Corriere 2.7.16
Tutti gli addii nella base pd
Da Lombardia a Puglia e Calabria i casi di amministratori e iscritti che hanno lasciato dopo il voto
di Riccardo Bruno
I
ballottaggi sono stati l’ultimo argine. Il mezzo flop del Pd alle urne
ha solo rafforzato malumori e rancori che spesso covavano da mesi.
Nell’ultima settimana, dalla Liguria alla Puglia, dalla Calabria alla
Lombardia, è un susseguirsi di annunci di defezioni e tessere
stracciate. Sono soprattutto piccoli rivoli, fughe di amministratori
cittadini, dirigenti di circolo, semplici iscritti. Contano le vicende
locali, i rapporti personali, ma ovunque per giustificare la rottura si
usano praticamente le stesse parole: «Il Pd non è più la nostra casa» e
si mettono in fila le riforme, quelle vantate dai renziani, considerate
cantonate intollerabili dai transfughi. Insomma, ragioni politiche di
fondo alla base degli strappi, non beghe di circoscrizione.
Chi
lascia il Partito democratico spesso aderisce ad Articolo Uno-Mdp, il
movimento di Speranza e Bersani. Ma non è sempre così. A Lerici, a due
passi da La Spezia dove il centrosinistra ha perso dopo quasi mezzo
secolo la poltrona di sindaco, in 42 hanno lasciato il circolo locale
del partito, guidati dalla segreteria Monica Rossi. Considerati vicini
ad Andrea Orlando, non hanno ascoltato neppure il loro leader che invece
punta alla battaglia dall’interno. «Non possiamo stare dentro un
partito che gioisce per chi se ne va e non si interroga sul perché si
fa» hanno scritto polemicamente nella lettera d’addio.
Più
numerosa la pattuglia dei fuoriusciti a Lecce. Ben 103, tra cui l’ex
segretario provinciale Salvatore Piconese e una lunga lista di sindaci
ed ex sindaci della zona. Un’anomalia, perché il capoluogo salentino
dopo 22 anni era stato riconquistato. Una vittoria adesso brandita come
arma contro Renzi. «È stato un successo frutto di un lavoro politico sul
territorio capace di invertire un trend nazionale. Il Pd ormai non ha
più legami con le culture che diedero forma al partito delle origini».
A
Bagno a Ripoli, cintura fiorentina (alle ultime primarie un plebiscito
per il segretario, superato l’82%), venerdì in 9, tra cui due
consiglieri e il presidente dell’assemblea comunale, hanno restituito la
tessera perché «il partito è ormai al servizio del leader, non il
leader al servizio del partito». Una scelta che si capisce quanto sia
stata sofferta dalla lunga nota in cui si riflette non di dilemmi locali
ma di grandi temi, il referendum costituzionale o il «conflitto con la
Cgil», la riforma della scuola e persino la perdita del Campidoglio. «È
doloroso lasciare quella che per anni è stata la tua casa, anche se da
tempo eri ospite non gradito. Ma è più facile lasciarla se non c’è più
niente che ti appartiene».
Non solo amministratori di piccoli
centri, si muovono anche dirigenti di peso. Martedì al Consiglio
regionale della Lombardia è stata annunciata l’uscita dal gruppo Pd di
Massimo D’Avolio e Onorio Rosati, che è diventato coordinatore per
Milano di Mdp. E mentre in Campania sarebbe in atto un corteggiamento
serrato dell’«altra sinistra» all’eterno Antonio Bassolino, in Abruzzo
si aspettano le mosse future del potente assessore regionale Donato Di
Matteo.
Insofferenza non solo di vecchi militanti, ma anche delle
nuove generazioni. A Reggio Calabria l’ex segretario provinciale e 300
iscritti dei Giovani democratici hanno salutato il Pd e aderito a Mdp.
«È stata trasformata una comunità politica in un popolo di tifosi — ha
spiegato Alex Tripodi —. Abbiamo cercato fino all’ultimo di rimanere nel
partito per il quale abbiamo speso una parte della nostra vita. Non
accettiamo la mutazione genetica per la quale il Pd si è inesorabilmente
e drammaticamente trasformato in un partito a vocazione personale, in
cui a predominare è l’idea del capo».
Giovani, come l’ex
segretario di Modena, Gregory Filippo Calcagno. Anche lui si è dimesso
un paio di giorni fa. «Il dolore che provo nel lasciare è enorme. Mi
sento tradito e umiliato da chi ho amato profondamente».