martedì 11 luglio 2017

il manifesto 11.7.17
Erdogan risponde alla marcia: 47 accademici arrestati
Turchia. Domenica un milione e 600mila persone alla giornata conclusiva della camminata di 480 km per la giustizia. Il Chp, promotore dell’iniziativa, presenta i 10 punti del programma di opposizione
di Dimitri Bettoni

ISTANBUL  Si è chiusa domenica la marcia della giustizia, con una grande folla ad attenderla al termine degli ultimi chilometri di un percorso che l’hanno condotta da Ankara fino al distretto di Maltepe ad Istanbul, reclamando giustizia per il paese.
Le opposizioni festeggiano un’iniziativa considerata di grande successo attraverso un manifesto di dieci punti programmatici elencati da Kilicdaroglu nel suo discorso finale: condanna del tentato golpe e richiesta di un’indagine sui reali mandanti politici, rimozione immediata dello stato di emergenza e ritorno allo stato di diritto, fine delle violazioni dei diritti umani, abolizione di tutti gli impedimenti agli appelli contro i provvedimenti dello stato di emergenza, reintegro degli accademici licenziati e rilascio di tutti i parlamentari arrestati, abolizione delle modifiche costituzionali introdotte con il referendum di aprile, rimozione dei meccanismi di controllo dell’esecutivo sul parlamento e stop all’erosione del principio costituzionale del secolarismo, lotta alla discriminazione della donna, fine della politica estera aggressiva intrapresa dal governo.
È battaglia di numeri sui partecipanti: l’organizzazione reclama 1.600.000 presenze in strada, mentre l’ufficio del governatore di Istanbul stima in 170mila i cittadini che si sono riuniti nel parco sulla costa del Mar di Marmara.
La marcia ha ricevuto il sostegno trasversale di tutte le forze d’opposizione ad Erdogan, che sperano di aver dato la prima picconata al clima di intimidazione degli ultimi due anni e di incoraggiare i cittadini a tornare ad una vita politica partecipata.
Ma un’altra vittoria è nel capitale politico che il partito repubblicano Chp ha guadagnato agli occhi dell’opinione pubblica, magari da non dilapidare nei clamorosi autogol degli anni scorsi come l’appoggio alla rimozione dell’immunità dei deputati.
Il partito si appresterebbe ora a lanciare quella che hanno annunciato come la più grande petizione per chiedere la liberazione di tutti i giornalisti e degli accademici detenuti in Turchia.
Nel frattempo il governo sdogana la marcia e continua a spingere sull’acceleratore della repressione. Il portavoce Akp Mahir Unal ha attaccato Kilicdaroglu accusandolo di voler «scatenare l’anarchia» nelle strade.
Erdogan, sulla via del ritorno dal G20 in Germania, ha liquidato la marcia come l’iniziativa di un partito che nulla ha che fare con la giustizia, ricordando sia l’espulsione nel 1999 dal parlamento di Merve Kavakçı nel 1999 per via dell’hijab da lei indossato, sia la sua stessa incarcerazione al tempo del suo mandato come sindaco di Istanbul.
La vera risposta del governo alla marcia giunge però nei fatti. Altri 47 tra accademici e personale delle università Bogazici e Medeniyet sono stati arrestati.
Ancora una volta l’accusa è di collusione con Fetullah Gülen e la sua organizzazione. Contestato l’uso dell’applicazione per smartphone Bylock, che le autorità considerano una delle prove di affiliazione e sarebbe stata utilizzata dagli aderenti al gruppo per comunicare tra loro.
Tra gli arrestati Koray Caliskan, docente di scienze politiche della Bogazici. Il giornale Sabah, nota bocca del governo, ha pubblicato presunti tweet dove Caliskan avrebbe difeso Gülen, ma sul suo profilo abbondano i cinguettii in sostegno alla marcia per la giustizia, alla lotta degli accademici Nuriye Gulmen e Semih Ozakca incarcerati e in sciopero della fame, al movimento Lgbt in Turchia. Temi lontani dal conservatorismo religioso del gulenismo.
Che non ci si debba aspettare alcun cambio di rotta dal governo nei prossimi tempi appare chiaro anche dall’incontro tra Erdogan e il segretario di stato americano Rex Tillerson, avvenuto a margine del 22° Congresso mondiale sul petrolio, in corso ad Istanbul.
I due avrebbero discusso della situazione nel nord della Siria, con la Turchia che spinge per ottenere l’avallo americano sulla sua presenza nella regione e prova al contempo a rompere l’alleanza americana con i curdi della Rojava.
Tillerson ha auspicato che le relazioni tra i due paesi, «straordinariamente importanti per ragioni di sicurezza, economiche e geostrategiche, possano essere riparate dopo un periodo di difficoltà».