SULLA STAMPA DI VENERDI 2 GIUGNO:
il manifesto 2.6.17
Voucher, alla Camera passa «il furto di democrazia»
Passa la manovra con 218 sì, 127 no e 5 astensioni. Ora il testo al Senato. La protesta di Sinistra Italiana, Possibile e Mdp-Articolo 1 contro il nuovo "contratto di prestazione occasionale" che sostituirà il voucher nelle micro-imprese: "Cambia il nome, la sostanza è la stessa". Fratoianni (SI): "Cancellato il referendum abrogativo della Cgil e il diritto al voto degli italiani". Scotto (Mdp): Scotto (Mdp): «È passato uno sfregio istituzionale». Acerbo (Rifondazione): "I Senatori di Mdp votino No alla manovra e non escano dall'aula". Il 17 giugno la manifestazione della Cgil a Roma
di Roberto Ciccarelli
Un «furto di democrazia». Uno «sfregio istituzionale». Così Sinistra Italiana-Possibile e Mdp-Articolo 1 hanno commentato l’approvazione dei nuovi voucher nella «manovrina», un decreto legge zibaldone composto da 67 articoli e una marea di micromisure che la Camera ha approvato ieri con 218 sì, 127 no e 5 astensioni. Il testo ora va al Senato dove il governo Gentiloni ballerà non poco, se la manovrina non sarà votata da Mdp, dai centristi dell’Udc e dagli alfaniani in rivolta contro lo sbarramento della legge elettorale al 5%.
La scaltra manovra con la quale il governo ha abolito i «buoni lavoro» per evitare il referendum della Cgil e ha introdotto un nuovo contratto precario – a «prestazione occasionale» per le microimprese sotto i 5 dipendenti – è stata definita un «furto di democrazia» dai deputati di Sinistra Italiana-Possibile. Ieri in aula hanno sventolato per protesta cartelli con lo slogan «Basta Voucher». «È uno scandalo – ha detto Nicola Fratoianni, segretario di SI – è stato cancellato il diritto a votare in un referendum abrogativo e si introduce ancora più precarietà». Sinistra Italiana ha presentato un ordine del giorno che impegna il governo a chiedere alla Corte di Cassazione un nuovo referendum nel caso in cui il nuovo contratto sia considerato equivalente ai vecchi voucher. «Se così non fosse si determinerebbe un aggiramento della legge sui referendum – sostiene il deputato di SI Giorgio Airaudo – e dei principi costituzionali».
Un ordine del giorno di Mdp ha chiesto lo stralcio dei «nuovi voucher». La richiesta è stata bocciata. «Per noi era l’ultima chiamata. È passato uno sfregio istituzionale – sostiene il deputato Arturo Scotto – Abbiamo provato a eliminare il vulnus consumato sulla pelle dei lavoratori e su chi ha firmato i quesiti della Cgil». Argomenti che rilanciano la posizione del sindacato di Corso Italia per il quale la trovata del governo, del Pd e degli alfaniani di Ap ha violato l’articolo 75 della Costituzione. Le sinistre parteciperanno alla manifestazione del 17 giugno organizzata dal sindacato a Roma.
Dallo schieramento contro il «contratto a prestazione occasionale» passa anche il futuro politico ed elettorale della sinistra extra-Pd. Secondo Roberto Speranza, coordinatore di Mdp, «serve una nuova alleanza con al centro il lavoro e la giustizia sociale». Il voto contrario alla manovra alla Camera è considerato da Mdp un passo verso la costruzione della «casa politica a milioni di elettori di centrosinistra». Il campo che Giuliano Pisapia intende costruire dal primo luglio a Roma. Lo stesso «campo» che per il vice-segretario del Pd Maurizio Martina «non esiste senza il Pd» ha ribadito ieri in un’intervista al Corsera. In questo minestrone di formulette politiche senza identità definite Mdp lascia ancora aperta una porta. «Ci auguriamo che i voucher vengano tolti al Senato perché in quel caso ripenseremo al nostro voto, anche se il vostro comportamento non ci induce a nessuna fiducia» ha detto Gianni Melilla (Mdp) nella sua dichiarazione di voto.
«Nel mentre si discute sul come unire le sinistre – ha avvertito Maurizio Acerbo, segretario di Rifondazione Comunista – i parlamentari di Mdp in Senato ci facciano il piacere di votare contro la truffa dei voucher». Acerbo si riferisce alla possibilità che gli scissionisti dal Pd e da Sel escano dall’aula durante il voto di fiducia invece di votare «No» alla manovra, mettendo a rischio la maggioranza del governo Gentiloni-Renzi che continuano a sostenere. Una maggioranza che diventa ogni giorno più friabile, man mano che si consolida l’asse del «partito della Nazione» tra Renzi e Berlusconi sulla legge elettorale. «Capisco che uscire da una maggioranza di governo per taluni è faticoso, persino quando sono stati messi alla porta – ha aggiunto Acerbo – ma un minimo di serietà dovrebbe consigliare di non rendersi complici dell’approvazione della truffa sui voucher». Ragionamenti che indicano lo stato di tensione tra chi sostiene la prospettiva del «centrosinistra» (con o senza il Pd di Renzi) e chi vuole una «sinistra anti-liberista» con la società e alle liste civiche.
Il Sole 2.6.17
Elezioni e priorità
La grande corsa al voto, ma per fare che cosa?
di Guido Gentili
Voto subito, ma per fare cosa? Un’unica certezza - la corsa alle urne - s’accompagna a una pioggia battente di domande in attesa di risposte. Per ora sappiamo solo che, in un battibaleno, il sistema elettorale maggioritario introdotto nei primi anni Novanta del secolo scorso lascerà il passo a un sistema proporzionale (un “tedesco” all’italiana, sembra di capire) che era stato protagonista dal 1948 al 1992. Un grande salto all’indietro, con tanto di addio al declamato principio che saranno gli elettori a decidere chi governa il giorno dopo le elezioni. Stabilità e governabilità saranno tutte da conquistare, perché è molto probabile che in Parlamento si dovranno trovare accordi di coalizione tra forze politiche che fino al giorno prima, come ha detto Matteo Renzi, «se le sono date di santa ragione» per conquistare i voti.
Ma si voterà presto, perché così hanno deciso partiti e movimenti, a partire dal Pd di Matteo Renzi, da Forza Italia di Silvio Berlusconi, dalla Lega di Matteo Salvini. E dal Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, sempre che la fronda interna non blocchi l’accordo. Quando si voterà? Già a settembre o ai primi di ottobre, al termine di una campagna elettorale balneare, questa sì una novità assoluta. Al tempo dei governi (balneari) della Prima repubblica avevano un certo successo di pubblico le interviste dei politici in vacanza “sotto l’ombrellone”. Nell’estate 2017 vedremo i politici e la politica al lavoro tra gli ombrelloni o sui sentieri di montagna, alla ricerca del consenso dei cittadini e contribuenti. Alla campagna elettorale permanente caratteristica della politica italiana mancava l’apertura di questa finestra temporale. Ora si cambia, nessuna tregua. Per mari e per monti.
Resta la domanda: per fare che cosa? La prima evidenza che verrebbe in mente è la messa in sicurezza dei conti pubblici di un Paese su cui grava un debito pari a circa il 133% del Pil, fattore di indiscutibile vulnerabilità. L’altro ieri, di fronte al Presidente della Bce Mario Draghi, il Governatore di Bankitalia Ignazio Visco ha parlato di «sforzo eccezionale» per superare definitivamente la crisi e della necessità di perseguire un avanzo primario al 4% del Pil per far sì che il debito scenda, in dieci anni, sotto il 100% del Prodotto. Si tratta di un percorso molto impegnativo, che richiama a scelte di politica economica coerenti con l’obiettivo che si intende perseguire. E non minore, ha aggiunto Visco, è l’impegno necessario per ritrovare un sentiero di crescita stabile ed elevata. Questa, come è noto, è tra le più basse in Europa.
Ieri l’Istat ha rivisto al rialzo la crescita del Pil (+0,4%) del primo trimestre 2017 e si prevede ora che l’obiettivo stimato dal Governo per fine anno (+1,1%) possa essere centrato e, forse, anche superato. Buona notizia, anche se «l’impegno continua» ha specificato il premier Paolo Gentiloni. Ma non solo: il ministro dell’Economia ha scritto alla Commissione europea che il Governo italiano punta per il 2018 a una correzione dei conti inferiore a quella prevista e prospetta a Bruxelles uno «sconto» di circa 9 miliardi su cui il governo europeo dovrà esprimersi. Improvvisamente, il barometro sembra indicare una stagione a venire più facile e, in controluce, più agevole per la corsa alle elezioni.
Peccato manchi al momento – oltre un percorso condiviso in vista della nuova legge di bilancio - qualsivoglia indicazione, da parte dei partiti e movimenti che puntano al voto nel più breve tempo possibile, su cosa fare per ridurre il debito e rilanciare la crescita. Si vogliono ridurre le tasse? Su quale terreno (Irpef, cuneo fiscale per i giovani, cuneo fiscale in generale) e con quali risorse? Si vogliono tagliare le spese? Dove, e in che misura? Si vogliono rilanciare il lavoro e gli investimenti pubblici e privati? Come? Privatizzazioni? Liberalizzazioni? E resterà in agenda il piano sui superammortamenti, per stare a un provvedimento di cui si parla troppo poco a dispetto dei buoni risultati che ha già dato? Quali posizioni si vogliono assumere al tavolo dell’Europa, atteso che (per fortuna, rispondendo se non altro a un esercizio minimo di realismo) nessuno si pone più come obiettivo politico la fuoriuscita dall’euro?
Di questi temi, accanto alla definitiva messa in sicurezza dei conti pubblici, occorre discutere subito. Perché fare della data per le elezioni una variabile indipendente addirittura dalla nuova legge elettorale, che nel migliore dei casi arriverà a luglio, potrebbe avere conseguenze gravi. Tanto più in un contesto dove l’incertezza e un calo di fiducia si possono scaricare sui mercati finanziari – dove si compra, si vende e si scommette - in una spirale che non vorremmo neanche immaginare. Voto subito, ma per fare cosa?
Repubblica 2.6.17
Uno scatto finale
Michele Ainis
UNA VITA inutile è una morte anticipata, diceva Goethe. Ma l’anticipo della morte può rendere inutile la vita già vissuta. È quanto sta accadendo alla XVII legislatura, da quando i partiti ne hanno decretato i funerali. Sogni di gloria che si trasformano in vergogne. Quanti sono i disegni di legge già approvati nell’uno o nell’altro ramo del Parlamento, che a questo punto cadrebbero nel nulla? La risposta può leggersi nel sito web di palazzo Madama: 364. Più precisamente, 193 leggi già timbrate dalla Camera, 171 dal Senato. Considerando che fin qui, nei quattro anni della legislatura in corso, le assemblee parlamentari sono riuscite a licenziare 290 leggi in tutto, ne deriva che il più è ancora da fare. Sicché lo scioglimento anticipato scioglie al contempo un’ambizione, a suo modo una promessa. Come un pescatore che getti in acqua la sua rete, dimenticando
poi di ritirarla.
C’è insomma un costo giuridico, oltre che economico, in questa corsa verso il sacro lavacro delle urne. E c’è un costo politico. Perché impedendo alla legislatura di maturare i propri frutti, si dichiara fallita un’esperienza trascorsa sotto l’astro del Pd, lo stesso partito che adesso preme per l’anticipo del voto. E perché l’aborto di centinaia di leggi, dopo una prima gestazione conclusa con successo, è uno spot elettorale contro le elezioni, è un omaggio della politica nei riguardi dell’antipolitica, è un inno allo spreco. Sperpero di leggi così come di progetti, d’intelligenze, di talenti: forse l’unica palestra su cui ancora s’esercita il nostro agonismo nazionale.
Dice: però in quel calderone d’iniziative normative mezze cotte e mezze crude, c’è anche carne tossica, c’è qualche fungo velenoso. Vero, per esempio quanto al reato di tortura. Con 28 anni di ritardo rispetto alla ratifica della convenzione Onu, il Senato ha approvato un testo che degrada la tortura a reato comune; che reclama prove impossibili sulle «sofferenze psichiche » inflitte al torturato; che vieta le torture ripetute, quindi una volta sola sì, in quel caso la tortura è lecita, legittima. Una beffa, tanto che lo stesso promotore del disegno di legge (Luigi Manconi) nella votazione finale si è astenuto.
Eppure meglio poco che niente. Il poco in futuro potrà crescere, come un bambino quando s’affaccia al mondo; ma se non nasci, non diverrai mai adulto. È infatti questo il lascito dell’interruzione anticipata della legislatura: un cimitero di diritti negati, di riforme tradite. Innanzitutto quelle su cui ha puntato l’indice Mario Calabresi: il biotestamento, la legge sulla cittadinanza, il codice antimafia, la legalizzazione della cannabis, il nuovo processo penale, oltre all’introduzione del reato di tortura. Sei grandi questioni in cui risuona una domanda di diritti espressa ormai da tempo dalla società italiana. Ma le occasioni perse riempiono un calendario, come chiunque può osservare spigolando fra le 364 leggi votate già in una Camera o nell’altra. La legge sull’omofobia. Quella sulle toghe in politica. L’abolizione dei vitalizi. La legittima difesa, sostenuta da oltre due milioni di firme. Il diritto al cognome. La donazione del proprio corpo alla ricerca. E via via, mentre la legislatura vola via.
Sicché in ultimo ti monta in gola un dubbio: ma questi, facevano sul serio prima o fanno sul serio adesso? I nostri parlamentari ci credevano davvero, passando un anno intero (364 giorni) a esprimere un sì definitivo sulle 364 leggi che ora mandano definitivamente al macero? Probabilmente no, non ci credevano; in politica l’ingenuità è vietata. Nella maggioranza dei casi sapevano già che quelle leggi sarebbero rimaste in mezzo al guado. Ma le hanno approvate lo stesso, sia pure a metà, per mostrare i muscoli dinanzi agli elettori. Giacché con mezza legge vincono tutti: il fronte dei favorevoli, che può menare vanto per un primo successo; il fronte dei contrari, che può intestarsi l’insuccesso. Quanto a noi, vorrà dire che alle prossime elezioni li ricompenseremo con un mezzo voto.
Corriere 2.6.17
Capilista «privilegiati», collegi e voto disgiunto Sale la tensione nei partiti
di Dino Martirano
Alcuni vincitori all’uninominale resterebbero fuori
ROMA Venticinque per quattro uguale cento. È questa la formula cara a Forza Italia che conta di fare il pieno di 4 candidati eletti per ognuno dei 25 listini proporzionali bloccati previsti dal «modello elettorale tedesco italianizzato». Berlusconi, dunque, non avrebbe problemi nel selezionare i suoi «cavalli vincenti» perché, tanto, gli azzurri neanche si presenteranno alle gabbie di partenza dei 303 collegi uninominali: quella è una gara riservata al Pd e al M5S fatte salve le roccaforti della Lega in Alta Lombardia e in Veneto.
Ed è dunque il temuto «effetto flipper» nei 303 collegi uninominali che sta creando autentico panico nelle seconde file dei due grandi partiti. Con l’«effetto flipper», infatti, non basta vincere il collegio perché, per passare, bisogna essere pure fortunati. E avendo Renzi, Berlusconi e Grillo deciso che i capilista del proporzionale avranno la precedenza su tutti gli altri (in primis sui vincitori dei collegi), la partita si fa cattiva e ai limiti del buonsenso. Perché, in soldoni, la «legge tedesca all’italiana» utilizza il collegio uninominale per poi dare certezza di elezione solo ai capilista bloccati. Tutti gli altri, pur se vincenti nei collegi, se la vedranno con la cabala.
Giacomo Portas (Moderati, eletto nel Pd) fa un calcolo a spanne: «Se il Pd farà eleggere 220 deputati, si partirà dai 25 capilista del proporzionale, più 150 vincitori di collegi uninominali, più 45 candidati dei listini proporzionali». Così, potrebbero esserci nel Pd, ma anche nel M5S, decine di vincenti nei collegi che però non saranno eletti.
Nelle regioni rosse, le preoccupazioni in casa del Pd sono anche più forti. In Toscana, dove i dem si preparano a rastrellare tutti e 19 i collegi uninominali, c’è la quasi certezza che due o tre vincitori all’uninominale dovranno poi sacrificarsi per lasciare il posto al capolista (sarà Renzi?) e per rispettare la quota proporzionale nazionale, che poi è la vera cifra del «tedesco». In Sicilia, invece, il Pd non vincerà nei collegi e dunque si rifarà con i posti blindati nei listini proporzionali che già stanno andando a ruba.
I grillini avranno gli stessi problemi del Pd: in Sicilia, il M5S dovrebbe vincere «troppi» collegi (e dunque la «pallina del flipper» potrebbe far fuori molti candidati pentastellati arrivati primi nell’uninominale) mentre le seconde file grilline dei listini sono destinate a fare le comparse.
Ma ci sono altre questioni che fanno scricchiolare l’«accordone». Il voto disgiunto — sulla scheda una «X» per il collegio e una «X» per il partito — chiesto dai grillini che in Germania permette all’elettore di votare, per esempio, il candidato della Cdu e di indicare con il voto ai liberali l’alleanza di governo cui si dovrebbe ispirare Angela Merkel. C’è poi il nodo dell’individuazione dei collegi che spetterebbe ai tecnici terzi del Viminale: stavolta però la cartina con le 303 ripartizioni l’ha firmata il relatore Emanuele Fiano (Pd). E gli altri non sono rimasti a guardare ottenendo già un giorno di rinvio, dal 5 al 6 giugno, per l’approdo della legge in Aula.
Il Fatto2.6.17
Il M5S spaventa Renzi e B. “La legge elettorale non va”
Si ricomincia - I 5 Stelle pieni di dubbi sul sistema proposto da Pd e Fi. La minoranza interna esce allo scoperto: “Questo è un mega-Porcellum”. Senza di loro in Senato i voti non ci sono
di Wanda Marra
Che ci fosse qualcosa di decisamente poco votabile nella legge elettorale simil-tedesca, come scritta nell’emendamento Fiano, i Cinque Stelle l’hanno cominciato a capire mercoledì sera. Tanto è vero che alla Camera c’è stata una riunione infuocata. Il colpo di grazia è arrivato con la lettura dei giornali della mattina, che evidenziavano alcuni dettagli fondativi del nuovo sistema non proprio piacevoli: ad esempio il fatto che tutto il nuovo Parlamento sarà nominato dai vertici dei partiti. E così – nonostante un’intervista in cui Luigi Di Maio ribadiva la disponibilità del Movimento – sono partite le critiche alla legge e all’accordo. Comincia Paola Taverna: “È quasi un mega-Porcellum: noi faremo degli emendamenti, io personalmente non mi sarei messa nemmeno lì seduta”, dice. Poi la senatrice 5 Stelle esplicita una motivazione più politica: “Non so neanche se è un bene andare a votare subito perché così gli leviamo la patata bollente della legge di stabilità”. Segue a ruota Roberto Fico: “L’accordo sulla legge elettorale non è affatto sancito”.
Tra le cose che al Movimento non piacciono c’è la ripartizione nazionale e non circoscrizionale dei seggi (che sfavorisce i partiti più grandi, mentre M5s vorrebbe addirittura un qualche “premio di governabilità”), l’impossibilità di esprimere il voto disgiunto tra collegio uninominale e listino proporzionale e il 100% di nominati.
Per adesso, però, non c’è nessuna posizione definitiva del Movimento: le critiche esplicite al testo firmato da Emanuele Fiano arrivano dalla “minoranza”, per così dire, dei grillini. Per ora non sono state avanzate neanche proposte esplicite di modifica in commissione Affari costituzionali, dove il termine per gli emendamenti scade domani sera.
Il candidato premier in pectore Di Maio ha scritto un post per dire che “Renzi è un pericolo per la democrazia” (dopo che Alfano ha sostenuto che il segretario dem gli avrebbe chiesto di far cadere Gentiloni), ma si è guardato bene dall’affossare l’accordo elettorale con Pd e Berlusconi. Insomma, i Cinque Stelle non sono compatti: i dubbi sull’intesa restano, le perplessità sul finto-tedesco anche di più, ma cosa faranno non è ancora chiaro neanche a loro.
La posizione ufficiale del Pd la chiarisce il capogruppo, Ettore Rosato: “Noi siamo disponibili a discutere per verificare se c’è una soluzione, ma bisogna tenere conto anche dell’utilità delle scelte, tenendo presente che non è un accordo tra noi e il M5s ma anche con Fi, Lega e Si”. Tradotto: difficile pensare che si possa veramente toccare qualcosa, visto che ogni dettaglio è stato concordato con Berlusconi.
L’unica cosa certa è che se i 5 Stelle dovessero davvero decidere di non votare, il tavolo rischia di saltare: niente legge elettorale e niente voto in autunno. Non a Montecitorio, dove Pd (renziano) e Forza Italia hanno i numeri, ma in Senato: senza M5S, senza Alfano, senza pezzi del Pd, senza i bersaniani e neppure l’aiuto dei verdiniani la vita si farebbe durissima. I renziani, per ora, sperano che a garantire un dibattito contingentato sia il presidente del Senato, Pietro Grasso, al quale si è fatta balenare la candidatura per la guida della Regione Sicilia.
Ma Renzi è nervoso e in realtà al Nazareno nessuno riesce più a dire come andrà a finire, neanche lui: “Può accadere che facciamo la legge e non si fa a votare e può succedere che la legge non si fa e si va a votare con un decreto”, un po’ vaticina e un po’ minaccia. Spera ancora, comunque, che alla fine passi la linea Di Maio: sì alla legge, perché al Movimento conviene.
Il segretario, comunque, valuta ogni possibile piano B: sulla base di come vanno le cose a Montecitorio, persino tornare al cosiddetto “Rosatellum”. Renzi comincia pure a valutare il rischio di passare come l’unico che vuole le elezioni, quello che dopo Letta è pronto a far fuori Gentiloni.
Forse per questo, quando Francesco Rutelli lo introduce, all’ingresso dei giardini del Quirinale, “ecco l’ex premier oppure ecco il premier”, lo stoppa. Sulla data delle elezioni non si sbilancia, ma è quando parla del M5s che si capisce che sta cercando il modo di stanarli: “Se la legge salta il M5S va in difficoltà. Noi le preferenze le gestiamo. È stato raccontato come inciucio Renzi-Berlusconi ma è un’operazione di serietà istituzionale e questo ha tolto a loro ogni alibi”. Azzarda anche una mezza apertura: “Il voto disgiunto? Se il problema è solo quello… Noi siamo flessibili”. Alla fine del ricevimento, a scanso di equivoci, si apparta con Gentiloni per un quarto d’ora: il premier forse gli ha detto che “sta sereno”.
il manifesto 2.6.17
Il tedesco fa discutere i grillini
Legge elettorale. Dubbi nel M5S per un sistema che alcuni giudicano peggio del Porcellum e altri "orgogliosamente costituzionale". Restano nel patto con Pd e Forza Italia, ma propongono emendamenti. Il più atteso per riportare come in Germania i voti a due, anche disgiunti, è però il più difficile da far passare. Per ragioni politiche, ma anche tecniche
di Andrea Fabozzi
L’entusiasmo si raffredda un po’, la convinzione di aver già portato a casa la nuova legge elettorale e soprattutto il suo corollario, le elezioni anticipate, scolorisce negli scenari renziani. Il maxi emendamento Fiano oltre ai difetti specifici ha quelli generici di tutti i testi scritti velocemente. E lo si vuole approvare di corsa, senza nemmeno il tempo per l’ufficio studi della camera di evidenziarne i punti da correggere. Ma non è questo che preoccupa gli sprinter del Pd, quanto invece le crepe nei nuovi alleati a 5 Stelle. La vecchia divisione tra ortodossi e realisti si riflette nella spaccatura dei gruppi parlamentari grillini. Per un capogruppo dei deputati (Fico) che evidenzia le «problematicità» del testo Fiano, e dice che «l’accordo non è scontato», c’è un capo negoziatore sulla legge elettorale (Toninelli) «fiero di dire che si tratta di un testo certamente costituzionale». Ma non è ancora «perfettamente tedesco» (lo è pochissimo) dunque «faremo emendamenti». Il Pd immaginava invece un testo blindato. Del resto, questa partita l’aveva iniziata con al fianco solo Berlusconi e da lui, al momento, non ha nulla da temere.
La verifica della tenuta della triplice alleanza, con la Lega di scorta, ci sarà nei primi voti in commissione. Slittati a domani pomeriggio (si lavorerà anche domenica) per rispettare la pausa festiva di oggi. Il testo arriverà in aula di conseguenza un giorno più tardi, martedì 6 giugno; non cambia però l’obiettivo di approvarlo entro la prossima settimana. I Cinque stelle ieri hanno lavorato alle proposte di modifica, che dovrebbero servire ad assorbire le perplessità dei più contrari – secondo la senatrice Taverna il simil tedesco è addirittura un «mega Porcellum». La correzione più ambita, la possibilità come in Germania di esprimere un doppio voto tra uninominale e proporzionale, anche disgiunto, è però anche la più difficile da ottenere. Per ragioni politiche – il Pd vuole costruire sopra il voto unico la campagna per il voto utile – ma anche tecniche, perché in Germania anche il voto disgiunto si regge sul presupposto che tutti i candidati vincitori nel collegio uninominale hanno la certezza dell’elezione. In Italia questa certezza non c’è, almeno a voler tenere ferme le proporzioni di partenza – metà seggi uninominali e metà plurinominali. Gli stessi democratici calcolano una ventina di possibili falsi vincitori, primi nei collegi eppure non eletti. Mentre l’avvocato Besostri, campione di ricorsi alla Consulta contro le leggi elettorali, ha avvertito i grillini che il voto unico non è né personale né diretto, dunque contro la Costituzione.
I grillini cercheranno allora di cambiare il sistema di attribuzione dei seggi a livello circoscrizionale, che al momento prevede la prevalenza del capolista nel proporzionale (salvo per quei collegi dove chi vince raccoglie oltre il 50% dei consensi) e alla fine recupera anche gli sconfitti nelle sfide uninominali, grazie al trucco di listini artificialmente corti. Lo faranno per mettersi nella scia delle polemiche contro i «nominati», nelle quali eccelle Mdp-Articolo 1, inizialmente meno ostile alla legge. E non perché siano particolarmente interessati a difendere la possibilità degli elettori di scegliere i candidati, notoriamente non un punto di forza del Movimento. Altri assalti alla legge riguarderanno aspetti minori ma importanti, come l’eterno privilegio che il Pd concede alla Svp con un sistema di voto diverso in Alto Adige (e Trentino), e l’abnorme numero di firme previste per la presentazione delle nuove liste – tanto più che una norma rimasta in piedi dell’Italicum salva ancora le formazioni nate per scissioni all’interno di questa legislatura (sul punto si rivolgeranno a Mattarella i radicali: «Raccogliere 150mila firme in così poco tempo e nei mesi estivi sarà impossibile»).
Un capitolo a parte riguarda il secondo emendamento Fiano, che si dedica a ridisegnare i collegi uninominali facendo a fette e accorpando quelli previsti dalla commissione Zuliani nel 1993. Il riferimento è quindi la popolazione italiana di 26 anni fa. Soluzione rimediata, diversa dal tradizionale incarico alla commissione di esperti, utile solo ad accorciare i tempi e consentire il voto in ottobre. Soluzione anche pericolosa, perché inserire i collegi nella legge elettorale consente ai parlamentari di emendarne la composizione, con complicati effetti a cascata (a patto, ovviamente, di ammettere emendamenti). Il relatore Fiano la giustifica come una semplice «norma di salvaguardia» che affianca la tradizionale delega al governo. Ma, guarda un po’, nel testo che lui stesso aveva presentato due settimane fa, il «Rosatellum», questa «salvaguardia» non c’era. Senza Forza Italia e M5S il voto anticipato appariva ancora un miraggio.
Corriere 2.6.17
Si inceppano la riforma e la corsa alle elezioni
di Massimo Franco
L’accordo scricchiola. Un Movimento 5 Stelle imbarazzato dal patto di fatto con Pd e Forza Italia sulla riforma elettorale e sul voto anticipato, adesso sostiene che l’intesa «non è scontata». Lo stesso Matteo Renzi non sarebbe più così sicuro che l’asse per le elezioni regga. E soprattutto, nel testo si scoprono crepe costituzionali impreviste. Lo scontro tra il segretario del Pd e l’alleato Angelino Alfano sprigiona veleni. Il ministro degli Esteri conferma la rivelazione di un dirigente del partito, secondo il quale Renzi voleva far cadere Paolo Gentiloni già a febbraio; e che era pronto a concessioni ai centristi sul sistema di voto purché aprissero la crisi.
Ieri l’intera segreteria dem è stata costretta a schierarsi per giurare lealtà al premier. È comprensibile. L’episodio espone Renzi al sospetto di avere tramato contro Palazzo Chigi; e di avere accelerato sulla riforma per arrivare alle urne. Luigi Di Maio, vicepresidente della Camera, probabile candidato del M5S a premier, ora parla del leader dem come di un «eversore» e di un «pericolo per la democrazia». È una durezza singolare. Viene il sospetto che nasca dall’esigenza di velare il compromesso stipulato da Beppe Grillo con Renzi e Silvio Berlusconi.
Tra l’altro, non si capisce se la riforma scritta dal vertice del Pd, tenendo fuori il governo, sia davvero così pasticciata. I parlamentari di Grillo ne hanno preso coscienza con ritardo sospetto. Ancora ieri mattina Danilo Toninelli assicurava: «Non ci sono dubbi che si tratti di una riforma costituzionale. Ci sono ovviamente migliorie da fare...». Il problema è che la fretta di arrivare in aula entro il 5, ora il 6 giugno, e di votarla al Senato entro inizio luglio, non favorisce la chiarezza. Ma gli aspetti tecnici si sommano a questioni squisitamente politiche.
L’attacco ruvido e irridente di Renzi e dei suoi a Alfano, dopo la decisione di mettere la soglia di sbarramento al 5 per cento, non poteva non avere effetti. E quelli che si stanno producendo inducono i Cinque Stelle a prendere le distanze da un accordo che privilegerebbe di nuovo un Parlamento di «nominati» dai leader. Gli scissionisti di Mdp martellano su «Renzi, Berlusconi e Grillo che fanno finta di litigare su tutto ma poi decidono nel chiuso di una stanza». Accusa insidiosa, almeno per un movimento che esalta la democrazia diretta e «dal basso».
È possibile che si recuperi un accordo e si arrivi comunque a un testo condiviso. Ma certo, il nervosismo e le tensioni offrono al Capo dello Stato, Sergio Mattarella, uno sfondo diverso da quello di appena poche ore fa. Prima c’era più o meno l’80 per cento delle forze presenti in Parlamento concordi nel volere un sistema proporzionale e decise a chiedere, come passo successivo, elezioni in autunno. Ora, lo schieramento sembra assottigliarsi. Può darsi si tratti di una battuta d’arresto. Ma non si può escludere che l’intesa si complichi: e dunque anche la corsa un po’ scomposta al voto anticipato.
Repubblica 2.6.17
Bersani: “Irresponsabile votare senza mettere al sicuro i conti Gentiloni recuperi la sua dignità”
Il leader Mdp: “Il governo non può accettare i trucchetti che servono solo alla sua fine. E si mettano in salvo le leggi incompiute: mi vergognerei se saltasse lo ius soli. Con Pisapia nuovo centrosinistra aperto a tutti per Europa, lavoro e diritti”
Stefano Cappellini
ROMA. Pier Luigi Bersani ha appena raccolto l’appello di Giuliano Pisapia. Il primo luglio a Roma partirà l’avventura del centrosinistra alternativo al Pd. Si chiamerà Alleanza per il cambiamento («Il nome – dice l’ex segretario dem – non è definitivo, ma i concetti sono quelli»). Bersani però non si rassegna all’idea di elezioni in autunno: «Vogliono far cadere il governo in agosto, votare a fine settembre o inizio ottobre con una legge elettorale che gli italiani non avranno il tempo di capire ma che consente di mandare in Parlamento un sacco di nominati e, non ultimo, lasciano il Paese nella totale incertezza sugli equilibri finanziari davanti al mondo e ai mercati». Il timore di Bersani è anche sulle leggi incompiute che rischiano di arenarsi insieme alla legislatura: «Serve un patto per portare a termine queste leggi qualunque sia la data del voto. Io promisi che la prima cosa che avrei fatto a Palazzo Chigi sarebbe stato lo ius soli. Mi vergognerei se la legislatura finisse senza vararlo. Basta la volontà. Una bella settimanotta per votare lo ius soli e un altro paio di leggi si può trovare».
Renzi dice che i conti non sono in pericolo. E che non si può avere paura del voto, è la democrazia.
«Ci prendono per i fondelli. Serve una finanziaria che rimetta in sesto il Paese. Quindi o la si fa prima del voto o la si fa dopo. Ma se la si fa prima, bisogna approvarla e non presentare un foglietto con dei conti. Se invece la si fa dopo, diventa un punto interrogativo enorme e siamo alla pura irresponsabilità. Non lo sanno che agosto è il periodo delle maggiori turbolenze sui mercati? Sono fuori come un balcone. Spero ancora che questo scenario si possa evitare. Che ci sia una forza delle cose, istituzioni, società civile, giornali, che dica: ma stiamo scherzando?».
Gentiloni ha spiegato che il governo manterrà i suoi impegni, anche sulla legge di bilancio.
«A me pare che l’unico impegno preso dal governo sia accettare i trucchetti e le provocazioni che devono portare alla sua dipartita. Siamo davanti a un avventurismo sfacciato come mai nella storia della repubblica. Perché chi ha la responsabilità sceglie deliberatamente di aggirare le scelte e chi non governa pensa solo a lucrare qualcosa per le fortune del proprio partito. Così si è costituita la banda dei quattro sulla legge elettorale: Renzi, Berlusconi, Grillo e Salvini. Ma fanno i conti senza l’oste».
E chi è l’oste?
«Gli italiani prepareranno qualche sorpresa, non so che da lato, ma consiglierei ai sondaggisti di sospendere l’attività. C’è chi non ha visto cosa arrivava col referendum e non vede cosa sta arrivando adesso. E finirà vittima delle sue stesse macchinazioni ».
Accusa Gentiloni di far parte della macchinazione?
«Non sempre sono d’accordo con lui, e non da ora. Però Gentiloni si è preso una sua credibilità, se non altro per questione di stile. Se la giochi per il Paese e per la dignità del suo ruolo».
Però non votando la fiducia sulla manovrina che reintroduce i voucher siete voi a mettere a rischio il governo.
«A Renzi non crede più nessuno, bisogna che se renda conto. Certi giochini li capisce anche un bambino. Prendere a schiaffi noi, prendere a schiaffi Alfano, minare la maggioranza. Sui voucher la soluzione c’è: si tengano per le famiglie e si apra il tavolo per capire cosa fare con le imprese. È ragionevole. Ma qui non hanno abolito i voucher, hanno abolito il referendum ».
Renzi vuole votare in autunno anche per evitare che il governo debba affrontare una manovra difficile senza la forza per contrastare i diktat rigoristi della Ue.
«Il tema è sul tavolo da tre anni. Siamo riusciti nel miracolo, nell’epoca dei tassi più bassi della storia, di aumentare il debito pubblico, diminuire gli investimenti e lasciare il lavoro in mezzo a una strada. Si è provato a cambiare la narrazione dicendo che la ripresa era in corso. Ma quando dici alla gente che c’è bel tempo, poi fai fatica a dire che bisogna prendere l’ombrello».
L’ombrello di Monti costò caro anche a lei, in termini di voti.
«Lo dice a me o a quelli che quattro anni fa tutte le mattine mi facevano l’esame di montismo, a cominciare da Gentiloni e Renzi?».
Ma quindi che finanziaria dovrebbe varare il governo?
«Cominci dal rispondere a qualche domanda in astratto: se ci fosse da fare un sacrificio si toccano i grandi patrimoni o le pensioni? Destra e sinistra esistono. Si porrà comunque un tema di equità e di misure di risanamento che non castrino gli investimenti. Quando tu hai di fronte dei problemi veri e si vede palesemente che non vuoi affrontarli, significa solo che stai preparando la strada per l’emergenza, quando sarà obbligatorio farlo provando a dire che non è colpa di nessuno».
Sta dicendo che si lavora per le larghe intese Renzi-Berlusconi?
«Sì, sono tre anni che si annusano. D’Alema forse lo spiega brutalmente, ma dice una verità».
L’anti-renzismo di D’Alema è un imbarazzo per Pisapia?
«Pisapia ha chiarito che non la pensa così. Il punto non è l’antirenzismo, bensì la discontinuità con le politiche di Renzi: Jobs Act, buona scuola, fisco. Meno tasse per tutti è uno slogan della destra. In tutto il mondo alla richiesta di protezione arrivano due risposte, quella della destra sovranista e nazionalista e quella della sinistra che protegge attraverso diritti e welfare. Noi invece siamo ostaggio di chi non ha il coraggio di fare Trump fino in fondo e non ha la chiave per fare Corbyn».
Una volta eravate blairiani, ora corbyniani.
«I vecchiotti alla Sanders o alla Corbyn trasmettono valori, poi sui programmi si può discutere. Quella dei vecchi contrapposti ai giovani è una sciocchezza. Posso dirla alla Bersani? Quando c’è bel tempo tutti i pedalò stanno fuori, ma quando piove…».
Cosa fonderete insieme a Pisapia? Un partito? Un listone di sinistra?
«Non voglio Cose rosse ma nemmeno che si sputi sul rosso. L’appello è a tutti – e sottolineo tutti – quelli che vogliono un centrosinistra di governo, che non si arrendono all’idea che il centrosinistra sia il Pd e il Pd sia il capo. C’è tanta gente in giro che aspetta questo. Metteremo dei paletti di base. Anticipo i miei due: nel nuovo patto europeo, che inevitabilmente verrà fuori dal corso internazionale, l’Italia deve esserci. Sul piano interno, tenere alti sia gli investimenti sia l’avanzo primario. Crescita e risanamento. Sono i grandi successi che raggiunsero i governi dell’Ulivo. Per me chi li accetta è dentro».
È un invito a Prodi e Letta?
«Ho sempre parlato di nuovo Ulivo non per nostalgia, ma perché quell’esperienza è fondata proprio su quei due paletti. Parliamo di persone che mi stanno a cuore massimamente, poi ognuno sarà libero di fare le sue scelte ».
E il programma?
«Programma radicale, il lavoro è scarso e umiliato, quindi investimenti e diritti. Welfare, i grandi servizi universalistici da riformulare a partire dalla sanità. Terzo, progressività dell’imposizione fiscale. Non possiamo farci dire dall’Europa che il patrimonio immobiliare va tassato».
Sarà Pisapia il leader?
«Pisapia va benissimo. Il sistema proporzionale però non pretende il salvatore della patria, serve una idea di squadra».
Gli altri un candidato premier l’avranno. Partite a handicap.
«Sconsiglierei Renzi dal considerare un vantaggio la sua candidatura ».
E se non superate la soglia del 5%?
«La soglia è giusta. Se sei sotto il 5, fai altro nella vita. Sulla legge elettorale sono altri i punti da rivedere. Il voto disgiunto, per cominciare. Questo è un tedesco col trucco, uno vince in un collegio ma passa il capolista bloccato. Ho persino dubbi di costituzionalità ».
Il Fatto 2.6.17
Pisapia, l’amante respinto ha finito i piani
di Luisella Costamagna
Caro Giuliano Pisapia, certo che per uno che non si è ricandidato a sindaco di Milano perché voleva tornare alla sua vita e che “non vuole fare il leader di niente”, si dà un gran da fare. Ah, vero, c’è stata la “chiamata”, quella che raccontò a Cazzullo a febbraio, lanciando il suo Campo Progressista: “Enzo Bianchi mi ha detto: ‘Lei si butti se viene chiamato’. E mi hanno chiamato in tanti. Non ceto politico: persone alla ricerca di una speranza”. Da lei, a Renzi “costretto” a tornare per responsabilità, a Berlusconi, D’Alema… mamma mia quante chiamate.
Altro che quei menefreghisti alla Cameron, che perdono un referendum e si ritirano, o Blair, Zapatero, etc. che dopo l’esperienza di governo tornano a casa, i nostri politici sono di una generosità infinita: non ci lasciano mai soli, si offrono per il bene comune, tipo vocazione sacerdotale. E noi italiani – ingrati – che scambiamo cotanta disponibilità al prossimo per bieco attaccamento alla poltrona. Vergogna!
Dunque è stato “chiamato”: prima da Renzi, per il Sì al referendum, poi a unire la sinistra da alleare al Pd in un nuovo centrosinistra, dopo la sconfitta referendaria. Progetto ambizioso quello di spostare il Pd renziano a sinistra, essendo un campo che non ha mai frequentato, ed è singolare che un ex “compagno” come lei non abbia riconosciuto l’afflato destrorso delle riforme alla rignanese, a cominciare dal lavoro con l’abolizione dell’art. 18 e i voucher. “Ha dovuto fare anche cose che nascevano dalla necessità di arrivare a un compromesso con un partito di centrodestra”, diceva a dicembre, giustificandolo e dando la colpa alla convivenza con Alfano. Peccato che oggi quell’attrazione fatale trovi conferma nella rinnovata intesa con Berlusconi. Adesso l’ha capito che Renzi non ricambia il suo sguardo, è rivolto dalla parte opposta e al massimo le offre la nuca? Mah, l’altra sera dalla Berlinguer ha ammesso: “La coalizione per cui mi sono impegnato è resa impossibile da una legge elettorale proporzionale. A questo punto il piano B diventa il piano A”, e uno s’aspettava l’amara constatazione: lascio perdere tutto. Errore, ha rilanciato: “Ora un centrosinistra senza Pd”. Reazione dell’ascoltatore: occhi strabuzzati tipo fumetto e oscillazione tra “Finalmente” e “Come? Dove? Con chi?”. Già, perché non c’è solo la sòla renziana, anche i suoi paletti suonano invalicabili: da un lato dice no alle larghe intese con Forza Italia; dall’altro respinge una sinistra “del rancore o della restaurazione”, “che punta solo alla residualità, alla testimonianza fine a se stessa”. Si riferisce per caso a D’Alema, Civati e Fratoianni?
Caro Pisapia, capisco la delusione per Renzi, dopo avergli (inutilmente) tirato la volata al referendum, ma lei oggi pare un innamorato respinto, con tanto di alti e bassi emotivi, dal momento “ma anche” in cui flirta con tutti in un disperato afflato federativo, al momento “né né” in cui giura che non avrà più storie con nessuno. Ma senza né gli uni né gli altri dove pensa di andare? E con gli uni e con gli altri, viste le distanze siderali? Non è che è disposto a digerire gli altri in attesa dell’Uno Matteo? Soprattutto: a forza di piani A-B-C, è sicuro che il telefono squilli ancora?
Un cordiale saluto.
di Luisella Costamagna
La Stampa 2.6.17
Merkel trascina l’Ue verso la Cina
Alleanza su ambiente e commercio
Il vuoto creato dagli Stati Uniti riempito dalla rivale Pechino La Commissione: “Siamo dalla parte giusta della Storia”
Alessandro Alviani Marco Bresolin
«A Taormina abbiamo spiegato a Trump che non sarebbe positivo, per gli Usa e per il mondo, se l’America si ritirasse dalla scena mondiale: il vuoto sarebbe riempito. La Cina fa pressione in questo senso», spiegava ieri a Berlino il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker. Detto, fatto. Prima un faccia a faccia tra il premier cinese Li Keqiang e Angela Merkel, quindi la firma di accordi bilaterali tra Berlino e Pechino. Infine le parole del commissario europeo all’Ambiente Kermenu Vella dopo le dichiarazioni di Trump: «L’Accordo di Parigi resisterà. L’annuncio di Trump ci ha galvanizzato. L’Europa e i suoi partner lavoreranno insieme. Siamo dalla parte giusta della Storia». L’Europa si smarca e cerca nuove alleanze. Oggi Ue e Cina firmeranno una dichiarazione congiunta sul clima. Pechino si candida a un ruolo di primo piano non solo sul fronte ambientale e lo si capisce dalle dichiarazioni di Merkel ieri accanto a Li Keqiang. «Puntiamo sui mercati aperti e su un commercio mondiale basato sulle regole» e «sosteniamo i principi e le regole del Wto».
Un incontro, il loro, che segna la saldatura di una nuova alleanza sul clima e sul commercio. «Siamo entrambi dalla parte del multilateralismo», sottolinea il premier cinese. «Viviamo in tempi di incertezze globali, abbiamo la responsabilità di ampliare la nostra partnership in diversi settori e di impegnarci per un ordine mondiale basato sulle regole», nota la cancelliera. Una cooperazione non solo teorica: a margine del bilaterale, Volkswagen ha firmato ad esempio con la cinese Jac una joint venture per lo sviluppo di auto elettriche e servizi per la mobilità. Sullo sfondo resta un convitato di pietra: Trump. Difficile non interpretare le parole di Merkel e Li Keqiang alla luce delle mosse (e delle accuse) dell’amministrazione Usa. «La Cina è da millenni una nazione commerciale, per questo sa che il libero commercio apporta benefici reciproci», spiega Merkel durante un forum tedesco-cinese. «La Germania raggiunge un grosso avanzo» nell’interscambio con la Cina, ma «non ne siamo insoddisfatti, perché in tal modo i nostri consumatori hanno una scelta più ampia di prodotti, in particolare di prodotti tedeschi di alta qualità», spiega Li Keqiang. Il quale chiarisce che Pechino vuole mantenere le sue promesse nel quadro degli accordi di Parigi: «La lotta ai cambiamenti climatici è nel nostro interesse».
Un impegno che Merkel definisce «molto positivo» e che Li Keqiang ribadirà oggi a Bruxelles con Juncker e Donald Tusk. «L’Ue e la Cina considerano l’azione sul clima e la transizione verso l’energia pulita come un imperativo più importante che mai. Confermano i loro impegni presi in base allo storico Accordo di Parigi del 2015 e aumentano la loro cooperazione per intensificare la sua attuazione», si legge nella bozza della dichiarazione Ue-Cina che sarà siglata oggi e che è stata visionata da La Stampa. Ue e Cina «sottolineano che affrontare il cambiamento climatico e riformare i nostri sistemi energetici sono significativi motori per la creazione di posti di lavoro, per le opportunità d’investimento e per la crescita economica», si legge nel documento, che contiene anche, per la prima volta, l’impegno congiunto a esplorare la possibilità di cooperazioni triangolari sull’energia con altri Stati, in particolare in Africa.
Ue e Cina, poi, «riconoscono l’importanza di sviluppare il libero scambio e gli investimenti a livello globale e di promuovere il sistema multilaterale basato sulle regole, per permettere il pieno sviluppo di un’economia a basse emissioni, con tutti i suoi benefici». Un impegno destinato a restare non solo sulla carta: Merkel spera che vengano portate avanti «molto rapidamente» le trattative verso un accordo di tutela degli investimenti fra Europa e Cina, primo passo verso la firma, «un giorno», di un’intesa di libero scambio fra Cina e Ue. «I tempi», si dice convinto Li Keqiang, «sono maturi per discutere di un accordo di libero scambio».
La Stampa 2.6.17
Lotta contro l’inquinamento
e spinta all’occupazione
Ecco la strategia verde di Xi
La svolta anche per consolidare il ruolo tra i Grandi
Francesco Radicioni
«La Cina continuerà ad applicare gli impegni presi con gli accordi di Parigi», ha assicurato ieri a Berlino il primo ministro cinese, Li Keqiang, nel corso di una conferenza stampa con Angela Merkel. «Ovviamente ci auguriamo di farlo in cooperazione con altri». Probabilmente con l’Europa. Il surriscaldamento globale è infatti uno dei dossier in agenda al summit annuale tra Cina e Unione europea che si tiene oggi a Bruxelles e che si dovrebbe concludere con una dichiarazione congiunta a sostegno della lotta ai cambiamenti climatici. «Una volta che la Cina ha raggiunto un certo livello di sviluppo, si è mossa verso un modello più sostenibile, il che significa che continueremo a spingere sullo sviluppo verde». Nonostante la Cina sia dal 2007 il primo Paese al mondo per emissioni di gas serra, Li Keqiang ha chiarito che l’impegno sul clima rientra negli interessi della Repubblica Popolare.
Abituati alla coltre d’inquinamento che avvolge Pechino è difficile immaginare la Cina prendere la guida della lotta ai cambiamenti climatici. Però nell’ultimo decennio la posizione della leadership cinese in materia di surriscaldamento globale è profondamente cambiata. Nel 2009 la Cina aveva contributo al fallimento della conferenza di Copenaghen, nel corso della quale Pechino non aveva fatto mistero di voler continuare a dare precedenza allo sviluppo economico rispetto alla tutela ambientale. Poi a Parigi, nel 2015, la Repubblica Popolare aveva fatto alcune aperture. Ma è stato solo con l’inizio della presidenza Trump che Pechino si è messa alla guida della lotta ai cambiamenti climatici.
Intervenendo al World Economic Forum di Davos, il presidente cinese Xi Jinping aveva definito gli impegni contenuti negli accordi di Parigi come «una responsabilità che dobbiamo assumerci per le future generazioni». Mentre all’indomani della firma di Trump che sanciva la fine del Clean Power Plan, Pechino aveva ribadito che «come grande Paese responsabile la Cina non cambierà i propri impegni, obiettivi e politiche». In linea con l’azione diplomatica di Xi Jinping, anche in materia di clima Pechino vuole presentarsi sulla scena internazionale come un attore affidabile. Non è un caso che la Cina abbia scelto di ratificare l’accordo di Parigi alla vigilia del G20 di Hangzhou e di farlo insieme agli Stati Uniti di Barack Obama. Con quel gesto la leadership cinese rivendicava il proprio ruolo di «grande potenza», impegnato come l’America negli affari del mondo.
Ma a spingere Pechino verso una maggiore attenzione all’ambiente sono state anche questioni interne. In una manciata di anni le questioni ambientali si sono trasformate dall’«ossessione» di qualche ambientalista cinese a motivo di diffusa preoccupazione tra la classe media delle grandi città visti gli effetti che l’inquinamento dell’aria, dell’acqua e dei suoli ha sulla salute. Inoltre, a differenza dell’amministrazione Trump, la leadership cinese ha visto negli accordi di Parigi anche uno strumento per rendere più sostenibile il proprio modello economico e puntare su innovazione e ricerca. Ieri il ministero degli Esteri assicurava che Pechino «continuerà il suo piano di innovazione, coordinamento e sviluppo verde». A partire dal 2013 è iniziata una lenta – ma costante – riduzione della dipendenza dal carbone, mentre aumentano gli investimenti in energie rinnovabili. La leadership di Pechino punta, entro il 2030, ad aumentare del 20% la quota dell’energia prodotta da fonti rinnovabili. Eolico e solare: settori dove l’anno scorso sono stati investiti 32 miliardi di dollari. Ma anche come occasione per f
Repubblica 2.6.17
Il reportage.
Nella città più colta e tollerante d’Inghilterra si spera in un patto tra Corbyn e lib-dem per cacciare May
Cambridge, l’isola di sinistra che fa il tifo per il trionfo di una coalizione anti-Brexit
Enrico Franceschini
CAMBRIDGE. «Teniamo il razzismo fuori dalle elezioni! Votiamo contro l’islamofobia! Viva l’Europa e la libertà di immigrazione! ». I dimostranti formano un picchetto all’ingresso della Cambridge Union, l’associazione studentesca dell’omonima università, più famosa palestra di dibattiti al mondo. Dentro si sta svolgendo uno dei consueti duelli verbali fra gli studenti e un personaggio celebre: l’ospite di turno è Katie Hopkins, ex-concorrente del reality show inglese “The apprentice” (L’apprendista), personalità televisiva nota per le sue posizioni provocatorie contro musulmani e immigrati, denunciata dopo l’attentato di Manchester per un tweet in cui proponeva una “soluzione finale” per l’-I-slam. «In nome della libertà di espressione è giusto invitarla e contrastarla nel dibattito in aula », afferma Jeff, 22enne leader dei manifestanti. «Ma in nome della medesima libertà è nostro diritto gridare qui fuori che esiste un’altra Gran Bretagna, diversa, tollerante, senza frontiere».
Per vederla, quest’altra Gran Bretagna, non c’è posto migliore di Cambridge. Nel referendum dell’anno scorso, è stata l’area più anti-Brexit dell’intero Regno Unito: l’88 per cento ha votato per rimanere nell’Unione Europea. Il centro di questa antica cittadella universitaria (anno di fondazione: 1209) è lo spicchio più progressista di tutta la nazione. Qui l’attacco terroristico di Manchester non scatena pregiudizi anti- islamici: casomai il contrario, uno sforzo a mantenere l’identità multiculturale britannica degli ultimi venticinque anni. Le elezioni dell’8 giugno rappresentano l’opportunità per riaffermarla. Ma votando per chi? «Se c’è una cosa che rimprovero a Jeremy Corbyn è di non essersi battuto abbastanza contro la Brexit», dice Sam Owens, commerciante e attivista dei diritti civili, criticando il leader laburista. «Meglio che dai laburisti, oggi chi ha votato contro la Brexit è rappresentato dai liberaldemocratici », concorda Arieh Iserles, professore emerito di matematica. In effetti i lib-dem sono l’unico partito apertamente schierato per indire un nuovo referendum sulla Ue: «Il nostro voto va a loro», scrive l’Economist di questa settimana, «come investimento per la costruzione di un futuro vasto partito di centro».
Beninteso, alle elezioni della prossima settimana si prevede che i liberaldemocratici prenderanno al massimo una dozzina di seggi. Sono un piccolo partito. Ma potrebbero egualmente finire per governare come si augura l’Economist: l’ultimo sondaggio di YouGov assegna al Labour appena 3 punti di distacco dai Tories (42-39 per cento), alcuni esperti calcolano che i conservatori conquisteranno la maggioranza relativa ma non quella assoluta, dunque teoricamente Corbyn potrebbe formare un governo di coalizione appoggiato appunto da lib-dem, verdi, indipendentisti scozzesi e nord-irlandesi. «Non perdono a Corbyn il suo tiepido europeismo, ma una grande alleanza fra tutte le forze di opposizione mi pare l’unica chance per farci rimanere nella Ue o almeno non uscirne del tutto», auspica Robert Gordon, docente di italianistica.
«La Brexit ha tirato fuori il peggio dagli inglesi, come fece Berlusconi con gli italiani», osserva sua moglie Barbara, avvocatessa, «e una vittoria di Theresa May non farebbe altro che dare legittimità a quei peggiori istinti». Il peggio, per Cambridge, ha anche conseguenze materiali. «Siamo preoccupati di non poter più attirare studenti europei, che con la Brexit dovranno pagare il doppio delle attuali rette d’iscrizione» (9 mila sterline l’anno, 11 mila euro, per tutti i cittadini della Ue), avverte il rettore Leszek Borysiewicz. Per di più, grazie ai fondi della Ue e agli stretti rapporti con scienziati del continente, l’università è oggi un centro di ricerca all’avanguardia mondiale, attorno a cui sorge una Silicon Valley di start-up ad alta tecnologia e uno dei maggiori laboratori internazionali di ricerca biomedica. «La Brexit costerà 100 milioni di sterline l’anno all’economia della contea », ammonisce Ross Anderson, un consigliere d’amministrazione della Cambridge University.
Certo, quella vista dalla privilegiata cittadella di Cambridge può essere una visione parziale della Gran Bretagna. L’agenzia
Bloomberg, facendo la somma di tutti i sondaggi, continua ad aspettarsi che Theresa May vinca le elezioni, aumentando a 40 o più deputati la maggioranza ricevuta in eredità da David Cameron; e il Financial Times, pur turandosi il naso sulla Brexit, le dà il suo “endorsement”, il tradizionale editoriale di sostegno prima delle elezioni. Ma la squillante vittoria che le veniva pronosticata un mese o due fa sembra improbabile. «Una grande coalizione contro i conservatori è l’unica speranza per continuare a credere in un’Inghilterra che non si chiuda su se stessa», insiste Albert, studente di ingegneria all’Emmanuel College, tra i dimostranti filo-europei al picchetto davanti alla Cambridge Union. «Non so in che modo possa accadere », taglia corto Hanna, sua compagna di studi, «ma sarebbe bello svegliarsi il 9 giugno e pensare che la Brexit è stata solo un brutto sogno lungo un anno».
Repubblica 2.6.17
Morta in battaglia contro l’Isis, a Raqqa, Ayse Deniz Karacagil, 24 anni Era il simbolo della lotta per la libertà dei curdi, disegnata da Zerocalcare
Cappuccio rosso
Addio all’eroina ribelle che liberò Kobane
Pietro Del Re
La scheggia d’una granata, o forse la pallottola d’un cecchino islamista, ha falciato lunedì scorso la vita di Ayse Deniz Karacagil. “Cappuccio rosso”, questo era il suo nome di battaglia dai tempi di Gezi Park, è morta combattendo alle porte di Raqqa. Nell’annuncio pubblicato ieri sul sito dell’International Freedom Battalion, la brigata in cui militano giovani giunti da tutto il mondo per combattere lo Stato islamico, la studentessa che divenne combattente è celebrata come un’eroina. Già, perché sebbene le autorità turche considerassero Ayse una terrorista latitante, questa giovane donna con le guance paffute d’una bambina era diventata un idolo per milioni di sue coetanee. In Italia era stata resa famosa dalla matita del fumettista romano Michele Rech, alias Zerocalcare, che in Kobane Calling aveva raccontato il suo coraggioso impegno in difesa della città curda-siriana contro l’avanzata dei jihadisti. Rispetto ai tempi di Kobane, a Raqqa i ruoli sono ormai invertiti: gli assediati sono adesso gli assassini dell’Isis, che Ayse voleva snidare dalla loro ultima roccaforte in Siria.
La storia della militanza di “Cappuccio rosso” comincia a Istanbul, nella primavera del 2013, quando i giovani schierati a difesa degli alberi di Gezi Park furono brutalmente dispersi dalla polizia e quando il presidente Erdogan si tolse per la prima volta la maschera del padre islamista moderato per svelare al mondo il vero volto dell’autocrate. In poche ore, furono uccisi otto manifestanti, e tantissimi furono feriti. Molte persone furono arrestate, processate e condannate a scontare pene di pochi anni per “danneggiamento della pubblica proprietà” o “interruzione di servizio pubblico”. Contro Ayse fu invece scagliata un’accusata ben più pesante, quella di “militanza in organizzazione terroristica” tra i separatisti del Pkk. Tra le prove depositate contro di lei, un magistrato portò in aula la sua «sciarpa rossa, simbolo di socialismo»: quel “cappuccio” che indossa nelle foto, diventate virali, mentre sorride e fa il segno di vittoria con la mano.
Prima di essere condannata a 103 anni di carcere, la ragazza viene rinchiusa nella prigione di Alanya, a un centinaio di chilometri da Istanbul. Ma scarcerata prima del verdetto dal giudice che l’aveva messa in libertà vigilata, Ayse imbraccia il kalashnikov e scappa nelle montagne del Kurdistan, dove raggiunge la divisione femminile delle milizie curde, impegnata nella liberazione di Raqqa dalle brigate nere del Califfo. Nella sua fuga Ayse segue i sentieri che in carcere le avevano indicato altre detenute e quando finalmente arriva a Kobane scrive una lettera in cui annuncia di essersi unita al braccio armato dell’illegale Partito comunista marxista-lenninista turco, composto da uomini e donne che ancora oggi la Turchia di Erdogan bombarda additandoli come terroristi.
Nel post che le ha dedicato ieri su Facebook, Zerocalcare scrive: «È sempre antipatico puntare i riflettori su una persona specifica, in una guerra dove la gente muore ogni giorno e non se la incula nessuno. Però siccome siamo fatti che se incontriamo qualcuno poi per forza di cose ce lo ricordiamo e quel lutto sembra toccarci più da vicino, a morire sul fronte di Raqqa contro i miliziani di Daesh è stata Ayse Deniz Karacagil, la ragazza soprannominata Cappuccio Rosso».
Nel suo bel libro Kobane Calling - a metà tra diario e graphic journalism - il fumettista aveva ripercorso i suoi viaggi in Turchia, Iraq, Siria, raccontando tra le macerie della città contesa il sogno del popolo curdo, il solo al mondo a cui nessuno ancora riconosce i confini di una nazione.
Ayse è rimasta uccisa nel corso di un’offensiva lanciata dalle brigate curdo-siriane, quelle armate da Washington. Sul sito dell’International Freedom Battalion, dove uno slogan recita che la loro bandiera è rossa per il sangue dei suoi martiri, le ultime ore di Ayse non vengono raccontate.
La ragazza è descritta come una combattente coraggiosa, sempre pronta a offrirsi volontaria per le operazioni più pericolose. Nell’annuncio della sua morte è scritto che è caduta sul campo, da eroina. Ma non si accenna al fatto che “Cappuccio rosso” aveva soltanto 24 anni.
Repubblica 2.6.17
I sei giorni che cambiarono il mondo
di Bernardo Valli
GERUSALEMME Quella mattina del 5 giugno, di cinquant’anni fa, ero lontano dall’immaginare il nuovo Medio Oriente che stava per disegnarsi. Ero al Cairo, sulla sponda del Nilo, nell’attesa di una guerra inevitabile, ma della quale era difficile prevedere il momento in cui sarebbe cominciata. L’incertezza non era sui giorni, le settimane, i mesi che mancavano all’inizio. Sembrava una questione di ore. E invece l’attesa fu di qualche minuto. Gli eserciti avversari erano pronti in Israele, dove da giorni erano stati richiamati i riservisti, e sull’altro fronte, in Egitto, in Siria, in Giordania, i paesi di prima linea, con i quali si erano schierati, perlomeno nelle dichiarazioni, l’Arabia Saudita, l’Iraq, il Libano e altre nazioni ancora. L’armonia non regnava tra gli alleati arabi. I siriani ostentavano la loro autonomia rispetto agli egiziani che si consideravano alla testa della coalizione anti-israeliana. In Israele erano ormai state superate le esitazioni sulla necessità di lanciare l’offensiva.
Ero reduce da Gaza. Avevo percorso il Sinai nei due sensi. Un viaggio polveroso sulle strade della penisola, tra le colonne corazzate e i reparti di fanteria egiziani; e a Gaza tra i palestinesi ammassati sulle piazze dove venivano armati con vecchi fucili Enfield abbandonati dagli inglesi. Erano i profughi di vent’anni prima, della guerra ’47-48, che speravano di ritornare nelle loro case, in quello che era diventato Israele. Molti avevano appese al collo le chiavi arrugginite delle loro vecchie abitazioni, ormai inesistenti.
Guardando il Mediterraneo dalla finestra del suo ufficio, il generale comandante la guarnigione della Striscia di Gaza mi aveva ripetuto gli ordini ricevuti da Gamal Abdel Nasser. Doveva combattere fino all’ultimo uomo. «Questa città, aveva sentenziato, sarà la Stalingrado del Medio Oriente». Nella base militare di al Arish, il comandante dei reparti corazzati destinati a scontrarsi con quelli israeliani non mi aveva nascosto il dilemma che l’aveva tormentato a lungo. Aveva esitato tra la tattica di Rommel e quella di Montgomery. Alla fine aveva preferito quella più mobile del comandante dell’Afrika Korps a quella del suo avversario inglese. Rommel aveva perso, è vero, ma non vince sempre il migliore, mi aveva assicurato il loquace e cordiale ufficiale egiziano.
Nell’attesa della guerra annunciata, quella mattina, al Cairo, bevevo l’ennesimo tè alla menta guardando le pacifiche, silenziose feluche con l’albero e la vela inclinati verso la prua. Scivolavano sull’acqua torbida del Nilo, disertato dai rumorosi battelli carichi di turisti diretti a Luxor e a Assuan. Gli stranieri se ne erano andati. Il segnale dell’inizio della guerra arrivò con i ripetuti tonfi provenienti dal deserto, ai limiti della metropoli, oltre il quartiere di Heliopolis, dove si stendevano le piste dell’aeroporto. Quei rumori sordi, attutiti dalla lontananza e dal vasto sbarramento di costruzioni, parevano inoffensivi.
Il cielo fu trafitto da centinaia di esplosioni, macchie nere che si dissolvevano nell’azzurro limpido. La contraerea egiziana rispondeva sparando nello spazio vuoto. Uomini e donne, camerieri, clienti, passanti, autisti con la testa fuori dal finestrino, operai sulle impalcature di un cantiere edile di Garden City con gli occhi rivolti al cielo, sentinelle del vicino ponte con i fucili puntati contro un nemico invisibile, tutti coloro che si muovevano nella città dove arrivava il mio sguardo, e anche oltre, sulle piazze spalancate nella metropoli affollata, e sull’opposta sponda del fiume, a Zamalek, tutti lanciarono grida trionfali, affascinati da un evento tanto atteso che infine si realizzava. Era come se la loro squadra del cuore sempre sconfitta avesse infine segnato un goal decisivo.
Il grande abbaglio egiziano
I numerosi transistor davano a tutto volume, eccitando ancor più la folla, una precipitosa, fantasiosa contabilità della guerra appena iniziata. Secondo le radio venti, trenta, settanta aerei israeliani erano stati abbattuti in pochi minuti. I fiocchi scuri della contraerea che si dissolvevano sulle nostre teste, emettendo raffiche di tuoni asciutti, senza eco, erano scambiati per apparecchi sionisti centrati in pieno dai tiri egiziani. In preda all’esaltazione i cairoti pensavano che i loro difensori non mancassero mai gli obiettivi. Ogni piccola nuvola nera provocata da uno sparo della contraerea era per loro un jet nemico che andava in frantumi. Una rivincita sognata per anni favoriva il grande abbaglio. Si gonfiava l’euforia per una vittoria che era già in realtà una disfatta. Tutte le città israeliane, annunciavano trionfanti le voci delle radio, erano sotto i bombardamenti egiziani e l’esercito di Rabin e di Dayan stava disperdendosi sconfitto nel deserto. L’arte dell’illusione prevalse quella mattina, e nelle ore che seguirono, sulla realtà di una guerra già perduta nei primi minuti. Non un solo aereo egiziano era riuscito ad alzarsi in volo e non un solo carro armato avrebbe nelle ore successive avanzato di un metro. Il generale di Gaza che doveva combattere fino all’ultimo uomo si preparava a firmare la resa in ebraico. E il suo collega di al Arish avrebbe tentato, non senza coraggio, una controffensiva che sarebbe risultata vana, secondo la tattica di Rommel.
Non tanto lontano dalla mia terrazza sul Nilo, dove cominciava il deserto, l’aviazione israeliana aveva distrutto l’aviazione egiziana in pochi minuti, senza neppure darle il tempo di decollare. L’aveva inchiodata a terra, dove era allineata senza protezione, mentre i piloti consumavano la prima colazione nel refettorio accanto alle piste di involo. Il maresciallo Abdel Hakim Amer, comandante delle forze armate egiziane, non aveva pensato di mettere al sicuro gli aerei, in appositi rifugi, o di tenerli in volo in quelle ore decisive. Per questo fatale errore si sarebbe suicidato.
Alle 7,10, ora israeliana, era scattata l’operazione Focus: sedici jet Magister Fouga, di fabbricazione francese e di recente dotati di missili, erano decollati da Hatzor, la base creata durante il protettorato britannico nel centro di quello che sarebbe diventato Israele. In prossimità dell’omonimo kibbutz. Gli aerei Fouga trasmettevano sulle stessa frequenze usate dai Mystère e dai Mirage, e, imitando quegli apparecchi, volavano come se fossero impegnati in una normale ricognizione senza mettere in allarme gli egiziani. Quattro minuti dopo si erano staccati dalle piste di Hatzor dei bombardieri Ouragan, seguiti a cinque minuti di distanza da uno squadrone di Mirage, decollato da Ramat David, e da quindici bimotori Vatours, della base di Hatzerim. Dopo le 7,30 erano in volo circa duecento apparecchi spronati dall’ordine del giorno di Motti Hod, comandante delle forze aeree: « … disperdere il nemico nel deserto affinché Israele possa vivere, sicuro sulla sua terra, per generazioni».
L’intera armata aerea volava a bassa quota, spesso a non più di quindici metri dal suolo, per evitare di essere intercettata dalle ottantadue stazioni radar egiziane. Alcuni apparecchi si diressero a Ovest, verso il Mediterraneo, per poi seguire la rotta inversa, in direzione dell’Egitto. Altri puntarono sul Mar Rosso per poi raggiungere obiettivi più all’interno del territorio egiziano. Il silenzio radio era imposto senza eccezione. In caso di guasti meccanici, precisò il colonnello Rafi Harlev, capo delle operazioni aeree, i velivoli sarebbero precipitati in mare in silenzio. Gli israeliani fecero 164 incursioni in cento minuti e distrussero 286 dei 420 aerei da combattimento egiziani in tredici basi disperse nel Sud e nel Nord del paese, tutte rese inservibili dai bombardamenti. Un terzo dei piloti fu ucciso. Il generale Yitzhak Rabin disse a conclusione di quella mattina che l’aviazione egiziana non esisteva più. Gli israeliani avevano perduto nove apparecchi.
I piloti israeliani avevano seguito un addestramento più intenso e più lungo dei piloti arabi. Avevano più ore di volo e avevano studiato per mesi gli obiettivi da colpire. La maggioranza dei loro aerei era francese, aerei ricevuti negli anni (precedenti alla svolta filo araba di De Gaulle) in cui i governi di Parigi avevano stretti rapporti con Israele, al punto da fornirgli (nel 1956) le informazioni tecniche per la costruzione di armi nucleari. Erano aerei resi molto più operativi dei Mig, Ilyushin e Topolov forniti dai sovietici a siriani e egiziani. I mezzi elettronici avevano raccolto informazioni essenziali. Il contributo dei servizi di intelligence non era stato trascurabile. Facendosi passare per un ex ufficiale delle SS, Wolfgang Lotz, un ebreo tedesco nato in Israele, carpì agli ufficiali egiziani informazioni preziose, fino a quando fu scoperto nel 1964. Più utile ancora fu l’ufficiale dell’intelligence diventato massaggiatore personale di Nasser. Aveva assunto una falsa identità egiziana e parlava l’arabo come un cairota. Forse lo era per nascita.
Al Ghezira Club, dove si giocava a golf, impaurita dalle esplosioni e dai tiri della contraerea, si era raccolta gran parte della grande borghesia. Era una frazione della società egiziana che non aveva motivo di partecipare all’euforica festa delle illusioni esplosa al Cairo. Il socialismo arabo di Nasser aveva nazionalizzato quasi tutti i suoi beni. E forse molti dei soci del club nei giorni o nelle ore successive, chiarito che la vittoria inventata dalla propaganda nasseriana era in realtà una brutale sconfitta, avrebbero condiviso quel che un grande poeta egiziano, nemico di Nasser, il copto George Henein, scrisse più tardi: «Una straordinaria dolce aria di disfatta aleggiava nella sera». Quella mattina del 5 giugno al Ghezira Club prevalevano tuttavia un istintivo patriottismo e la paura. Tra i soci presenti c’era il dottor Riso Levi, il più noto e rispettato ebreo del Cairo. Colto dall’emozione, tra le esplosioni dei missili israeliani e i tiri della contraerea egiziana, il medico si allontanò da solo sul green deserto, sotto gli sguardi della borghesia spaurita, assiepata ai margini del terreno da golf. Non era facile essere ebreo in quelle ore al Cairo. Il dottor Levi vide in chi l’osservava una forte ostilità. Si sentì il nemico. Ma fu sorpreso da una bella e giovane signora che, staccatasi dal gruppo spaurito, si dirigeva verso di lui. Era Nini Sharawi, di una aristocratica famiglia egiziana dell’Alto Egitto. Nini lo raggiunse, lo prese sotto braccio e lo condusse tra gli altri soci, mentre i rumori della guerra si intensificavano sulle vicine sponde del Nilo. Ancora anni dopo, emozionato, il dottor Levi mi raccontava l’episodio. Nella notte del 5 giugno e in quelle seguenti gli ebrei, molti dei quali col passaporto italiano, furono internati e poi espulsi dal paese. Insieme ai giornalisti americani e inglesi. Il dottor Levi rimase. Il Cairo era la sua città. A volte veniva nella mia camera d’albergo e sul balcone, dove nessuno registrava la nostra conversazione, parlava liberamente, a lungo, per alleggerire la tensione. La musica classica ascoltata per ore era il suo tranquillante. Nessuno gli fece mai uno sgarbo. Era un medico popolare. Spesso non poteva radunare nella sinagoga un numero sufficiente di fedeli per la preghiera. Non c’erano più abbastanza ebrei al Cairo.
Nel novembre 1966 Egitto e Siria avevano sottoscritto un’alleanza in cui i due paesi assumevano il reciproco impegno a intervenire nel caso uno dei due fosse coinvolto in un conflitto armato. L’iniziativa era dovuta al desiderio assillante, ossessivo, di una rivincita nei confronti di Israele. L’umiliante sconfitta del ’47-48 aveva condotto all’indipendenza dello Stato ebraico ed era all’origine del colpo di stato dei “liberi ufficiali”, guidati dal generale Naguib e dal colonnello Nasser, che nel ’52 avevano messo fine alla monarchia, e cacciato re Faruk. E nel ’56 non c’era stata una rivincita. Era sotto la pressione americana che gli israeliani, intervenuti con la spedizione franco-inglese (dopo la nazionalizzazione del Canale di Suez), avevano dovuto ritirarsi dal Sinai. Tra i due grandi paesi arabi, Egitto e Siria, c’era una gara per dimostrare la disponibilità ad affrontare lo Stato ebraico. La manifestavano alimentando un’accanita propaganda anti-israeliana e abbandonandosi a una gesticolazione che era la mimica di una guerra. Al momento gli scontri erano limitati, ma destinati a condurre col tempo a un vero conflitto. La questione dei profughi palestinesi, cacciati o fuggiti dalle loro case, era sentita a livello popolare, ma in quel periodo le organizzazioni palestinesi non erano tenute in grande considerazione dai governi arabi. Avevano scarso peso. L’ avrebbero avuto tra breve.
Il 7 aprile 1967 un incidente banale al confine siro-israeliano provocò una battaglia aerea all’altezza delle alture del Golan. Sei Mig-21 furono abbattuti e Damasco si sentì ferita nel prestigio e minacciata in seguito alle dichiarazioni di Yitzhak Rabin, allora capo di Stato maggiore di Tsahal, l’esercito israeliano. I siriani denunciarono l’arrivo di truppe israeliane al confine e i sovietici loro alleati diffusero la notizia, informando con toni allarmati il Cairo. Gamal Abdel Nasser non voleva impegnarsi in una guerra. Sapeva di non essere preparato. Nel ’ 56 l’avevano salvato gli americani ordinando a inglesi, francesi e israeliani di ritirarsi dal Canale di Suez. Consentendogli così di vantare una vittoria politica se non militare, e di ribadire l’espropriazione di quella via d’acqua di importanza strategica, scavata nel secolo precedente. Ma questa volta gli americani erano più che mai al fianco di Israele e lui, Nasser, aveva intensificato, come alternativa obbligata, il rapporto con l’Unione Sovietica. Dalla quale aveva ottenuto la costruzione della diga di Assuan, dopo il rifiuto americano.
La crisi mediorientale era cosi diventata un capitolo della guerra fredda tra le due superpotenze. Nasser non pensava nella primavera ’67 a un conflitto aperto con Israele, anche perché parte del suo esercito, forse la migliore, si trovava nello Yemen da anni, dove combatteva a fianco dei repubblicani in una guerra civile. Ma giocò con sfrontatezza e con grande rischio la carta della provocazione. Concentrò numerosi reparti nel Sinai, al confine con Israele, al fine di costringerlo ad allentare la pressione lungo la frontiera siriana. Era un modo per dimostrare il suo impegno con Damasco. Ma per dispiegare l’esercito nel Sinai il rais del Cairo fu costretto a sfrattare dalla penisola le forze delle Nazioni Unite sul posto da dieci anni, con il compito di interporsi tra i rivali.
La destra e il sionismo
Gli israeliani furono sorpresi dall’azione egiziana e della partenza dei caschi blu il giorno in cui celebravano l’anniversario dell’indipendenza. Nasser prese un’altra decisione che aumentò l’allarme nello Stato ebraico: proibì il passaggio delle navi israeliane negli stretti di Tiran, tra il golfo di Aqaba e il Mar Rosso, e quindi indispensabili, o addirittura vitali ai paesi della zona. Il gesto di Nasser fu interpretato come un decisivo passo verso la guerra. Mentre lui contava sugli americani, sperando che frenassero, come nel ’56, gli israeliani ed evitassero che la crisi sfociasse in un conflitto. Questo suo calcolo risultò con chiarezza nella sua ultima conferenza stampa, quando gli appelli agli Stati Uniti furono ripetuti e decifrabili. Noi che l’ascoltavamo capimmo il messaggio in cui si alternavano spavalderia e tentativo di seduzione. La manovra non riuscì.
A Tel Aviv fu formato un governo di unione nazionale, di fatto un governo di guerra, con Moshe Dayan alla difesa e Menachem Begin come ministro senza portafogli, rappresentante della destra per la prima volta ammessa nell’esecutivo dominato dalla sinistra. Levi Eshkol non era un primo ministro bellicoso e come garanzia, per addentrarsi in un conflitto, voleva un decisivo appoggio americano. Lasciò comunque a Dayan la responsabilità della guerra, con Rabin come capo di stato maggiore. Ai due generali non restava che aprire le ostilità. Vale a dire anticipare un’iniziativa dell’Egitto e dei suoi alleati, ma anche cogliere l’occasione per sbaragliare i numerosi e rumorosi nemici ai confini. L’intensificarsi delle azioni armate palestinesi, che nel ’ 64 avevano creato l’Olp ( l’Organizzazione per la liberazione della Palestina), e l’arrivo al potere a Damasco del partito Ba’th (Rinascimento) particolarmente aggressivo nei confronti di Israele, erano stati considerati segnali allarmanti. Il dubbio sulle reali intenzioni di Nasser non è mai stato del tutto dissipato. Con le sue decisioni, trascinato dalla competizione (su chi era più anti- israeliano) tra gli arabi, egli preparò comunque la trappola in cui sarebbe caduto.
Tsahal concentrò la sua offensiva sull’Egitto, privato ormai, come gli altri paesi arabi, di una protezione aerea. I palestinesi, principali vittime del dramma mediorientale, si difesero con coraggio a Gaza. Ma non a lungo. Noi cronisti scrivevamo dal Cairo le nostre corrispondenze, le affidavamo al telex dell’ufficio stampa, e finivano nella spazzatura, dopo essere state lette dai censori. Il passaggio sul lungo Nilo di camion isolati, con pochi soldati e i teloni slacciati e sbatacchiati dal vento, furono le prime immagini della disfatta nel Sinai. La testimonianza di un gruppo di petrolieri americani costretti ad abbandonare i pozzi nella penisola ci descrisse l’esercito egiziano in rotta. In un articolo finito nel cestino, ma letto prima da un giovane censore palestinese che aveva studiato dai salesiani la nostra lingua, figurava la parola “sterminato”. L’aggettivo si riferiva allo spazio, al deserto, ma il censore lo interpretò nell’altro significato, e l’affiancò all’esercito egiziano in rotta, e quindi “sterminato”. Fui convocato da un colonnello dell’intelligence che mi chiese come osassi usare un termine simile riferendosi al suo esercito. Mentre mi rimproverava per quell’aggettivo che giudicava insultante, dalle finestre dell’ufficio, affacciate sul lungo Nilo, si vedevano sfilare i resti dei reparti fuggiti dal Sinai. Quelle immagini drammatiche non piegavano l’orgoglio del colonnello.
Gerusalemme Est fu conquistata il 7 giugno, il terzo giorno di guerra. La controllava Hussein di Giordania, membro di una famiglia reale, quella hashemita, costretta ad abbandonare il califfato di due luoghi santi, La Mecca e Medina, e compensata con un regno ritagliato nel dissolto impero ottomano. Accusato di complottare con gli ebrei, Abdallah, nonno di Hussein, era stato assassinato da un palestinese. Mentre i paracadutisti israeliani stavano per superare le mura della vecchia Gerusalemme il giovane re cercò di farla dichiarare zona franca dalle Nazioni Unite. Ma quella mattina Motta Gur, comandante dei paracadutisti, annunciò per radio: « Il Monte del Tempio è nelle nostre mani». Alla notizia della conquista del luogo più sacro per l’ebraismo molti soldati non riuscirono a trattenere le lacrime. Fu un momento di intensa emozione per gli israeliani. Era come riappropriarsi di un pezzo di Storia. Quando veniva chiesto a Ben Gurion come mai lui, un agnostico, un laico, considerasse la Bibbia un testo essenziale, il fondatore dello Stato ebraico diceva che in quel libro c’è la storia del suo popolo. Il Monte del Tempio è un pezzo di quella storia.
All’occupazione della Gerusalemme orientale ricca di luoghi santi, Levi Eshkol reagì dicendo: «Abbiamo ricevuto una buona dote, ma è accompagnata da una sposa che non ci piace». Si riferiva alla passione religiosa e alle polemiche che sarebbero sorte attorno alla città tre volte santa. Per gli ebrei, i cristiani e i musulmani. La battuta di Levi Eshkol si è rivelata una giusta previsione. Neppure lui immaginava quanto fosse appropriata. Durante il mandato britannico e nei primi venti anni dell’esistenza di Israele, il sionismo socialista aveva avuto un ruolo decisivo nella formazione della società e dello Stato. Per una parte della sinistra europea, Israele con i suoi kibbutz e i governi laburisti era un punto di riferimento. I religiosi si erano uniti con fatica, riluttanti, al nazionalismo laico. Avevano ambizioni limitate: anzitutto far rispettare le regole religiose, in particolare quelle riguardanti l’alimentazione. Si accontentavano, secondo lo scrittore Amos Oz, di gestire il vagone ristorante. In effetti il laico Ben Gurion aveva dovuto fare concessioni ai religiosi superstiti dei campi di sterminio nazisti. Ma la guerra dei Sei giorni ha mutato il loro ruolo. Hanno rilanciato il sionismo in una versione impregnata di principi e riferimenti biblici, e hanno chiesto e intensificato (assecondati spesso anche da governi laburisti) l’insediamento di colonie nei territori occupati al fine di ricreare col tempo, secondo la loro visione, il Grande Israele. Favoriti dalla crescita dei sentimenti ultraortodossi e dall’intensificarsi delle pratiche religiose nella popolazione, in particolare in quella sefardita, i dirigenti della destra rimasti a lungo nell’angolo hanno fortemente influenzato la società e di riflesso conosciuto un rapido successo politico. Al punto da scalzare la sinistra sionista dal governo. Israele è cambiato con la guerra dei Sei giorni e con quella del Kippur, di sei anni dopo. Oggi i nazional-religiosi non rappresentano numericamente molto, sarebbero il dieci per cento. Ma sarebbero almeno il quaranta per cento tra gli ufficiali subalterni, e in parte anche tra quelli superiori. Ufficiali provenienti spesso dalle famiglie delle colonie israeliane di Cisgiordania ( o Giudea e Samaria). Sono ottimi e fedeli soldati del miglior esercito della regione, e non solo, ma secondo i vecchi militari si richiamano a principi diversi da quelli che ispiravano gli ufficiali di un tempo, usciti dai kibbutz, in cui prevaleva uno spirito laico. Dayan e Rabin ne erano un esempio.
Per il teologo Yeshayahu Leibowitz la guerra dei Sei giorni «è stata una catastrofe storica per lo Stato di Israele » . Secondo Leibowitz le conquiste territoriali del ’ 67 hanno acceso il progetto biblico del Grande Israele. E sollecitato l’idea di annettere le contrade occupate: Gerusalemme Est e la Cisgiordania ( Giudea e Samaria). La società è stata condotta a reprimere un altro popolo, quello palestinese. Da teologo che riponeva i valori non nella terra, ma nei principi, Leibowitz teneva in scarsa considerazione il problema della sicurezza, che ha invece avuto e ha un peso determinante in Israele. Rispettato per l’intensa religiosità e la vasta cultura, Leibowitz era discreditato agli occhi degli altri religiosi sia per la condanna dell’occupazione dei territori conquistati nel ’67, sia per l’invito ai giovani di rifiutare il servizio militare con il ruolo di occupanti, sia perché era favorevole alla totale separazione tra Stato e religione. Dal conflitto di mezzo secolo fa è nata una appassionata polemica sulla morale e il diritto storico degli ebrei sulla Terra di Israele, vista attraverso una interpretazione della Bibbia. La posizione di grandi scrittori, quali Amos Oz e A. B. Yehoshua, è nettamente critica sull’occupazione.
Mai nel nostro tempo un conflitto tanto breve, durato sei giorni, e limitato a una regione, ha avuto conseguenze cosi vaste e prolungate. Ancora oggi molti problemi creati in neppure una settimana del giugno 1967 restano irrisolti e sono almeno in parte all’origine dei contestati mutamenti nella mappa mediorientale. Cambiamenti non solo territoriali. Dalle conquiste di quei giorni ( Gerusalemme Est, Cisgiordania, Golan, e Gaza poi abbandonata) nascono ambizioni che modificano lo spirito dello Stato ebraico. Nell’ebbrezza del successo si intensifica lo slancio nazionalista, in cui contano il richiamo storico e l’aspetto religioso. Lo spazio laico delle origini sioniste si restringe. Cosi la frustrazione del nazionalismo arabo, di cui la dittatura nasseriana è la massima espressione, dopo la nuova sconfitta inflittagli da Israele, contribuisce a far emergere l’alternativa integralista islamica, nella versione violenta, jihadista.
Il 9 giugno, quinto giorno di guerra, gli israeliani hanno già il controllo del Sinai e sono sulle sponde del Canale di Suez. Sul fronte siriano esitano, preoccupati per le eventuali reazioni dei sovietici, stretti alleati e virtuali protettori di Damasco. Ma le esitazioni non durano a lungo, Moshe Dayan dà via libera all’occupazione delle alture del Golan, al confine siriano. Nelle stesse ore il Cairo è sprofondato nel pessimismo. I sovietici hanno inviato armi e munizioni di cui l’esercito egiziano in piena decomposizione non è in grado di servirsi. Gruppi di soldati si aggirano smarriti nelle strade semideserte della capitale. Lo spettacolo conferma ai cairoti che le vittorie annunciate dalla propaganda nascondevano una disfatta su tutti i fronti. Riferendosi a Nasser, nei quartieri popolari, si dice non tanto sottovoce «la bestia». E in alcune capitali arabe, ad esempio a Algeri, davanti all’ambasciata egiziana centinaia di persone scandiscono «Nasser traditore».
Testimonianze di quelle ore descrivono il rais in preda a una forte depressione. Mostra la tasca gonfia per la rivoltella e dice che potrebbe servirsene per togliersi la vita. La sua guardia del corpo si è schierata sul Canale di Suez e lui, Nasser, si sente indifeso, esposto a un colpo di mano degli stessi militari egiziani. Il maresciallo Amer, principale responsabile della disfatta, in quanto comandante delle forze armate, ha già tentato di suicidarsi nel Quartier generale. Ci riuscirà in settembre, quando accusato di un complotto contro Nasser, gli sarà imposto di scegliere tra un processo per alto tradimento e il suicidio. E lui sceglierà quest’ultimo.
Le dimissioni (respinte) del rais
Di primo mattino, quel 9 giugno, Hassanein Heikal, direttore del quotidiano Al Ahram, trova il rais, suo grande protettore, invecchiato «di dieci anni» e in preda a forti dolori alle gambe. Nasser gli dice di essere colpevole del disastro e pronto a espiare. L’Egitto deve ormai trattare con gli Stati Uniti e lui non è la persona adatta. La conquista politica dell’America è la sua ossessione da quando ha preso il potere quindici anni prima. Non riuscire a staccare gli Stati Uniti dall’intesa con Israele è stato il suo grande fallimento. Non gli restano che le di- missioni. Il successore sarà Zakaria Mohieddin, un ufficiale nasseriano della prima ora, più volte ministro, considerato una persona in grado di allacciare un dialogo con l’America. Zakaria figurava come l’esponente più autorevole della corrente di destra del regime. Il maresciallo Amer chiama Nasser al telefono, mentre il direttore di Al Ahram è ancora presente, e l’avverte che gli israeliani hanno attraversato il Canale di Suez. Nasser non lo prende sul serio: «Ha perso i nervi come ha perso l’esercito».
Nel tardo pomeriggio, sono le sei e trenta, il personale dell’albergo si precipita a chiudere le vetrate che danno sul Nilo da un lato, e su una piazza dal altro. Noi clienti siamo invitati a rinchiuderci nelle nostre camere. Una folta squadra di poliziotti armati di fucili e sfollagenti circonda l’edificio, appena in tempo per contenere la folla che cerca di invaderlo. Nasser ha annunciato alla radio le dimissioni. E subito dopo uno speaker ha informato che la calma sta ritornando su tutti i fronti in seguito all’accordo raggiunto per un cessate il fuoco.
Con una voce a tratti spezzata il rais ha difeso la decisione di rimilitalizzare il Sinai, di cacciare i caschi blu e chiudere gli stretti di Tiran. L’intenzione era di dissuadere Israele dall’invadere la Siria. La Russia e gli Stati Uniti avevano esortato l’Egitto a non sparare per primo. Israele, aiutato dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, l’aveva sorpreso scatenando l’offensiva: « Aspettavamo che il nemico arrivasse da Est e da Nord, e invece è arrivato da Ovest. Per cancellare la sconfitta ( Naksa) gli arabi devono restare uniti contro Israele » . Con queste parole il rais si è rivolto al paese.
Non ha ancora terminato il breve discorso che il Cairo esplode. Folle enormi, compatte, occupano le piazze, mentre gli aerei egiziani superstiti volano a bassa quota e l’artiglieria spara dalla collina di Mokattam che sovrasta dal lato Est la capitale. La gente scandisce « no Zakaria — sì Gamal». Zakaria Mohieddin è visto come una resa a Israele e all’America, mentre Gamal Abdel Nasser, superate le critiche, spesso gli insulti, incarna adesso la resistenza. Ossia il rifiuto della sconfitta. Viene scandito anche il nome di Ali Sabri, un altro « ufficiale libero » delle prime ore, considerato meno filo americano di Zakaria, e quindi un successore più accettabile di Nasser, nel caso il rais non ritirasse le
dimissioni.
In Egitto sono stato testimone di tanti avvenimenti corali: le svolte sempre orchestrate e retoriche del regime; le impennate sentimentali della folla: i funerali grandiosi di Nasser e poi quelli freddi, glaciali di Sadat; l’entusiasmo per vittorie che erano sconfitte. Credevo di conoscere il popolo del Nilo, incline all’esaltazione di rado al fanatismo. Ma il giorno del giugno ’67 in cui Nasser ha dichiarato che rinunciava al potere, addossandosi la responsabilità della fulminea disfatta, e milioni di cairoti si sono riversati nelle piazze e sul lungo fiume, implorandolo di restare, il dramma ha raggiunto un’intensità senza precedenti. L’emozione di milioni di uomini e donne ti investiva come qualcosa di concreto, di palpabile. Steso su un muro che dava sul lungo fiume, e sotto il quale sfilava la folla, ho assistito a quella passionale reazione dell’Egitto. Non c’entrava più la guerra. C’era un popolo illuso, ingannato, frustrato, che si aggrappava al rais, al capo che l’aveva trascinato nella disfatta. Per milioni di egiziani il suo abbandono del potere avrebbe appesantito l’umiliazione. Avrebbe reso definitiva la sconfitta. La sopravvivenza politica del responsabile del disastro era l’ultima linea di resistenza.
La fuga palestinese
Nella notte ho attraversato la città buia, aprendomi un varco nella folla diventata silenziosa nell’attesa di una risposta del rais. All’inizio era stata una tempesta poi il Cairo si era quietato. La gente si spostava per lasciarmi passare quasi con dolcezza, pur sentendo che ero uno straniero. Sembrava che mi accettasse nella sua intimità. Nasser esaudì infine la folla, restava alla testa del paese che aveva portato alla sconfitta. Forse lui stesso aveva orchestrato quel plebiscito, non tanto organizzandolo, perché non ne avrebbe avuto il tempo, ma giocando sui sentimenti della sua gente, con la studiata regia degli aerei a bassa quota e i tiri d’artiglieria dalla collina di Mokattam. Aveva perduto una guerra, ma vinceva il confronto col suo popolo. L’indomani, la decisione di Nasser fu celebrata con una disciplina popolare che era mancata sul piano militare. Il regime aveva ancora la forza di organizzare una manifestazione che aveva anche il valore di una psicoterapia di gruppo per un popolo sconsolato.
Il nazionalismo nasseriano è comunque naufragato nel giugno del ’ 67. Lui, il rais, è sopravvissuto tre anni, e il successore, Anwar el Sadat, è stato assassinato da un egiziano perché aveva avuto il coraggio di andare a Gerusalemme per tentare una pace con Israele. Cosi come anni dopo Yitzhak Rabin fu assassinato da un israeliano per avere sottoscritto un accordo con i palestinesi. Negli anni l’islamismo è dilagato sulle sponde del Nilo e nell’universo musulmano. E l’intransigenza nella società israeliana.
Il 10 giugno, prima del cessate il fuoco firmato l’ 11, gli israeliani arrivarono quasi sotto le porte di Damasco. E avrebbero potuto raggiungere anche quelle del Cairo. Ma la questione non si pose neppure. Fu il generale Rabin, che era stato alla guida delle forze armate israeliane come Capo di stato maggiore, a chiamare “dei Sei giorni” la guerra appena finita. Rabin si è ispirato alla Creazione. In una settimana il territorio sotto controllo dello Stato ebraico era triplicato. E in quello conquistato c’era più di un milione di palestinesi sudditi giordani. Erano morti settecentocinquanta israeliani e ne erano stati feriti tremila. I morti arabi erano stati ventimila, dei quali diecimila egiziani e seimila giordani. Non si parlò di pace. Gli arabi, riuniti a Kartum in settembre, la rifiutarono. Stava del resto già per cominciare la “ guerra d’attrito”, continuazione di quella dei Sei Giorni, lungo il Canale di Suez, sulle cui sponde erano schierati, faccia a faccia, Tsahal e quel che restava dell’esercito egiziano. Rafforzato dal rimpatrio del corpo di spedizione nello Yemen.
La guerra dei Sei Giorni è stato l’incipit di tanti eventi. È continuata di fatto per anni con quella guerreggiata ( d’attrito), ed è riesplosa nel ’ 73 con l’offensiva egiziana del Kippur. Ma soprattutto da quella disfatta è emersa la guerriglia palestinese. Di fronte al disastro degli eserciti tradizionali è apparsa infatti come la salvezza dell’onore arabo, come la sola forza capace di proseguire la lotta contro Israele. Il docile Ahmad Shuqeiri era stato il palestinese preferito da Gamal Abdel Nasser. Apparteneva a una famiglia facoltosa ed era un ex alto funzionario di molti governi arabi, ma anzitutto fedele all’Egitto. Era stato messo da Nasser alla testa dell’Olp al momento della sua creazione. Nei giorni di giugno era spesso disponibile a lunghe conversazioni nel caffè dell’albergo in cui alloggiavo. Era un uomo spiritoso, gentile, che aveva redatto la costituzione dell’Olp in cui si chiedeva la scomparsa di Israele. Quando gli chiedevo come potesse raggiungere l’obiettivo mi rispondeva che gli eserciti arabi avrebbero fatto il necessario. Proprio gli eserciti che in quelle ore venivano sconfitti da Israele. Shuqeiri non era un uomo d’azione. E dopo la disfatta lo sguardo del rais egiziano, confermato al potere, si è posato su Al Fatah, movimento palestinese più attivo, più radicale, e critico nei confronti del Olp di Shuqeiri, giudicato inefficiente. Invitato al Cairo, Yasser Arafat, capo di Al Fatah, si è presentato con la pistola alla cintola. Voleva dimostrare di non essere intimidito. Prima di entrare nell’ufficio del rais fu tuttavia disarmato. Ne uscì praticamente nuovo presidente dell’Olp al posto di Shuqeiri.
Il 22 novembre 1967 il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha approvato la risoluzione 242 come base per futuri negoziati di pace. Il documento prevedeva la restituzione dei territori da Israele durante la guerra e «una pace giusta e durevole grazie alla quale ogni stato dell’area possa vivere in sicurezza » . Oltre « a una giusta soluzione del problema dei profughi». La risoluzione è rimasta inascoltata e Yasser Arafat, promosso leader arabo dalle rovine arabe del ’67, ha occupato la tragica scena mediorientale per anni. Una conseguenza della guerra dei Sei Giorni è stato il Settembre nero, quando Arafat ha cercato invano di strappare il regno di Giordania a Hussein. In quei giorni ad Amman intravidi il capo di Al Fatah sconfitto, ma non ripudiato dal mondo arabo. E lo rividi a Tripoli, in Libano, quando nella valle della Bekà i suoi uomini si battevano ed erano decimati dall’esercito siriano. Prima lo scontro era stato con gli israeliani a Beirut. Quello dei palestinesi è uno strano destino: non solo gli israeliani, ma, anzi più di loro, anche gli arabi si sono prodigati nel reprimerli. Ma vado troppo in fretta con la storia. Sono già nel 1982. Dieci anni dopo il massacro degli atleti israeliani a Monaco. E più di dieci dopo la morte di crepacuore di Gamal Abdel Nasser, che era sopravvissuto al giugno ’67.
Corriere 2.6.17
Il trauma del ’67 inquieta israele
di Yossi Klein Halevi
Nelle prossime settimane si prevedono accesi dibattiti attorno al 50° anniversario della Guerra dei sei giorni, che iniziò il 5 giugno del 1967, e durante la quale Israele sconfisse tre eserciti arabi per poi occupare la Cisgiordania, le alture del Golan e il deserto del Sinai. Ci saranno celebrazioni in Israele per commemorare la riunificazione di Gerusalemme, il cuore pulsante delle speranze e delle preghiere degli ebrei durante duemila anni di esilio. E ci saranno anche dibattiti e riflessioni sul futuro di Israele.
Il ricordo di quella guerra del 1967, nella memoria della comunità internazionale, ha inizio con la vittoria di Israele e la straordinaria dimostrazione di valore militare da parte dell’esercito israeliano che avrebbero trasformato l’intero Medio Oriente.
Tuttavia, per capire appieno l’impatto della guerra sulla psiche israeliana, occorre tornare ancora più indietro, alle settimane che precedettero il conflitto armato. Mentre si interrogano sul futuro della Cisgiordania, gli israeliani ricorderanno non solo la vittoria del giugno 1967, ma soprattutto la sensazione dolorosa di estrema ansia e vulnerabilità che precedette la guerra.
Conto alla rovescia
Il conto alla rovescia verso le ostilità prese avvio a metà maggio, quando il presidente egiziano Gamal Abdul Nasser decretò la mobilitazione di decine di migliaia di soldati verso i confini di Israele. Nasser ordinò alle forze di pace delle Nazioni Unite di ritirarsi e, cosa sorprendente, l’Onu obbedì senza neanche convocare il Consiglio di sicurezza. Subito dopo Nasser ordinò il blocco navale degli Stretti di Tiran, la via marittima a sud di Israele, per poi firmare accordi militari con la Siria e la Giordania.
Pretesto dell’aggressione araba non fu affatto l’occupazione territoriale, difatti la Cisgiordania era controllata dalla Giordania e Gaza dall’Egitto, bensì l’esistenza stessa di uno Stato ebraico. I leader arabi dichiararono che la distruzione di Israele era imminente.
Tutti gli israeliani e gli ebrei spaventati e ansiosi in giro per il mondo rimasero scioccati nel rendersi conto che l’Olocausto non aveva segnato la fine del genocidio contro gli ebrei, ma che il pericolo si era semplicemente spostato dall’Europa al Medio Oriente. E ancor più scioccati furono davanti alla scoperta che Israele avrebbe dovuto affrontare quella minaccia da solo.
La straordinaria vittoria israeliana lasciò sbalordito il mondo intero, e persino gli israeliani stessi. Lo stato ebraico uscì dalla Guerra dei sei giorni con un territorio tre volte più grande rispetto alle dimensioni precedenti.
Più tardi, Israele restituì all’Egitto il territorio più vasto conquistato, il deserto del Sinai, a seguito del trattato di pace tra i due Paesi siglato nel 1979. Per quel che riguarda le Alture del Golan, sottratte alla Siria, la maggioranza degli israeliani concorda nel ritenere che con ogni probabilità resteranno a far parte del territorio di Israele, sia per l’implosione dello Stato siriano che per la presenza dell’Isis e di altri gruppi terroristici operanti sul confine tra Siria e Israele.
La Cisgiordania
Il futuro resta invece incerto per la Cisgiordania, l’ultimo territorio conquistato nella Guerra dei sei giorni. Per Israele, è un dilemma assai spinoso. Se annette il territorio e assorbe al suo interno i diversi milioni di palestinesi che vi abitano, Israele sarà prima o poi costretto a scegliere se essere uno Stato ebraico o uno Stato democratico, due aspetti fondamentali della sua identità. Se concede ai palestinesi il diritto di voto, dovrà rinunciare alla maggioranza ebraica. Se nega il voto ai palestinesi, perderà la sua vocazione democratica.
Ma il ritiro da quelle terre nasconde rischi non meno allarmanti. Il ritorno ai confini precedenti al ‘67 rischia di esporre l’area metropolitana di Tel Aviv alla minaccia degli attacchi missilistici palestinesi dalle colline della Cisgiordania. Gli israeliani temono inoltre che dopo il ritiro, il gruppo fondamentalista e terroristico di Hamas prenda il controllo del territorio, come già accaduto a Gaza. A quale Stato mediorientale assomiglierebbe allora la Palestina: alla Siria? al Libano? all’Iraq? alla Libia?
Gli israeliani sono tormentati da due incubi. Il primo è che non ci sarà mai uno Stato palestinese e lo stallo si protrarrà all’infinito. Il secondo è che ci sarà uno Stato palestinese e Israele si ritroverà a vivere, anche se in modo diverso, la precarietà e l’insicurezza del maggio 1967.
Per coloro che appoggiano il ritiro, il ricordo della vittoria del giugno 1967 fornisce la prova schiacciante che persino nel peggiore dei casi Israele sarà in grado di difendersi. Per coloro che si oppongono al ritiro, il trauma del maggio 1967 resta un avvertimento che Israele potrebbe ritrovarsi nuovamente abbandonato e costretto ad agire da solo.
Il futuro
I pessimisti ammoniscono che ben poco è cambiato negli atteggiamenti del mondo arabo nei confronti di Israele. Avvertono che in un Medio Oriente in disfacimento, le garanzie internazionali sulla sicurezza di Israele come parte di un accordo per il ritiro dalla Cisgiordania non avranno alcun valore. Gli ottimisti, in Israele, controbattono che la Guerra dei Sei giorni ha contribuito a trasformare un piccolo Stato agrario e marginale di appena tre milioni di abitanti nella potenza tecnologica di oggi. Il Paese creato nel giugno ‘67 deve liberarsi dai traumi di quello del maggio ‘67.
La comunità internazionale, tuttavia, spesso rafforza le tesi dei pessimisti. La legittimità di Israele resta una questione aperta nel mondo islamico e sempre di più anche in alcuni settori dell’opinione pubblica occidentale. Quando gli israeliani si sentono assediati, di solito reagiscono irrigidendosi. Quando si sentono benvoluti, ecco che abbassano la guardia. Come quando, dopo la Guerra del Golfo del 1991 e la caduta dell’Unione Sovietica, decine di Paesi dell’Europa dell’Est, dell’Africa e dell’Asia riconobbero lo Stato ebraico e l’Onu si rimangiò la risoluzione sul sionismo come forma di razzismo. Israele reagì dando avvio al processo di pace di Oslo con i palestinesi.
Il modello è chiaro: umiliate e isolate Israele, e il Paese ripiomberà nel terrore del maggio 1967. Accogliete Israele nella comunità internazionale e i suoi cittadini si sentiranno pronti ad agire con la fiducia dei vincitori, capaci di affrontare ogni rischio per la pace.
(Traduzione di Rita Baldassarre)
il manifesto 2.6.17
Trump non sposta l’ambasciata, Netanyahu deluso, Abu Mazen esulta
Israele/Territori occupati. Il presidente americano ha deciso di congelare l'applicazione della legge che stabilisce il trasferimento della sede diplomatica Usa da Tel Aviv a Gerusalemme. Il governo Netanyahu accusa il colpo. L'Anp applaude. Ma la decisione non è definitiva
di Michele Giorgio
GERUSALEMME «Sebbene Israele sia deluso del mancato spostamento, per ora, dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, apprezza l’espressione dell’amicizia di oggi del presidente Trump e il suo impegno a muovere l’ambasciata nel futuro». Benyamin Netanyahu ieri provava a fare buon viso a cattivo gioco dopo la decisione presa da Donald Trump di firmare il decreto che congela per altri sei mesi l’attuazione della legge – il Jerusalem Embassy Act – approvata dal Congresso nel 1995 che stabilisce il trasferimento della sede diplomatica statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme, in modo da riconoscere la città, inclusa la zona Est (palestinese) occupata nel 1967, come la capitale di Israele. Il premier israeliano però non ha potuto trattenersi dal rivolgere una critica al presidente americano. «Il mantenere le ambasciate fuori dalla capitale (unilateralmente proclamata da Israele, ndr) – ha detto Netanyahu – allontana la pace mantenendo viva la fantasia palestinese che lo Stato e il popolo ebraico non abbiano connessioni con Gerusalemme».
Trump non ha mantenuto la promessa fatta in campagna elettorale e che aveva fatto brindare alla vittoria l’establishment politico israeliano. L’ambasciata Usa resta a Tel Aviv. Non cambia nulla. Per ora, sottolinea Netanyahu, però anche lui sa che persino il tycoon che si proclama un alleato di ferro di Israele e che il mese scorso, primo presidente americano in carica, ha visitato il Muro del Pianto nella zona Est della città, non può non tenere conto dell’eccezionale importanza che Gerusalemme ha anche per il mondo arabo e islamico. Nel momento in cui stringe i rapporti con le petromonarchie del Golfo in chiave anti-Iran, Trump ha scelto di sacrificare i desideri di Israele. Il governo Netanyahu ne è consapevole. Per questo non sorprende il forte disappunto del ministro Yuval Steinitz che ha accusato Trump di aver ceduto alle pressioni arabe. «Penso che sia il momento di mettere fine a questa mancanza – ha protestato – tutti riconoscono Gerusalemme come capitale d’Israele e quando Trump viene qui, va a Gerusalemme non a Tel Aviv». Steinitz, polemicamente, ha aggiunto di sperare che il trasferimento dell’ambasciata avvenga «prima dell’avvento del Messia». Una battuta che risponde alle assicurazioni del portavoce di Trump, Sean Spicer, certo che l’interrogativo non è più se la sede diplomatica sarà trasferita «ma quando». Deluso anche il sindaco israeliano di Gerusalemme, Nir Barkat, che si è detto «pronto a fare qualsiasi cosa per concretizzare la mossa».
In casa palestinese, o meglio dell’Anp del presidente Abu Mazen, ieri sera si cantava vittoria, come se Trump fosse davvero interessato a promuovere un accordo tra israeliani e palestinesi fondato sul rispetto delle risoluzioni internazionali. Nabil Abu Rudeinah, ha elogiato «il passo positivo e importante che – a suo dire – migliorerà le possibilità di raggiungere la pace». Quindi ha affermato la volontà dei palestinesi di «continuare a lavorare con il presidente Trump e la sua amministrazione per raggiungere una pace giusta e duratura». Abu Rudeinah sa bene che quella di trump è solo una mossa tattica per far riavviare il negoziato tra israeliani e palestinesi ed evitare uno scontro con il mondo arabo nel momento in cui l’Amministrazione Usa è impegnata, oltre a vendere armi per almeno 110 miliardi di dollari all’Arabia saudita, a formare un fronte arabo sunnita compatto contro l’Iran. Trump intende spostare l’ambasciata Usa ma solo quando lo riterrà più conveniente. E che il presidente americano non sia affatto neutrale tra israeliani e palestinesi, come vorrebbero far credere alcuni esponenti dell’Anp, lo dice lo stesso Abu Mazen che, secondo la stampa locale, avrebbe ammesso di essere finito sotto una valanga di accuse nel faccia a faccia che ha avuto con Trump il 23 maggio a Betlemme, perché secondo gli americani non ha fermato «l’istigazione contro Israele» come aveva promesso di fare durante la sua recente visita alla Casa Bianca.
Repubblica 2.6.17
Fra il 1966 e il 1967 lo scrittore di “Furore” da poco insignito del Nobel raccontò il conflitto nel sudest asiatico
Partì animato da sentimenti patriottici che poi si affievolirono. Ora i suoi dispacci sono raccolti in un volume
Steinbeck in Vietnam
Un grande reporter sulle sponde del Mekong dove muore la “meglio gioventù” americana
Simonetta Fiori
Nelle foto appare un po’ appesantito, come se facesse fatica a impugnare le armi, mirare al bersaglio, farsi largo nella sterpaglia con il suo elmetto d’acciaio. Ma quando punta l’obiettivo del fotografo, John Steinbeck tenta di soffocare in un ghigno furbo la marea di dubbi dentro la sua testa. Stava per compiere 65 anni, troppi per partecipare a una guerra. Troppi per continuare a credere che la guerra in Vietnam fosse necessaria. Sarebbe morto due anni più tardi, tra molti ripensamenti.
È difficile tenere insieme due simboli apparentemente inconciliabili, come possono esserlo luce e ombra, un icona tra le più alte del Novecento letterario — il narratore dell’epopea di migranti all’epoca della Grande Depressione — e la fotografia insanguinata dell’intervento americano. E non è un caso che la storia di Steinbeck in Vietnam sia rimasta nel backstage dell’immaginario collettivo, fin quando un paio d’anni fa è uscita negli Stati la prima raccolta completa del suoi dispacci, una serie di cinquantotto articoli scritti per il Newsday dal dicembre del
1966 all’aprile del 1967 (ora tradotta in Italia da Rossana Macuz Varrocchi nelle edizioni Leg, Vietnam in guerra, con saggi di Thomas E. Barden e Cinzia Scarpino). Sono corrispondenze in forma di missiva, pubblicate sotto la testatina “lettere ad Alicia”. Così aveva voluto lo scrittore per rendere omaggio ad Alicia Patterson, la fondatrice del giornale scomparsa poco tempo prima.
All’inizio Steinbeck non voleva partire. Il presidente Johnson aveva cercato di convincerlo in tutti i modi, ma lui resisteva all’idea di diventare un testimonial del fronte asiatico: e certo lo sarebbe diventato vista la sua gigantesca fama recentemente incoronata dal Nobel. Finché un’occasione famigliare lo spinge a Saigon: l’arruolamento in Vietnam del secondogenito John IV. Non era immaginabile che il grande reporter di guerra, l’autore di pagine indimenticabili sul secondo conflitto mondiale ( Once There Was a War), disertasse il campo di battaglia frequentato dal figlio. Su incarico dell’editore Guggenheim — e non del presidente Johnson — nel dicembre del 1966 Steinbeck parte con la moglie per Saigon. Per poi visitare anche Laos, Cambogia, Thailandia, Hong Kong.
Cosa vede Steinbeck della guerra? Si sposta in elicottero lungo il Mekong, assiste al bombardamento di un B-52, partecipa come osservatore alle escursioni aeree. Sembra confuso, ha l’impressione che la guerra gli sfugga. Ma le sue corrispondenze non vengono mai meno a quello spirito patriottico e interventista con cui era partito. Agli occhi del reporter, la “meglio gioventù” non erano gli hippies o i debosciati che perdevano tempo nelle marce pacifiste ma quei coraggiosi ragazzi che in tuta mimetica si immolavano per la patria. Tornato negli Usa alla fine di aprile — siamo nel 1967 — Steinbeck smette di occuparsi pubblicamente del Vietnam per confessare le sue riserve solo agli amici. «Sono quasi sicuro che quelli che dirigono questa guerra non abbiano né un’idea né il controllo», scrive in agosto all’editor Elizabeth Otis. Muore sedici mesi più tardi. Fortunatamente non fa a tempo a vedere i reduci in carrozzella scagliare le loro medaglie contro la gradinata del Campidoglio.
Repubblica 2.6.17
Marco Marzano e Nadia Urbinati
La vera società libera è quella che rifiuta la tirannia dei padri
Giulio Azzolini
Nel loro saggio Marco Marzano e Nadia Urbinati riflettono sulle trasformazioni della nostra organizzazione di vita proponendo un “patto” tra pari che elimini ogni leaderismo
Chi ha paura della “morte del padre”? Chi teme la crisi di quell’autorità che la tradizione ha visto incarnata nella figura maschile e paterna? Non certo Marco Marzano e Nadia Urbinati, che anzi nel loro saggio La società orizzontale (Feltrinelli) si scagliano apertamente contro quello che chiamano «il modello di Telemaco»: il figlio che, nell’attesa del padre Ulisse, non scatena il conflitto generazionale di Edipo né mira all’autoaffermazione di Narciso. Invece, secondo il sociologo e la teorica della politica, l’attesa del padre tradisce piuttosto l’invocazione del leader, dunque una qualche nostalgia per le vecchie gerarchie.
Alla «logica neo-patriarcale» andrebbe contrapposta, a parer loro, la rivendicazione di una «società orizzontale», ovvero autenticamente democratica. E il saggio, che pone in modo polemico e sempre lucido questioni radicali, àncora tale rivendicazione a una duplice argomentazione, volta a mostrare che una società senza padri è desiderabile e, d’altro canto, che il processo di “orizzontalizzazione” è comunque un destino, malgrado la nostra economia sia stata segnata da quella scandalosa «mutazione antiegualitaria» denunciata proprio da Nadia Urbinati nel 2013 (Laterza). La società orizzontale, in sintesi, sarebbe non solo augurabile, ma anche possibile, a patto tuttavia di vincere una precisa battaglia culturale: quella che ha per avversario la cosiddetta «controrivoluzione dei padri ». Secondo i due autori, infatti, l’Italia ha bisogno di riaffermare il valore etico della democrazia a partire da tre ambiti cruciali: religioso, famigliare e politico.
Sul piano religioso, Marzano e Urbinati descrivono una sorta di passaggio al protestantesimo, compiuto da una generazione di giovani che ragiona in autonomia e stabilisce un rapporto sempre più diretto e libero con la dimensione del divino. Sul piano famigliare, si nega che il declino della famiglia tradizionale, cioè paternalistica e autoritaria, rappresenti una catastrofe.
Al contrario, la democratizzazione delle famiglie avrebbe portato con sé un clima più pacifico, fatto di dialogo e di rispetto reciproco.
Sul piano politico, infine, viene diagnosticata la crisi dei partiti identitari. La loro restaurazione è una causa persa. Ma la loro natura dev’essere per forza leaderistica o verticale? No. La sfida, secondo gli autori, è quella di costruire partiti orizzontali, con una struttura sempre meno piramidale e più reticolare, capace cioè di federare gruppi sorti nella società civile. E ciò non implica il rigetto della dicotomia destra-sinistra, come pretende l’attuale vulgata movimentista. Marzano e Urbinati sostengono che gli stessi valori democratici possono ancora essere declinati con uno spirito riformista e sociale oppure conservatore e liberista, e dunque che le categorie di destra e sinistra restano utili criteri di orientamento.
Se non è l’assenza di padri, il pericolo che incombe sulla società orizzontale è quindi un altro: la trasformazione dell’individualismo in atomismo, ossia l’aggravarsi di una patologia tipica di quegli individui liberi e uguali che rappresentano il cuore della democrazia moderna. Il rischio dei nostri giorni è che le persone si isolino, risultando sempre più sconosciute, indifferenti o ostili le une alle altre, e che il presente si separi da un passato percepito come oscuro ed estraneo. Ma la salvezza sta nella collaborazione tra pari, non già nel ritorno, magari in nome del padre, del capo.
IL SAGGIO La società orizzontale di Marco Marzano e Nadia Urbinati ( Feltrinelli pagg. 112 euro 16)
Corriere 2.6.17
Žižek : assurdo temere l’automazione
La scienza è l’orgoglio dell’Occidente
«Mi oppongo allo strapotere di Internet, ma l’avvento dei robot è un progresso»
di Luca Mastrantonio
Il filosofo sloveno Slavoj Žižek si dichiara in ostaggio della Norvegia, confinato nelle isole Svalbard, dove è stato in vacanza e da dove, in un certo senso, non è mai tornato. «Non voglio sembrare paranoico, ma ogni volta che apro la mia casella di posta elettronica o vado su un motore di ricerca spuntano fuori offerte di viaggio, sconti per hotel, suggerimenti su cosa fare in Norvegia. Ci sono stato con mio figlio, un bel viaggio, sì, ora è finito! Cosa voglio dire? Non ci rendiamo conto di quanti dati regaliamo e quanto siamo spiati dalle grandi aziende digitali», racconta al «Corriere» Žižek, di cui è uscito da poco il saggio Disparità (Ponte alle Grazie) e che sta per pubblicare con lo stesso editore un altro libro, Il coraggio della disperazione , che esce il 15 giugno in coincidenza con la partecipazione del filosofo al premio Hemingway di Lignano Sabbiadoro, da lui vinto quest’anno.
Perché c’è questa differenza tra libertà percepita e libertà sottratta?
«Abbiamo paura dell’esclusione, di restare fuori dal posto dove tutti vogliono apparentemente esserci: club esclusivi, ma da milioni di iscritti! Come Facebook o Twitter».
Come ci si può difendere?
«Ho un cellulare che manda solo sms, per sicurezza, e non sono sui social, per mancanza di tempo. A chi ci passa ore e ore farei fare lavori socialmente utili. Un’idea stalinista, ma meno totalitaria di certe reti social. Non potete farne a meno? Siate consapevoli però che consegnate la vostra vita a degli algoritmi che possono venire utilizzati da autorità statali e, peggio ancora, da aziende che privatizzano alcune funzioni di controllo sulla società. Ha ragione Julian Assange su Google: è, di fatto, una privatizzazione della Nsa».
La «disparità» è un concetto applicabile a vari ambiti: dall’economia alla tecnologia. Dov’è più evidente?
«Prendo una coppia di concetti del filosofo tedesco Peter Sloterdijk, che non è di sinistra: la più grande disparità è tra quelli sono in e quelli che sono out , tra i cosiddetti Paesi civilizzati, che hanno alti standard di diritti sociali, libertà e sicurezza, e quelli che ne sono fuori. Sloterdijk usa il termine “cupola”, per indicare un muro di vetro, concavo, che ci fa vedere fuori e ci protegge, come in certi film di fantascienza, alla Stardust . È un paradosso: a 25 anni dalla caduta del Muro di Berlino viviamo in un mondo apparentemente più unito, e in effetti ci sono meno differenze tra gli Stati, ma sono aumentate le divisioni interne, sempre più profonde, e trasversali: ci sono abissi tra ceti diversi e dentro uno stesso ceto, per motivi culturali e religiosi, non solo economici».
Il muro di Trump rende il discorso evidente. Nel suo talent reality show «The Apprentice» era noto per come mandava via chi veniva eliminato.
«Anche se non verrà costruito, il messaggio è arrivato. Il muro è psicologico, simbolico, televisivo, con un effetto di realtà: distingue chi è in da chi è out . Anche Brexit e il referendum di Erdogan vanno contro l’universalismo dei diritti, a favore di una visione local-nazionalista per cui ognuno comanda a casa sua; e va bene anche agli anti-imperialisti africani come Mugabe, che apprezza Trump e il suo “America first”, che diventa “Zimbabwe first”».
È fantapolitica immaginare Mark Zuckerberg, il padre di Facebook, come campione anti-Trump?
«Sarebbe un’altra sciagura! Non mi piacciono gli imprenditori privati che controllano lo spazio pubblico di milioni di vite. A Davos mostrano il capitalismo dal volto umano, sembrano interessati a risolvere i problemi del mondo e demonizzano i nazionalismi, ma mentono! I nazionalismi sono la reazione al capitalismo e ci danno un falso senso di sicurezza, che è pericoloso. I social network hanno meccanismi simili a regimi poco democratici. In Cina vogliono misurare con algoritmi la fiducia sociale dei cittadini in base a quello che fanno sul web, se guardano siti dissidenti o pornografici. Come nella fiction Black Mirror : all’inizio della seconda stagione, in un futuro vicino, la condizione sociale di ognuno di noi dipende dai like che prende sul web».
Oggi si parla molto di «fake news», ma la disparità tra «vero» e «falso» è antica.
«Intanto non demonizzerei la fiction in sé, a volte ci apre gli occhi. Penso ai film distopici di Hollywood come Hunger Games: nato per ragazzi, mostra alcuni problemi della nostra società meglio di tanti politici. Con la guerra fredda c’erano due grandi narrazioni: il mondo libero contro il mondo giusto, il liberismo contro il comunismo e ognuna produceva fake news . Oggi è solo aumentata la possibilità di produrle e diffonderle. La vera opposizione è tra modernità e relativismo. Penso alla destra creazionista americana che rifiuta Darwin e alla sinistra decostruzionista che vede ovunque il fascismo del potere e propone una visione relativistica; la prima nega la biologia, la seconda, in America Latina, equipara medicina e stregoneria. La scienza è unica, dobbiamo essere orgogliosi di questa invenzione dell’Occidente».
La tecnologia ci promette un mondo in cui i robot lavoreranno al posto degli uomini. Molti temono di perdere il posto di lavoro. Timori fondati?
«È assurdo. Dovremmo essere felici che l’auto si guidi da sola e ci lasci guardare un film, leggere un libro, baciare una donna. Sennò dobbiamo rinunciare alla lavatrice che ha permesso alle donne di emanciparsi dal lavoro di lavandaie. È falsa la dicotomia uomo/robot, le nostre vite sono già automatizzate, sempre più digitali; e sta mutando la nostra coscienza, il rapporto con la vita e la morte».
Si riferisce agli assassini in diretta streaming sui social network?
«Il punto fondamentale è lo schermo. Vediamo tutto lì, e ciò crea l’illusione di una distanza, che sia un gioco. Non è un caso che sia parallelo il boom di social network e videogame: si forgia una nuova soggettività, in prima persona totale, del tutto immersa in una realtà virtuale, da trance, da gioco. Si regredisce alla soggettività di Tom e Jerry, i cartoon dove in una puntata si muore e in quella dopo si è vivi. Così i videogiochi ti possono trasformare in zombie. Attraverso lo schermo viviamo il tempo in modo circolare. Muori, giochi, muori ancora, riparti. Niente trascendenza, solo ripetizione».
Se tutto può finire sullo schermo, nulla resta fuori dalla scena, nulla è osceno. È la fine dell’oscenità?
«Oggi è tutto apparentemente visibile. A livello di piccole storie possiamo vedere tutto: video rubati, intercettazioni, gossip. Con mille pezzetti di gossip crei una biografia di Trump. Ma sui grandi processi sociali ed economici, che anche da lui dipendono, siamo all’oscuro: sono più oscuri e imprevedibili. Chi poteva profetizzare la crisi del 2008? E il razzismo in Europa? Le nostre vite sono oscure a livello globale. Fin troppo chiare a livello personale».
Il porno invade il nostro immaginario. Siamo schiavi del voyeurismo?
«Le racconto una storiella. Un ragazzo è solo, su una isola deserta, con una modella bellissima, diciamo Claudia Schiffer; in mancanza di alternative, lei si concede e, dopo, il ragazzo le chiede un ultimo favore: “Posso disegnarti i baffi e fingiamo che sei mio amico?” Lei accetta, e lui che fa? Le racconta che ha fatto l’amore con Claudia Schiffer! Abbiamo bisogno di testimoni, voglia di raccontare. La sessualità è sempre potenzialmente esibizionista, con parole o immagini. Non c’è però percezione tra esibizionismo privato e dimensione pubblica, con YouTube o altri sistemi che possono portare l’esib izionismo a ossessioni patologiche».
Anche i legami cambiano. Cosa ne pensa del «poliamore»?
«Sono contrario. Avere più partner che soddisfanno aspetti diversi non è vero amore. L’amore vero è disperato: scelgo te perché non posso sopravvivere senza. Sono romantico in questo, monogamo e violento. L’amore è violenza, sopraffazione su se stessi e gli altri, è esclusivo. E osceno, oggi, perché i sentimenti sono estromessi da un mondo dove il porno regna sempre di più».
Lei è ateo. In cosa crede?
«Nello Spirito santo. Cito il mio amico Rowan Douglas Williams, arcivescovo inglese, per cui il cristianesimo dice: Dio è morto, c’è solo lo Spirito santo, che è una visione collettiva. Io ci credo in maniera materialistica: ci siamo solo noi, ma almeno ci siamo. Trovo pericolosa la visione spirituale pseudo-orientale che sta prendendo piede. I torturatori peggiori spesso sono mistici. Non parlo solo dei terroristi dell’Isis, ma del Brasile all’epoca della dittatura, dove molti torturatori della polizia avevano una visione mistica della religione».
La Stampa 2.6.17
Quando Pompei parlava greco
Una mostra nel sito archeologico fa rivivere la città pre-romana al centro di un Mediterraneo di scambi e conflitti tra le culture
di Giorgio Ieranò
Non conosciamo il nome del guerriero etrusco che l’indossava, senz’altro con fierezza, due millenni e mezzo fa. Sappiamo però che l’elmo, dalle acque del Tirreno, finì poi nel santuario di Zeus a Olimpia. Possiamo ancora leggere, incisa nel bronzo, l’iscrizione orgogliosa che ne denuncia l’origine: «Ierone, figlio di Dinomene, e i siracusani dedicarono a Zeus questo bottino etrusco da Cuma». Un trofeo di guerra, dunque, offerto al signore degli dei. Il tiranno di Siracusa Ierone celebrava così la sua vittoria sugli Etruschi nella battaglia navale di Cuma. Era il 474 avanti Cristo.
Sei anni prima, gli Ateniesi avevano affondato i navigli persiani schierando le loro triremi intorno all’isola di Salamina. Ora i Siracusani, dopo avere risalito il Tirreno con la loro flotta, sconfiggevano gli Etruschi in uno scontro altrettanto epico. Oggi è meno famosa, ma la battaglia di Cuma fu celebrata all’epoca quanto quella di Salamina. Persino Pindaro cantò, con parole, come sempre, alate, e non senza enfasi cortigiana, il trionfo di Ierone: «Si è spento il grido di guerra degli Etruschi. Hanno visto mutarsi in pianto la loro arroganza, sulle navi davanti a Cuma. Il principe di Siracusa li ha domati, ha gettato in mare la loro fiorente gioventù, liberando la Grecia dal giogo servile».
Un mondo perduto
L’elmo consacrato da Ierone a Olimpia è il frammento di un mondo perduto. Una testimonianza che ci arriva in diretta da un Mediterraneo in cui le navi greche, etrusche e cartaginesi si sono scontrate furiosamente per decenni. Una partita tra superpotenze, nella quale i popoli indigeni dell’Italia entravano come comprimari. Roma, allora, era ancora poco più di un borgo di pastori: il suo ultimo re, Tarquinio il Superbo, era morto in esilio proprio a Cuma, nel 495 avanti Cristo, alla corte del tiranno greco Aristodemo. E Pompei era un villaggio italico, condannato a subire, a fasi alterne, l’influenza greca o etrusca.
Perché Pompei fu anche greca, molto prima di essere romana. E proprio «Pompei e i Greci» s’intitola la mostra aperta fino al 27 novembre nella Palestra Grande del sito archeologico, con un allestimento firmato dall’architetto Bernard Tschumi (lo stesso al quale si deve, tra l’altro, il progetto del nuovo Museo dell’Acropoli di Atene). Tra altri 600 reperti, spicca appunto l’elmo consacrato a Zeus dal tiranno di Siracusa. L’ha prestato il British Museum di Londra, che lo custodisce dal 1821, quando un ufficiale inglese, dopo averlo trovato tra le rovine di Olimpia, lo regalò al re Giorgio IV. Ora, a Pompei, l’elmo si è ricongiunto a un altro, parte dello stesso trofeo di guerra, che invece era rimasto in Grecia e arriva direttamente dal museo di Olimpia.
La mostra, come scrivono i due curatori, Massimo Osanna e Carlo Rescigno, nel catalogo Electa, vuole «provare a restituire al grande pubblico il rumore degli ingranaggi che facevano funzionare il Mediterraneo tramite reti locali dai confini permeabili, continuamente in contatto, dai nodi mobili e stratificati, in cui le informazioni viaggiano». Era, in effetti, un mondo più complicato e più interconnesso di quanto ci immaginiamo. La mostra racconta una storia mediterranea ricca e frastagliata, che non può essere ridotta, secondo schemi da manuale scolastico, a un passaggio di testimone da Atene a Roma. La stessa biografia di Tarquinio il Superbo, un Etrusco che era nipote di un Greco di Corinto ma regnava sui Romani, dimostra quanto intricato fosse il mosaico dei popoli e delle culture.
Scambi e conflitti, incontri e scontri erano continui e capillari. Si muovevano le persone ma anche le merci, come testimoniano le anfore con i bolli di fabbrica di Rodi o i vasi con iscrizioni etrusche trovati a Pompei. Viaggiavano i miti e le storie. Come quella di Ulisse e le Sirene: mentre Ierone combatteva sul mare, un pittore ateniese la dipingeva su un vaso, ritrovato nell’etrusca Vulci e anch’esso prestato dal British per la mostra. La Grecia, vista da Pompei, erano le colonie, come Ischia e Cuma, fondate fin dall’VIII secolo in Campania. Erano le flotte siracusane che incrociavano nel golfo di Napoli.
Un ideale di raffinatezza
Ma la grecità era anche un ideale, uno stile di vita raffinato a cui le élite locali cercavano di adeguarsi. Anche dopo la conquista sannita, intorno al 420 avanti Cristo, a Pompei, come nel resto d’Italia, gli oggetti greci continuano a essere desiderati e diffusi. Verrà poi il filellenismo dei romani, la smania di copiare e collezionare opere greche.
Nel 79 dopo Cristo su Pompei cala il sipario dell’eruzione. Fino a un attimo prima della catastrofe, Giulio Polibio, un notabile locale discendente da una famiglia di ex schiavi, deve avere guardato con orgoglio lo splendido pezzo di antiquariato che custodiva gelosamente in casa: un lussuoso vaso greco del 460 avanti Cristo con l’ansa modellata in forma di ninfa. L’oggetto, antico già allora, era un simbolo dello status sociale del proprietario. Ora anche questo vaso è esposto in mostra. La lava del Vesuvio l’ha conservato per noi: monumento perenne alle effimere ambizioni di tutti i Giulio Polibio della storia.