voce turbata. Quando fece una spedizione nei villaggi più
lontani, scoprì che già nei primi erano morti in parecchi. «Una cosa
che mi viene in mente ancora oggi in sogno, è una ragazza di 13 anni che
si trascinava per terra e non riusciva a camminare». Quando giorni dopo
arrivò stremato in un villaggio più lontano, trovò i sopravvissuti di
quattro comunità, la metà della popolazione. «Il più giovane avrà avuto
una bambina di cinque anni, che era uno scheletro», confida sottovoce.
Stormi
di canarini si spostano dagli alberi e volano in cielo, li vedo che
saltellano là fuori. Mi racconta che vive anche oggi con angoscia l’idea
che gruppi di Yanomami isolati possano essere raggiunti da persone
senza scrupoli, essi stessi vittime di condizioni di vita difficili, «i
cercatori d’oro sono persone umili, non vanno là per ammazzare, ma non
capiscono che la loro presenza è la morte degli indios».
La strada
in terra battuta con pietrisco compattato comunque non fu terminata,
costruirono 215 chilometri e poi i ponti di legno marcirono. «Portammo
alla missione una macchina, e anche un carro svizzero degli anni
Quaranta. Nel frattempo cominciarono ad arrivare i primi cercatori
d’oro, ma l’esplosione vera e propria ci fu nel 1985. La Funai
(Fondazione nazionale dell’indio, ente statale preposto a garantire i
diritti dei popoli nativi) pensò bene di mandare via i missionari e i
medici che svolgevano azioni di medicina preventiva, gli Yanomami
restarono in balia di questi cercatori, molti si ammalarono e morirono,
fu un genocidio». Come scrive Jan Rocha in Assassinio nella foresta :
«Si calcola che tra il 1987 e il 1990 millecinquecento Yanomami — il 15%
della popolazione Yanomami del Brasile — siano morti di malattie e
malnutrizione quali dirette conseguenze della corsa all’oro».
Ho
letto che a Boa Vista, ma anche nel resto del Brasile, la propaganda dei
media e dei potentati economici parla di «internazionalizzazione»
dell’Amazzonia, dicendo che a difendere i diritti degli indios sono
soltanto stranieri, perché in verità sono interessati a impossessarsi
delle loro terre. Carlo conferma, «sì, accusano indigenisti,
antropologi, ma il grande nemico delle popolazioni indigene è il governo
Temer, che vuole aprire le porte al capitale straniero, ridurre i
confini delle loro terre, liberarle dai popoli nativi». La realtà,
infatti, è un’altra, nella regione di Catrimani il 4% della popolazione
più ricca possiede il 96% delle terre e c’è gente come Walter Vogel, uno
svizzero, che è proprietario di 12 mila capi di bestiame, due agenzie
immobiliari, diversi negozi, piantagioni di acacia mangium per migliaia
di ettari, e il 40% delle terre coltivabili dello Stato. «Gente come
Vogel — continua a dire Carlo Zacquini — qui è benvenuta dai politici,
sono quelli che danno lavoro, se portano via più di quel che lasciano,
questo nessuno lo sta a guardare», dice. «I danni sono molti, brucia il
mercurio usato per il processo di raffinazione anche in centro città,
dove ci sono negozi che comprano oro, avvelenando l’aria. Sono già nati
bambini con danni allo sviluppo cognitivo». Lui pensa che un giorno i
popoli indigeni potranno sviluppare una loro economia, che già in
piccola parte esiste, raggiungere un grado di coscienza tale da poter
estrarre ricchezze in modo ordinato, rispettoso dell’ambiente, già
questo avviene in Roraima dove vivono i popoli che hanno avuto il
riconoscimento dei propri territori, che magari non sono rispettati, ma
dove si svolgono attività economiche che contribuiscono a rafforzare
quelle dello Stato. «Però non se ne parla, perché la forma di sviluppo
ideale oggi è quella dello sfruttamento totale, usando eco-tossici e non
facendo i controlli. I Macuxi, per esempio, quando sono riusciti a
mandare via i bianchi hanno continuato ad allevare il bestiame che
crescevano per loro. Ma non si può pretendere che diventino i fazenderos
che c’erano prima, perché non usano mangimi potenziati, farmaci da
iniettare per gonfiare gli animali e aumentare la produzione, gli agro
tossici nei campi che hanno provocato morie di migliaia di uccelli di
varie specie... hanno una idea diversa di mondo».
Adesso la
situazione degli indios è drammatica, «il governo attuale sta facendo di
tutto per eliminare i diritti conquistati in lotte di anni, siamo
tornati all’epoca del regime militare, è una cosa veramente schifosa»,
dice Carlo, facendo una smorfia di disturbo. «È una situazione
terribile, alcuni gruppi indigeni sono ridotti da anni ormai a vivere
sui margini della strada, perché non li lasciano tornare nei loro
territori, il ministro della Giustizia ha tagliato i fondi e sta
smontando la Funai, il personale è ai minimi termini». I cercatori d’oro
negli ultimi anni sono aumentati, se ne stimano seimila, svolgono
un’attività illegale, il metallo prezioso entra clandestinamente nel
circuito commerciale ed è gestito da finanziarie che stanno a Brasilia e
San Paolo. «Tutto fa pensare che il governo voglia farla finita con gli
indios, desidera che loro diventino bianchi, che non siano quelli che
sono, l’etnocidio sta avvenendo», dice ancora Carlo indignato prima di
accompagnarmi in città.
Dalla Missione si raggiunge facilmente il
centro, che adesso ha superato i 300 mila abitanti, dalla parte del Rio
Branco dove c’è il monumento dedicato ai pionieri e di fronte un grande
balcone con una magnifica vista sul corso d’acqua. Per arrivarci,
attraversiamo in auto il quartiere Beiral, che significa «margine del
fiume». Non potevano mettere nome migliore a un sobborgo malfamato, dove
ci sono un forte spaccio di droga e prostituzione, molto degrado,
baracche con rivendite di birra e un piccolo mercato del pesce, tossici
con i capelli rasta che si trascinano con gli abiti strappati e gli
sguardi stravolti. Due giorni fa uno spacciatore qui è morto
accoltellato dopo una lite con una ragazza, ferito al collo e
all’addome.
Arrivati nel centro storico, la scritta reboante e
ridicola sotto il monumento recita proprio così: «Omaggio della città ai
pionieri che con coraggio e speranza hanno iniziato a realizzare un
sogno chiamato Roraima». Un sogno che per gli indios è diventato presto
un incubo. Davi Kopenawa, parlando dei garimpeiros , i cercatori d’oro,
ha detto una cosa semplice ma di grande efficacia: «Sono come termiti,
continuano a tornare e non ci lasciano in pace». Molti hanno sposato
donne indigene, ma questo non ha impedito loro di diventare razzisti.
Gli allevatori all’inizio occupavano le terre introducendo il bestiame, e
quando le mandrie crescevano di numero, la legge li autorizzava a
occupare altri appezzamenti.
Il monumento ai garimpeiros si trova
nel cuore di Boa Vista, di fronte ai palazzi dei poteri costituiti che
gli fanno da contorno come l’Assemblea legislativa, il tribunale di
Giustizia, e da qui parte la lunga via Capitao Ene Garcez, che arriva
fino all’aeroporto. È uno dei pochi monumenti brasiliani dedicati a un
lavoratore invece che a un militare, a un politico o a un esploratore.
La statua mastodontica e geometrica di rara bruttezza, simile a quelle
propagandistiche dei regimi dittatoriali, raffigura un cercatore d’oro
stilizzato, chino ad agitare la batea, la scodella a forma di cappello
cinese usata per setacciare l’oro. La casa di Davi Kopenawa è in centro,
ma dall’altra parte della città, in una via assolata e semideserta, con
l’entrata protetta da una grata bianca. Quando il giorno seguente
arrivo lì con Carlo Zacquini, ci accoglie sua figlia, capelli neri e
lunghi e un volto inconfondibile da india. Nell’ingresso disadorno
alcune borse e un sacco a pelo, forse usati nel corso del suo ultimo
viaggio, uno dei tanti che fa in giro per il mondo; più avanti un
soggiorno spoglio, un solo mobile bianco con sopra dei libri,
oltrepassato il quale c’è una cucina molto semplice, su un lato un
tavolo lungo bianco in plastica, e alla sua destra il passaggio che
porta in un giardinetto. Quando Davi arriva, abbraccia Carlo appoggiando
la parte destra del torace alla sua, stringendolo e baciandolo. Anche
lui ha i capelli nerissimi e corti, è basso, un volto largo e carnoso,
gli occhi scuri infossati, indossa un paio di pantaloncini corti di raso
e una maglia bianca con un disegno al centro.
Per fare
l’intervista ci spostiamo in auto nella sede dell’associazione Hutukara,
poco distante, nell’ufficio di Davi. Sta alla fine di una strada, in
una palazzina con l’intonaco verde acqua. Gli uffici si trovano nel
seminterrato, e dal lato opposto, dove si vede il fiume, c’è la
postazione con la radiotrasmittente con la quale lui e i suoi
collaboratori comunicano con i villaggi. È piccolo e buio, con una
scrivania in formica e un quadro indigeno appeso alla parete. Fa molto
caldo. Sistemo il registratore digitale sul piccolo treppiede e con
l’aiuto di Carlo comincio a fargli delle domande. Lui estrae da un
cassetto dei fogli bianchi e scrive con una biro mentre parla,
appuntandosi gli argomenti.
Davi Kopenawa ha quasi sessant’anni,
come molti Yanomami non conosce la sua età precisa, ed è sicuramente il
più carismatico e conosciuto capo dei popoli indigeni, una sorta di
Dalai Lama amazzonico. Nato in un villaggio che si trova alle sorgenti
del Rio Tootobi, imparò il portoghese dai missionari protestanti
evangelici e fu soprannominato così per coraggio e puntigliosità, perché
kopenawa è il nome di una vespa della foresta piuttosto coriacea e
combattente. Inizio dicendo che so da quelli di Survival Italia che i
garimpeiros continuano illegalmente a occupare le loro terre
trasmettendo malattie mortali, inquinando fiumi e foreste con il
mercurio. Inoltre gli allevatori di bestiame stanno invadendo e
deforestando. Davi scrive alcune parole su un foglio, poi comincia con
pazienza a dire che la situazione delle terre Yanomami ormai è storica e
si ripete ciclicamente. «È tanto tempo che combattiamo i cercatori
d’oro, parliamo con le autorità, con la polizia federale, con la Funai,
ma nessuno fa niente per fermarli» dice. Negli ultimi due anni è
aumentato il numero degli zatteroni, vengono da Belem, da Manaus, da
tutto il Brasile, continua a riferire inquieto. Mi spiega che hanno
sorvolato con un aereo e ne hanno contati 80. «È pieno di zattere, anche
nei ruscelli, negli affluenti c’è distruzione, e hanno l’appoggio di
politici e ricchi impresari di Boa Vista». È preoccupato anche per i
Moxihatetema, che definisce «esseri umani che non vogliono avere
contatto con gli altri», e vivono in questo loro piccolo paradiso senza
tempo, ignari che fuori ci sono altri paesi e città, altri uomini e
donne; «i garimpeiros possono arrivare da loro in qualsiasi momento»,
racconta angosciato, «e allora i bambini muoiono, gli adulti muoiono, e
non si viene neanche a sapere. I presidenti passati facevano qualcosa
per i nostri popoli, invece a Temer non piacciono gli indios». Infatti
il campo base degli attivisti della Funai, proprio nella zona dei
Moxihatetema, è stato chiuso per assenza di fondi. Questo significa
minori controlli, e possibilità che i cercatori illegali agiscano
indisturbati. Un’altra minaccia è che il Congresso brasiliano sta per
varare una legge per consentire l’attività mineraria anche nei loro
territori, suggerisco. «Il popolo Yanomami non vuole che il Congresso
nazionale approvi la legge o che il presidente la firmi. Non abbiamo
intenzione di accettare questa legge. La nostra terra deve essere
rispettata. La terra è il nostro patrimonio, ci protegge. L’attività
mineraria invece distruggerà la natura. Rovinerà i ruscelli e i fiumi,
farà morire i pesci e l’ambiente, porterà nella nostra terra malattie
mai esistite e alla fine ucciderà anche noi», risponde. Secondo lui il
governo sta facendo di tutto per modificare le leggi, vuole sfruttare al
massimo le terre indigene, «non solo il governo del Brasile, ma anche
il Giappone, la Germania, gli Stati Uniti, i ricchi del mondo», spiega.
«Io sono un piccolo uomo — dice adesso — ma insieme agli altri Yanomami e
ai nostri amici non indigeni stiamo lottando e continueremo a lottare
per fermare la distruzione». Gli stessi concetti che espresse nel 1992
all’assemblea generale delle Nazioni Unite: «La nostra parola d’ordine è
proteggere la natura, il vento, le montagne, la foresta, gli animali,
ed è questo che vi vogliamo insegnare. I capi del mondo ricco e
industrializzato pensano di essere i padroni del mondo. Ma la vera
conoscenza è degli Shaori. Sono loro il primo vero mondo. E se la loro
conoscenza va persa, allora anche il popolo bianco morirà. Sarà la fine
del mondo. È questo che vogliamo evitare».
Dobbiamo lasciarci,
Davi sta per andare al palazzo di giustizia insieme a suo figlio Dario,
lo aspettano per un colloquio — tre anni fa ha ricevuto l’ennesima
minaccia di morte. Quando accadde dichiarò: «Sono molto preoccupato. I
latifondisti e i garimpeiros hanno molto denaro per far trucidare gli
indios. Non voglio che si ripeta quello che è successo al mio amico
Chico Mendes, ucciso perché difendeva la foresta».
Ma se vuoi
davvero renderti conto della fragile condizione esistenziale di queste
persone, devi cercare di entrare nella zona della discarica, un luogo
dove gli indigeni Warao e Macuxi che bivaccano ai margini lottano contro
enormi avvoltoi che popolano l’area volteggiando incombenti e occupando
l’intera superficie, per procurarsi un po’ di cibo e qualche indumento
di scarto, o andare alla Casa dell’Indio «Hekura Yano», alla periferia
della città. È un villaggio ospedale con una struttura ambulatoriale al
centro, e intorno case di legno aperte dove riposano gli ammalati sulle
amache. Qui incontro l’infermiere Reginaldo, un omone con i capelli neri
rasati e il pizzetto che indossa un camice verde, gli occhiali da vista
tenuti intorno al collo da una cordicella, col naso schiacciato e
l’aria da boxeur. Mi spiega che i pazienti vengono dai villaggi Yanomami
di Amazonas e Roraima, ma anche dal distretto est Macuxi, «gli Yanomami
sono maggiormente affetti da polmonite, diarrea, denutrizione». Lui è
qui da quindici anni, e ha visto un cambiamento molto forte: «Il diabete
e l’ipertensione prima non l’avevano, adesso possono procurarsi
alimenti che una volta non mangiavano, come zucchero e sale, e ci sono
anche i primi casi di cancro. Con la “Borsa famiglia” (un programma di
assistenza alle famiglie povere ideato da Lula) hanno a disposizione più
danaro, così acquistano delle barche e hanno accesso alle città, alcuni
fanno degli accordi con i garimpeiros per rimanere nei loro territori,
in cambio di alimenti, soldi, combustibile e alcol», spiega.
Seguo
Reginaldo all’esterno, i reparti sono case di legno aperte con dentro
un intreccio di amache su più piani, dove vanno e vengono uomini, donne e
bambini. Nelle strutture circolari con il tetto impagliato vivono
insieme diverse famiglie, bambini con il viso segnato giocano nel
giardino. Deborah, una giovane madre Yanomami nera di capelli e con un
viso espressivo, la gonnellina rosa a fiori e una collana di pietre
rosse al collo, mi spiega che è venuta ad accompagnare suo figlio che
soffre di polmonite. Altre non vogliono parlare, ritrose si nascondono
negli spazi rabbuiati dell’abitazione comune. L’inserviente, un ragazzo
alto con la mascherina in viso, sta consegnando i pasti girando per il
parco col vassoio degli alimenti. Parlo con un’altra donna che ha in
braccio un bambino piccolissimo, coperto da un asciugamani celeste —
dice arresa che suo figlio sta male ma non sa perché. Spostandomi tra i
passaggi affollati, nei ballatoi all’aperto dove stanno seduti giovani e
vecchi, incontro la dottoressa Claristella Da Rosa, magra e bionda, un
paio di occhi castani limpidi e intensi. «La malnutrizione è molto grave
negli Yanomami — afferma inquieta — è il risultato delle esplorazioni
minerarie e della deforestazione che distruggono l’ambiente. Questi
popoli vivevano di caccia e pesca, ma la presenza di allevatori,
cercatori d’oro e militari ha cambiando fortemente la loro
alimentazione». Ha riscontrato una carenza vitaminica, soprattutto della
tiamina, che provoca spossatezza e il beri-beri, una malattia del
sistema nervoso; anche l’uso dell’alcol e l’alimentazione monotona hanno
provocato denutrizione, soprattutto nei bambini.
Il lunedì della
settimana successiva andiamo con Davi Kopenawa e Carlo Zacquini
all’ufficio della Funai, in mano la mia domanda per entrare in
territorio Yanomami, i documenti personali, le vaccinazioni, e
l’autorizzazione dell’associazione Hutukara. Secondo loro non sarà
facile ottenere il permesso. All’ingresso incontriamo una famiglia che
arriva da Ajarani, sono tutti denutriti, soprattutto i bambini dalle
pance rigonfie in braccio a giovani madri dallo sguardo spento e gli
abiti sdruciti e puzzolenti, stremati da un viaggio di 300 chilometri
che hanno dovuto fare a piedi e con mezzi di fortuna per arrivare fino a
qui dalla foresta, alcuni giorni di cammino lungo i sentieri. I bambini
sembrano le uniche cose vive sopra i corpi sfiniti delle madri. Sono
arrivati per chiedere un sussidio, la Borsa famiglia, il più vecchio di
loro gira per uffici con una cartella di cellophane in mano e dentro dei
fogli, dice che sono accampati alla stazione delle corriere, al centro
di Boa Vista, bivaccano in un prato, le amache legate a un albero.
Quando
Riley, il responsabile del Funai, ci riceve in una stanza refrigerata e
accogliente sul retro, Davi Kopenawa e Carlo Zacquini spiegano il
motivo della mia richiesta. Dentro di me penso intimamente che dirà di
no, e misuro con lo sguardo ogni sua impercettibile espressione
facciale. Quando comincia a parlare dice che l’autorizzazione può darla
solo il presidente ad interim , che da pochi giorni è addirittura un
generale dell’esercito, e già mi si stringe il cuore. Ma
inaspettatamente e contro qualsiasi previsione, sostiene che comunque le
popolazioni hanno diritto di invitare nei propri territori le persone
che desiderano, questo dice la Costituzione, quindi lui non ha nessuna
contrarietà, affermazione che stupisce sia Carlo che Davi, i quali mi
sorridono in segno di vittoria.
Il giorno dopo Carlo prende
accordi con il proprietario del Piper e padre André avverte con la
radiotrasmittente Corrado alla missione, richiamerà il giorno seguente
per la conferma. Il pomeriggio andiamo in città ad acquistare ami da
pesca e filo da regalare agli indigeni, del buon tabacco da masticare, e
l’indomani siamo già pronti. Il pilota richiama per confermarci che
passerà una persona a prelevarci tra un’ora, ma dieci minuti prima
arriva una seconda telefonata, c’è stato un contrattempo, dobbiamo
rimandare.
Quando il momento della partenza per Catrimani
finalmente è arrivato, non si vedeva una giornata di sole così da
giorni. Il nostro Piper è un piccolo aereo bianco a elica anteriore a
sei posti, leggero e abbastanza veloce. Il pilota un ragazzo grassoccio
dai capelli scuri, la barba incolta, indossa un paio di Ray-Ban da sole,
una maglietta blu già madida di sudore e al polso un bracciale d’oro
massiccio. Quando il piccolo velivolo in poco tempo decolla, all’inizio
vola a bassa quota sopra terreni acquitrinosi, piccole distese come
praterie, laghi naturali, sobbalzando. Sembra che sia trasportato dal
vento come una piuma, avanza per piccole scosse, sembra soffiato.
Superato il rio Ajarani, inizia la Foresta, che in questa regione vicino
a Boa Vista non è fitta, ci sono macchie verde chiaro per via delle
terre disboscate, case e allevamenti di bestiame. Siamo sospesi
nell’aria, e il Piper sobbalza di continuo mentre vola — in lontananza
scorgo le vette delle montagne di Serra di Apiau, oltre le quali vivono i
popoli isolati, piccole comunità di Yanomami che non hanno mai avuto
contatti con l’uomo bianco. Sotto solo foresta, anche le piccole strade
sterrate si sono perse dentro la macchia, non si vedono più. Adesso la
selva è fittissima di alberi e molto più scura, chiusa dentro se stessa,
impenetrabile. Superata una catena montuosa con un picco arrotondato
grigio di roccia, nel parco Serra da Mocidade, una vetta che Carlo ha
scalato in solitaria, confessa divertito, si cominciano a vedere i
villaggi e il fiume — sulle sponde le capanne hanno tetti di paglia.
Quando
scendiamo dal Piper, Corrado e un gruppo di Yanomami vengono a darci il
benvenuto. Il missionario è un ragazzo magro e biondo, gli occhiali
dalla montatura rettangolare, e una barba incolta, l’aspetto gracile. Ci
avviciniamo alle case, arrivano anche donne che indossano una
gonnellina rossa e tengono in braccio i bambini; su una panchina è
seduto il vecchio Pedro, i capelli radi, pochi peli di barba sul mento,
abbraccia Carlo. È diventato cieco. Completamente nudo, come tutti gli
anziani del villaggio, la cintura di cotone che lega il prepuzio del
pene, sono tre giorni che sapendo del nostro arrivo chiede tabacco da
masticare. Dietro alle casette di legno della missione ci sono i ragazzi
dei servizio sanitario, l’ambulatorio medico e quello del microscopista
che studia i casi di malaria, la postazione all’aperto della
radiotrasmittente con la quale comunicano con la città.
Carlo mi
presenta agli Yanomami e spiega il motivo della visita, dice che sono
uno scrittore preoccupato per le loro condizioni, le posizioni del
governo, la presenza dei garimpeiros nelle loro terre. Gli indios sono
tutti silenziosi e in ascolto, nessuno di loro fiata o interviene.
Subito dopo ci incamminiamo verso il villaggio di Rokoari in un sentiero
che si perde dentro la foresta. Corrado, una maglia verde con la
scritta San Paolo, ci precede insieme a Huti, l’insegnante, dietro a me e
Carlo uno sciame di piccoli bambini. Guadiamo lentamente un corso
d’acqua stagnante che arriva fino alle ginocchia, poi riprendiamo il
cammino nel sottobosco, tra grandi piante di cocco, banani e felci. Il
vecchio Barbadì ci è venuto incontro per salutarci, nudo, i capelli
rossicci, alcuni bracciali e un amuleto stretto nella mano destra.
Adesso costeggiamo il fiume Catrimani, districandoci tra i rami e il
sentiero acquitrinoso, fino quando non arriviamo a una sponda con un
varco aperto. Poco più avanti, dopo una salita sterrata, si arriva alla
maloca , la struttura circolare dove abitano diverse famiglie della
stessa comunità. Gli Yanomami vivono in gruppi comunitari e indipendenti
dove non esistono gerarchie e credono fortemente nell’eguaglianza tra
gli individui, le decisioni vengono prese collettivamente dopo lunghi
dibattiti durante i quali chiunque può esprimere la sua opinione. In
ogni zona della maloca abita un nucleo diverso, e vi appende le amache,
conserva il cibo e accende il fuoco. Appena arriviamo, tutti gridano in
segno di meraviglia. Le donne sono nude e indossano il gonnellino rosso,
i bambini corrono liberamente negli spazi interni, mentre gli uomini
più giovani sono vestiti con maglie di squadre sportive e pantaloncini
colorati, alcuni stanno dondolando placidi dentro le amache, uno di loro
accarezza un grande roditore nero che si sposta sul suo ventre — «è
buono», dice, «non avere paura». Sui soffitti stanno appesi grappoli di
banane ancora verdi, ciondoli e amuleti, e in terra utensili, pentole
colme di liquidi, le donne stanno grattugiando la manioca sedute a gambe
incrociate.
Mariazinha, la moglie di Barbadì, è una piccola donna
pittata di rosso in viso, con una serie di bastoncini conficcati sulle
labbra e le narici, molto sorridente. Il discorso dentro la Maloca,
ritmico e musicale, lo fa con fierezza guardandomi negli occhi: «Tu che
sei dell’Italia, e sei venuto fino a qui a visitare la nostra terra, do a
te le mie parole perché tu possa portarle lontano e diffonderle — dice
accorata —. Io abito qui, i miei figli, i miei nipoti e pronipoti sono
molti, per loro difendo la nostra foresta affinché possano viverci. Ci
sono persone, invasori, che invece vengono per distruggerla, ma io non
voglio questo, sono contro, diffondete le mie parole, portate le mie
parole lontane, risalendo il fiume ci sono cercatori di oro che
inquinano l’acqua che beviamo; non voglio che i miei figli, i miei
nipoti si ammalino per causa di questo. Come vedi noi piantiamo qui i
nostri orti e i nostri giardini, coltiviamo frutti, questi sono gli
alimenti per i nostri figli. Vorrei correre lontano con te, diffondi
queste parole ai politici, alle persone, dillo con forza, non voglio che
i bianchi distruggano la nostra foresta, perché noi abbiamo bisogno di
questa terra».
Mariazinha parla con la sua lingua ritmica e
musicale, senza interruzioni, mentre continua a guardarmi fissa negli
occhi: «Noi vogliamo vivere da soli come facevano i nostri antenati,
senza i garimpeiros noi abbiamo frutta, cacciagione, pesce in
abbondanza, ma quando arrivano loro queste cose spariscono. Voi siete
nostri amici, dovete darvi da fare per impedire questo».
Anche
Roberto, un giovane del villaggio, si avvicina e vuole parlare. Dice che
risalendo il fiume e i suoi affluenti ci sono molte zattere dei
cercatori d’oro, e molte impronte, «l’acqua è inquinata, per questo ci
ammaliamo». Secondo lui la colpa è del fumo che si è abbattuto sulle
loro terre, il fumo dei motori a scoppio, quello degli incendi, i vapori
di mercurio, il fumo del disboscamento e le esalazioni dei residui
plastici, e secondo quella che è una loro visione, il fumo porta la
malaria, le epidemie, li fa morire.
Più tardi, dopo aver visitato
la piantagione di banane e manioca di Mariazinha, riprendiamo il cammino
dentro la foresta. Sotto il folto degli alberi si avverte sempre una
sensazione di pericolo, basta un fruscio, il verso di un animale,
un’ombra a spaventarti. Perché qui vivono il giaguaro, la pantera, ma se
penso alla tarantola Golia e all’anaconda verde rabbrividisco. Corrado
mi spiega che la vita quotidiana di Mariazinha è quella della foresta,
ma oggi i più giovani si relazionano frequentemente con la città, ci
sono persone che sono funzionari del governo, insegnanti, agenti
indigeni di salute, microscopisti che diagnosticano la malaria, piloti
di canoa che ricevono un salario in un conto bancario al quale accedono
con il bancomat. «Da una parte c’è la vita della comunità con i suoi
ritmi, con un’economia di reciprocità, di abbondanza della festa, però
oggi il loro mondo è diventato più complesso, se vai in città, fai
acquisti, il coltellaccio, la canoa di alluminio, il motore per risalire
il fiume, ma della città assorbi tutto, compri il cellulare, che magari
costa il salario di un mese». Nella città s’imparano soprattutto le
cose negative, i vizi dei non indigeni, comprano il dvd e vedono i film
violenti, «L’Uomo Ragno per loro esiste veramente, i non indigeni sono
forti, dicono, non muoiono mai, sparano col fucile ma poi si rialzano,
questi indios tengono un piede in un mondo e un piede in un altro».
Quello naturale e quello artificiale convivono ancora dentro di loro,
penso mentre camminiamo e sento il fiato gravido d’umidità della foresta
che assedia la pelle, il sole cocente che penetra tra le fronde degli
alberi d’alto fusto, mentre i miei stivali affondano su un sentiero di
fango e acquitrini.
Vicino alla missione c’è un altro minuscolo
villaggio. Vivono in piccole capanne con i tetti alti ricoperti di
foglie, un modo di abitare già più individualistico, familiare. Mi hanno
detto che il vecchio Mareshao, leader della comunità Mauxiu, ha saputo
che sono qui e vuole parlarmi. È un ometto dalla testa grande e il corpo
magro nudo, viene verso di me, sbucando come un folletto da una siepe.
Anche lui dice che non vuole i cercatori d’oro, «portano inquinamento,
malattie, aumento delle zanzare e della malaria», ha saputo che in altre
regioni hanno invaso terre e fiumi, questa cosa lo spaventa. Invece il
giovane Huti, l’insegnante del villaggio, capelli neri e faccia pulita,
un paio di pantaloncini neri da football e la maglietta verde, vuole
parlarmi del futuro del suo popolo. Dice che i giovani hanno esigenze
diverse, anche se mantengono un rapporto con la loro cultura e le
tradizioni attraverso la caccia, le feste, la vita della comunità.
«Adesso abbiamo la scuola, c’è interesse a imparare la lingua
portoghese, perché è necessaria come strumento di lotta, di
rivendicazione, di difesa. Il tempo passa, ci sono i nostri vecchi, c’è
la nostra storia antica, ma noi stessi diventeremo leader, la lingua è
uno strumento per difendere la nostra buona vita», dice con fierezza —
«la nostra buona vita» ripete nella sua lingua misteriosa.
Corrado
è qui da dieci anni, e in questo tempo ha visto molti cambiamenti,
«evidenti, rapidi» dice, secondo lui c’è stata un’accelerazione, «il
relazionarsi con la società circostante influisce sulla vita stessa
degli Yanomami qui nella foresta, l’acquisizione di oggetti, di
apparecchiature tecnologiche. Stiamo vivendo una situazione di minaccia,
dovuta a scelte di governi o imprese, come il progetto di legge per la
liberalizzazione dello sfruttamento minerario in terra indigena, che
comporterebbe anche la costruzione di strade, la creazione di una
centrale idroelettrica sul rio Mucaraji, cose che avrebbero un impatto
drammatico sul popolo Yanomami». Secondo il giovane missionario la
possibilità di sopravvivere dipenderà anche dalle scelte che loro
faranno, la vittoria degli Yanomami dipenderà dalla loro forza di
resistere, anche alle tentazioni del mondo globale.
Lui dice di
essere stato «yanomamizzato», ha imparato il valore della generosità,
quello molto forte della comunità. «Siamo andati per cinque giorni in
foresta per partecipare a una festa, che è durata quattordici giorni. Ho
pensato, cosa c’è di diverso qui dalla missione? C’è la corrente
elettrica? No. C’è l’acqua potabile? No. L’acqua è quella del fiume,
quando finisce la luce del sole per vedere c’è la luna nel cielo. La
cosa diversa è la comunità, sono le persone, per loro è importante
creare relazioni, stare insieme, scambiare e condividere».
Mentre
parliamo ci raggiunge il pilota, dice che è ora di andare, ci sono
nuvole all’orizzonte, potremmo anche incontrare la pioggia. Ci
avviciniamo al Piper, parcheggiato sul prato sotto la missione, alcuni
Yanomami ci guardano andare via da lontano, composti e silenziosi.
Quando il piccolo aereo bianco dopo una lunga corsa sulla pista alza
l’ombra da terra è come se, con un senso fortissimo di perdita, me ne
andassi da un mondo e volassi verso un altro. Il velivolo sorvola i
villaggi, vedo le capanne dentro gli squarci verdissimi di foresta, lo
slalom di corsi d’acqua e macchia, il misterioso e compatto tappeto di
alberi di una natura selvaggia che nasconde i villaggi e il suo magico
mondo animale. È in quel momento che mi tornano in mente le parole
struggenti di Davi Kopenawa, mentre il genocidio del suo popolo continua
nell’indifferenza del mondo cosiddetto civilizzato: «Se la mia gente
sarà sterminata, dovrete distruggere anche tutte le nostre fotografie,
perché le future generazioni, guardando quelle immagini, si
vergognerebbero di un simile crimine contro l’umanità».
Angelo Ferracuti