domenica 2 luglio 2017

Corriere 2.7.16
Tutti gli addii nella base pd
Da Lombardia a Puglia e Calabria i casi di amministratori e iscritti che hanno lasciato dopo il voto
di Riccardo Bruno

I ballottaggi sono stati l’ultimo argine. Il mezzo flop del Pd alle urne ha solo rafforzato malumori e rancori che spesso covavano da mesi. Nell’ultima settimana, dalla Liguria alla Puglia, dalla Calabria alla Lombardia, è un susseguirsi di annunci di defezioni e tessere stracciate. Sono soprattutto piccoli rivoli, fughe di amministratori cittadini, dirigenti di circolo, semplici iscritti. Contano le vicende locali, i rapporti personali, ma ovunque per giustificare la rottura si usano praticamente le stesse parole: «Il Pd non è più la nostra casa» e si mettono in fila le riforme, quelle vantate dai renziani, considerate cantonate intollerabili dai transfughi. Insomma, ragioni politiche di fondo alla base degli strappi, non beghe di circoscrizione.
Chi lascia il Partito democratico spesso aderisce ad Articolo Uno-Mdp, il movimento di Speranza e Bersani. Ma non è sempre così. A Lerici, a due passi da La Spezia dove il centrosinistra ha perso dopo quasi mezzo secolo la poltrona di sindaco, in 42 hanno lasciato il circolo locale del partito, guidati dalla segreteria Monica Rossi. Considerati vicini ad Andrea Orlando, non hanno ascoltato neppure il loro leader che invece punta alla battaglia dall’interno. «Non possiamo stare dentro un partito che gioisce per chi se ne va e non si interroga sul perché si fa» hanno scritto polemicamente nella lettera d’addio.
Più numerosa la pattuglia dei fuoriusciti a Lecce. Ben 103, tra cui l’ex segretario provinciale Salvatore Piconese e una lunga lista di sindaci ed ex sindaci della zona. Un’anomalia, perché il capoluogo salentino dopo 22 anni era stato riconquistato. Una vittoria adesso brandita come arma contro Renzi. «È stato un successo frutto di un lavoro politico sul territorio capace di invertire un trend nazionale. Il Pd ormai non ha più legami con le culture che diedero forma al partito delle origini».
A Bagno a Ripoli, cintura fiorentina (alle ultime primarie un plebiscito per il segretario, superato l’82%), venerdì in 9, tra cui due consiglieri e il presidente dell’assemblea comunale, hanno restituito la tessera perché «il partito è ormai al servizio del leader, non il leader al servizio del partito». Una scelta che si capisce quanto sia stata sofferta dalla lunga nota in cui si riflette non di dilemmi locali ma di grandi temi, il referendum costituzionale o il «conflitto con la Cgil», la riforma della scuola e persino la perdita del Campidoglio. «È doloroso lasciare quella che per anni è stata la tua casa, anche se da tempo eri ospite non gradito. Ma è più facile lasciarla se non c’è più niente che ti appartiene».
Non solo amministratori di piccoli centri, si muovono anche dirigenti di peso. Martedì al Consiglio regionale della Lombardia è stata annunciata l’uscita dal gruppo Pd di Massimo D’Avolio e Onorio Rosati, che è diventato coordinatore per Milano di Mdp. E mentre in Campania sarebbe in atto un corteggiamento serrato dell’«altra sinistra» all’eterno Antonio Bassolino, in Abruzzo si aspettano le mosse future del potente assessore regionale Donato Di Matteo.
Insofferenza non solo di vecchi militanti, ma anche delle nuove generazioni. A Reggio Calabria l’ex segretario provinciale e 300 iscritti dei Giovani democratici hanno salutato il Pd e aderito a Mdp. «È stata trasformata una comunità politica in un popolo di tifosi — ha spiegato Alex Tripodi —. Abbiamo cercato fino all’ultimo di rimanere nel partito per il quale abbiamo speso una parte della nostra vita. Non accettiamo la mutazione genetica per la quale il Pd si è inesorabilmente e drammaticamente trasformato in un partito a vocazione personale, in cui a predominare è l’idea del capo».
Giovani, come l’ex segretario di Modena, Gregory Filippo Calcagno. Anche lui si è dimesso un paio di giorni fa. «Il dolore che provo nel lasciare è enorme. Mi sento tradito e umiliato da chi ho amato profondamente».