mercoledì 14 giugno 2017

SULLA STAMPA DI OGGI:


Corriere 14.6.17
Uccisa dal marito dopo 12 denunce «Colpa dei pm»
di Giusi Fasano

Denunciò il marito per dodici volte. Ma non servì a niente. Il coniuge la uccise. Adesso una sentenza ha riconosciuto la negligenza dei giudici e condannato lo Stato a risarcire con 300 mila euro l’uomo che si era preso cura dei figli della donna. Saverio Nolfo nell’ottobre 2007 aveva assassinato Marianna Manduca, 32 anni, a Palagonia, nel Catanese, e ferito anche il padre della moglie.
Se avessero perquisito casa sua... Se avessero sequestrato il coltello... Se lo avessero indagato, ricoverato, arrestato....
E invece niente. I magistrati della procura della Repubblica di Caltagirone «nel non disporre nessun atto di indagine rispetto ai fatti denunciati e nel non adottare nessuna misura per neutralizzare la pericolosità di Saverio Nolfo, hanno commesso una grave violazione di legge con negligenza inescusabile». Marianna Manduca, 32 anni, aveva implorato aiuto per sé e per i suoi tre bimbi. Aveva chiesto disperatamente protezione al sistema Giustizia. Per dodici volte aveva firmato querele contro quel marito violento e poco prima di essere ammazzata a coltellate — fu il 3 ottobre del 2007 — aveva perfino descritto in una denuncia il tipo di coltello a scatto che lui le aveva mostrato e con il quale l’avrebbe uccisa, come poi ha fatto davvero.
Eppure nessuno ha fermato la furia omicida di un uomo che mille e mille volte l’aveva umiliata, picchiata, insultata, minacciata davanti ai suoi tre bimbi o a testimoni vari: si sentiva forte, impunito, aveva problemi con la droga ed era determinato a eliminare la donna che aveva osato abbandonarlo a se stesso.
Quella mattina di ottobre di dieci anni fa Marianna era per strada assieme a suo padre. Saverio uccise lei colpendola più volte e ferì il padre. Fu poi arrestato e condannato a 21 anni di reclusione.
«Com’è possibile che succeda una cosa del genere e nessuno sia responsabile per non averla aiutata?» chiese anni dopo il padre adottivo dei suoi bambini (un cugino della vittima) agli avvocati Alfredo Galasso e Licia D’Amico. Fu da quella domanda che partì la causa civile per avere il risarcimento dei danni dallo Stato che avrebbe dovuto proteggerla e che invece ha agito con «negligenza inescusabile», come dice la sentenza appena depositata.
Il tribunale civile di Messina ha condannato la presidenza del Consiglio dei ministri a pagare circa 300 mila euro di danni ai figli della vittima e all’uomo che tre giorni dopo l’omicidio decise — senza averli mai conosciuti prima — di prendersi cura di quei tre bimbi. Lui si chiama Carmelo, è un imprenditore edile e vive nelle Marche. Quando Marianna fu uccisa era già padre di tre bambini. Racconta adesso che «era sconvolgente pensare a quei tre piccoli che nessuno voleva. Sarebbero finiti in mezzo alla strada. Così io e mia moglie ci siamo tuffati a pesce in questa storia. I bambini sono stati spettacolari in tutto, bravissimi. Oggi sono ragazzini felici, tutti maschi: sei fratelli da 12 a 20 anni che ci insegnano a vivere emozioni ogni giorno. Ricordo le loro facce quando è arrivata la certezza scritta che sarebbero rimasti con noi per sempre, che avrebbero portato il mio cognome... È stato bellissimo vedere nei loro occhi la serenità di chi non teme più di essere strappato via dalla famiglia».
Della loro mamma hanno un ricordo sepolto dal tempo, sbiadito. Sono andati a trovarla una volta sola al cimitero ed è stata anche l’unica volta che hanno rimesso piede in Sicilia. Il risarcimento definito da questa sentenza (ci sarà presto un ricorso in appello perché venga liquidato anche il danno morale) servirà a garantire a tutti un futuro economico più tranquillo «dato che assieme a loro tre è arrivata anche la grande crisi — spiega Carmelo — e non è stato per niente facile». Ma, com’è ovvio, l’importanza di questa decisione non è la cifra stabilita dai giudici ma il fatto che lo Stato paghi per «l’inerzia delle autorità» che avrebbero invece dovuto darsi da fare per aiutare Marianna. A cominciare dai pubblici ministeri della procura di Caltagirone, contro i quali i condannati potranno ora rivalersi.
Giusi Fasano

Corriere 14.6.17
Perché non facciamo figli
Istat, nascite ancora in calo costante dal 2008
Una mamma su quattro si ferma al primogenito: solo per il 21% si tratta di una scelta economica
Alessandra Arachi


ROMA È un’emorragia che non accenna a finire. Siamo sempre meno in Italia, con l’indice di fertilità più basso d’Europa. E anche quest’anno l’Istat segnala una diminuzione della popolazione: 76 mila persone in meno in dodici mesi e il numero si contiene solo grazie alla presenza dei cittadini stranieri che ormai superano l’8% del totale della popolazione, ovvero 60 milioni 589 mila 445 di cittadini (al 31 dicembre 2016).
Le culle del nostro Paese sono vuote, e continuano a svuotarsi. È dal 2008 che le nascite in Italia calano e nel 2016 il trend si è confermato con decisione: sono venuti al mondo 12 mila bimbi in meno rispetto all’anno precedente, per un totale di meno di mezzo milioni di bimbi (473.438 per la precisione), con 69 mila bimbi stranieri. Ma non è solo colpa della crisi economica. In una ricerca mirata, Giorgio Alleva, presidente dell’Istat, ha messo a fuoco come una donna su quattro che ha già un figlio dichiara di non volerne un altro. Solo il 21% di queste mamme dice che è per problemi di soldi. E quindi? Perché in Italia si finisce per non fare figli?
Il ragionamento è articolato. Il presidente Alleva lo riassume così: «Tutti i tempi si sono spostati in avanti e i tassi di fertilità ne risentono». In effetti a guardare la ricerca si vede come dal ‘76 l’età del primo figlio si è alzata dai 24,7 anni ai 30,8. Ma c’è altro. Alleva parla della «cultura del free child » che qui non abbiamo ancora studiato con basi scientifiche, ma che ci circonda e si diffonde nel nostro quotidiano: «È un fenomeno che si sta studiando a livello internazionale e che da noi si sta sviluppando. Donne che non hanno intenzione di mettere al mondo figli, semplicemente perché preferiscono fare altro, non avere legami».
Guardiamo i numeri della ricerca Istat: nel 1926 la media di figlio per donna in Italia era 3,51, diventata 2,34 nel 1952 e ancora sopra il due (2,11) nel 1976. È da allora che si comincia ad andare sotto la soglia della riproduzione paritaria (due figli che nascono da due genitori). E nel 2015 abbiamo questo triste record: 1,35 figli per donna. Il free child non è stato ancora studiato come fenomeno statistico o scientifico, ma ci vuole poco a capire quanto sia diffuso nella società . E molto di questo dipende dal desiderio di occuparsi a tempo pieno del proprio lavoro e anche della carriera. Secondo l’Istat quasi una mamma su tre (32,2%) non lavorava prima di avere figli e non lavora nemmeno dopo, il 14% abbandona invece il lavoro durante la gravidanza — volontariamente, oppure perché lo perde — e soltanto il 4% inverte la tendenza e trova un lavoro dopo aver avuto un figlio.

Corriere 14.6.17
De Magistris: con la sinistra? Mai in una coalizione che ruoti intorno al Pd
di Fulvio Bufi


«Giuliano sbaglia se punta a far spostare i dem»
NAPOLI «Le elezioni che ci interessano sono Europee, Regionali e Politiche. Ma non le prossime Politiche, quelle dopo».
Quindi stavolta DemA non ci sarà in una eventuale lista unica della sinistra?
«Dipende».
Luigi de Magistris al tavolo con Pisapia, Bersani o chi altri, andrà a sedersi. Lui o il fratello Claudio, che del movimento DemA è il segretario. In dote porteranno i voti di Napoli, che sono tanti e — se nella legge elettorale conteranno le rappresentanze regionali — anche potenzialmente decisivi per il quorum. Offriranno sostegno ma a certe condizioni: «Il programma e gli uomini, che dovranno avere storie di coerenza e rigore per garantire di tener fede al mandato ricevuto».
Il programma però non c’è.
«Il nostro sì: il lavoro come diritto di tutti, la giustizia sociale, il ripudio della guerra».
Questa è la Costituzione .
«Infatti. Una sinistra unita deve partire da quello che gli italiani hanno dimostrato di volere il 4 dicembre. Poi ci sono i beni comuni, la democrazia partecipata e molto altro».
Ma se questo giro non le interessa perché detta il programma?
«Non lo detto. Dico solo come potremmo dare una mano. Comunque anche se nascerà una lista di sinistra con riferimenti credibili, DemA non ne sarà un soggetto promotore. Il nostro progetto è un altro».
Ci sarà davvero questa lista a sinistra del Pd?
«Non so dirlo, e credo che oggi non sappia dirlo nessuno. Più si allontana la possibile data delle elezioni, più possono aprirsi nuovi scenari».
Pensa ai messaggi che si mandano Pisapia e Renzi?
«Pisapia è una persona per bene, ma sul referendum ha sbagliato a schierarsi per il sì e oggi sbaglia se punta a far spostare il Pd verso sinistra, spingendolo ad alleanze diverse da quelle con Alfano e Verdini».
Ora si parla di primarie di coalizione con i dem.
«Se ci saranno, e se ci sarà quindi una coalizione che avrà il Pd come architrave, noi ne staremo alla larga. Non sarebbe coerente mettersi con il Pd: con loro non si può fare nessun programma nuovo e credibile, e la questione vale anche per altri. Noi non abbiamo esigenze di mandare qualcuno in Parlamento e non vogliamo far parte di un puzzle sgangherato né trovarci su un palco con D’Alema o Bassolino: abbiamo storie troppo differenti».
Se invece ci fosse un vostro candidato, toccherebbe a Claudio de Magistris?
«No. Né io né mio fratello saremo candidati. Io perché continuerò a fare il sindaco di Napoli fino alla scadenza del mandato, lui perché continuerà a fare il segretario di DemA che dobbiamo strutturare per quegli appuntamenti elettorali che elencavo prima».
Tra cinque anni lei intende candidarsi premier?
«Sì, la sfida è quella. Oggi Napoli è diventata un soggetto politico. Stiamo dimostrando che si può coniugare il cambiamento radicale con l’affidabilità di governo, a differenza dei 5 Stelle che a Roma mi pare non si siano rivelati tanto affidabili. Con l’attuale governo, poi, abbiamo mostrato un profilo istituzionale che ci è ampiamente riconosciuto: è giusto voler provare a riproporre a livello nazionale una esperienza positiva ed entusiasmante».
Domenica scorsa il vostro primo tentativo elettorale oltre Napoli non è andato molto bene.
«Invece noi siamo soddisfatti. Abbiamo portato due candidati ai ballottaggi e entrambi possono vincere. DemA esiste da cinque mesi, che dovevamo fare di più?».

Il Fatto 14.6.16
Matteo e Beppe, Dio acceca chi vuole perdere
di Peter Gomez


Tra i due litiganti il terzo gode, dice il proverbio. E lo dicono ora pure i risultati del primo turno delle elezioni amministrative. La destra in Italia c’è e avanza. È in testa in 13 su 19 ballottaggi nelle principali città e se per caso vincerà a Genova per il Pd la sconfitta sarà bruciante come quella subita domenica scorsa dal Movimento 5 Stelle. Curiosamente però né Matteo Renzi, né Beppe Grillo sembrano rendersi conto della situazione. Il primo, ancora ieri, spendeva buona parte del tempo per attaccare gli odiati grillini e, sprezzante del ridicolo, sosteneva che Palermo fosse una vittoria del suo partito. Dimenticando che i Dem per poter correre con Leoluca Orlando avevano dovuto nascondere il simbolo (fondendosi con gli alfaniani) e che lo stesso Orlando si era rifiutato di presentarsi davanti alle telecamere di La7 dopo che il suo nome era stato accostato al Pd. Il secondo, invece, forse ansioso di imitare i politici della Prima Repubblica, arrivava a sostenere che quella dei 5Stelle era una “crescita lenta, ma inesorabile”: frase cult da mettere negli annali come la versione 2.0 della “sostanziale tenuta” di democristiana memoria. Contenti loro. Se i due non si svegliano ci penserà la realtà a farlo: investendoli a tutta velocità con una caterva di voti di destra.
I presupposti ci sono tutti. La Lega oltre che utilizzare parole discutibili (per usare un eufemismo), ma certamente utili per cavalcare i disagi e le paure provocati dall’accoppiata crisi economica più immigrazione, può vantare al nord due regioni che agli occhi di molti cittadini appaiono ben governate. Così, mentre Matteo Salvini invita alla lotta, Luca Zaia e molti altri amministratori pubblici hanno il physique du rôle e i curricula adatti per rassicurare anche gli elettori moderati. In Puglia, Raffaele Fitto, con la sua vasta rete di amicizie e clientes, fa il pieno di voti. E Giorgia Meloni, grazie al nazionalismo di ritorno guadagna spazio in quelle regioni in cui Salvini per questioni di pedigree politico, di fatto, non può ancora mettere piede. Infine c’è Forza Italia: Silvio Berlusconi, acciaccato dagli anni e fuori dai riflettori da tempo, riesce ormai a farsi percepire anche da chi lo ha a lungo avversato come un arzillo e simpatico vecchietto, tutto sommato innocuo. A ben vedere, complici le circostanze, la sua grande astuzia è stata quella del Diavolo di Baudelaire: convincere tutti di non esistere.
Certo, per ora le destre vanno in ordine sparso. La legge elettorale uscita dalla Consulta non prevede le coalizioni. Lo stesso Berlusconi è titubante: a lui il proporzionale piace. Viste le forze in campo, pensa (o meglio pensava) di poter riportare il suo partito al governo con un’alleanza post urne con il Pd. Ma da domenica i numeri raccontano pure dell’altro. Se si torna al Mattarellun, o a qualcosa del genere, il centrodestra se la può giocare. Per prendere tutto il piatto. Anche perché di possibili candidati premier non ne ha uno, ma due: Zaia e il presidente della Liguria, Giovanni Toti. In queste condizioni le eventuali primarie del centrodestra (vedrete, prima o poi ci arriveranno pure loro) rischiano di diventare un ulteriore volano verso le Politiche del 2018. Ma Matteo e Beppe, come i due capponi di Renzo, non vogliono pensarci. Uno perché in fondo non sente Berlusconi come un nemico. L’altro perché è sicuro che intanto si andrà al voto col proporzionale. Può essere. Noi ci limitiamo a ricordare che Dio acceca chi vuole perdere. Sarà il caso che Pd e M5S incomincino a inforcare gli occhiali.

Repubblica 14.6.17
Renzi: “Sì alleanze ma non rifarò l’Unione di Prodi”
L’ex premier: “I Cinque Stelle non sono finiti Elezioni anticipate? Non le ho mai chieste”
di Massimo Giannini


ROMA. «Se guardo alla nostra tradizione, finora una cosa veramente di sinistra l’ho fatta: ho perso il referendum costituzionale. Ma adesso dico basta: voglio portare il Pd a vincere davvero, per la prima volta nella sua storia... ». Le amministrative non sono state un trionfo. Matteo Renzi ha perso addirittura nel suo Paese, Rignano sull’Arno. Colpa di papà Tiziano e del caso Consip? «Ma si, ci siamo messaggiati stanotte: babbo, che avete combinato? Mi mandi i numeri? Ma io lo sapevo che finiva così, il sindaco uscente è uno troppo smagato, viene da Forza Italia». Eppure, nonostante questo, il segretario del Pd alle undici del mattino si presenta a
Repubblica in tenuta da “combattimento”. Tirato, e in camicia d’ordinanza, rigorosamente bianca. È un fiume in piena. Dice cose vere: «Sto bene, adesso: dopo il voto del 4 dicembre ho passato una settimana a mangiare di tutto. Ora mi sono rimesso in forma, ho perso 5 chili, mi alleno per il triathlon». Dice cose verosimili: «Avete visto la May, che botta? Si era capito che non era la Thatcher. D’altra parte i politici non sono mai quello che sembrano. Prendete Hollande: pare un uomo grigio e dimesso, e invece è il più simpatico che abbia mai conosciuto... ». Dice anche cose false: «Dopo la sconfitta ho lasciato Palazzo Chigi e il Nazareno, e mi ero rotto le scatole, non volevo tornare, lo giuro! Poi gli amici mi hanno dato una scossa: Matteo, non mollare, puoi dimetterti da tutto, ma non da cittadino...». Ma accetta lo “scontro”, e parla di tutto.
Partiamo dal risultato delle amministrative. Qual è il suo bilancio?
«Se c’è un partito non andato bene, sono i 5 Stelle: vanno al ballottaggio solo in 8 comuni. Il Pd manda molti dei propri candidati al secondo turno e in alcuni casi lo fa con espressioni civiche».
Si dice che vi nascondiate dietro le liste civiche, che i grandi partiti in crisi non hanno il coraggio di metterci la faccia.
«Quando vai a votare per il sindaco se ci sono candidature che vengono dal mondo civico perché non accoglierle? Questa storia che i grandi partiti sono in crisi non la condivido: guardo i sondaggi e vedo il Pd intorno al 30. Eviterei di fare tutta l’erba un fascio. Il punto politico è uno solo: al ballottaggio c’è soprattutto centrosinistra contro centrodestra».
Stavolta col centrodestra in vantaggio.
«La volta scorsa partivamo in testa noi però perdemmo».
È contento di questo risultato?
«Sì. È sostanzialmente un pareggio tra centrosinistra e centrodestra. Si va alla lotteria dei rigori. È difficile capire come andrà a finire. Le elezioni politiche, però, sono un’altra roba e le dico una cosa: non diamo per morto Grillo».
Mart Twain diceva: “La notizia della mia morte è largamente esagerata”. Possiamo dire la stessa cosa dei 5 Stelle?
«L’M5s esiste, è una forza politica. Non so quanta vita abbia davanti.
Non sono morti ma sono un po’ ammaccati: lei sta gongolando come dice Grillo.
«Per me “Gongolo” può essere uno dei 7 nani ».
Parliamo del suo paese. A Rignano sull’Arno è andata male: che segnale è per lei?
C’è dentro qualcosa che la riguarda familiarmente o è stato un caso?
«L’anno scorso per dire che avevamo perso ci ponevano davanti i casi di Roma e Torino. Quest’anno parlano di Rignano, un bel salto di qualità per il mio comune. I lettori di Repubblica ricorderanno un’intervista in cui si parlava di una cena in una bettola segreta tra mio padre e un imprenditore. Non è mai esistita. È una fake news. Si è scoperto poi che pezzi di un nucleo particolare dell’arma dei carabinieri sono indagati perché inventavano prove contro mio padre e contro di me».
Un’altra anomalia del caso Consip è la posizione del suo amministratore delegato, Luigi Marroni. Ha detto ai magistrati che ha subito pressioni, che ha avuto notizia dell’inchiesta da un generale dei carabinieri, da Lotti, eppure sta ancora al suo posto. Chi ha mentito?
«Sarà un giudice a dire chi ha ragione».
Ma non trova strano che Marroni stia ancora al suo posto?
«Questo è un problema che riguarda Consip, io non ci metto bocca. Invece sono certo del comportamento di Luca Lotti perché ci ho lavorato insieme».
Parliamo di legge elettorale. Voi avete provato a fare quello che Napolitano ha chiamato “patto extracostituzionale”: riforma elettorale in senso proporzionale in cambio di elezioni anticipate. Lo schema è saltato: ora che succede? È ancora possibile riproporre sistema maggioritario?
«Io ho perso la poltrona per difendere il ballottaggio e un sistema di democrazia decidente ».
Perché il proporzionale, allora? È democrazia decidente? O non è invece che ci sia l’idea di un accordo con Berlusconi anche per il dopo?
«Berlusconi ha fatto di tutto per far fallire il referendum. Non è propriamente il mio migliore amico. Ma Berlusconi rappresenta Forza Italia, uno dei partiti fondamentali di questo paese. Se dobbiamo fare un accordo Berlusconi, Grillo e Salvini li voglio tutti al tavolo. Possibilmente anche la sinistra radicale. Questo non è patto “extracostituzionale”».
Napolitano alludeva al fatto che dentro questo accordo c’è una convergenza su reciproche convenienze. Lei accetta un modello elettorale che non è il suo e in cambio ottiene elezioni anticipate.
«Non mi metto a fare interpretazioni. Se ci sono quattro leader di partito che si mettono d’accordo per scegliere quali sono le regole del gioco, lo ritengo un patto pienamente parlamentare che ha un suo valore».
Al Messaggero prima che il patto saltasse lei disse: “Merkel corre per vincere da sola. Poi dipende dai numeri: se non ci sono è ovvio che debba fare accordi con gli altri partiti. Per noi sarà lo stesso”.
«Lo ribadisco: questo potrà accadere comunque. Se uno non ha numeri in parlamento li deve trovare. E il sistema proporzionale va in questa direzione: gli accordi li fai in parlamento. Ma io rivendico che le regole si scrivono con gli altri. Continuare a gridare “al lupo, al lupo” per la presenza di Berlusconi dentro il patto istituzionale a mio giudizio è un errore ».
Lei però così rinuncia a un suo principio fondativo: bisogna sapere la sera delle elezioni chi ha vinto.
«Rinunciare a quel principio mi fa male ma ci ho rinunciato il 4 dicembre. In parlamento non ci sono i numeri per una legge maggioritaria. Ma neanche il maggioritario garantisce la sera di sapere chi ha vinto. La verità è che il tema della legge ha funzionato da arma di distrazione di massa: non potete pensare che siamo noi quelli delle larghe intese. Ma se vogliamo fare un accordo con tutti i partiti, ciascuno deve cedere qualcosa».
Lega e Grillo chiedevano di votare subito, lei no?
«Non solo non l’ho chiesto ma ho detto che questo tema sarebbe stato oggetto di discussione prima con Gentiloni. E poi è una prerogativa del presidente della Repubblica».
E adesso che succede?
«Si vota a scadenza naturale. Gentiloni va avanti».
Parliamo del centrosinistra. C’è stato un cambio di strategia: fallito il sistema tedesco, lei ha riaperto il fronte con Pisapia, e con la sinistra del Pd. È questa la linea? E con che credibilità passa da Berlusconi a Pisapia dalla sera alla mattina?
«Non c’è un cambio di strategia. Ho sempre detto che un Pd largo può fare il 40%. Penso che il Pd sia una diga e chi spara contro il Pd spara contro la diga del populismo.
Pensavo facesse un bell’appello a Pisapia.
«Uno gli appelli li fa telefonandosi. Col passaggio politico che si apre avremo di fonte due populismi. Grillo e Salvini. Poi avremo centrodestra e chi lo sottovaluta sbaglia».
E a sinistra?
«Un centrosinistra europeo è disponibilissimo a dialogare con Pisapia, Boldrini, o metta tutti i nomi che vuole».
Anche D’Alema?
«Mi sembra un’ipotesi negata dalla realtà. Quelli che se ne sono andati hanno fatto una scelta, loro. Nessuno li ha cacciati».
Veltroni e Prodi l’hanno criticata recentemente. Cosa dice a due padri nobili del Pd?
«Dico che il Pd è casa loro. Su Prodi: condivido quello che dice. Ben venga tutto ciò che rafforza il centrosinistra purché non si realizzi un’Unione bis che tenga insieme da Mastella a Turigliatto e la sinistra antagonista. Alla fine vince le elezioni, forse, ma non governa».

Repubblica 14.6.17
L’ex sindaco di Milano prepara la convention di “Campo progressista”: probabile la presenza del fondatore dell’Ulivo. Quotidiani i contatti con Orlando Cuperlo in bilico: “Matteo va da un’altra parte”
La sfida di Pisapia: “Alternativi al Pd” Il Professore: “Coalizioni necessarie”
di Tommaso Ciriaco


ROMA. Sfiancare Matteo Renzi, piegarlo fino a costringerlo a un programma comune e alle primarie di coalizione. Adesso la sfida di Giuliano Pisapia al leader dem è partita per davvero. Con un obiettivo: l’egemonia del campo progressista. «Noi stiamo facendo un progetto che in questo momento, purtroppo, è alternativo al Pd - scandisce l’ex sindaco - perché non ci hanno risposto sull’idea di costruire insieme un nuovo centrosinistra. E poi, non si può passare in un’ora da Berlusconi a Pisapia... ». L’avvocato, insomma, è pronto a salpare anche da solo. L’appuntamento è per il primo luglio, con la convention nel tempio dell’ulivismo, in piazza Santi Apostoli. Enrico Letta manderà un messaggio. E Romano Prodi, la carta più preziosa del mazzo di Pisapia, potrebbe clamorosamente partecipare all’evento.
Portare Renzi sul terreno delle primarie - a poche settimane dal congresso del Pd - è un’impresa tutta in salita. Eppure, Pisapia ci crede. E in questa battaglia per l’unità può contare sui suggerimenti di Prodi. «C’è una morale che si può ricavare dal voto - ragiona proprio il Professore - e cioé che le coalizioni sono necessarie. Se uno ha istinto di sopravvivenza, allora lo capisce...». Molto potrebbe cambiare già il 25 giugno, l’altra data chiave di questa storia. Lo sostiene con i fedelissimi anche Pierluigi Bersani: «Temo che la notte dei ballottaggi Renzi si accorgerà di quanto sia necessaria una discontinuità... ». È il ragionamento che fanno in molti, in queste ore. Profetizzano una battuta d’arresto del Pd in occasione dei ballottaggi e sostengono che a quel punto il segretario dem sarebbe tentato da un nuovo rilancio nei gazebo.
La tela “di sinistra”, intanto, si estende di ora in ora. La tesse innanzitutto Pisapia. I suoi contatti con Prodi sono quotidiani. E nella “triangolazione” si è inserito pure Andrea Orlando. «Serve un centrosinistra competitivo - sostiene il Guardasigilli - e purtroppo la candidatura di Renzi a Palazzo Chigi ci consegna alla sconfitta». Servirebbe il ritorno alla coalizione, l’unica medicina in grado di curare il virus della frammentazione dei progressisti. Ma è possibile senza una riforma elettorale?
Da qualche giorno la legge è ferma al palo. E però l’obiettivo degli orlandiani è rimetterla in moto al più presto, in modo da permettere le alleanze pre-elettorali. «È chiaro - ragiona Andrea Martella - che dovremo assumere iniziative politiche e parlamentari in questa direzione, guidando la spinta federativa del centrosinistra». Il piano prevede una proposta parlamentare trasversale, da presentare nella commissione Affari costituzionali del Senato. Gli ambasciatori sono già al lavoro sulla sinistra e sui centristi. E pure i bersaniani concordano: «Se riprende un ragionamento sulla riforma - giura Davide Zoggia - è possibile che si vada in questa direzione».
Un passo alla volta. Adesso l’attesa è tutta per la convention. Lo slogan è un evocativo “Nessuno escluso”, mentre la creatura si chiamerà “Insieme”. E in effetti aderiscono sigle eterogenee, compresi i centristi di Bruno Tabacci e Lorenzo Dellai. Ma è nel Pd che molto si muove. E poco ha a che fare con l’unità.
Cuperlo è già con un piede e mezzo fuori dal Nazareno. «Gianni, il momento è ora - continua a consigliarlo la milanese Barbara Pollastrini - dobbiamo andare via». L’ex candidato alla segreteria nutre ancora qualche dubbio, ma nelle ultime ore ha spiegato in privato perché è vicino all’addio: «Ho sempre lavorato per l’unità del Pd, ma se il Pd va tutto o quasi da un’altra parte, qual è la cosa giusta?». Se Cuperlo è pronto ad abbracciare Pisapia, Bersani raccoglie solo complimenti dall’avvocato. «Lo stimo così tanto che mi sta bene stare dietro di lui». Il sodalizio con Mdp regge, insomma. Altro discorso, invece, per Massimo D’Alema. «Ci ho parlato - riferisce l’ex sindaco - ha una visione diversa, perché io credo in un nuovo centrosinistra molto più aperto».
I renziani attendono, per adesso. Al Nazareno circolano sondaggi riservati che inchiodano la forza progressista al 6%. Poco, anche se comunque un danno. Il pressing degli ulivisti, in ogni caso, è destinato a crescere ancora. Con due obiettivi, alternativi tra loro: piegare Renzi alle primarie per la premiership, oppure costringerlo addirittura a un passo indietro nella corsa delle politiche. «Ci vuole una personalità sopra le parti - è la sintesi di Pisapia - Se Prodi fosse disponibile a candidarsi a Palazzo Chigi, ci metterei la firma. Però mi sembra che lui non sia disponibile».

il manifesto 14.6.17
Enrico Rossi (Mdp): «Primarie con Renzi? Una presa in giro. Facciamole noi, Pisapia si pronunci»
Intervista/Sinistra. Il presidentedella Toscana: «Il centrosinistra va ripensato. Stalinismo escludere chi ha votato Sì il 4 dicembre, come me»
di Daniela Preziosi


Presidente Enrico Rossi, ogni giorno per voi ha la sua pena: ogni giorno Renzi rivolge un invito alla coalizione per Pisapia e un veto contro voi ex Pd. L’ultimo: «Disponibilissimo a dialogare con Pisapia e Boldrini».
Renzi ci prende in giro. Da un lato apre a Pisapia, dall’altro non esclude le larghe intese con Berlusconi. Cosa che Pisapia esclude. Renzi è ambiguo, ambivalente. Non propone nessun cambio di rotta. Ma teme di perdere consensi a sinistra e confonde le acque.
Lei invece esclude le primarie con il Pd.
Se avessi voluto fare le primarie con Renzi non sarei uscito dal Pd, ero anche candidato. C’è una sola strada lineare per noi: c’è un grande spazio a sinistra del Pd per una forza democratica che pone al centro la questione sociale e una trasformazione profonda. Il voto delle comunali lo conferma: il M5S non se la passa bene, il centrosinistra è anemico, il Pd è in calo, l’affluenza pure. Come non porsi il problema di costruire una forza al sinistra del Pd che raccolga la sinistra che c’è e gli uomini e le donne che non si riconoscono nel progetto renziano? Usciamo dalle diatribe del ceto politico. Bisogna individuare sette punti programmatici, portarli alla discussione nel paese, poi selezionare in modo democratico i candidati.
Insomma lei propone primarie e parlamentarie, ma della sinistra?
È l’unico modo. Altrimenti chi potrebbe decidere se è civico o politico, se è vecchio o nuovo? Così supereremo contrapposizioni e veti. Anche su questo alla fine Pisapia dovrà pronunciarsi. I nostri avversari sono la demagogia del M5S, la destra, e le politiche neoreganiane di Renzi.
L’ex premier Prodi guarda con interesse Pisapia e il vostro percorso. Il professore sarà nel vostro pantheon?
Un suo autorevole pronunciamento sarebbe senz’altro un bene. Ma dobbiamo discutere anche di contenuti. Le politiche di tutta la fase del centrosinistra vanno cambiate, devono essere più nette sullo stato sociale e i diritti del lavoro. E serve una riflessione sulle liberalizzazioni.
Ma le lenzuolate di Bersani sono un simbolo di quella stagione. E la sinistra di allora non apprezzò.
In alcuni casi ci sono state privatizzazioni che hanno lasciato il paese nelle mani di pochi. Oggi dobbiamo prendere spunto dal programma di Corbyn. Per esempio: scuola e sanità devono essere ancora più pubbliche.
Eppure la sua riforma della sanità, in regione Toscana, è molto criticata a sinistra. E Sinistra italiana, a cui lei propone un’alleanza nazionale, non è nella sua maggioranza. Perché?
Chieda a loro. All’epoca ci fu un dissenso sulle infrastrutture. Quanto alla sanità, nella mia regione è sempre più pubblica. Il problema è che mancano le risorse.
Per fare primarie insieme dovrete comunque condividere un programma di massima. L’invito vale anche per il Prc?
Il primo luglio (all’assemblea ’Nessuno escluso’, a piazza Santi Apostoli, la storica piazza dell’Ulivo, ndr) presenteremo una piattaforma aperta con sette punti programmatici: investimenti, piani per il lavoro, rilancio dello stato sociale, patrimoniale, superamento di bonus e mance, lotta all’evasione e ai privilegi. E recupero dei diritti del lavoro: che non sarà un evento, sarà un’opera progressiva. Ma bisogna cominciarla.
Cancellerebbe il jobs act?
Quella legge ha una parte che non è stata finanziata, quella delle politiche attive. Per il resto ha prodotto nuova precarizzazione: se almeno il contratto a tutele crescenti avesse sostituito le 44 forme di contratti di precariato com’era stato promesso. Oggi, finiti i soldi finito l’amore, le assunzioni sono ferme. E la cancellazione dell’art.18 è scandaloso sul versante dei licenziamenti senza giusta causa: se un giudice mi dà ragione perché non devo essere reingrato? La Cgil ha presentato una Carta dei diritti. Ripartiamo da lì. Saremo al corteo del 17 giugno contro la reintroduzione dei voucher. Serve un cambio profondo: in Italia siamo parte di un travaglio per il fallimento storico delle politiche blairiane e della Terza via, come giustamente dice Giuliano Amato.
Il vostro riferimento europeo resta il Pse?
Non può che essere così, ma guardo con interesse a Mélenchon in Francia, alla Linke in Germania. E a Tsipras in Grecia, un europeista schiacciato da vincoli insostenibili. Ma anche a Sanchez in Spagna che combatte le larghe intese da dentro il partito socialista.
Il 18 giugno andrà all’assemblea dei ’civici’ lanciata da Falcone e Montanari?
Certo. Ma civici e politici siamo tutti. Nessuno ha la verità in tasca e nessuno può porre veti. Li invito a misurarsi con quello che proponiamo. La condizione perché l’elettorato si mobiliti è non costruire tre o quattro liste, ma una. Certo, non un’ammucchiata arcobaleno né una ridotta. Il processo democratico risolverà questo problema.
Ma i civici, nel loro appello, si rivolgono al «popolo del No». Lei però, come Pisapia, al referendum del 4 dicembre ha votato sì.
Faccio parte di una componente che vuole costruire questa forza anche se ha votato sì. Se guardiamo il passato di ciascuno non andiamo da nessuna parte. Nessuno può cancellare le nostre storie. Quando la sinistra ha cercato la purezza non è andata lontano. O erano i tempo dello stalinismo o quelli della mera testimonianza.
Lo sbarramento al 5 per cento vi obbligava all’unità. Ora che è sceso al 3, non è che rischiate di non avere più bisogno di stare uniti?
Unirsi per un vincolo esterno, per qualche posto da parlamentare, sarebbe una scelta meschina. Le nostre ragioni per l’unità sono molto più profonde, stanno nella sofferenza dei ceti medi e popolari. Se la nostra gente annusasse odore di meschinità fra noi, non avremmo alcuna possibilità.

Repubblica 14,6.17
Il nuovo tridente
PD, se il nemico viene da destra
di Piero Ignazi


IL RITORNO della destra non può essere considerato una sorpresa. Tutti i sondaggi hanno sempre mostrato che le sue varie componenti, sommate insieme, ricevevano gli stessi consensi del M5S e del Pd. Evidentemente si sono sopravvalutate le schermaglie tra Salvini e Meloni da un lato, e Berlusconi dall’altro. Come se non ci fosse ancora quell’”idem sentire” di cui parlava, un tempo, Umberto Bossi. Il tridente del 1994 — Forza Italia, Lega ed (eredi di) An — è ancora in piedi. E la sua radicalità non si è attenuata. Ha solo preso strade diverse. Invece di inveire contro i meridionali e Roma ladrona, il Carroccio versione Salvini punta il dito e alza la voce contro gli immigrati. I Fratelli d’Italia, dal canto loro, sono ancora più agguerriti rispetto ad An ultima versione, quella avviata verso un moderatismo di stampo conservatore: mentre Fini teneva le distanze in maniera inequivocabile dalla estrema destra europea, Giorgia Meloni inneggia a Marine Le Pen. E Forza Italia, infine, come sempre, alterna il pelo del lupo al manto dell’agnello. In questa fase post-referendum è rimasta sorniona a guardare i pasticci combinati dal suo amato-odiato “royal baby”, alias Matteo Renzi, e sembra volergli tendere paternamente la mano. Ma a qual fine? In realtà, Berlusconi coltiva solo un desiderio: quello di tornare a occupare un ruolo centrale nella politica italiana. Non ammette uscite di scena o passaggi di testimone. Per questo ondeggia tra disponibilità a collaborare — come sulla legge elettorale — e barricate — come sul referendum. Le oscillazioni del Cavaliere hanno però un costo: disorientano i tradizionali elettori forzisti, tanto che il partito deve competere con la Lega per conquistare il primato all’interno dello schieramento di destra. Infatti Forza Italia è ancora sostenuta da coloro che non vogliono nemmeno sentire parlare di “sinistra”. Il suo elettorato — soprattutto teleutenti, anziani e casalinghe con basso livello di istruzione — è motivato da sentimenti politici estremamente tradizionalisti e autoritari: il consenso per l’introduzione della pena di morte così come l’opposizione ai matrimoni gay e all’aborto sono molto alti. E anche sull’immigrazione i forzisti non distinguono tanto dai leghisti. Non per nulla i due terzi dell’elettorato (allora PdL) del 2013 si collocava su posizioni vicine all’estrema destra (dati Itanes).
Certo. Berlusconi può plasmare a piacimento la politica del suo partito. Ma se voleva imprimere una svolta moderata poteva sostenere il progetto che lui stesso aveva avviato per una rifondazione del partito, ma che, affidata a Stefano Parisi, è durata solo una notte di mezza estate.
Questo test elettorale ha mostrato che lo scontro finale non riguarda solo Pd e Cinquestelle: la destra è ancora in campo. Soprattutto se si andrà al voto con un sistema maggioritario. Questo passaggio mette in tensione la strategia di Matteo Renzi che dal 2014 in poi è stata impostata sullo scontro con i Cinquestelle. Il nemico numero uno del partito, e dello stesso sistema politico, era il populismo grillino. Infatti, in questi anni il conflitto tra Pd e M5S è stato asperrimo, anche per la veemenza anti-Pd dei pentasellati. Ora lo schema di gioco del Pd deve cambiare perché la sfida più pericolosa viene da destra. Non che “la pelle del grillo” sia già acquisita, come ricordava Ilvo Diamanti: tutt’altro. Ma il M5S deve affrontare il faticoso passaggio da movimento anti-politico, catalizzatore di ogni protesta, a partito organizzato e strutturato, con leader o aspiranti tali inevitabilmente in conflitto tra loro. Non sarà un tappeto di rose. Si sono già visti i primi effetti a livello locale.
E allora l’antagonista del Pd (ri)diventa la destra unita. Per sconfiggerla sono necessari alleati; e anche, evitare che i Cinquestelle appoggino la destra in ostilità al Pd. Tutta una nuova strategia.

Il Fatto 14.6.16
Asor Rosa
“Le mancate risposte del M5S: da qui deve ripartire la sinistra”
Per l’intellettuale ci vorrebbe una Costituente per affrontare le grandi questioni sollevate in questi anni dai grillini
di Antonello Caporale


Matteo Renzi ha posto il Partito democratico fuori dai confini del centrosinistra. Con lui il Pd ha subìto un mutamento antropologico e questo giovane leader, tra l’altro assolutamente legittimato dal voto degli iscritti del suo partito, dimostra di essere cresciuto in ben altre temperie. Come lui si pensi nel confronto politico non dice, dove egli si pensi non sa”.
Inizia con un de profundis all’identità del partito che tuttora è l’erede testamentario della grande mamma – il Pci – il colloquio con Alberto Asor Rosa, letterato e pensatore, sulle speranze, le parole e i confini della sinistra in Italia. “Parlare dei confini della sinistra significa volermi chiedere dei confini dell’universo. È una richiesta irricevibile”.
Professore, le chiedo se la sinistra ha una ragione per continuare a vivere, un modello da emulare, un pensiero da difendere e dei volti da proporre.
Potrebbe mai darsi che io le rispondessi di no?
Potrebbe però darsi che lei spiegasse perché la sinistra trova vigore e un ruolo nella battaglia politica solo quando si affida a leader piuttosto vintage. Dapprima l’ottima performance dell’americano Sanders, poi la vitalità dimostrata da Corbyn in Gran Bretagna. In Italia chi appare più in sintonia con il linguaggio di sinistra appare Pier Luigi Bersani, non proprio un giovincello.
Buona domanda da fare a un 84enne. La più grande sciocchezza è immaginare che per rappresentare i giovani ci vogliano i giovani. Ci vogliono le idee, un pensiero accettabile: chi vuoi rappresentare, in quale mondo mi vuoi portare, e come vorresti edificarlo e poi difenderlo. Detto che anche in Germania i socialdemocratici non sono rappresentati da un ragazzo di primo pelo, la risposta è dentro il senso di ciò che è accaduto negli Usa o in Gran Bretagna. Il popolo ripone la sua stima in coloro che hanno una storia personale credibile, una reputazione inappuntabile. Si appoggia chi si ritiene essere capace di rispondere alla crisi straordinaria – che è insieme economica, culturale e civile – che stiamo attraversando.
In Italia invece la sinistra non sembra avere idee, né volti da spendere. Ma ha ancora un popolo che la voterebbe.
I volti seguono le idee. Ho appena proposto quella che ho chiamato una Costituente della sinistra, o come la si voglia definire. Si ritrovino insieme, si mettano a discutere, raggiungano un accordo su quel che c’è da fare, come farlo e soprattutto quali ceti rappresentare. Vedrà che poi il nome lo trovano.
Quali domande dovrebbero farsi?
Piuttosto direi: quali risposte dovrebbero dare? Prendano allora le grandi questioni sollevate dai grillini. Sono temi necessari per costruire una sinistra nuova. L’altroieri sera ho ascoltato per dieci minuti l’intervento conclusivo di Grillo a Genova: in che mani siamo caduti! La protesta targata Grillo è quanto di più sbagliato ci possa essere, ma le domande che avanza, i temi che affronta meritano una risposta. Ecco: una sinistra efficiente, contemporanea, attiva dovrebbe impegnarsi a dare le disposte che i grillini non sanno offrire.
E nulla proprio da fare con il Pd?
La permanenza di Bersani e compagni in quel partito sarebbe stata suicida. Il regno di Renzi fa fuoriuscire completamente il Pd dalla fisionomia della sinistra italiana. Le stesse modalità con cui attua la sua politica destano sconcerto. Prendiamo le ultime mosse sulla legge elettorale: una volta opera con Berlusconi, poi passa a un accordo con Grillo, fallito il quale gli fa ritenere opportuno lanciare un amo a Pisapia. Ma chi sei? Dove pensi di portare il tuo partito? Quale campo pensi di rappresentare?
Lei prefigura al centro della scena un solo partito, quello del Nazareno?
Alla luce degli ultimi risultati elettorali direi che il Nazareno è fuorigioco. Il centrodestra percepisce una sua rinnovata vitalità, una capacità di aggregazione nonostante tutto. Vede che il potere gli si avvicina e non intenderà spartirlo con estranei.
Dopo il suo ventennio, dopo gli scandali, le condanne, l’inadeguatezza della sua proposta politica, siamo ancora a parlare di Silvio Berlusconi, un signore ottantenne che si fa le foto con l’agnellino e attende i voti sulla sponda del fiume, senza nulla fare. Si chiama rendita parassitaria.
Sull’età le ho ricordato che sta parlando con qualcuno che vanta qualche annetto in più e non crede che sia questo il problema. Sul resto invece la questione è più seria. In una parte del Paese non si è purtroppo mai prodotto in un senso comune la condanna di Berlusconi. Egli anzi proprio in virtù (mi scusi se la parola risulta poco propizia) dei suoi peccati gode di un consenso molto largo.
Ma questa volta con Salvini e la Lega come soci di maggioranza.
La leadership affidata a Salvini o alla Meloni? Ma che sciocchezza! Sono dei gregari e tali resteranno, la pretesa di Salvini di guidare il centrodestra mi sembra irrealizzabile.
Fatta questa premessa.
E aggiunto che conterà capire quale legge elettorale avremo, perché cambia molto se sarà maggioritaria, proporzionale o un singolare ibrido, la rivincita del centrodestra è possibile e, dunque, il patto del Nazareno diviene meno visibile, meno certo.
Un sicuro trionfo per la sinistra! Quanto ha pagato secondo lei la diffusa percezione che la sua l’integrità morale fosse una speranza mal riposta?
L’esercizio del potere ha molto corrotto l’intero ceto politico. Ne hanno fatto le spese anche i movimenti che parevano dover essere meno infiltrabili, come è accaduto in taluni casi finanche con i cinquestelle. Non c’è dubbio che la sinistra paga – rispetto ai suoi competitori – in modo molto salato questa sua opacità. Bisognerebbe dare un segnale molto forte.
La sinistra avrebbe pure i voti, come ci dicono i sondaggi, ma manca dell’essenziale: chi la rappresenta?
No, no. Prima ancora bisogna che ci chiediamo: cosa rappresenta?

Il Fatto 14.6.17
Roma, lo psico-congresso Pd: 4 candidati renziani
Dopo 30 mesi di Orfini commissario, la parola torna agli iscritti: il candidato ufficiale del capo è Andrea Casu
di Gianluca Roselli


Quattro candidati “renziani” l’uno contro l’altro armati. Questo è il risultato della grottesca sceneggiatura del congresso romano del Pd, in programma domenica 25 giugno. Una trama degna dei fratelli Coen che ha visto candidati cadere come birilli sotto il tiro di veti incrociati che hanno reso la corsa a segretario cittadino più difficile di un jackpot milionario.
L’ultimo a farne le spese è stato Daniele Torquati, presidente del XV municipio (Cassia-Flaminia, strappato nel 2013 alla destra dopo decenni), la cui candidatura è stata ostacolata da un veto di Roberto Giachetti. Lui stesso, a poche ore dalla presentazione delle liste, s’è fatto da parte. Altro birillo caduto nelle ultime ore è Silvia Scozzese, commissario al debito storico del Comune, proposta da Angelo Rughetti e dallo stesso Giachetti, colpita pure lei dal tiro incrociato tra renziani. E Mariano Angelucci, vicino a Gasbarra e Fioroni, affondato subito. Il 67% preso a Roma da Renzi alle primarie nazionali aveva fatto sperare in un candidato unitario della maggioranza, ma così non è stato.
Le premesse, naturalmente, erano pessime: al congresso cittadino si arriva dopo l’harakiri della giunta Marino, la sconfitta coi 5Stelle e il partito commissariato da 30 mesi. Un periodo segnato da accuse violente e litigi continui tra il commissario Matteo Orfini e i dirigenti locali. Sotto il Cupolone, poi, “renziani” non significa nulla, sono le sottocategorie a contare: turborenziani, renziani low profile, orfiniani, franceschiniani, popolari, ex veltroniani. Ognuno ha cercato di spingere un nome e di ostacolare gli altri. Risultato: lo stesso Renzi ha dovuto sbrogliare la matassa candidando, in sua rappresentanza, Andrea Casu, 30enne vicino a Luciano Nobili (turborenziano), che pare abbia declinato la candidatura per ambizioni più alte: vuole entrare in Parlamento. Gli altri candidati sono Valeria Baglio, anch’essa renziana ma più vicina agli ex veltroniani di Roberto Morassut; Andrea Santoro, che alle primarie ha votato per Renzi ma intorno a sé ha pezzi di minoranza (Walter Tocci, Estella Marino, Marta Leonori); Livio Ricciardelli, consigliere del I Municipio, l’unico outsider, renziano senza correnti.
Sul candidato espressione della maggioranza i turborenziani si sono subito incartati. Dopo il divieto di presentarsi ai parlamentari (tipo Giachetti o Madia) e altri rifiuti importanti (come quello della capogruppo in Campidoglio nonché moglie di Dario Franceschini, Michela De Biase, anch’essa con ambizioni parlamentari), la situazione si era parecchio ingarbugliata. A quel punto, la partita è stata risolta dal duo Lotti-Guerini e si è giunti al nome di Casu. Il tutto sotto gli occhi di un Orfini che non sembra aver risolto nemmeno uno degli atavici problemi del Pd capitolino. “Sono sempre stato critico con Orfini e gli eventi mi danno ragione. Correnti e sottocorrenti ce ne sono come prima, con la differenza che in passato facevano riferimento ai leader nazionali, oggi sono nominali: ognuno ha la sua”, osserva l’ex segretario Marco Miccoli.
Naturalmente non poteva mancare la polemica sulle firme. Ogni candidato ne doveva raccogliere 400 in almeno 6 municipi. Qualcuno si è chiesto come ha fatto Casu a riuscirci, visto che il suo nome è spuntato all’ultimo, con poche ore a disposizione. Il sospetto, secondo alcuni dem, è che qualcuno abbia raccolto firme su moduli “in bianco”, senza il nome del candidato.

Il Fatto 14.6.17
Pisapia bacchetta Renzi: “In un’ora passa da B. a me”
Timide chiusure - Il progetto dell’ex sindaco è alternativo al Pd “per adesso” e “purtroppo”. Il primo luglio lancia la sua formazione
di Tommaso Rodano


“Il nostro progetto è alternativo a quello del Pd”. Parola di Giuliano Pisapia. Dopo il lungo equivoco sull’intesa con Matteo Renzi, l’ex sindaco di Milano ha calato le carte, in un’intervista con Giovanni Floris a DiMartedì. Pisapia chiarisce, sì, ma sempre con prudenza. Le sue parole sono mitigate da qualche avverbio cautelare. Il suo progetto, dice, è alternativo “purtroppo”. Non coincide con quello del Pd “in questo momento”. Per adesso “la maggioranza del Pd non ci ha dato una risposta: quella di costruire insieme un nuovo centrosinistra”.
Ieri mattina Renzi, da parte sua, aveva continuato il corteggiamento dell’ex sindaco: “Dipende dalla legge elettorale – ha dichiarato nel videoforum di Repubblica – ma siamo disponibilissimi a dialogare con Pisapia e Boldrini. Non c’è nessun cambio di strategia. Io con Pisapia non ho mai chiuso”. Per lui ci sarebbe spazio in lista, o in un’alleanza ristretta – qualora il sistema elettorale lo consentisse – per avere il fianco coperto a sinistra. La proposta è la stessa da mesi. E non basta. Infatti Pisapia la rifiuta: “Non sono tipo che si offende, ma non si può passare da un’ora all’altra da Berlusconi a me”.
L’ex sindaco continua a giocare sul filo di un equilibrio precario. Un passo in avanti e uno indietro. Sabato, per esempio, non dovrebbe partecipare alla manifestazione nazionale della Cgil sui voucher, proclamata dopo il ritorno di soppiatto del lavoro ultra precario nella “manovrina” del governo Gentiloni. Essere presente avrebbe caratterizzato decisamente a sinistra il suo profilo politico sul tema. Forse non ci sarà, ma garantisce: “Quella piazza fa parte del nostro progetto”. Sarà invece a un “dibattito con Camusso sulla democrazia nei luoghi di lavoro”. Sul corteo di sabato non si sbilancia, nonostante qualcuno dei suoi stia tentando di convincerlo: “Stiamo lavorando per farlo venire”, fa sapere Massimiliano Smeriglio, che è il suo punto di riferimento a Roma, oltre che il rappresentante enti locali di Articolo 1 – Mdp.
Per adesso, il perimetro del Campo progressista corrisponde ancora a quello dei bersaniani: Pisapia ha bisogno della piattaforma di Bersani e compagni almeno quanto loro hanno bisogno di lui. Anche se l’ex sindaco non manca di sottolineare la mancanza di sintonia con uno dei fondatori di Articolo 1: “Con Massimo D’Alema ci parlo, ma ha una visione diversa dalla mia, io sono convinto di un centrosinistra più aperto, più largo. Che sia in discontinuità e non sia solo una alleanza elettorale quanto un progetto che vada al di là”.
Il matrimonio con i bersaniani sarà comunque celebrato il primo luglio, in una conferenza di cui ieri sono stati svelati i dettagli. “L’appuntamento è a Roma per un grande incontro nazionale aperto a tutte le forze politiche e sociali che vogliono costruire la casa di un nuovo centrosinistra che si candidi a governare il Paese”, ha scritto Pisapia sui suoi social network.
La scelta del luogo è significativa: la manifestazione è convocata alle 16 e 30 in Piazza dei Santi Apostoli, a Roma. Luogo simbolo dell’Ulivo di Romano Prodi. Non è un mistero che l’ex sindaco guardi al Professore, che nell’ultimo periodo è tornato a farsi sentire e vedere molto spesso, tra saggi programmatici e interviste ai giornali. Pisapia non lo nasconde: “Ci vorrebbe qualcuno che ha vinto contro il centrodestra unendo la sinistra, ci vuole una personalità sopra le parti. Prodi se fosse disponibile a candidarsi a Palazzo Chigi ci metterei la firma, però mi sembra che lui non sia disponibile”.
Altrettanto simbolico sarebbe pure il nome dell’iniziativa: “Nessuno escluso”. Come a garantire che non ci sono veti, nel cantiere ipotetico di un nuovo centrosinistra. Non proprio quello che si desume dalle parole su D’Alema o dalle esitazioni su Pippo Civati e Nicola Fratoianni. Il leader di Possibile il primo luglio ci sarà: “Ma c’è bisogno di costruire un ponte con la manifestazione del 18 giugno promossa dai movimenti, con Anna Falcone e Tomaso Montanari”. Sinistra Italiana deve ancora decidere: “Al di là del manifesto non si sa nulla”.

Il Fatto 14.6.17
Serve Lenin o niente rivoluzione
Al bivio - Uno non vale uno: per abbattere il sistema, anche da non violenti, deve decidere Beppe
di Massimo Fini


Dare ora addosso ai grillini, anche da parte di coloro che in qualche modo simpatizzano per questo movimento (per gli altri è stata una vera orgia, un urlo liberatorio per lo scampato pericolo, rilanciato, oltre che dai politici, da tutti i media nazionali – quante interviste a Pizzarotti e a Cassimatis abbiamo dovuto sentire?) per gli errori commessi è ingeneroso e maramaldesco. Ma poiché questi errori, almeno quelli di fondo, li ho denunciati in tempi non sospetti, quando il grillismo era alle stelle, mi permetto di tornarci sopra adesso, nel momento di una débâcle.
1) Un movimento rivoluzionario che vuole abbattere il sistema, sia pur in modo pacifico e non violento, quando è allo stato nascente non può che essere dirigista, ‘leninista’. Non credo che Lenin e Trotsky consultassero i loro militanti prima della presa del Palazzo d’Inverno. Allo stato nascente di una rivoluzione non esiste “l’uno vale uno”. Grillo se ne è accorto in ritardo e ha cercato di riprendere nelle sue mani il movimento, ma questo ha sconcertato i suoi militanti oltre a dare, per la palese contraddizione fra la teoria e la pratica, facile materia d’attacco agli avversari.
2) Il secondo errore consegue dal primo. Un movimento che può contare su otto milioni di voti non può dare la parola decisiva a meno di 150 mila iscritti.
Ciò premesso queste elezioni ci dicono che a un 50% degli italiani (cioè del complesso del corpo elettorale scontato delle astensioni e di circa il dieci per cento andato ai Cinque Stelle in queste Amministrative) questo sistema partitocratico, che ci ha portato al fosso, sta bene, che vogliono continuare sull’andazzo di sempre. Ma anche qualora le astensioni, che sono aumentate del 7% circa e che manifestano un totale disgusto per la classe politica, dilagassero ulteriormente nulla cambierebbe. Una minoranza avrebbe comunque la meglio sulla maggioranza. Sono gli scherzi, i trucchi, le truffe della democrazia. Un sistema a cui personalmente ho finito di credere da molto tempo (Sudditi. Manifesto contro la Democrazia, 2004).
Come se ne potrebbe uscire? Con una rivoluzione violenta. Le rivoluzioni sono fatte in genere da una minoranza figuriamoci se non sarebbero alla portata di una maggioranza. Ma non è possibile. Sostanzialmente per due motivi. Il primo, minore, è che la nostra popolazione è troppo vecchia (45 anni di media contro, poniamo, i 32 della Tunisia una delle protagoniste delle ‘primavere arabe’) per avere l’energia per scendere sul campo, sul terreno fisico. Il secondo è che l’Italia è integrata all’Europa e persino l’Europa, se non gli stessi Stati Uniti a cui il Vecchio continente rimane sottomesso, ci manderebbe i carri armati. I russi poterono fare la rivoluzione bolscevica senza interferenze, gli italiani quella fascista. Oggi nessun Paese occidentale è più padrone del proprio destino.
Inoltre la democrazia, che è sostanzialmente un sistema di procedure e di parole, ha mille modi per difendersi. In Italia la democrazia, che da noi non è nemmeno una democrazia ma una partitocrazia, ha innocuizzato prima la rivolta che si manifestò nella breve stagione di Mani Pulite, poi la Lega di Bossi e innocuizzerà, come tutto tende a far prevedere, anche il Movimento 5 Stelle o fenomeni minori come è stato quello dei ‘forconi’.
Per questo da tempo preferisco concentrarmi sull’Afghanistan o sull’Isis. Perché almeno lì parlano i fatti, non le parole.

Repubblica 14.6.17
L’ondata di sbarchi non si ferma. Per il ministero bisogna prepararsi quest’anno all’arrivo di 200 mila extracomunitari
Ma il Viminale non fa sconti “La Capitale faccia la sua parte può accoglierne altri 2000”
Vladimiro Polchi


«Molte città sono in difficoltà, ma anche la Capitale deve fare la sua parte. L’ondata di sbarchi non si ferma: quest’anno ci dobbiamo preparare ad accogliere 200mila migranti». Tra i corridoi del Viminale, la lettera della sindaca di Roma, Virginia Raggi, non è giunta inaspettata: «Sappiamo delle tensioni che circolano, ma purtroppo i numeri sono questi e tutti devono fare di più. Stando alle quote concordate con l’Anci, la capitale con la sua provincia potrebbe ancora accogliere 2mila rifugiati».
Il fatto è che mai il nostro Paese ha dovuto trovare un tetto a un numero così elevato di profughi. Attualmente, tra strutture temporanee e centri governativi, sono già 180mila i migranti accolti. La Lombardia col 13% del totale è in testa alla gara dell’accoglienza, seguono Lazio e Campania col 9%, Piemonte, Veneto ed Emilia-Romagna con l’8% e Toscana, Puglia e Sicilia col 7%. Ma non basta: le stime per fine anno portano infatti il ministero dell’Interno ad alzare l’asticella a 200mila posti. Questa volta però, obiettivo del Viminale è quello di non catapultare d’imperio i migranti nei vari territori per ordine dei prefetti, ma distribuirli con tavoli di coordinamento con i sindaci.
Gli arrivi via mare proseguono infatti la loro corsa: al 13 giugno di quest’anno sono sbarcati 64.158 migranti, il 17% in più dello stesso periodo dell’anno scorso (che con oltre 181mila arrivi aveva già infranto ogni record). In gran parte provengono da Nigeria (oltre 9.500), Bangladesh (7.199), Guinea (6.011). I porti più sotto pressione restano quelli siciliani: in testa Augusta (11.366 sbarchi), Catania (7.859), Pozzallo (5.657). Continuano gli arrivi anche dei minori stranieri non accompagnati: già più di 8.300. E non aiutano certo i ricollocamenti, che vanno avanti col contagocce: solo 6.505 i richiedenti asilo che l’Italia è riuscita a trasferire in altri Paesi europei. E così tocca fare da soli.
Il nuovo piano di distribuzione è già in atto. In base all’accordo del 10 luglio 2014, ogni regione deve accogliere una percentuale di migranti pari alla propria quota di accesso al Fondo nazionale per le politiche sociali (per esempio alla Lombardia spetta il 14,15% del totale e al Lazio l’8,6%). E così nel “piano dei 200mila” a tutti toccherà fare di più di oggi. Due esempi: nel 2017 la Lombardia dovrà passare dagli attuali 25mila posti a oltre 28mila, la Campania da 16mila a oltre 19mila. Non è tutto. All’interno di ogni regione, l’accordo Viminale-Anci di dicembre prevede che i comuni fino a duemila abitanti dovranno ospitare 6 migranti, i comuni con più di 2mila abitanti 3,5 migranti ogni mille residenti, mente le città metropolitane (già sotto stress, in quanto hub di transito di molti rifugiati) avranno uno “sconto”: 2/3 posti ogni mille abitanti.
Sapere quanti migranti sono ospitati in ogni città non è facile. Stando alle ultime notizie, 8.600 sono quelli che attualmente vengono ospitati a Roma e in provincia, in oltre 70 strutture, ma a questi se ne aggiungono molti che arrivano nella Capitale, spesso solo in transito e non rientrano nei canali dell’accoglienza ufficiale. Milano ha 3.600 migranti accolti in città, 500 nell’hub di Bresso gestito dalla Croce Rossa e 400 nei 132 comuni dell’hinterland. Oltre 1.200 sono ospitati a Napoli, circa 2.000 a Genova.
Ebbene, secondo i calcoli del Viminale, i numeri dovranno aumentare ancora: «Milano e il suo hinterland può arrivare a 5mila, Roma e provincia devono trovare posto a duemila migranti in più». Insomma, in vista dei nuovi sbarchi, la tensione pare destinata ad aumentare.

Il Fatt 14.6.17
Lampedusa, il pd liquida l’accoglienza
di Daniela Ranieri


Il popolo democratico ventoteniano accogliente terzomondista e obamiano, come da copione leopoldo, vibrava ancora dall’emozione di Fuocoammare vincitore a Berlino quando è arrivata la doccia fredda. Giusi Nicolini, sindaca di Lampedusa ormai per antonomasia, “salvatrice di vite” per l’Unesco e brand della “poesia dell’accoglienza” per Matteo Renzi, non ce l’ha fatta. Ha perso in casa sua contro la lista “Susemuni” (“Alziamoci”, a significare che con lei gli isolani erano riversi o bocconi), creata non da un leghista xenofobo, ma da un ex sindaco di Lampedusa di centrosinistra dal nome da suonatore di pianobar su una nave da crociera americana: Totò Martello.
Questo Totò Martello, che nel profilo Facebook appare col sole in faccia, la sciarpa al collo e il sigaro in mano, secondo le cronache è “amico dei pescatori”, proprietario di alberghi lampedusiani e gestore di un circolo del Pd, uno dei due sull’isola, dove l’altro fa capo al marito di Nicolini. Per noi che seguiamo il Twitter di @matteorenzi, e da tre anni retwittiamo le foto che lo ritraggono insieme alla sindaca mentre osservano entrambi il tramonto da uno scoglio, è stato un trauma. Per i lampedusani, aizzati da Totò Martello, un po’ meno. Sull’isola, Nicolini, candidata al Nobel per la Pace dal pidino Ermete Realacci, era “una ladra di medaglie”, una che badava più alla sua immagine che al benessere degli isolani, e Totò Martello ha meditato la sua rivincita sguarnito di storytelling (per 5 anni ha usato Facebook solo per scrivere “Buongiorno”, “Buonanotte” e “Buona Pasqua a tutti”) ma con l’orecchio a terra. E ha capito quel che Nicolini s’è fatta sfuggire nella rapinosa voluttà antropofagica di Matteo.
Così questa storia che pare un canovaccio camilleriano mostra in controluce la filigrana della narrazione renzista. Tutto quel che Renzi tocca, e tanto più quel che costruisce sopra alle persone per suo comodo, si scioglie al sole come il gelato Grom della gag nel cortile di Palazzo Chigi. Così nel marzo dell’anno scorso Matteo “raccontava” l’isola di Giusi Nicolini, che intanto diventava l’isola di Totò Martello: “Lampedusa, cuore d’Europa. Ho scelto di passare qui questo venerdì speciale, accolto da @giusi_nicolini e da una comunità bellissima”. Un mese prima non si faceva scappare gli allori italici: “Berlino premia Gianfranco Rosi, il suo talento e la poesia dell’accoglienza #Fuocoammare #orgoglio”. E poco dopo ribadiva: “Spero che #Fuocoammare vinca l’Oscar. Grazie #Lampedusa” (per chi avesse dubbi, Fuocoammare non vinse). Seguirono i giorni dell’epica: ben “quattro donne ‘simbolo dell’eccellenza italiana’ accompagneranno il presidente del Consiglio Matteo Renzi alla Casa Bianca per la cena ufficiale con il presidente degli Stati Uniti Barack Obama” (così Ansa l’ottobre scorso, con toni da agenzia Stefani). Come nelle corti del ‘500, quando i sovrani si facevano visita portandosi dietro musici, teatranti, ritrattisti, eruditi, cuochi e danzatori, Renzi con sé – a ornamento della sua gloria – portava due premi Oscar, uno stilista, un campione dell’Anticorruzione e, appunto, un poker di donne (come nell’Urss delle astronaute): l’atleta, la scienziata, l’architetta e la sindaca. Giusi Nicolini fu un colpaccio, spendibile negli Usa anti-Trump al pari del parmesan, simbolo degli italiani brava gente che vincono i premi ripescando la gente in mare (e chissà se Renzi se l’è rivenduta pure alla cena con Obama a Borgo Finocchietto, menù di Luca Bottura: cinque stagionature di parmigiano e dessert a base di fiori).
Erano i giorni della Speranza contro la Paura, dell’Amore che vince sull’Odio. Si favoleggiava di #Italiariparte e si copiava quel che faceva Papa Francesco, che a Lampedusa andò nel 2013 e, con gesto appena un po’ retorico, bevve da un calice ricavato dal legno dei barconi. Si mandava Franceschini sull’isola a inaugurare il “Museo della fiducia e del dialogo per il Mediterraneo”; così come una settimana fa si mandava il ministro dello Sport Luca Lotti a “sostenere una grande donna e una brava sindaca” con la scusa di inaugurare un campo di calcio. Ebbene, Nicolini ha perso, con 908 voti contro i quasi 1600 di Totò Martello, avendo contro mezzo Pd locale e pure Pietro Bartolo, medico eroe di Fuocoammare e quindi ovviamente star dell’ultima Leopolda, dove Matteo lo abbracciò mostrandosi commosso.
Renzi – che s’è guardato bene dal promuovere le primarie sull’isola – l’ha liquidata su Fb: “Ieri Giusi ha perso a Lampedusa, succede… Ma la qualità dei rapporti umani (come si sa, il suo forte, ndr) non viene mai meno. Grazie Giusi… Lavoreremo ancora nel Pd, avanti, insieme”. Noi le diremmo di scappare, indietro e da sola, perché per quanto ci piaccia Totò Martello, con quel nome da parrucchiere del New Jersey, la nostra solidarietà va lei, che ad aprile, benché tardi, aveva capito tutto: “Il Pd non è con me. Sull’isola ha un altro candidato”.

Repubblica 14.6.17
Carceri, Radicali ancora in sciopero della fame contro 41 bis e ergastolo
di Camilla Orsini


ROMA. È il diciannovesimo giorno di sciopero della fame per la dirigente del Partito radicale Rita Bernardini, in Calabria per l’iniziativa della Carovana della Giustizia, quando nel pomeriggio arriva da Roma la decisione del governo di mettere la fiducia sul ddl per la riforma del processo penale. «Un vero e proprio atto di arroganza », dice la Bernardini in collegamento telefonico con Maurizio Turco ed Elisabetta Zamparutti ieri durante la conferenza stampa dei radicali alla Camera. «Orlando, che andò a trovare Pannella negli ultimi giorni di vita, non credo abbia compreso il significato della non violenza. Vuol dire dialogo, ascolto, che nei nostri confronti è stato quasi nullo».
Per i radicali «Pannella viene censurato anche da morto»: quello della Bernardini è infatti il terzo sciopero della fame negli ultimi otto mesi, una lotta non violenta e inascoltata che si somma alle due marce per l’amnistia e alle circa 200 visite in carcere. La proposta dei radicali era di dare alla riforma dell’ordinamento penitenziario una corsia preferenziale, separata dal ddl sul penale. Eppure il ministro della Giustizia «aveva deciso fin dall’inizio di impacchettare tutto senza nemmeno discuterne», accusa la dirigente radicale. Intanto, la Carovana per i paesi simbolo della ‘ndrangheta rimarrà in Calabria fino al 17 giugno per la raccolta firme sulla proposta di legge delle Camere Penali per la separazione delle carriere tra giudici e pm, per raggiungere i 3000 iscritti al partito, per introdurre come riforme obbligatorie l’amnistia e l’indulto, e per il superamento di «trattamenti crudeli e anacronistici » come il regime del 41bis e il sistema dell’ergastolo. Il motto è nel solco della tradizione pannelliana: “con e per i detenuti, con e per le vittime della giustizia”. E annuncia battaglia Sergio D’Elia, dirigente del Partito radicale, affinché «i detenuti del 41bis possano iscriversi al Partito radicale e possano partecipare, in cella, alla vita politica democratica del Paese».

il manifesto 14.6.17
La crociata etnica dei 5 Stelle contro migranti e rom
Roma. La sindaca Raggi ai prefetti: niente più centri di accoglienza per stranieri. E dal blog di Grillo l’attacco a campi nomadi. La virata a 24 ore dal deludente voto amministrativo. Applausi da Salvini e Meloni
di Giuliano Santoro


Sono passate 48 ore dai primi risultati delle elezioni amministrative. Giusto il tempo di osservare i flussi di voti e consultare i comunicatori ed ecco che dal Movimento 5 Stelle parte un uno-due sui temi della sicurezza e dell’immigrazione. Comincia Virginia Raggi, annunciando di aver chiesto al ministro dell’interno di fermare l’arrivo di «migranti» a Roma. «È ora di ascoltare i cittadini romani: non possiamo permettere di creare ulteriori tensioni sociali. Per questo trovo impossibile, oltre che rischioso, pensare di creare altre strutture di accoglienza. Mi auguro davvero che questo appello non cada nel vuoto. E soprattutto che il governo tenga conto di queste mie parole nel momento in cui dovranno decidere dove inviare nuovi migranti».
A stretto giro sul blog di Beppe Grillo compare un testo firmato dal Movimento 5 Stelle, serve a rilanciare la crociata contro i campi rom. Muove sulla base del (molto dubbio) Piano di superamento degli insediamenti diffuso nelle settimane scorse. Ma va ben oltre, rilanciando stereotipi e pregiudizi: «Grazie a noi è iniziata la fine dei campi, delle roulotte e dei caravan in mezzo alle strade della città, gli incendi occasionali, i furti di corrente agli edifici limitrofi. In breve: stop all’illegalità e al degrado». E poi, se non fosse chiaro il tono: «Chi si dichiara senza reddito e gira con auto di lusso è fuori. Chi chiede soldi in metropolitana, magari con minorenni al seguito, è fuori. In più sarà aumentata la vigilanza nelle metro contro i borseggiatori».
Non si tratta di novità: l’amministrazione capitolina da mesi evita di affrontare il tema dell’accoglienza ai cosiddetti «transitanti», rifugiati che intendono presentare domanda d’asilo in un altro paese. Il caso del Baobab, l’associazione di volontari che presta soccorso a migliaia di uomini e donne, è l’emblema di questa disattenzione. Per di più Raggi, una volta eletta, da subito aveva annunciato ai suoi più stretti collaboratori che sui campi rom non avrebbe accettato compromessi. Solo che questa volta l’attitudine alla tolleranza zero si unisce ad opportunità elettorali e mediatiche. Alla Casaleggio Associati sanno bene che l’immigrazione funziona sempre quando si tratta di dettare i tempi alla macchina mediatica (e riprendersi i voti tornati ai berlusconiani). La destra abbocca: Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, acconsente alla proposta della sindaca: «Come consigliere comunale dico che ha fatto bene, è quello che avrei fatto anche io, magari però un anno fa». Matteo Salvini twitta: «Bentornata sulla terra a Virginia Raggi». Dal M5S, Luigi Di Maio esulta: «Sottoscrivo in pieno – afferma – Ormai il Paese è una pentola a pressione. Non possiamo pensare di affrontare questo fenomeno nei nostri confini». E poi rilancia il paravento della legalità : «Non è possibile continuare a costruire centri di accoglienza nelle nostre città per far fare affari alle solite poche cooperative che fanno business sull’immigrazione».
«La richiesta rilanciata con retorica leghista sul blog nasconde le difficoltà elettorali del M5S», afferma Stefano Fassina di Sinistra per Roma. Per i Radicali Italiani «si fanno affermazioni apodittiche, senza formulare alcuna proposta concreta, tanto per dare fiato a un pò di propaganda». I grillini agitano un’emergenza costruita ad arte e per di più affrontata da loro stessi con gli stessi strumenti del passato. Quelli che Raggi chiama «migranti» generici si suppone siano richiedenti asilo. A Roma sono fra le 13 e le 15 mila. Nessuna invasione: si parla dello 0,5% della popolazione. Il fatto è che l’ultimo bando dell’amministrazione capitolina invece di privilegiare l’accoglienza diffusa ha agevolato i grandi gruppi. È il modello che nei casi peggiori è degenerato in Mafia Capitale.
Insomma, mentre Raggi stabilisce arbitrari livelli di allarme e traccia soglie di non accesso, ci sarebbe un modello da ristrutturare. Secondo i volontari di Baobab «sono circa 500 i nuovi arrivi di migranti al mese ». «Riteniamo che il fenomeno sia in aumento rispetto agli anni scorsi – proseguono – Ma abbiamo più difficoltà a mapparlo, visti i continui sgomberi del nostro presidio».

il manifesto 14.6.17
Roma, città chiusa ma a 5 Stelle
di Sandro Medici


Brutti, sporchi e ovviamente cattivi. Migranti, profughi, rifugiati, fuggitivi, sopravvissuti. Non ne vogliamo più. Scaricateli in qualche altra città. Da oggi Roma è città chiusa.
È partita una lettera trepidante e animosa della sindaca Virginia Raggi. Nella quale chiede alla prefetta Paola Basilone d’interrompere il flusso migratorio in città: non vogliamo più stranieri, accoglierli sarebbe «impossibile e rischioso». E ad amplificare il messaggio arriva di sponda anche Beppe Grillo con il suo sacro blog, a minacciare espulsioni e rastrellamenti: faremo a Roma quello che per vent’anni nessuno ha fatto. Eccola affiorare, la pulsione razzista a cinque stelle. È di sicuro un riflesso elettorale, tanto meccanico quanto primitivo. Conseguenza diretta del deludente risultato nelle amministrative di domenica, con tutti quei voti reazionari che sono tornati da dove erano venuti, cioè a destra.
Ma è qualcosa di più. Fa parte dell’orizzonte culturale piccolo-borghese con cui il movimento di Grillo è riuscito a raccogliere consensi indifferenziati. Interpretando e accarezzando gli egoismi gretti, le angustie benpensanti, le collere malintese, i furori xenofobi. Prendersela allora con i Rom che chiedono l’elemosina alle stazioni della Metro o con i ragazzi africani che si accampano alla Stazione Tiburtina, rassicura il perbenismo incupito e le coscienze ottuse.
Finora a Roma ci si era limitati a qualche sgombero di richiedenti asilo e a qualche retata di ambulanti abusivi, con una polizia municipale sempre più manesca e sbrigativa.
E nulla era stato allestito per l’accoglienza, saturando ben presto le strutture preesistenti. Un’inerzia amministrativa inefficiente e impaurita, che non ha regolato i flussi né dislocato i nuovi arrivi, finendo così per amplificare l’impatto migratorio in città.
Non che il Campidoglio brilli per efficacia e prontezza, ma a Roma le possibilità di gestire un’emergenza sociale, accogliendo e ospitando, ci sono e non sono poche. Volumetrie pubbliche inutilizzate, ospedali dismessi, caserme acquisite dal Comune, stabilimenti industriali abbandonati, oltre a migliaia di ettari lungo i margini della città. La sindaca Raggi ha però preferito cullarsi nell’ignavia: per non sottrarre al mercato patrimonio comunale in vendita e per non insediare nuovi centri d’accoglienza invisi ai territori.
Meglio dunque fermare tutto, fermare tutti, e chissenefrega di tutta quella povera gente disperata.

La Stampa 14.6.17
Quando l’avversario politico non ha il diritto di esistere
Pci “ateo e totalitario”, Dc “piovra”, Nenni “patetico”. Uno studio curato da Orsina e Panvini sulla delegittimazione reciproca in Italia dal ’45 a oggi
di Massimiliano Panarari


Prima dello storytelling negativo e dei negative spot, la politica non rifuggiva certo dal «corpo a corpo». Anzi. Ma faceva chiaramente ricorso ad altri metodi e format. E visto che la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi (come diceva il prussianissimo generale Carl von Clausewitz), l’arma utilizzata in abbondanza nel passato - e mai dismessa - era quella della delegittimazione dell’avversario che veniva convertito in nemico totale.
Una tematica su cui l’accademia, tra storiografia (i lavori di Fulvio Cammarano e Stefano Cavazza, di Paolo Pombeni e di Angelo Ventrone) e politologia (Marc Lazar, fra gli altri), ha cominciato organicamente a lavorare negli ultimi anni. E da poco è uscito un libro che affronta in modo sistematico la questione, La delegittimazione politica nell’età contemporanea. Nemici e avversari politici nell’Italia contemporanea (vol. 1), curato dagli storici Giovanni Orsina e Guido Panvini (Viella, pp. 300, € 26); e sempre Orsina è il curatore dell’ultimo numero monografico del Journal of Modern Italian Studies (22/2017) dedicato a questa tematica nell’Italia dal 1945 al 2011.
Una lunga tradizione
La delegittimazione viene inquadrata nei termini di una tendenza di lunga durata (con radici nello stesso percorso di costruzione della nazione italiana), ma che ha conosciuto una serie di «salti di qualità» - come la «demonizzazione» degli avversari - a partire dal secondo dopoguerra, via via fino a Tangentopoli. Ad accomunare i sistemi istituzionali che si sono succeduti all’indomani dell’Unità è stata infatti la minaccia costante della crisi di regime: la delegittimazione reciproca ha finito così per svolgere un ruolo rilevante nei processi di formazione delle culture politiche nei decenni finali dell’Ottocento, per propagarsi successivamente nei partiti di massa, e vivere una delle stagioni più intense nel contesto della Guerra fredda.
La conflittualità in politica rappresenta la normalità, ma il di più rappresentato dalla delegittimazione consiste, come scrivono i curatori, nel «processo secondo cui uno o più soggetti negano ad altri il diritto di governare una nazione, e in termini più radicali addirittura di esistere, sostenendo che essi sono incompatibili con uno o più valori sui quali è fondata la sfera pubblica, indipendentemente dal fatto che quei valori siano o non siano iscritti nella Costituzione». La prima è una delegittimazione «per sfiducia», la seconda è «istituzionale», con alcune «regole di fondo»: a codificarla e costruirla sono le élite e gli intellettuali, che possono anche subirla, mentre non viene delegittimata la loro base (almeno prima dell’ingresso nella fase postmoderna, che ha fatto saltare anche queste linee di demarcazione).
Il gruppo di studiosi che ha contribuito al volume ha analizzato soprattutto riviste e periodici della nostra storia repubblicana, la cui cultura politica si è imperniata sulla frattura tra anticomunismo e comunismo, a colpi - da una parte - di «fattore K» e conventio ad excludendum, e - dall’altra - di una «delegittimazione dei delegittimanti» che proclamava l’incompatibilità dell’ideologia anticomunista con la Costituzione e i valori repubblicani.
Per la Democrazia cristiana, erano in particolare due fogli della destra interna - Concretezza (fondata nel 1955, e diretta da Giulio Andreotti) e Il Centro (nato nel ’62) - a suonare i tasti della delegittimazione contro i comunisti che avrebbero sicuramente tolto la libertà, instaurando il totalitarismo e imponendo il materialismo ateo, e contro il Psi cavallo di Troia del togliattismo. Sempre in ambito anticomunista, a menare le danze delegittimatrici ci pensarono Il Borghese longanesiano e, come racconta il capitolo di Eugenio Capozzi, alcune testate del movimento della Maggioranza silenziosa (Lotta europea, Iniziativa democratica e Resistenza democratica) che cannoneggiavano la «canagliocrazia» e la «rettorica partigiana» «paravento del comunismo».
Conflitto esacerbato
In campo avverso, si esercitò nel tiro al piattello della delegittimazione la stampa del Pci, per la quale la Dc era una «piovra», i cui tentacoli si erano infiltrati in ogni anfratto del potere e accarezzavano senza sosta la tentazione di instaurare un clima integralista e clericale, mentre la svolta autonomista del «patetico» e «miserabile» Pietro Nenni avrebbe portato il Partito socialista a «una serie di fallimentari fughe in avanti». C’era poi la galassia dei periodici della sinistra extraparlamentare, che negli anni Sessanta bersagliavano il riformismo, il governo del centro-sinistra e il gruppo dirigente del Pci che si era «imborghesito». E con il «regime» democristiano non furono per niente tenere neppure varie riviste dell’intellettualità azionista come Il Ponte, L’Astrolabio e Resistenza (studiate nel saggio di Luca Polese Remaggi).
La storia della politica nazionale può così venire letta come un pendolo tra il conflitto esacerbato - di cui la delegittimazione è una delle maggiori espressioni - e i tentativi da parte delle classi dirigenti di scongiurare le possibili crisi di regime.

La Stampa TuttoScienze 14.6.16
“La verità è anche bellezza”
Al Cern come nell’Atene classica
I fisici ospitano gli artisti: “Cerchiamo linguaggi comuni”


Agli antichi greci piaceva identificare la verità con la bellezza. Molti fisici e matematici moderni sono d’accordo: la soluzione giusta di un problema è di solito anche la più bella, la più elegante, la più armoniosa. Al Cern di Ginevra, dove si trova il più grande acceleratore di particelle del mondo, insomma il posto in cui la nostra Fabiola Gianotti ha scoperto la «particella di Dio», stanno cercando un altro approccio al legame fra verità e bellezza: invitano gli artisti a trascorrere qualche settimana in mezzo agli scienziati e ai loro strumenti di ricerca, contando così di accendere la scintilla creativa di fotografi, pittori, scultori, performer e chi più ne ha più ne metta.
Non sempre l’esperimento riesce, naturalmente, perché quella scintilla non si può accendere a comando. Ma il più delle volte i risultati si vedono e, infatti, dal 2011 il Cern ha lanciato a ripetizione diversi bandi per questi «stage» artistico-scientifici.
I concorsi riguardano a ogni tornata specifiche nazionalità, e soltanto quelle, con scadenze diversificate. È bene diffondere la consapevolezza che esiste questa opportunità presso il Cern in modo che, quando arriverà l’occasione giusta, gli italiani siano preparati a candidarsi. Da poco sono stati annunciati i nomi di nuovi quattro artisti ospiti: il britannico Haroon Mirza, la svizzera Laura Couto Rosado, il coreano Cheolwon Chang e il croato Tomo Savic-Gecan.
Spunti di ispirazione
L’iniziativa si chiama «Arts@Cern». Data la specialità della casa, gli ambiti con i quali gli artisti vengono invitati a familiarizzarsi sono la fisica delle particelle e le leggi fondamentali dell’Universo, ma pure le tecnologie di ricerca costituiscono un oggetto di interesse di per sé e offrono spunti di ispirazione. Spiega Monica Bello, responsabile del programma: «I bandi si susseguono negli anni, perché uno solo non basta per illustrare l’attività scientifica che si svolge qui al Cern. Esistono sempre nuovi modi per esplorare artisticamente la fisica delle particelle. L’arte e la scienza danno forma a nuove idee sul mondo e a ogni nuovo bando non vediamo l’ora di incontrare i nuovi artisti che arrivano qui al Cern».
Prendiamo, per esempio, il duo inglese Semiconductor, composto da Ruth Jarman e Joe Gerhardt. Durante il soggiorno al Cern hanno prodotto un’opera grafica digitale sulla natura del mondo e sulla percezione che ne abbiamo. Sempre in campo grafico, poi, tre giovanissimi svizzeri, Laura Perrenoud, Simon de Diesbach e Marc Dubois, hanno tratto ispirazione per installazioni interattive e videogames. Poi c’è l’americano Bill Fontana, che si definisce «scultore del suono» e sostiene che «ogni suono è musica»: è interessato a «scovare suoni nascosti in posti improbabili» e le interminabili gallerie del super-acceleratore gli hanno ispirato l’opera «Acoustic Time Travel». Spiega che «le conversazioni con le persone e l’ascolto dei suoni al Cern, per me, sono stati un’esperienza spirituale».
La danza delle particelle
Invece il tedesco Julius von Bismarck lavora con le luci: usando una serie di faretti orbitanti, ha creato al Cern (e poi replicato da Berlino fino a Taiwan) la performance «Versucht unter Kreisen», che si ispira alla danza delle particelle elementari. Dopodiché, senza che questo fosse programmato, un altro artista ospite del mega-laboratorio, il ballerino svizzero Gilles Jobin, ha chiesto a von Bismarck di inserire le sue luci in una coreografia di danza che ha intitolato «Quantum». I due artisti definiscono quest’interazione come «un’inaspettata collisione creativa».
Come dire: al Cern collidono non solo le particelle ma anche le idee.

La Stampa TuttoScienze 14.6.17
Siamo più vecchi di 100 mila anni
I Sapiens scoperti in Marocco riscrivono le nostre origini
di Marco Cambiaghi


In Africa non c’è un solo Giardino dell’Eden. Quando ci eravamo convinti che la culla della nostra specie fosse comparsa, circa 200 mila anni fa, a Est, nell’attuale Etiopia, scopriamo che la nostra storia è iniziata altrove e molto prima: in Marocco, almeno 300 mila anni fa.
Le prove sono in diversi resti fossili, datati tra i 280 e i 350 mila anni, ritrovati sul massiccio di Jebel Irhoud, in una zona oggi scenografica ma desertica. All’epoca dei primi Sapiens, invece, era un’area verde, ricca di laghi e fiumi, popolata di animali: insomma, un «giardino ideale» dove sviluppare «tratti moderni». «Si tratta di un’enorme novità - commenta Stefano Benazzi, coautore di uno dei due studi pubblicati su «Nature» e professore all’Università di Bologna -. Non solo dobbiamo rivedere il quando, ma anche il dove. I nuovi dati - continua - ci portano a pensare che in tempi più antichi di quelli ipotizzati finora una forma arcaica di Sapiens si stesse già diffondendo in diverse parti del continente, anche se non siamo in grado di stabilire con esattezza il punto d’origine».
In realtà, i fossili di un teschio quasi completo e di una mandibola trovati in Marocco erano già noti dagli Anni 60, quando erano stati datati intorno ai 40 mila anni fa. Eppure, già allora, qualcosa non tornava: la struttura suggeriva che il viso fosse simile all’uomo moderno, mentre la parte posteriore del cranio appariva più arcaica. Scavi successivi hanno portato alla luce i resti di 5 individui e diversi utensili. Grazie alla termoluminescenza i fossili sono stati quindi sottoposti a ulteriori analisi: poiché questi nostri antenati mettevano gli utensili a contatto con il fuoco, il calore ha rilasciato elettroni dalla struttura cristallina della silice, il minerale di cui erano costituiti. Nel tempo le radiazioni solari hanno lentamente rimpiazzato questi elettroni, che oggi gli scienziati riescono a misurare. E così è stato finalmente svelato il mistero dell’età di questi reperti: risalgono a oltre 300 mila anni fa e appartengono proprio a Homo sapiens.
«Mentre non abbiamo più dubbi sulla datazione - chiarisce - sono le caratteristiche ancora materia di dibattito, perché non è semplice stabilire dove si collochi la soglia tra sapiens e le specie precedenti. Per questo motivo abbiamo definito quei fossili come Sapiens arcaici».
La scoperta non fa che complicare ulteriormente il quadro già frastagliato delle nostre origini. «Prossimo passo - conclude Benazzi - è capire meglio le prime forme di cultura dei Sapiens, come l’uso di ornamenti: dobbiamo aspettarci ancora molte novità sul nostro passato remoto».

La Stampa TuttoScienze 14.6.17
Pesare una stella con la luce deviata dalla gravità
Si realizza il «sogno impossibile» di Einstein

Si realizza il sogno «senza speranza» di Einstein: per la prima volta è stato possibile determinare la massa di una stella studiando il modo in cui la sua forza di gravità curva lo spazio circostante, deviando il cammino della luce proveniente da un'altra stella posta sullo sfondo ma non perfettamente allineata. Lo studio, pubblicato sulla rivista «Science», si basa sui dati del telescopio spaziale Hubble, oltre che di Nasa ed Esa, analizzati da un team che include anche tre ricercatori italiani negli Usa: Andrea Bellini, Stefano Casertano e Annalisa Calamida, dello Space Telescope Science Institute di Baltimora. Oltre a confermare ancora una volta la validità della Relatività, il risultato aiuterà a misurare la massa di molti altri oggetti celesti altrimenti impossibili da «pesare». A fare da apripista è stata la stella Stein 2051 B, che ha rivelato una massa pari al 68% di quella del Sole: è una nana bianca, vale a dire una stella allo stadio finale, che ha bruciato tutto il «carburante». Indagare le sue caratteristiche sarà fondamentale per ricostruire la storia e prevedere il futuro della Via Lattea, dove il 97% delle stelle sono o diventeranno nane bianche.

La Lettura del Corriere Domenica 11.6.17
Aristofane inventò la psicoanalisi
di Mauro Bonazzi


«Adesso sdraiati qui e tira fuori qualche pensiero sui casi tuoi». Si ripete sempre che la psicoanalisi è nata alla fine dell’Ottocento, quando Sigmund Freud iniziò a esaminare le sue pazienti, distese sul famoso divano. Ma se questo è il gesto che inaugura la psicoanalisi, allora tutto è cominciato prima, molto prima.
Nel marzo del 423 a.C. gli Ateniesi si ritrovarono a teatro per assistere alla nuova commedia di Aristofane, le Nuvole . La storia, eternamente uguale a se stessa, è quella di un padre che non sa come fare per sbarcare il lunario, con una moglie poco propensa al risparmio (ma viene dalla società bene, lei, mentre il marito è un contadino inurbato), un figlio scapestrato (tutto la madre) e tanti creditori che lo assillano. È l’alba, il momento dei pensieri più angosciosi e delle intuizioni più ardite. Corre voce di un sapientone, si chiama Socrate, che aiuta a risolvere i problemi, insegnando come fregare gli altri. Ecco chi lo salverà! Strepsiade si precipita da Socrate, che lo guarda dubbioso: prima lo vuole conoscere, e Strepsiade deve conoscere se stesso. C’è un lettino nel suo pensatoio, pieno di cimici e pidocchi, ma pur sempre un lettino: Strepsiade è invitato a sdraiarsi e ad aprirsi al maestro (è il verso citato all’inizio). La psicoanalisi è nata quel giorno, all'ombra dell’Acropoli di Atene.
Una battuta? Di quelle che nascondono un grano di verità, però. La scoperta di Freud, che scandalizzò l’Europa, fu che non siamo quello che pensiamo di essere. Ci crediamo razionali e morali; invece siamo un calderone ribollente di passioni, impulsi, istinti di cui non siamo neppure consapevoli. Questo è, precisamente, quello che il Socrate di Aristofane rivelava ai suoi malcapitati pazienti. Strepsiade, poveretto, è troppo stupido per seguire. Ma suo figlio, Fidippide, capisce, e in fretta: pensiamo di essere superiori, ma ci sono davvero differenze tra noi e gli animali? Non inseguiamo le stesse cose — sesso, sesso, e ancora sesso? (« c’est le sexe, toujours le sexe », spiegava Charcot, uno dei maestri di Freud). E cosa sono le leggi o la morale, se non dei tentativi di contenere la nostra natura profonda? Ostacoli, insomma, che ci impediscono di inseguire i nostri bisogni, condannandoci all’infelicità? (E uno legge Il disagio della civiltà ). È ora di cambiare! A partire dal problema dei problemi, la causa di tutti i mali. La guerra di liberazione di Fidippide inizia con il gesto più semplice, quello che — secondo Freud — tutti sognano di fare, fin dalla più tenera età: negare il padre. Il complesso di Edipo. Avrebbe potuto chiamarlo il complesso di Aristofane.
Freud conosceva molto bene il mondo antico. Di Aristofane, però, non parla mai: per nascondere il suo debito? Anche per un’altra ragione.
George Steiner lo ha suggerito con una osservazione fulminante: molte delle nevrosi di cui parla Freud sono spuntate fuori solo dopo che lui ne ha parlato, come profezie che si autoavverano. Che si stesse meglio prima di scoprire l’inconscio? Aristofane, un conoscitore dei nostri abissi, ne era convinto. Davvero occorre portare tutto alla luce? Forse c’è un motivo se in noi sono attivi dei meccanismi che occultano le pulsioni più bestiali, ricacciandole nelle profondità dell’Io. Sul lettino di Socrate Fidippide ha guardato nel suo disordine, recuperando ciò che aveva rimosso. Si è conosciuto per quello che è e ha picchiato suo padre, spiegandogli pure che era giusto farlo. Già «la vita non è facile», come lo stesso Freud una volta ammise: era proprio necessario che Fidippide scoprisse queste cose? Che bella cosa la rimozione! Strepsiade, pentito, bastona Socrate e incendia il pensatoio. Nelle Nuvole Aristofane non solo ha inventato la psicoanalisi: ha anche cercato di affondarla per sempre.
Se non ci è riuscito è perché ad Atene Freud ha trovato un alleato. Si parla di Platone come di uno scrittore composto, sereno, equanime. Ma la sua qualità più bella è la perfidia con cui sa rimettere a posto avversari e rivali — non erano pochi, e per tutti c’è in serbo qualcosa. Aristofane aveva proiettato un’ombra su Socrate, che bisognava vendicare. Nel Simposio il personaggio sarà lui.
È una serata di discorsi in onore di Eros, ma quando arriva il suo turno, Aristofane non riesce a parlare: scoppia in un singhiozzo terribile, incontenibile — saltella, si solletica il naso, starnutisce, ma niente...
Non ci potrebbe essere difesa più brillante della psicoanalisi. Questo singhiozzo irrefrenabile ricorda i tic nervosi delle pazienti di Freud, che erompono tanto più furiosi quanto più si cerca di reprimerli; è il sintomo che rivela il suo punto debole, come la tosse nervosa rivelava quello di Anna O.: che abbia anche lui un problema con amore e sesso? È la risposta di Platone alle domande di Aristofane. Inutile illudersi di nascondere quello che abbiamo dentro, perché tanto viene fuori, in un modo o nell’altro: Aristofane, il moralista spregiudicato, in fondo è come le fragili damigelle della borghesia viennese. Magari la filosofia e la psicoanalisi potrebbero aiutarlo a fare chiarezza dentro di sé, a convivere con i suoi problemi.
Improvvisamente tutto si fa turbinoso. Freud non cita spesso Platone, ma quando lo fa le sorprese non mancano. Come in Al di là del principio di piacere , in cui rievoca le uniche pagine che non ci si sarebbe aspettato: il discorso di Aristofane nel Simposio , quando finalmente si è liberato del singhiozzo. Ma non poteva essere altrimenti perché proprio in quelle parole c’è la risposta ultima ai misteri della nostra esistenza, la rivelazione che dentro di noi la tensione verso la vita è controbilanciata da un oscuro impulso verso la morte. Eros e Thanatos : il ritmo della nostra esistenza è scandito dal conflitto tra queste forze, con una sorpresa finale. A prevalere è la seconda, la nostalgia della quiete, l’inerzia perfetta della materia inorganica. La vita è una tragica anomalia, un’eccezione che va ricomposta; il compimento della libido è il riposo della morte: come appunto insegnava il mito aristofanesco degli uomini disperatamente in cerca dell’unità perduta, che quando ritrovavano la propria metà «si lasciavano morire di fame e di inerzia». La teoria più audace di Freud era stata anticipata dall’Aristofane del Simposio . Era il capolavoro di Platone, il cerchio che si chiude: Aristofane, nemico ostinato, è arruolato tra i grandi della psicoanalisi.
Quando arrivò ad Atene, la reazione di Aristotele fu di sconcerto. La Macedonia era una regione colta, che ospitava poeti e filosofi. Era anche una terra ricca di buon senso. Proprio quello che mancava agli intellettuali ateniesi: raffinati, raffinatissimi, ma anche nevrotici, persi in polemiche, invidie e gelosie. Così Aristotele, figlio di un medico, avrebbe ragionato da scienziato, dissipando come nuvole al vento tutte queste idee sull’anima, l’amore e la morte. Con una sola mossa.
Platone, come Freud e Aristofane, aveva organizzato il suo discorso intorno alla potenza di Eros, riconoscendo in noi la presenza di passioni violente e indomabili. C’è una componente razionale, ovviamente, e diversi tipi di desideri: desideri che possono essere educati, ma anche brame bestiali, con cui è impossibile fare i conti. Il mostro dalle mille teste, scriveva Platone; il calderone di impulsi ribollenti, avrebbe ribattuto Freud.
Il rovesciamento aristotelico è semplice. Ci sono, Platone ha ragione, come tre centri dentro di noi, uno dei quali sordo a qualunque possibilità di controllo. Ma questa «parte» non ha niente a che vedere con l’amore o il sesso: è quella che sovrintende alle funzioni organiche di base — respirazione, digestione, circolazione del sangue. È la vita che trionfa, incurante dei nostri pensieri. Quanto al resto, passioni amorose incluse, tutto può essere corretto, con un po’ di educazione e un po’ di sana attività fisica. Gli psicodrammi di Aristofane e Platone non servono.
È la sfida dei nostri giorni, con medici e scienziati che guadagnano terreno a spese di filosofi e psicologi. Forse avranno anche ragione, gli eredi di Aristotele. Ma non sarebbe fin troppo noioso un mondo privo delle bizzarre teorie dei Platone e dei Freud? Senza dimenticare che tutto è ancora incerto: e se anche filosofi e psicologi avessero le loro ragioni? Sono domande. Peccato che non ci sia più in giro Aristofane per aiutarci a rispondere.

La Lettura del Corriere Domenica
Fellini e David Lynch pazzi per Apuleio
di Marco Rizzi


Chi è nato negli anni Sessanta del secolo scorso, e ha frequentato le scuole superiori nel decennio successivo, vive una condizione intellettuale particolare, divisa tra una formazione fatta di libri e studio dei classici — il liceo! — e il presente di una cultura pop in cui alto e basso si mischiano e il «classico» non si sottrae al destino della destrutturazione. Ma il fascino di certe letture rimane, sia pure spogliato di ogni aura di sacralità.
Così Franco Pezzini (nato nel 1962) inaugura la serie dei «Classici pop» per Odoya con il volume L’importanza di essere Lucio : una rilettura dell’unico romanzo latino a noi pervenuto, Lucio ovvero l’asino d’oro di Apuleio, del II secolo dopo Cristo, che già di per sé rappresenta un intrigante miscuglio di avventura, erotismo, religiosità e magia.
In un susseguirsi costante di colpi di scena si snoda la vicenda di un giovane, Lucio appunto, che per la sua morbosa curiosità si ritrova trasformato in asino e deve misurarsi, tra mille altre difficoltà, pure con fantasmi e nobildonne erotomani.
Pezzini rinarra il plot del racconto di Apuleio, inframmezzandolo però con divagazioni — dal colto al divertente — sulle caratteristiche narratologiche e storiche dell’opera, con illustrazioni varie e bozzetti dell’amico Massimiliano Korn-müller. L’autore fornisce ampie informazioni sul fascino esercitato dal romanzo apuleiano nell’immaginario letterario e artistico, da Giovanni Boccaccio e Matteo Maria Boiardo, a Federico Fellini e David Lynch, ad Antonio Canova e Milo Manara — e ovviamente non mancano i ricordi di un giovane degli anni Settanta. Il libro è dedicato dall’autore al suo professore del liceo (il D’Azeglio di Torino): e non avrebbe potuto essere diversamente.

La Lettura del Corriere Domenica 11.6.17
Eichmann smascherato. Di banale non ha nulla
di Donatella Di Cesare


Si dice Eichmann e si pensa al male nella sua versione novecentesca. Ma che genere di male? Hannah Arendt ci ha spinto a parlare di «banalità del male». Questa formula aveva per lei un significato filosofico preciso. In veste di giornalista Arendt aveva seguito per il periodico «The New Yorker» il processo contro l’ex tenente colonnello delle SS Adolf Eichmann. Nel maggio del 1963 uscì il suo libro Eichmann a Gerusalemme . Il sottotitolo A Report on the Banality of Evil era destinato a suscitare accese polemiche. Un sinonimo di banalità potrebbe essere stupidità, o «assenza di pensiero», sconsideratezza. Eichmann non era la bestia degli abissi; non aveva nulla di demoniaco, né di profondo o addirittura abissale. A guardarlo da vicino era un piatto e grigio impiegato, una rotella all’interno di un ingranaggio che, anche senza di lui, avrebbe comunque funzionato. Per questa scandalosa banalità Eichmann appariva agli occhi della filosofa il prototipo del burocrate, incapace di «mettersi nei panni degli altri», al quale si poteva imputare l’unica colpa di non aver «pensato» e non aver agito, sottraendosi ai suoi compiti, con la «disobbedienza civile».
Arendt ha avuto il merito di rompere il silenzio sullo sterminio con una riflessione originale. Ma l’impressione che resta, dopo aver letto attentamente il suo libro, è che il ritratto di Eichmann abbia qualcosa di artificioso e sia perciò poco convincente. A spiegare il perché è il prezioso lavoro della storica e filosofa tedesca Bettina Stangneth, La verità del male , pubblicato finalmente in italiano da Luiss University Press. Il volume imponente, che si legge però con facilità — anche perché ha quasi le caratteristiche di un giallo — è la raccolta meticolosa di prove, testimonianze, documenti inediti, soprattutto le cosiddette Carte argentine , da cui emerge un Eichmann ben diverso da quello descritto da Arendt. Si capisce perché il libro di Stangneth sia stato un successo sia in Germania, sia soprattutto in America. Ha scritto Steven Aschheim, professore emerito della Università Ebraica e storico della cultura: «Non sarà più possibile in futuro occuparsi del “fenomeno Eichmann” e delle sue implicazioni politiche senza confrontarsi con La verità del male ».
Vale la pena ricordare che il titolo del libro in tedesco è Eichmann prima di Gerusalemme (diventato il sottotitolo nell’edizione italiana). Esplicito è dunque il rinvio ad Arendt, verso la quale Stangneth riconosce il suo debito. Ma il suo interesse si concentra sulla figura del gerarca nazista prima di Gerusalemme, cioè nel periodo che va dal 1945 fino al 23 maggio 1960, quando il premier israeliano David Ben Gurion annunciò al mondo che l’architetto della Shoah era stato catturato dagli agenti del Mossad in Argentina e che sarebbe stato presto processato. Grazie a numerosi appoggi e complicità, Eichmann si era infatti imbarcato a Genova, con il falso nome di Ricardo Klement, ed era riuscito a raggiungere l’Argentina nel luglio del 1950. Aveva cominciato allora una nuova vita grazie alla sua capacità di reinventarsi, senza per questo venir mai meno alla fede nazionalsocialista. Come d’altronde i molti nazisti che avevano trovato rifugio in Sudamerica.
Le Carte argentine sono gli appunti di Eichmann in esilio, nonché i dialoghi e le interviste protocollati, da cui fra l’altro viene fuori l’impressionante rete di rapporti che intratteneva un po’ ovunque nel mondo. Il primo risultato della ricerca di Stangneth è la decostruzione di un mito: quello dell’ex nazista isolato, che cerca di nascondersi, nel tentativo di dimenticare ed essere dimenticato. Nulla di tutto ciò. La sua vita sociale in Argentina mostra che il grande esperto della «questione ebraica», l’amico del Gran Muftì, il boia che considerava la Shoah il suo «capolavoro», non solo non aveva mai rivisto le sue convinzioni politiche, ma si preparava semmai a realizzarle sotto nuovi cieli e in altre terre.
Bettina Stangneth, nata e cresciuta nella Repubblica federale tedesca, riflette criticamente sul ruolo giocato in quegli anni dalla Germania. Il «fenomeno Eichmann» non si limitava solo all’Argentina. Che il principale stratega e testimone di quei crimini contro l’umanità, che pesavano sul popolo tedesco, fosse ancora in vita, costituiva certo un ostacolo che rendeva difficile, se non impossibile, una rielaborazione del passato. Eichmann era talmente sicuro di sé che si era persino spinto a scrivere una lettera aperta al cancelliere Konrad Adenauer. Quasi a voler suggellare quella continuità, che molti congetturavano, tra il vecchio regime e la nuova repubblica. E Stangneth denuncia il rifiuto delle autorità tedesche che ancor oggi custodiscono gli atti su Eichmann, preclusi al pubblico con la scusa che potrebbero provocare turbamento.
Né isolato, né pentito — ma neppure un burocrate. Arendt è caduta nella trappola ben congegnata dallo stesso Eichmann che, una volta catturato, scelse intenzionalmente la maschera dell’inetto impiegato, del grigio funzionario. Lui che era considerato più intelligente e astuto di ogni altro, lui che aveva concepito e guidato lo sterminio. Sperava di aver salva la vita attraverso quell’abile manipolazione. Non ci riuscì. Ma ottenne almeno di passare alla storia come esponente di un male banale. È tempo di conoscere la sua storia e il male che ha consapevolmente compiuto.