SULLA STAMPA DI OGGI:
Corriere 14.6.17
Uccisa dal marito dopo 12 denunce «Colpa dei pm»
di Giusi Fasano
Denunciò
il marito per dodici volte. Ma non servì a niente. Il coniuge la
uccise. Adesso una sentenza ha riconosciuto la negligenza dei giudici e
condannato lo Stato a risarcire con 300 mila euro l’uomo che si era
preso cura dei figli della donna. Saverio Nolfo nell’ottobre 2007 aveva
assassinato Marianna Manduca, 32 anni, a Palagonia, nel Catanese, e
ferito anche il padre della moglie.
Se avessero perquisito casa sua... Se avessero sequestrato il coltello... Se lo avessero indagato, ricoverato, arrestato....
E
invece niente. I magistrati della procura della Repubblica di
Caltagirone «nel non disporre nessun atto di indagine rispetto ai fatti
denunciati e nel non adottare nessuna misura per neutralizzare la
pericolosità di Saverio Nolfo, hanno commesso una grave violazione di
legge con negligenza inescusabile». Marianna Manduca, 32 anni, aveva
implorato aiuto per sé e per i suoi tre bimbi. Aveva chiesto
disperatamente protezione al sistema Giustizia. Per dodici volte aveva
firmato querele contro quel marito violento e poco prima di essere
ammazzata a coltellate — fu il 3 ottobre del 2007 — aveva perfino
descritto in una denuncia il tipo di coltello a scatto che lui le aveva
mostrato e con il quale l’avrebbe uccisa, come poi ha fatto davvero.
Eppure
nessuno ha fermato la furia omicida di un uomo che mille e mille volte
l’aveva umiliata, picchiata, insultata, minacciata davanti ai suoi tre
bimbi o a testimoni vari: si sentiva forte, impunito, aveva problemi con
la droga ed era determinato a eliminare la donna che aveva osato
abbandonarlo a se stesso.
Quella mattina di ottobre di dieci anni fa
Marianna era per strada assieme a suo padre. Saverio uccise lei
colpendola più volte e ferì il padre. Fu poi arrestato e condannato a 21
anni di reclusione.
«Com’è possibile che succeda una cosa del genere
e nessuno sia responsabile per non averla aiutata?» chiese anni dopo il
padre adottivo dei suoi bambini (un cugino della vittima) agli avvocati
Alfredo Galasso e Licia D’Amico. Fu da quella domanda che partì la
causa civile per avere il risarcimento dei danni dallo Stato che avrebbe
dovuto proteggerla e che invece ha agito con «negligenza inescusabile»,
come dice la sentenza appena depositata.
Il tribunale civile di
Messina ha condannato la presidenza del Consiglio dei ministri a pagare
circa 300 mila euro di danni ai figli della vittima e all’uomo che tre
giorni dopo l’omicidio decise — senza averli mai conosciuti prima — di
prendersi cura di quei tre bimbi. Lui si chiama Carmelo, è un
imprenditore edile e vive nelle Marche. Quando Marianna fu uccisa era
già padre di tre bambini. Racconta adesso che «era sconvolgente pensare a
quei tre piccoli che nessuno voleva. Sarebbero finiti in mezzo alla
strada. Così io e mia moglie ci siamo tuffati a pesce in questa storia. I
bambini sono stati spettacolari in tutto, bravissimi. Oggi sono
ragazzini felici, tutti maschi: sei fratelli da 12 a 20 anni che ci
insegnano a vivere emozioni ogni giorno. Ricordo le loro facce quando è
arrivata la certezza scritta che sarebbero rimasti con noi per sempre,
che avrebbero portato il mio cognome... È stato bellissimo vedere nei
loro occhi la serenità di chi non teme più di essere strappato via dalla
famiglia».
Della loro mamma hanno un ricordo sepolto dal tempo,
sbiadito. Sono andati a trovarla una volta sola al cimitero ed è stata
anche l’unica volta che hanno rimesso piede in Sicilia. Il risarcimento
definito da questa sentenza (ci sarà presto un ricorso in appello perché
venga liquidato anche il danno morale) servirà a garantire a tutti un
futuro economico più tranquillo «dato che assieme a loro tre è arrivata
anche la grande crisi — spiega Carmelo — e non è stato per niente
facile». Ma, com’è ovvio, l’importanza di questa decisione non è la
cifra stabilita dai giudici ma il fatto che lo Stato paghi per
«l’inerzia delle autorità» che avrebbero invece dovuto darsi da fare per
aiutare Marianna. A cominciare dai pubblici ministeri della procura di
Caltagirone, contro i quali i condannati potranno ora rivalersi.
Giusi Fasano
Corriere 14.6.17
Perché non facciamo figli
Istat, nascite ancora in calo costante dal 2008
Una mamma su quattro si ferma al primogenito: solo per il 21% si tratta di una scelta economica
Alessandra Arachi
ROMA
È un’emorragia che non accenna a finire. Siamo sempre meno in Italia,
con l’indice di fertilità più basso d’Europa. E anche quest’anno l’Istat
segnala una diminuzione della popolazione: 76 mila persone in meno in
dodici mesi e il numero si contiene solo grazie alla presenza dei
cittadini stranieri che ormai superano l’8% del totale della
popolazione, ovvero 60 milioni 589 mila 445 di cittadini (al 31 dicembre
2016).
Le culle del nostro Paese sono vuote, e continuano a
svuotarsi. È dal 2008 che le nascite in Italia calano e nel 2016 il
trend si è confermato con decisione: sono venuti al mondo 12 mila bimbi
in meno rispetto all’anno precedente, per un totale di meno di mezzo
milioni di bimbi (473.438 per la precisione), con 69 mila bimbi
stranieri. Ma non è solo colpa della crisi economica. In una ricerca
mirata, Giorgio Alleva, presidente dell’Istat, ha messo a fuoco come una
donna su quattro che ha già un figlio dichiara di non volerne un altro.
Solo il 21% di queste mamme dice che è per problemi di soldi. E quindi?
Perché in Italia si finisce per non fare figli?
Il ragionamento è
articolato. Il presidente Alleva lo riassume così: «Tutti i tempi si
sono spostati in avanti e i tassi di fertilità ne risentono». In effetti
a guardare la ricerca si vede come dal ‘76 l’età del primo figlio si è
alzata dai 24,7 anni ai 30,8. Ma c’è altro. Alleva parla della «cultura
del free child » che qui non abbiamo ancora studiato con basi
scientifiche, ma che ci circonda e si diffonde nel nostro quotidiano: «È
un fenomeno che si sta studiando a livello internazionale e che da noi
si sta sviluppando. Donne che non hanno intenzione di mettere al mondo
figli, semplicemente perché preferiscono fare altro, non avere legami».
Guardiamo
i numeri della ricerca Istat: nel 1926 la media di figlio per donna in
Italia era 3,51, diventata 2,34 nel 1952 e ancora sopra il due (2,11)
nel 1976. È da allora che si comincia ad andare sotto la soglia della
riproduzione paritaria (due figli che nascono da due genitori). E nel
2015 abbiamo questo triste record: 1,35 figli per donna. Il free child
non è stato ancora studiato come fenomeno statistico o scientifico, ma
ci vuole poco a capire quanto sia diffuso nella società . E molto di
questo dipende dal desiderio di occuparsi a tempo pieno del proprio
lavoro e anche della carriera. Secondo l’Istat quasi una mamma su tre
(32,2%) non lavorava prima di avere figli e non lavora nemmeno dopo, il
14% abbandona invece il lavoro durante la gravidanza — volontariamente,
oppure perché lo perde — e soltanto il 4% inverte la tendenza e trova un
lavoro dopo aver avuto un figlio.
Corriere 14.6.17
De Magistris: con la sinistra? Mai in una coalizione che ruoti intorno al Pd
di Fulvio Bufi
«Giuliano sbaglia se punta a far spostare i dem»
NAPOLI «Le elezioni che ci interessano sono Europee, Regionali e Politiche. Ma non le prossime Politiche, quelle dopo».
Quindi stavolta DemA non ci sarà in una eventuale lista unica della sinistra?
«Dipende».
Luigi
de Magistris al tavolo con Pisapia, Bersani o chi altri, andrà a
sedersi. Lui o il fratello Claudio, che del movimento DemA è il
segretario. In dote porteranno i voti di Napoli, che sono tanti e — se
nella legge elettorale conteranno le rappresentanze regionali — anche
potenzialmente decisivi per il quorum. Offriranno sostegno ma a certe
condizioni: «Il programma e gli uomini, che dovranno avere storie di
coerenza e rigore per garantire di tener fede al mandato ricevuto».
Il programma però non c’è.
«Il nostro sì: il lavoro come diritto di tutti, la giustizia sociale, il ripudio della guerra».
Questa è la Costituzione .
«Infatti.
Una sinistra unita deve partire da quello che gli italiani hanno
dimostrato di volere il 4 dicembre. Poi ci sono i beni comuni, la
democrazia partecipata e molto altro».
Ma se questo giro non le interessa perché detta il programma?
«Non
lo detto. Dico solo come potremmo dare una mano. Comunque anche se
nascerà una lista di sinistra con riferimenti credibili, DemA non ne
sarà un soggetto promotore. Il nostro progetto è un altro».
Ci sarà davvero questa lista a sinistra del Pd?
«Non
so dirlo, e credo che oggi non sappia dirlo nessuno. Più si allontana
la possibile data delle elezioni, più possono aprirsi nuovi scenari».
Pensa ai messaggi che si mandano Pisapia e Renzi?
«Pisapia
è una persona per bene, ma sul referendum ha sbagliato a schierarsi per
il sì e oggi sbaglia se punta a far spostare il Pd verso sinistra,
spingendolo ad alleanze diverse da quelle con Alfano e Verdini».
Ora si parla di primarie di coalizione con i dem.
«Se
ci saranno, e se ci sarà quindi una coalizione che avrà il Pd come
architrave, noi ne staremo alla larga. Non sarebbe coerente mettersi con
il Pd: con loro non si può fare nessun programma nuovo e credibile, e
la questione vale anche per altri. Noi non abbiamo esigenze di mandare
qualcuno in Parlamento e non vogliamo far parte di un puzzle sgangherato
né trovarci su un palco con D’Alema o Bassolino: abbiamo storie troppo
differenti».
Se invece ci fosse un vostro candidato, toccherebbe a Claudio de Magistris?
«No.
Né io né mio fratello saremo candidati. Io perché continuerò a fare il
sindaco di Napoli fino alla scadenza del mandato, lui perché continuerà a
fare il segretario di DemA che dobbiamo strutturare per quegli
appuntamenti elettorali che elencavo prima».
Tra cinque anni lei intende candidarsi premier?
«Sì,
la sfida è quella. Oggi Napoli è diventata un soggetto politico. Stiamo
dimostrando che si può coniugare il cambiamento radicale con
l’affidabilità di governo, a differenza dei 5 Stelle che a Roma mi pare
non si siano rivelati tanto affidabili. Con l’attuale governo, poi,
abbiamo mostrato un profilo istituzionale che ci è ampiamente
riconosciuto: è giusto voler provare a riproporre a livello nazionale
una esperienza positiva ed entusiasmante».
Domenica scorsa il vostro primo tentativo elettorale oltre Napoli non è andato molto bene.
«Invece
noi siamo soddisfatti. Abbiamo portato due candidati ai ballottaggi e
entrambi possono vincere. DemA esiste da cinque mesi, che dovevamo fare
di più?».
Il Fatto 14.6.16
Matteo e Beppe, Dio acceca chi vuole perdere
di Peter Gomez
Tra
i due litiganti il terzo gode, dice il proverbio. E lo dicono ora pure i
risultati del primo turno delle elezioni amministrative. La destra in
Italia c’è e avanza. È in testa in 13 su 19 ballottaggi nelle principali
città e se per caso vincerà a Genova per il Pd la sconfitta sarà
bruciante come quella subita domenica scorsa dal Movimento 5 Stelle.
Curiosamente però né Matteo Renzi, né Beppe Grillo sembrano rendersi
conto della situazione. Il primo, ancora ieri, spendeva buona parte del
tempo per attaccare gli odiati grillini e, sprezzante del ridicolo,
sosteneva che Palermo fosse una vittoria del suo partito. Dimenticando
che i Dem per poter correre con Leoluca Orlando avevano dovuto
nascondere il simbolo (fondendosi con gli alfaniani) e che lo stesso
Orlando si era rifiutato di presentarsi davanti alle telecamere di La7
dopo che il suo nome era stato accostato al Pd. Il secondo, invece,
forse ansioso di imitare i politici della Prima Repubblica, arrivava a
sostenere che quella dei 5Stelle era una “crescita lenta, ma
inesorabile”: frase cult da mettere negli annali come la versione 2.0
della “sostanziale tenuta” di democristiana memoria. Contenti loro. Se i
due non si svegliano ci penserà la realtà a farlo: investendoli a tutta
velocità con una caterva di voti di destra.
I presupposti ci sono
tutti. La Lega oltre che utilizzare parole discutibili (per usare un
eufemismo), ma certamente utili per cavalcare i disagi e le paure
provocati dall’accoppiata crisi economica più immigrazione, può vantare
al nord due regioni che agli occhi di molti cittadini appaiono ben
governate. Così, mentre Matteo Salvini invita alla lotta, Luca Zaia e
molti altri amministratori pubblici hanno il physique du rôle e i
curricula adatti per rassicurare anche gli elettori moderati. In Puglia,
Raffaele Fitto, con la sua vasta rete di amicizie e clientes, fa il
pieno di voti. E Giorgia Meloni, grazie al nazionalismo di ritorno
guadagna spazio in quelle regioni in cui Salvini per questioni di
pedigree politico, di fatto, non può ancora mettere piede. Infine c’è
Forza Italia: Silvio Berlusconi, acciaccato dagli anni e fuori dai
riflettori da tempo, riesce ormai a farsi percepire anche da chi lo ha a
lungo avversato come un arzillo e simpatico vecchietto, tutto sommato
innocuo. A ben vedere, complici le circostanze, la sua grande astuzia è
stata quella del Diavolo di Baudelaire: convincere tutti di non
esistere.
Certo, per ora le destre vanno in ordine sparso. La legge
elettorale uscita dalla Consulta non prevede le coalizioni. Lo stesso
Berlusconi è titubante: a lui il proporzionale piace. Viste le forze in
campo, pensa (o meglio pensava) di poter riportare il suo partito al
governo con un’alleanza post urne con il Pd. Ma da domenica i numeri
raccontano pure dell’altro. Se si torna al Mattarellun, o a qualcosa del
genere, il centrodestra se la può giocare. Per prendere tutto il
piatto. Anche perché di possibili candidati premier non ne ha uno, ma
due: Zaia e il presidente della Liguria, Giovanni Toti. In queste
condizioni le eventuali primarie del centrodestra (vedrete, prima o poi
ci arriveranno pure loro) rischiano di diventare un ulteriore volano
verso le Politiche del 2018. Ma Matteo e Beppe, come i due capponi di
Renzo, non vogliono pensarci. Uno perché in fondo non sente Berlusconi
come un nemico. L’altro perché è sicuro che intanto si andrà al voto col
proporzionale. Può essere. Noi ci limitiamo a ricordare che Dio acceca
chi vuole perdere. Sarà il caso che Pd e M5S incomincino a inforcare gli
occhiali.
Repubblica 14.6.17
Renzi: “Sì alleanze ma non rifarò l’Unione di Prodi”
L’ex premier: “I Cinque Stelle non sono finiti Elezioni anticipate? Non le ho mai chieste”
di Massimo Giannini
ROMA.
«Se guardo alla nostra tradizione, finora una cosa veramente di
sinistra l’ho fatta: ho perso il referendum costituzionale. Ma adesso
dico basta: voglio portare il Pd a vincere davvero, per la prima volta
nella sua storia... ». Le amministrative non sono state un trionfo.
Matteo Renzi ha perso addirittura nel suo Paese, Rignano sull’Arno.
Colpa di papà Tiziano e del caso Consip? «Ma si, ci siamo messaggiati
stanotte: babbo, che avete combinato? Mi mandi i numeri? Ma io lo sapevo
che finiva così, il sindaco uscente è uno troppo smagato, viene da
Forza Italia». Eppure, nonostante questo, il segretario del Pd alle
undici del mattino si presenta a
Repubblica in tenuta da
“combattimento”. Tirato, e in camicia d’ordinanza, rigorosamente bianca.
È un fiume in piena. Dice cose vere: «Sto bene, adesso: dopo il voto
del 4 dicembre ho passato una settimana a mangiare di tutto. Ora mi sono
rimesso in forma, ho perso 5 chili, mi alleno per il triathlon». Dice
cose verosimili: «Avete visto la May, che botta? Si era capito che non
era la Thatcher. D’altra parte i politici non sono mai quello che
sembrano. Prendete Hollande: pare un uomo grigio e dimesso, e invece è
il più simpatico che abbia mai conosciuto... ». Dice anche cose false:
«Dopo la sconfitta ho lasciato Palazzo Chigi e il Nazareno, e mi ero
rotto le scatole, non volevo tornare, lo giuro! Poi gli amici mi hanno
dato una scossa: Matteo, non mollare, puoi dimetterti da tutto, ma non
da cittadino...». Ma accetta lo “scontro”, e parla di tutto.
Partiamo dal risultato delle amministrative. Qual è il suo bilancio?
«Se
c’è un partito non andato bene, sono i 5 Stelle: vanno al ballottaggio
solo in 8 comuni. Il Pd manda molti dei propri candidati al secondo
turno e in alcuni casi lo fa con espressioni civiche».
Si dice che vi nascondiate dietro le liste civiche, che i grandi partiti in crisi non hanno il coraggio di metterci la faccia.
«Quando
vai a votare per il sindaco se ci sono candidature che vengono dal
mondo civico perché non accoglierle? Questa storia che i grandi partiti
sono in crisi non la condivido: guardo i sondaggi e vedo il Pd intorno
al 30. Eviterei di fare tutta l’erba un fascio. Il punto politico è uno
solo: al ballottaggio c’è soprattutto centrosinistra contro
centrodestra».
Stavolta col centrodestra in vantaggio.
«La volta scorsa partivamo in testa noi però perdemmo».
È contento di questo risultato?
«Sì.
È sostanzialmente un pareggio tra centrosinistra e centrodestra. Si va
alla lotteria dei rigori. È difficile capire come andrà a finire. Le
elezioni politiche, però, sono un’altra roba e le dico una cosa: non
diamo per morto Grillo».
Mart Twain diceva: “La notizia della mia morte è largamente esagerata”. Possiamo dire la stessa cosa dei 5 Stelle?
«L’M5s esiste, è una forza politica. Non so quanta vita abbia davanti.
Non sono morti ma sono un po’ ammaccati: lei sta gongolando come dice Grillo.
«Per me “Gongolo” può essere uno dei 7 nani ».
Parliamo del suo paese. A Rignano sull’Arno è andata male: che segnale è per lei?
C’è dentro qualcosa che la riguarda familiarmente o è stato un caso?
«L’anno
scorso per dire che avevamo perso ci ponevano davanti i casi di Roma e
Torino. Quest’anno parlano di Rignano, un bel salto di qualità per il
mio comune. I lettori di Repubblica ricorderanno un’intervista in cui si
parlava di una cena in una bettola segreta tra mio padre e un
imprenditore. Non è mai esistita. È una fake news. Si è scoperto poi che
pezzi di un nucleo particolare dell’arma dei carabinieri sono indagati
perché inventavano prove contro mio padre e contro di me».
Un’altra
anomalia del caso Consip è la posizione del suo amministratore delegato,
Luigi Marroni. Ha detto ai magistrati che ha subito pressioni, che ha
avuto notizia dell’inchiesta da un generale dei carabinieri, da Lotti,
eppure sta ancora al suo posto. Chi ha mentito?
«Sarà un giudice a dire chi ha ragione».
Ma non trova strano che Marroni stia ancora al suo posto?
«Questo
è un problema che riguarda Consip, io non ci metto bocca. Invece sono
certo del comportamento di Luca Lotti perché ci ho lavorato insieme».
Parliamo
di legge elettorale. Voi avete provato a fare quello che Napolitano ha
chiamato “patto extracostituzionale”: riforma elettorale in senso
proporzionale in cambio di elezioni anticipate. Lo schema è saltato: ora
che succede? È ancora possibile riproporre sistema maggioritario?
«Io ho perso la poltrona per difendere il ballottaggio e un sistema di democrazia decidente ».
Perché
il proporzionale, allora? È democrazia decidente? O non è invece che ci
sia l’idea di un accordo con Berlusconi anche per il dopo?
«Berlusconi
ha fatto di tutto per far fallire il referendum. Non è propriamente il
mio migliore amico. Ma Berlusconi rappresenta Forza Italia, uno dei
partiti fondamentali di questo paese. Se dobbiamo fare un accordo
Berlusconi, Grillo e Salvini li voglio tutti al tavolo. Possibilmente
anche la sinistra radicale. Questo non è patto “extracostituzionale”».
Napolitano
alludeva al fatto che dentro questo accordo c’è una convergenza su
reciproche convenienze. Lei accetta un modello elettorale che non è il
suo e in cambio ottiene elezioni anticipate.
«Non mi metto a fare
interpretazioni. Se ci sono quattro leader di partito che si mettono
d’accordo per scegliere quali sono le regole del gioco, lo ritengo un
patto pienamente parlamentare che ha un suo valore».
Al Messaggero
prima che il patto saltasse lei disse: “Merkel corre per vincere da
sola. Poi dipende dai numeri: se non ci sono è ovvio che debba fare
accordi con gli altri partiti. Per noi sarà lo stesso”.
«Lo
ribadisco: questo potrà accadere comunque. Se uno non ha numeri in
parlamento li deve trovare. E il sistema proporzionale va in questa
direzione: gli accordi li fai in parlamento. Ma io rivendico che le
regole si scrivono con gli altri. Continuare a gridare “al lupo, al
lupo” per la presenza di Berlusconi dentro il patto istituzionale a mio
giudizio è un errore ».
Lei però così rinuncia a un suo principio fondativo: bisogna sapere la sera delle elezioni chi ha vinto.
«Rinunciare
a quel principio mi fa male ma ci ho rinunciato il 4 dicembre. In
parlamento non ci sono i numeri per una legge maggioritaria. Ma neanche
il maggioritario garantisce la sera di sapere chi ha vinto. La verità è
che il tema della legge ha funzionato da arma di distrazione di massa:
non potete pensare che siamo noi quelli delle larghe intese. Ma se
vogliamo fare un accordo con tutti i partiti, ciascuno deve cedere
qualcosa».
Lega e Grillo chiedevano di votare subito, lei no?
«Non
solo non l’ho chiesto ma ho detto che questo tema sarebbe stato oggetto
di discussione prima con Gentiloni. E poi è una prerogativa del
presidente della Repubblica».
E adesso che succede?
«Si vota a scadenza naturale. Gentiloni va avanti».
Parliamo
del centrosinistra. C’è stato un cambio di strategia: fallito il
sistema tedesco, lei ha riaperto il fronte con Pisapia, e con la
sinistra del Pd. È questa la linea? E con che credibilità passa da
Berlusconi a Pisapia dalla sera alla mattina?
«Non c’è un cambio di
strategia. Ho sempre detto che un Pd largo può fare il 40%. Penso che il
Pd sia una diga e chi spara contro il Pd spara contro la diga del
populismo.
Pensavo facesse un bell’appello a Pisapia.
«Uno gli
appelli li fa telefonandosi. Col passaggio politico che si apre avremo
di fonte due populismi. Grillo e Salvini. Poi avremo centrodestra e chi
lo sottovaluta sbaglia».
E a sinistra?
«Un centrosinistra europeo è disponibilissimo a dialogare con Pisapia, Boldrini, o metta tutti i nomi che vuole».
Anche D’Alema?
«Mi sembra un’ipotesi negata dalla realtà. Quelli che se ne sono andati hanno fatto una scelta, loro. Nessuno li ha cacciati».
Veltroni e Prodi l’hanno criticata recentemente. Cosa dice a due padri nobili del Pd?
«Dico
che il Pd è casa loro. Su Prodi: condivido quello che dice. Ben venga
tutto ciò che rafforza il centrosinistra purché non si realizzi
un’Unione bis che tenga insieme da Mastella a Turigliatto e la sinistra
antagonista. Alla fine vince le elezioni, forse, ma non governa».
Repubblica 14.6.17
L’ex
sindaco di Milano prepara la convention di “Campo progressista”:
probabile la presenza del fondatore dell’Ulivo. Quotidiani i contatti
con Orlando Cuperlo in bilico: “Matteo va da un’altra parte”
La sfida di Pisapia: “Alternativi al Pd” Il Professore: “Coalizioni necessarie”
di Tommaso Ciriaco
ROMA.
Sfiancare Matteo Renzi, piegarlo fino a costringerlo a un programma
comune e alle primarie di coalizione. Adesso la sfida di Giuliano
Pisapia al leader dem è partita per davvero. Con un obiettivo:
l’egemonia del campo progressista. «Noi stiamo facendo un progetto che
in questo momento, purtroppo, è alternativo al Pd - scandisce l’ex
sindaco - perché non ci hanno risposto sull’idea di costruire insieme un
nuovo centrosinistra. E poi, non si può passare in un’ora da Berlusconi
a Pisapia... ». L’avvocato, insomma, è pronto a salpare anche da solo.
L’appuntamento è per il primo luglio, con la convention nel tempio
dell’ulivismo, in piazza Santi Apostoli. Enrico Letta manderà un
messaggio. E Romano Prodi, la carta più preziosa del mazzo di Pisapia,
potrebbe clamorosamente partecipare all’evento.
Portare Renzi sul
terreno delle primarie - a poche settimane dal congresso del Pd - è
un’impresa tutta in salita. Eppure, Pisapia ci crede. E in questa
battaglia per l’unità può contare sui suggerimenti di Prodi. «C’è una
morale che si può ricavare dal voto - ragiona proprio il Professore - e
cioé che le coalizioni sono necessarie. Se uno ha istinto di
sopravvivenza, allora lo capisce...». Molto potrebbe cambiare già il 25
giugno, l’altra data chiave di questa storia. Lo sostiene con i
fedelissimi anche Pierluigi Bersani: «Temo che la notte dei ballottaggi
Renzi si accorgerà di quanto sia necessaria una discontinuità... ». È il
ragionamento che fanno in molti, in queste ore. Profetizzano una
battuta d’arresto del Pd in occasione dei ballottaggi e sostengono che a
quel punto il segretario dem sarebbe tentato da un nuovo rilancio nei
gazebo.
La tela “di sinistra”, intanto, si estende di ora in ora. La
tesse innanzitutto Pisapia. I suoi contatti con Prodi sono quotidiani. E
nella “triangolazione” si è inserito pure Andrea Orlando. «Serve un
centrosinistra competitivo - sostiene il Guardasigilli - e purtroppo la
candidatura di Renzi a Palazzo Chigi ci consegna alla sconfitta».
Servirebbe il ritorno alla coalizione, l’unica medicina in grado di
curare il virus della frammentazione dei progressisti. Ma è possibile
senza una riforma elettorale?
Da qualche giorno la legge è ferma al
palo. E però l’obiettivo degli orlandiani è rimetterla in moto al più
presto, in modo da permettere le alleanze pre-elettorali. «È chiaro -
ragiona Andrea Martella - che dovremo assumere iniziative politiche e
parlamentari in questa direzione, guidando la spinta federativa del
centrosinistra». Il piano prevede una proposta parlamentare trasversale,
da presentare nella commissione Affari costituzionali del Senato. Gli
ambasciatori sono già al lavoro sulla sinistra e sui centristi. E pure i
bersaniani concordano: «Se riprende un ragionamento sulla riforma -
giura Davide Zoggia - è possibile che si vada in questa direzione».
Un
passo alla volta. Adesso l’attesa è tutta per la convention. Lo slogan è
un evocativo “Nessuno escluso”, mentre la creatura si chiamerà
“Insieme”. E in effetti aderiscono sigle eterogenee, compresi i
centristi di Bruno Tabacci e Lorenzo Dellai. Ma è nel Pd che molto si
muove. E poco ha a che fare con l’unità.
Cuperlo è già con un piede e
mezzo fuori dal Nazareno. «Gianni, il momento è ora - continua a
consigliarlo la milanese Barbara Pollastrini - dobbiamo andare via».
L’ex candidato alla segreteria nutre ancora qualche dubbio, ma nelle
ultime ore ha spiegato in privato perché è vicino all’addio: «Ho sempre
lavorato per l’unità del Pd, ma se il Pd va tutto o quasi da un’altra
parte, qual è la cosa giusta?». Se Cuperlo è pronto ad abbracciare
Pisapia, Bersani raccoglie solo complimenti dall’avvocato. «Lo stimo
così tanto che mi sta bene stare dietro di lui». Il sodalizio con Mdp
regge, insomma. Altro discorso, invece, per Massimo D’Alema. «Ci ho
parlato - riferisce l’ex sindaco - ha una visione diversa, perché io
credo in un nuovo centrosinistra molto più aperto».
I renziani
attendono, per adesso. Al Nazareno circolano sondaggi riservati che
inchiodano la forza progressista al 6%. Poco, anche se comunque un
danno. Il pressing degli ulivisti, in ogni caso, è destinato a crescere
ancora. Con due obiettivi, alternativi tra loro: piegare Renzi alle
primarie per la premiership, oppure costringerlo addirittura a un passo
indietro nella corsa delle politiche. «Ci vuole una personalità sopra le
parti - è la sintesi di Pisapia - Se Prodi fosse disponibile a
candidarsi a Palazzo Chigi, ci metterei la firma. Però mi sembra che lui
non sia disponibile».
il manifesto 14.6.17
Enrico Rossi (Mdp): «Primarie con Renzi? Una presa in giro. Facciamole noi, Pisapia si pronunci»
Intervista/Sinistra.
Il presidentedella Toscana: «Il centrosinistra va ripensato. Stalinismo
escludere chi ha votato Sì il 4 dicembre, come me»
di Daniela Preziosi
Presidente
Enrico Rossi, ogni giorno per voi ha la sua pena: ogni giorno Renzi
rivolge un invito alla coalizione per Pisapia e un veto contro voi ex
Pd. L’ultimo: «Disponibilissimo a dialogare con Pisapia e Boldrini».
Renzi
ci prende in giro. Da un lato apre a Pisapia, dall’altro non esclude le
larghe intese con Berlusconi. Cosa che Pisapia esclude. Renzi è
ambiguo, ambivalente. Non propone nessun cambio di rotta. Ma teme di
perdere consensi a sinistra e confonde le acque.
Lei invece esclude le primarie con il Pd.
Se
avessi voluto fare le primarie con Renzi non sarei uscito dal Pd, ero
anche candidato. C’è una sola strada lineare per noi: c’è un grande
spazio a sinistra del Pd per una forza democratica che pone al centro la
questione sociale e una trasformazione profonda. Il voto delle comunali
lo conferma: il M5S non se la passa bene, il centrosinistra è anemico,
il Pd è in calo, l’affluenza pure. Come non porsi il problema di
costruire una forza al sinistra del Pd che raccolga la sinistra che c’è e
gli uomini e le donne che non si riconoscono nel progetto renziano?
Usciamo dalle diatribe del ceto politico. Bisogna individuare sette
punti programmatici, portarli alla discussione nel paese, poi
selezionare in modo democratico i candidati.
Insomma lei propone primarie e parlamentarie, ma della sinistra?
È
l’unico modo. Altrimenti chi potrebbe decidere se è civico o politico,
se è vecchio o nuovo? Così supereremo contrapposizioni e veti. Anche su
questo alla fine Pisapia dovrà pronunciarsi. I nostri avversari sono la
demagogia del M5S, la destra, e le politiche neoreganiane di Renzi.
L’ex premier Prodi guarda con interesse Pisapia e il vostro percorso. Il professore sarà nel vostro pantheon?
Un
suo autorevole pronunciamento sarebbe senz’altro un bene. Ma dobbiamo
discutere anche di contenuti. Le politiche di tutta la fase del
centrosinistra vanno cambiate, devono essere più nette sullo stato
sociale e i diritti del lavoro. E serve una riflessione sulle
liberalizzazioni.
Ma le lenzuolate di Bersani sono un simbolo di quella stagione. E la sinistra di allora non apprezzò.
In
alcuni casi ci sono state privatizzazioni che hanno lasciato il paese
nelle mani di pochi. Oggi dobbiamo prendere spunto dal programma di
Corbyn. Per esempio: scuola e sanità devono essere ancora più pubbliche.
Eppure
la sua riforma della sanità, in regione Toscana, è molto criticata a
sinistra. E Sinistra italiana, a cui lei propone un’alleanza nazionale,
non è nella sua maggioranza. Perché?
Chieda a loro. All’epoca ci fu
un dissenso sulle infrastrutture. Quanto alla sanità, nella mia regione è
sempre più pubblica. Il problema è che mancano le risorse.
Per fare primarie insieme dovrete comunque condividere un programma di massima. L’invito vale anche per il Prc?
Il
primo luglio (all’assemblea ’Nessuno escluso’, a piazza Santi Apostoli,
la storica piazza dell’Ulivo, ndr) presenteremo una piattaforma aperta
con sette punti programmatici: investimenti, piani per il lavoro,
rilancio dello stato sociale, patrimoniale, superamento di bonus e
mance, lotta all’evasione e ai privilegi. E recupero dei diritti del
lavoro: che non sarà un evento, sarà un’opera progressiva. Ma bisogna
cominciarla.
Cancellerebbe il jobs act?
Quella legge ha una parte
che non è stata finanziata, quella delle politiche attive. Per il resto
ha prodotto nuova precarizzazione: se almeno il contratto a tutele
crescenti avesse sostituito le 44 forme di contratti di precariato
com’era stato promesso. Oggi, finiti i soldi finito l’amore, le
assunzioni sono ferme. E la cancellazione dell’art.18 è scandaloso sul
versante dei licenziamenti senza giusta causa: se un giudice mi dà
ragione perché non devo essere reingrato? La Cgil ha presentato una
Carta dei diritti. Ripartiamo da lì. Saremo al corteo del 17 giugno
contro la reintroduzione dei voucher. Serve un cambio profondo: in
Italia siamo parte di un travaglio per il fallimento storico delle
politiche blairiane e della Terza via, come giustamente dice Giuliano
Amato.
Il vostro riferimento europeo resta il Pse?
Non può che
essere così, ma guardo con interesse a Mélenchon in Francia, alla Linke
in Germania. E a Tsipras in Grecia, un europeista schiacciato da vincoli
insostenibili. Ma anche a Sanchez in Spagna che combatte le larghe
intese da dentro il partito socialista.
Il 18 giugno andrà all’assemblea dei ’civici’ lanciata da Falcone e Montanari?
Certo.
Ma civici e politici siamo tutti. Nessuno ha la verità in tasca e
nessuno può porre veti. Li invito a misurarsi con quello che proponiamo.
La condizione perché l’elettorato si mobiliti è non costruire tre o
quattro liste, ma una. Certo, non un’ammucchiata arcobaleno né una
ridotta. Il processo democratico risolverà questo problema.
Ma i
civici, nel loro appello, si rivolgono al «popolo del No». Lei però,
come Pisapia, al referendum del 4 dicembre ha votato sì.
Faccio parte
di una componente che vuole costruire questa forza anche se ha votato
sì. Se guardiamo il passato di ciascuno non andiamo da nessuna parte.
Nessuno può cancellare le nostre storie. Quando la sinistra ha cercato
la purezza non è andata lontano. O erano i tempo dello stalinismo o
quelli della mera testimonianza.
Lo sbarramento al 5 per cento vi
obbligava all’unità. Ora che è sceso al 3, non è che rischiate di non
avere più bisogno di stare uniti?
Unirsi per un vincolo esterno, per
qualche posto da parlamentare, sarebbe una scelta meschina. Le nostre
ragioni per l’unità sono molto più profonde, stanno nella sofferenza dei
ceti medi e popolari. Se la nostra gente annusasse odore di meschinità
fra noi, non avremmo alcuna possibilità.
Repubblica 14,6.17
Il nuovo tridente
PD, se il nemico viene da destra
di Piero Ignazi
IL
RITORNO della destra non può essere considerato una sorpresa. Tutti i
sondaggi hanno sempre mostrato che le sue varie componenti, sommate
insieme, ricevevano gli stessi consensi del M5S e del Pd. Evidentemente
si sono sopravvalutate le schermaglie tra Salvini e Meloni da un lato, e
Berlusconi dall’altro. Come se non ci fosse ancora quell’”idem sentire”
di cui parlava, un tempo, Umberto Bossi. Il tridente del 1994 — Forza
Italia, Lega ed (eredi di) An — è ancora in piedi. E la sua radicalità
non si è attenuata. Ha solo preso strade diverse. Invece di inveire
contro i meridionali e Roma ladrona, il Carroccio versione Salvini punta
il dito e alza la voce contro gli immigrati. I Fratelli d’Italia, dal
canto loro, sono ancora più agguerriti rispetto ad An ultima versione,
quella avviata verso un moderatismo di stampo conservatore: mentre Fini
teneva le distanze in maniera inequivocabile dalla estrema destra
europea, Giorgia Meloni inneggia a Marine Le Pen. E Forza Italia,
infine, come sempre, alterna il pelo del lupo al manto dell’agnello. In
questa fase post-referendum è rimasta sorniona a guardare i pasticci
combinati dal suo amato-odiato “royal baby”, alias Matteo Renzi, e
sembra volergli tendere paternamente la mano. Ma a qual fine? In realtà,
Berlusconi coltiva solo un desiderio: quello di tornare a occupare un
ruolo centrale nella politica italiana. Non ammette uscite di scena o
passaggi di testimone. Per questo ondeggia tra disponibilità a
collaborare — come sulla legge elettorale — e barricate — come sul
referendum. Le oscillazioni del Cavaliere hanno però un costo:
disorientano i tradizionali elettori forzisti, tanto che il partito deve
competere con la Lega per conquistare il primato all’interno dello
schieramento di destra. Infatti Forza Italia è ancora sostenuta da
coloro che non vogliono nemmeno sentire parlare di “sinistra”. Il suo
elettorato — soprattutto teleutenti, anziani e casalinghe con basso
livello di istruzione — è motivato da sentimenti politici estremamente
tradizionalisti e autoritari: il consenso per l’introduzione della pena
di morte così come l’opposizione ai matrimoni gay e all’aborto sono
molto alti. E anche sull’immigrazione i forzisti non distinguono tanto
dai leghisti. Non per nulla i due terzi dell’elettorato (allora PdL) del
2013 si collocava su posizioni vicine all’estrema destra (dati Itanes).
Certo.
Berlusconi può plasmare a piacimento la politica del suo partito. Ma se
voleva imprimere una svolta moderata poteva sostenere il progetto che
lui stesso aveva avviato per una rifondazione del partito, ma che,
affidata a Stefano Parisi, è durata solo una notte di mezza estate.
Questo
test elettorale ha mostrato che lo scontro finale non riguarda solo Pd e
Cinquestelle: la destra è ancora in campo. Soprattutto se si andrà al
voto con un sistema maggioritario. Questo passaggio mette in tensione la
strategia di Matteo Renzi che dal 2014 in poi è stata impostata sullo
scontro con i Cinquestelle. Il nemico numero uno del partito, e dello
stesso sistema politico, era il populismo grillino. Infatti, in questi
anni il conflitto tra Pd e M5S è stato asperrimo, anche per la veemenza
anti-Pd dei pentasellati. Ora lo schema di gioco del Pd deve cambiare
perché la sfida più pericolosa viene da destra. Non che “la pelle del
grillo” sia già acquisita, come ricordava Ilvo Diamanti: tutt’altro. Ma
il M5S deve affrontare il faticoso passaggio da movimento anti-politico,
catalizzatore di ogni protesta, a partito organizzato e strutturato,
con leader o aspiranti tali inevitabilmente in conflitto tra loro. Non
sarà un tappeto di rose. Si sono già visti i primi effetti a livello
locale.
E allora l’antagonista del Pd (ri)diventa la destra unita.
Per sconfiggerla sono necessari alleati; e anche, evitare che i
Cinquestelle appoggino la destra in ostilità al Pd. Tutta una nuova
strategia.
Il Fatto 14.6.16
Asor Rosa
“Le mancate risposte del M5S: da qui deve ripartire la sinistra”
Per l’intellettuale ci vorrebbe una Costituente per affrontare le grandi questioni sollevate in questi anni dai grillini
di Antonello Caporale
Matteo
Renzi ha posto il Partito democratico fuori dai confini del
centrosinistra. Con lui il Pd ha subìto un mutamento antropologico e
questo giovane leader, tra l’altro assolutamente legittimato dal voto
degli iscritti del suo partito, dimostra di essere cresciuto in ben
altre temperie. Come lui si pensi nel confronto politico non dice, dove
egli si pensi non sa”.
Inizia con un de profundis all’identità del
partito che tuttora è l’erede testamentario della grande mamma – il Pci –
il colloquio con Alberto Asor Rosa, letterato e pensatore, sulle
speranze, le parole e i confini della sinistra in Italia. “Parlare dei
confini della sinistra significa volermi chiedere dei confini
dell’universo. È una richiesta irricevibile”.
Professore, le chiedo
se la sinistra ha una ragione per continuare a vivere, un modello da
emulare, un pensiero da difendere e dei volti da proporre.
Potrebbe mai darsi che io le rispondessi di no?
Potrebbe
però darsi che lei spiegasse perché la sinistra trova vigore e un ruolo
nella battaglia politica solo quando si affida a leader piuttosto
vintage. Dapprima l’ottima performance dell’americano Sanders, poi la
vitalità dimostrata da Corbyn in Gran Bretagna. In Italia chi appare più
in sintonia con il linguaggio di sinistra appare Pier Luigi Bersani,
non proprio un giovincello.
Buona domanda da fare a un 84enne. La più
grande sciocchezza è immaginare che per rappresentare i giovani ci
vogliano i giovani. Ci vogliono le idee, un pensiero accettabile: chi
vuoi rappresentare, in quale mondo mi vuoi portare, e come vorresti
edificarlo e poi difenderlo. Detto che anche in Germania i
socialdemocratici non sono rappresentati da un ragazzo di primo pelo, la
risposta è dentro il senso di ciò che è accaduto negli Usa o in Gran
Bretagna. Il popolo ripone la sua stima in coloro che hanno una storia
personale credibile, una reputazione inappuntabile. Si appoggia chi si
ritiene essere capace di rispondere alla crisi straordinaria – che è
insieme economica, culturale e civile – che stiamo attraversando.
In Italia invece la sinistra non sembra avere idee, né volti da spendere. Ma ha ancora un popolo che la voterebbe.
I
volti seguono le idee. Ho appena proposto quella che ho chiamato una
Costituente della sinistra, o come la si voglia definire. Si ritrovino
insieme, si mettano a discutere, raggiungano un accordo su quel che c’è
da fare, come farlo e soprattutto quali ceti rappresentare. Vedrà che
poi il nome lo trovano.
Quali domande dovrebbero farsi?
Piuttosto
direi: quali risposte dovrebbero dare? Prendano allora le grandi
questioni sollevate dai grillini. Sono temi necessari per costruire una
sinistra nuova. L’altroieri sera ho ascoltato per dieci minuti
l’intervento conclusivo di Grillo a Genova: in che mani siamo caduti! La
protesta targata Grillo è quanto di più sbagliato ci possa essere, ma
le domande che avanza, i temi che affronta meritano una risposta. Ecco:
una sinistra efficiente, contemporanea, attiva dovrebbe impegnarsi a
dare le disposte che i grillini non sanno offrire.
E nulla proprio da fare con il Pd?
La
permanenza di Bersani e compagni in quel partito sarebbe stata suicida.
Il regno di Renzi fa fuoriuscire completamente il Pd dalla fisionomia
della sinistra italiana. Le stesse modalità con cui attua la sua
politica destano sconcerto. Prendiamo le ultime mosse sulla legge
elettorale: una volta opera con Berlusconi, poi passa a un accordo con
Grillo, fallito il quale gli fa ritenere opportuno lanciare un amo a
Pisapia. Ma chi sei? Dove pensi di portare il tuo partito? Quale campo
pensi di rappresentare?
Lei prefigura al centro della scena un solo partito, quello del Nazareno?
Alla
luce degli ultimi risultati elettorali direi che il Nazareno è
fuorigioco. Il centrodestra percepisce una sua rinnovata vitalità, una
capacità di aggregazione nonostante tutto. Vede che il potere gli si
avvicina e non intenderà spartirlo con estranei.
Dopo il suo
ventennio, dopo gli scandali, le condanne, l’inadeguatezza della sua
proposta politica, siamo ancora a parlare di Silvio Berlusconi, un
signore ottantenne che si fa le foto con l’agnellino e attende i voti
sulla sponda del fiume, senza nulla fare. Si chiama rendita
parassitaria.
Sull’età le ho ricordato che sta parlando con qualcuno
che vanta qualche annetto in più e non crede che sia questo il problema.
Sul resto invece la questione è più seria. In una parte del Paese non
si è purtroppo mai prodotto in un senso comune la condanna di
Berlusconi. Egli anzi proprio in virtù (mi scusi se la parola risulta
poco propizia) dei suoi peccati gode di un consenso molto largo.
Ma questa volta con Salvini e la Lega come soci di maggioranza.
La
leadership affidata a Salvini o alla Meloni? Ma che sciocchezza! Sono
dei gregari e tali resteranno, la pretesa di Salvini di guidare il
centrodestra mi sembra irrealizzabile.
Fatta questa premessa.
E
aggiunto che conterà capire quale legge elettorale avremo, perché cambia
molto se sarà maggioritaria, proporzionale o un singolare ibrido, la
rivincita del centrodestra è possibile e, dunque, il patto del Nazareno
diviene meno visibile, meno certo.
Un sicuro trionfo per la sinistra!
Quanto ha pagato secondo lei la diffusa percezione che la sua
l’integrità morale fosse una speranza mal riposta?
L’esercizio del
potere ha molto corrotto l’intero ceto politico. Ne hanno fatto le spese
anche i movimenti che parevano dover essere meno infiltrabili, come è
accaduto in taluni casi finanche con i cinquestelle. Non c’è dubbio che
la sinistra paga – rispetto ai suoi competitori – in modo molto salato
questa sua opacità. Bisognerebbe dare un segnale molto forte.
La sinistra avrebbe pure i voti, come ci dicono i sondaggi, ma manca dell’essenziale: chi la rappresenta?
No, no. Prima ancora bisogna che ci chiediamo: cosa rappresenta?
Il Fatto 14.6.17
Roma, lo psico-congresso Pd: 4 candidati renziani
Dopo 30 mesi di Orfini commissario, la parola torna agli iscritti: il candidato ufficiale del capo è Andrea Casu
di Gianluca Roselli
Quattro
candidati “renziani” l’uno contro l’altro armati. Questo è il risultato
della grottesca sceneggiatura del congresso romano del Pd, in programma
domenica 25 giugno. Una trama degna dei fratelli Coen che ha visto
candidati cadere come birilli sotto il tiro di veti incrociati che hanno
reso la corsa a segretario cittadino più difficile di un jackpot
milionario.
L’ultimo a farne le spese è stato Daniele Torquati,
presidente del XV municipio (Cassia-Flaminia, strappato nel 2013 alla
destra dopo decenni), la cui candidatura è stata ostacolata da un veto
di Roberto Giachetti. Lui stesso, a poche ore dalla presentazione delle
liste, s’è fatto da parte. Altro birillo caduto nelle ultime ore è
Silvia Scozzese, commissario al debito storico del Comune, proposta da
Angelo Rughetti e dallo stesso Giachetti, colpita pure lei dal tiro
incrociato tra renziani. E Mariano Angelucci, vicino a Gasbarra e
Fioroni, affondato subito. Il 67% preso a Roma da Renzi alle primarie
nazionali aveva fatto sperare in un candidato unitario della
maggioranza, ma così non è stato.
Le premesse, naturalmente, erano
pessime: al congresso cittadino si arriva dopo l’harakiri della giunta
Marino, la sconfitta coi 5Stelle e il partito commissariato da 30 mesi.
Un periodo segnato da accuse violente e litigi continui tra il
commissario Matteo Orfini e i dirigenti locali. Sotto il Cupolone, poi,
“renziani” non significa nulla, sono le sottocategorie a contare:
turborenziani, renziani low profile, orfiniani, franceschiniani,
popolari, ex veltroniani. Ognuno ha cercato di spingere un nome e di
ostacolare gli altri. Risultato: lo stesso Renzi ha dovuto sbrogliare la
matassa candidando, in sua rappresentanza, Andrea Casu, 30enne vicino a
Luciano Nobili (turborenziano), che pare abbia declinato la candidatura
per ambizioni più alte: vuole entrare in Parlamento. Gli altri
candidati sono Valeria Baglio, anch’essa renziana ma più vicina agli ex
veltroniani di Roberto Morassut; Andrea Santoro, che alle primarie ha
votato per Renzi ma intorno a sé ha pezzi di minoranza (Walter Tocci,
Estella Marino, Marta Leonori); Livio Ricciardelli, consigliere del I
Municipio, l’unico outsider, renziano senza correnti.
Sul candidato
espressione della maggioranza i turborenziani si sono subito incartati.
Dopo il divieto di presentarsi ai parlamentari (tipo Giachetti o Madia) e
altri rifiuti importanti (come quello della capogruppo in Campidoglio
nonché moglie di Dario Franceschini, Michela De Biase, anch’essa con
ambizioni parlamentari), la situazione si era parecchio ingarbugliata. A
quel punto, la partita è stata risolta dal duo Lotti-Guerini e si è
giunti al nome di Casu. Il tutto sotto gli occhi di un Orfini che non
sembra aver risolto nemmeno uno degli atavici problemi del Pd
capitolino. “Sono sempre stato critico con Orfini e gli eventi mi danno
ragione. Correnti e sottocorrenti ce ne sono come prima, con la
differenza che in passato facevano riferimento ai leader nazionali, oggi
sono nominali: ognuno ha la sua”, osserva l’ex segretario Marco
Miccoli.
Naturalmente non poteva mancare la polemica sulle firme.
Ogni candidato ne doveva raccogliere 400 in almeno 6 municipi. Qualcuno
si è chiesto come ha fatto Casu a riuscirci, visto che il suo nome è
spuntato all’ultimo, con poche ore a disposizione. Il sospetto, secondo
alcuni dem, è che qualcuno abbia raccolto firme su moduli “in bianco”,
senza il nome del candidato.
Il Fatto 14.6.17
Pisapia bacchetta Renzi: “In un’ora passa da B. a me”
Timide
chiusure - Il progetto dell’ex sindaco è alternativo al Pd “per adesso”
e “purtroppo”. Il primo luglio lancia la sua formazione
di Tommaso Rodano
“Il
nostro progetto è alternativo a quello del Pd”. Parola di Giuliano
Pisapia. Dopo il lungo equivoco sull’intesa con Matteo Renzi, l’ex
sindaco di Milano ha calato le carte, in un’intervista con Giovanni
Floris a DiMartedì. Pisapia chiarisce, sì, ma sempre con prudenza. Le
sue parole sono mitigate da qualche avverbio cautelare. Il suo progetto,
dice, è alternativo “purtroppo”. Non coincide con quello del Pd “in
questo momento”. Per adesso “la maggioranza del Pd non ci ha dato una
risposta: quella di costruire insieme un nuovo centrosinistra”.
Ieri
mattina Renzi, da parte sua, aveva continuato il corteggiamento dell’ex
sindaco: “Dipende dalla legge elettorale – ha dichiarato nel videoforum
di Repubblica – ma siamo disponibilissimi a dialogare con Pisapia e
Boldrini. Non c’è nessun cambio di strategia. Io con Pisapia non ho mai
chiuso”. Per lui ci sarebbe spazio in lista, o in un’alleanza ristretta –
qualora il sistema elettorale lo consentisse – per avere il fianco
coperto a sinistra. La proposta è la stessa da mesi. E non basta.
Infatti Pisapia la rifiuta: “Non sono tipo che si offende, ma non si può
passare da un’ora all’altra da Berlusconi a me”.
L’ex sindaco
continua a giocare sul filo di un equilibrio precario. Un passo in
avanti e uno indietro. Sabato, per esempio, non dovrebbe partecipare
alla manifestazione nazionale della Cgil sui voucher, proclamata dopo il
ritorno di soppiatto del lavoro ultra precario nella “manovrina” del
governo Gentiloni. Essere presente avrebbe caratterizzato decisamente a
sinistra il suo profilo politico sul tema. Forse non ci sarà, ma
garantisce: “Quella piazza fa parte del nostro progetto”. Sarà invece a
un “dibattito con Camusso sulla democrazia nei luoghi di lavoro”. Sul
corteo di sabato non si sbilancia, nonostante qualcuno dei suoi stia
tentando di convincerlo: “Stiamo lavorando per farlo venire”, fa sapere
Massimiliano Smeriglio, che è il suo punto di riferimento a Roma, oltre
che il rappresentante enti locali di Articolo 1 – Mdp.
Per adesso, il
perimetro del Campo progressista corrisponde ancora a quello dei
bersaniani: Pisapia ha bisogno della piattaforma di Bersani e compagni
almeno quanto loro hanno bisogno di lui. Anche se l’ex sindaco non manca
di sottolineare la mancanza di sintonia con uno dei fondatori di
Articolo 1: “Con Massimo D’Alema ci parlo, ma ha una visione diversa
dalla mia, io sono convinto di un centrosinistra più aperto, più largo.
Che sia in discontinuità e non sia solo una alleanza elettorale quanto
un progetto che vada al di là”.
Il matrimonio con i bersaniani sarà
comunque celebrato il primo luglio, in una conferenza di cui ieri sono
stati svelati i dettagli. “L’appuntamento è a Roma per un grande
incontro nazionale aperto a tutte le forze politiche e sociali che
vogliono costruire la casa di un nuovo centrosinistra che si candidi a
governare il Paese”, ha scritto Pisapia sui suoi social network.
La
scelta del luogo è significativa: la manifestazione è convocata alle 16 e
30 in Piazza dei Santi Apostoli, a Roma. Luogo simbolo dell’Ulivo di
Romano Prodi. Non è un mistero che l’ex sindaco guardi al Professore,
che nell’ultimo periodo è tornato a farsi sentire e vedere molto spesso,
tra saggi programmatici e interviste ai giornali. Pisapia non lo
nasconde: “Ci vorrebbe qualcuno che ha vinto contro il centrodestra
unendo la sinistra, ci vuole una personalità sopra le parti. Prodi se
fosse disponibile a candidarsi a Palazzo Chigi ci metterei la firma,
però mi sembra che lui non sia disponibile”.
Altrettanto simbolico
sarebbe pure il nome dell’iniziativa: “Nessuno escluso”. Come a
garantire che non ci sono veti, nel cantiere ipotetico di un nuovo
centrosinistra. Non proprio quello che si desume dalle parole su D’Alema
o dalle esitazioni su Pippo Civati e Nicola Fratoianni. Il leader di
Possibile il primo luglio ci sarà: “Ma c’è bisogno di costruire un ponte
con la manifestazione del 18 giugno promossa dai movimenti, con Anna
Falcone e Tomaso Montanari”. Sinistra Italiana deve ancora decidere: “Al
di là del manifesto non si sa nulla”.
Il Fatto 14.6.17
Serve Lenin o niente rivoluzione
Al bivio - Uno non vale uno: per abbattere il sistema, anche da non violenti, deve decidere Beppe
di Massimo Fini
Dare
ora addosso ai grillini, anche da parte di coloro che in qualche modo
simpatizzano per questo movimento (per gli altri è stata una vera orgia,
un urlo liberatorio per lo scampato pericolo, rilanciato, oltre che dai
politici, da tutti i media nazionali – quante interviste a Pizzarotti e
a Cassimatis abbiamo dovuto sentire?) per gli errori commessi è
ingeneroso e maramaldesco. Ma poiché questi errori, almeno quelli di
fondo, li ho denunciati in tempi non sospetti, quando il grillismo era
alle stelle, mi permetto di tornarci sopra adesso, nel momento di una
débâcle.
1) Un movimento rivoluzionario che vuole abbattere il
sistema, sia pur in modo pacifico e non violento, quando è allo stato
nascente non può che essere dirigista, ‘leninista’. Non credo che Lenin e
Trotsky consultassero i loro militanti prima della presa del Palazzo
d’Inverno. Allo stato nascente di una rivoluzione non esiste “l’uno vale
uno”. Grillo se ne è accorto in ritardo e ha cercato di riprendere
nelle sue mani il movimento, ma questo ha sconcertato i suoi militanti
oltre a dare, per la palese contraddizione fra la teoria e la pratica,
facile materia d’attacco agli avversari.
2) Il secondo errore
consegue dal primo. Un movimento che può contare su otto milioni di voti
non può dare la parola decisiva a meno di 150 mila iscritti.
Ciò
premesso queste elezioni ci dicono che a un 50% degli italiani (cioè del
complesso del corpo elettorale scontato delle astensioni e di circa il
dieci per cento andato ai Cinque Stelle in queste Amministrative) questo
sistema partitocratico, che ci ha portato al fosso, sta bene, che
vogliono continuare sull’andazzo di sempre. Ma anche qualora le
astensioni, che sono aumentate del 7% circa e che manifestano un totale
disgusto per la classe politica, dilagassero ulteriormente nulla
cambierebbe. Una minoranza avrebbe comunque la meglio sulla maggioranza.
Sono gli scherzi, i trucchi, le truffe della democrazia. Un sistema a
cui personalmente ho finito di credere da molto tempo (Sudditi.
Manifesto contro la Democrazia, 2004).
Come se ne potrebbe uscire?
Con una rivoluzione violenta. Le rivoluzioni sono fatte in genere da una
minoranza figuriamoci se non sarebbero alla portata di una maggioranza.
Ma non è possibile. Sostanzialmente per due motivi. Il primo, minore, è
che la nostra popolazione è troppo vecchia (45 anni di media contro,
poniamo, i 32 della Tunisia una delle protagoniste delle ‘primavere
arabe’) per avere l’energia per scendere sul campo, sul terreno fisico.
Il secondo è che l’Italia è integrata all’Europa e persino l’Europa, se
non gli stessi Stati Uniti a cui il Vecchio continente rimane
sottomesso, ci manderebbe i carri armati. I russi poterono fare la
rivoluzione bolscevica senza interferenze, gli italiani quella fascista.
Oggi nessun Paese occidentale è più padrone del proprio destino.
Inoltre
la democrazia, che è sostanzialmente un sistema di procedure e di
parole, ha mille modi per difendersi. In Italia la democrazia, che da
noi non è nemmeno una democrazia ma una partitocrazia, ha innocuizzato
prima la rivolta che si manifestò nella breve stagione di Mani Pulite,
poi la Lega di Bossi e innocuizzerà, come tutto tende a far prevedere,
anche il Movimento 5 Stelle o fenomeni minori come è stato quello dei
‘forconi’.
Per questo da tempo preferisco concentrarmi sull’Afghanistan o sull’Isis. Perché almeno lì parlano i fatti, non le parole.
Repubblica 14.6.17
L’ondata di sbarchi non si ferma. Per il ministero bisogna prepararsi quest’anno all’arrivo di 200 mila extracomunitari
Ma il Viminale non fa sconti “La Capitale faccia la sua parte può accoglierne altri 2000”
Vladimiro Polchi
«Molte
città sono in difficoltà, ma anche la Capitale deve fare la sua parte.
L’ondata di sbarchi non si ferma: quest’anno ci dobbiamo preparare ad
accogliere 200mila migranti». Tra i corridoi del Viminale, la lettera
della sindaca di Roma, Virginia Raggi, non è giunta inaspettata:
«Sappiamo delle tensioni che circolano, ma purtroppo i numeri sono
questi e tutti devono fare di più. Stando alle quote concordate con
l’Anci, la capitale con la sua provincia potrebbe ancora accogliere
2mila rifugiati».
Il fatto è che mai il nostro Paese ha dovuto
trovare un tetto a un numero così elevato di profughi. Attualmente, tra
strutture temporanee e centri governativi, sono già 180mila i migranti
accolti. La Lombardia col 13% del totale è in testa alla gara
dell’accoglienza, seguono Lazio e Campania col 9%, Piemonte, Veneto ed
Emilia-Romagna con l’8% e Toscana, Puglia e Sicilia col 7%. Ma non
basta: le stime per fine anno portano infatti il ministero dell’Interno
ad alzare l’asticella a 200mila posti. Questa volta però, obiettivo del
Viminale è quello di non catapultare d’imperio i migranti nei vari
territori per ordine dei prefetti, ma distribuirli con tavoli di
coordinamento con i sindaci.
Gli arrivi via mare proseguono infatti
la loro corsa: al 13 giugno di quest’anno sono sbarcati 64.158 migranti,
il 17% in più dello stesso periodo dell’anno scorso (che con oltre
181mila arrivi aveva già infranto ogni record). In gran parte provengono
da Nigeria (oltre 9.500), Bangladesh (7.199), Guinea (6.011). I porti
più sotto pressione restano quelli siciliani: in testa Augusta (11.366
sbarchi), Catania (7.859), Pozzallo (5.657). Continuano gli arrivi anche
dei minori stranieri non accompagnati: già più di 8.300. E non aiutano
certo i ricollocamenti, che vanno avanti col contagocce: solo 6.505 i
richiedenti asilo che l’Italia è riuscita a trasferire in altri Paesi
europei. E così tocca fare da soli.
Il nuovo piano di distribuzione è
già in atto. In base all’accordo del 10 luglio 2014, ogni regione deve
accogliere una percentuale di migranti pari alla propria quota di
accesso al Fondo nazionale per le politiche sociali (per esempio alla
Lombardia spetta il 14,15% del totale e al Lazio l’8,6%). E così nel
“piano dei 200mila” a tutti toccherà fare di più di oggi. Due esempi:
nel 2017 la Lombardia dovrà passare dagli attuali 25mila posti a oltre
28mila, la Campania da 16mila a oltre 19mila. Non è tutto. All’interno
di ogni regione, l’accordo Viminale-Anci di dicembre prevede che i
comuni fino a duemila abitanti dovranno ospitare 6 migranti, i comuni
con più di 2mila abitanti 3,5 migranti ogni mille residenti, mente le
città metropolitane (già sotto stress, in quanto hub di transito di
molti rifugiati) avranno uno “sconto”: 2/3 posti ogni mille abitanti.
Sapere
quanti migranti sono ospitati in ogni città non è facile. Stando alle
ultime notizie, 8.600 sono quelli che attualmente vengono ospitati a
Roma e in provincia, in oltre 70 strutture, ma a questi se ne aggiungono
molti che arrivano nella Capitale, spesso solo in transito e non
rientrano nei canali dell’accoglienza ufficiale. Milano ha 3.600
migranti accolti in città, 500 nell’hub di Bresso gestito dalla Croce
Rossa e 400 nei 132 comuni dell’hinterland. Oltre 1.200 sono ospitati a
Napoli, circa 2.000 a Genova.
Ebbene, secondo i calcoli del Viminale,
i numeri dovranno aumentare ancora: «Milano e il suo hinterland può
arrivare a 5mila, Roma e provincia devono trovare posto a duemila
migranti in più». Insomma, in vista dei nuovi sbarchi, la tensione pare
destinata ad aumentare.
Il Fatt 14.6.17
Lampedusa, il pd liquida l’accoglienza
di Daniela Ranieri
Il
popolo democratico ventoteniano accogliente terzomondista e obamiano,
come da copione leopoldo, vibrava ancora dall’emozione di Fuocoammare
vincitore a Berlino quando è arrivata la doccia fredda. Giusi Nicolini,
sindaca di Lampedusa ormai per antonomasia, “salvatrice di vite” per
l’Unesco e brand della “poesia dell’accoglienza” per Matteo Renzi, non
ce l’ha fatta. Ha perso in casa sua contro la lista “Susemuni”
(“Alziamoci”, a significare che con lei gli isolani erano riversi o
bocconi), creata non da un leghista xenofobo, ma da un ex sindaco di
Lampedusa di centrosinistra dal nome da suonatore di pianobar su una
nave da crociera americana: Totò Martello.
Questo Totò Martello, che
nel profilo Facebook appare col sole in faccia, la sciarpa al collo e il
sigaro in mano, secondo le cronache è “amico dei pescatori”,
proprietario di alberghi lampedusiani e gestore di un circolo del Pd,
uno dei due sull’isola, dove l’altro fa capo al marito di Nicolini. Per
noi che seguiamo il Twitter di @matteorenzi, e da tre anni retwittiamo
le foto che lo ritraggono insieme alla sindaca mentre osservano entrambi
il tramonto da uno scoglio, è stato un trauma. Per i lampedusani,
aizzati da Totò Martello, un po’ meno. Sull’isola, Nicolini, candidata
al Nobel per la Pace dal pidino Ermete Realacci, era “una ladra di
medaglie”, una che badava più alla sua immagine che al benessere degli
isolani, e Totò Martello ha meditato la sua rivincita sguarnito di
storytelling (per 5 anni ha usato Facebook solo per scrivere
“Buongiorno”, “Buonanotte” e “Buona Pasqua a tutti”) ma con l’orecchio a
terra. E ha capito quel che Nicolini s’è fatta sfuggire nella rapinosa
voluttà antropofagica di Matteo.
Così questa storia che pare un
canovaccio camilleriano mostra in controluce la filigrana della
narrazione renzista. Tutto quel che Renzi tocca, e tanto più quel che
costruisce sopra alle persone per suo comodo, si scioglie al sole come
il gelato Grom della gag nel cortile di Palazzo Chigi. Così nel marzo
dell’anno scorso Matteo “raccontava” l’isola di Giusi Nicolini, che
intanto diventava l’isola di Totò Martello: “Lampedusa, cuore d’Europa.
Ho scelto di passare qui questo venerdì speciale, accolto da
@giusi_nicolini e da una comunità bellissima”. Un mese prima non si
faceva scappare gli allori italici: “Berlino premia Gianfranco Rosi, il
suo talento e la poesia dell’accoglienza #Fuocoammare #orgoglio”. E poco
dopo ribadiva: “Spero che #Fuocoammare vinca l’Oscar. Grazie
#Lampedusa” (per chi avesse dubbi, Fuocoammare non vinse). Seguirono i
giorni dell’epica: ben “quattro donne ‘simbolo dell’eccellenza italiana’
accompagneranno il presidente del Consiglio Matteo Renzi alla Casa
Bianca per la cena ufficiale con il presidente degli Stati Uniti Barack
Obama” (così Ansa l’ottobre scorso, con toni da agenzia Stefani). Come
nelle corti del ‘500, quando i sovrani si facevano visita portandosi
dietro musici, teatranti, ritrattisti, eruditi, cuochi e danzatori,
Renzi con sé – a ornamento della sua gloria – portava due premi Oscar,
uno stilista, un campione dell’Anticorruzione e, appunto, un poker di
donne (come nell’Urss delle astronaute): l’atleta, la scienziata,
l’architetta e la sindaca. Giusi Nicolini fu un colpaccio, spendibile
negli Usa anti-Trump al pari del parmesan, simbolo degli italiani brava
gente che vincono i premi ripescando la gente in mare (e chissà se Renzi
se l’è rivenduta pure alla cena con Obama a Borgo Finocchietto, menù di
Luca Bottura: cinque stagionature di parmigiano e dessert a base di
fiori).
Erano i giorni della Speranza contro la Paura, dell’Amore che
vince sull’Odio. Si favoleggiava di #Italiariparte e si copiava quel
che faceva Papa Francesco, che a Lampedusa andò nel 2013 e, con gesto
appena un po’ retorico, bevve da un calice ricavato dal legno dei
barconi. Si mandava Franceschini sull’isola a inaugurare il “Museo della
fiducia e del dialogo per il Mediterraneo”; così come una settimana fa
si mandava il ministro dello Sport Luca Lotti a “sostenere una grande
donna e una brava sindaca” con la scusa di inaugurare un campo di
calcio. Ebbene, Nicolini ha perso, con 908 voti contro i quasi 1600 di
Totò Martello, avendo contro mezzo Pd locale e pure Pietro Bartolo,
medico eroe di Fuocoammare e quindi ovviamente star dell’ultima
Leopolda, dove Matteo lo abbracciò mostrandosi commosso.
Renzi – che
s’è guardato bene dal promuovere le primarie sull’isola – l’ha liquidata
su Fb: “Ieri Giusi ha perso a Lampedusa, succede… Ma la qualità dei
rapporti umani (come si sa, il suo forte, ndr) non viene mai meno.
Grazie Giusi… Lavoreremo ancora nel Pd, avanti, insieme”. Noi le diremmo
di scappare, indietro e da sola, perché per quanto ci piaccia Totò
Martello, con quel nome da parrucchiere del New Jersey, la nostra
solidarietà va lei, che ad aprile, benché tardi, aveva capito tutto: “Il
Pd non è con me. Sull’isola ha un altro candidato”.
Repubblica 14.6.17
Carceri, Radicali ancora in sciopero della fame contro 41 bis e ergastolo
di Camilla Orsini
ROMA.
È il diciannovesimo giorno di sciopero della fame per la dirigente del
Partito radicale Rita Bernardini, in Calabria per l’iniziativa della
Carovana della Giustizia, quando nel pomeriggio arriva da Roma la
decisione del governo di mettere la fiducia sul ddl per la riforma del
processo penale. «Un vero e proprio atto di arroganza », dice la
Bernardini in collegamento telefonico con Maurizio Turco ed Elisabetta
Zamparutti ieri durante la conferenza stampa dei radicali alla Camera.
«Orlando, che andò a trovare Pannella negli ultimi giorni di vita, non
credo abbia compreso il significato della non violenza. Vuol dire
dialogo, ascolto, che nei nostri confronti è stato quasi nullo».
Per i
radicali «Pannella viene censurato anche da morto»: quello della
Bernardini è infatti il terzo sciopero della fame negli ultimi otto
mesi, una lotta non violenta e inascoltata che si somma alle due marce
per l’amnistia e alle circa 200 visite in carcere. La proposta dei
radicali era di dare alla riforma dell’ordinamento penitenziario una
corsia preferenziale, separata dal ddl sul penale. Eppure il ministro
della Giustizia «aveva deciso fin dall’inizio di impacchettare tutto
senza nemmeno discuterne», accusa la dirigente radicale. Intanto, la
Carovana per i paesi simbolo della ‘ndrangheta rimarrà in Calabria fino
al 17 giugno per la raccolta firme sulla proposta di legge delle Camere
Penali per la separazione delle carriere tra giudici e pm, per
raggiungere i 3000 iscritti al partito, per introdurre come riforme
obbligatorie l’amnistia e l’indulto, e per il superamento di
«trattamenti crudeli e anacronistici » come il regime del 41bis e il
sistema dell’ergastolo. Il motto è nel solco della tradizione
pannelliana: “con e per i detenuti, con e per le vittime della
giustizia”. E annuncia battaglia Sergio D’Elia, dirigente del Partito
radicale, affinché «i detenuti del 41bis possano iscriversi al Partito
radicale e possano partecipare, in cella, alla vita politica democratica
del Paese».
il manifesto 14.6.17
La crociata etnica dei 5 Stelle contro migranti e rom
Roma.
La sindaca Raggi ai prefetti: niente più centri di accoglienza per
stranieri. E dal blog di Grillo l’attacco a campi nomadi. La virata a 24
ore dal deludente voto amministrativo. Applausi da Salvini e Meloni
di Giuliano Santoro
Sono
passate 48 ore dai primi risultati delle elezioni amministrative.
Giusto il tempo di osservare i flussi di voti e consultare i
comunicatori ed ecco che dal Movimento 5 Stelle parte un uno-due sui
temi della sicurezza e dell’immigrazione. Comincia Virginia Raggi,
annunciando di aver chiesto al ministro dell’interno di fermare l’arrivo
di «migranti» a Roma. «È ora di ascoltare i cittadini romani: non
possiamo permettere di creare ulteriori tensioni sociali. Per questo
trovo impossibile, oltre che rischioso, pensare di creare altre
strutture di accoglienza. Mi auguro davvero che questo appello non cada
nel vuoto. E soprattutto che il governo tenga conto di queste mie parole
nel momento in cui dovranno decidere dove inviare nuovi migranti».
A
stretto giro sul blog di Beppe Grillo compare un testo firmato dal
Movimento 5 Stelle, serve a rilanciare la crociata contro i campi rom.
Muove sulla base del (molto dubbio) Piano di superamento degli
insediamenti diffuso nelle settimane scorse. Ma va ben oltre,
rilanciando stereotipi e pregiudizi: «Grazie a noi è iniziata la fine
dei campi, delle roulotte e dei caravan in mezzo alle strade della
città, gli incendi occasionali, i furti di corrente agli edifici
limitrofi. In breve: stop all’illegalità e al degrado». E poi, se non
fosse chiaro il tono: «Chi si dichiara senza reddito e gira con auto di
lusso è fuori. Chi chiede soldi in metropolitana, magari con minorenni
al seguito, è fuori. In più sarà aumentata la vigilanza nelle metro
contro i borseggiatori».
Non si tratta di novità: l’amministrazione
capitolina da mesi evita di affrontare il tema dell’accoglienza ai
cosiddetti «transitanti», rifugiati che intendono presentare domanda
d’asilo in un altro paese. Il caso del Baobab, l’associazione di
volontari che presta soccorso a migliaia di uomini e donne, è l’emblema
di questa disattenzione. Per di più Raggi, una volta eletta, da subito
aveva annunciato ai suoi più stretti collaboratori che sui campi rom non
avrebbe accettato compromessi. Solo che questa volta l’attitudine alla
tolleranza zero si unisce ad opportunità elettorali e mediatiche. Alla
Casaleggio Associati sanno bene che l’immigrazione funziona sempre
quando si tratta di dettare i tempi alla macchina mediatica (e
riprendersi i voti tornati ai berlusconiani). La destra abbocca: Giorgia
Meloni, leader di Fratelli d’Italia, acconsente alla proposta della
sindaca: «Come consigliere comunale dico che ha fatto bene, è quello che
avrei fatto anche io, magari però un anno fa». Matteo Salvini twitta:
«Bentornata sulla terra a Virginia Raggi». Dal M5S, Luigi Di Maio
esulta: «Sottoscrivo in pieno – afferma – Ormai il Paese è una pentola a
pressione. Non possiamo pensare di affrontare questo fenomeno nei
nostri confini». E poi rilancia il paravento della legalità : «Non è
possibile continuare a costruire centri di accoglienza nelle nostre
città per far fare affari alle solite poche cooperative che fanno
business sull’immigrazione».
«La richiesta rilanciata con retorica
leghista sul blog nasconde le difficoltà elettorali del M5S», afferma
Stefano Fassina di Sinistra per Roma. Per i Radicali Italiani «si fanno
affermazioni apodittiche, senza formulare alcuna proposta concreta,
tanto per dare fiato a un pò di propaganda». I grillini agitano
un’emergenza costruita ad arte e per di più affrontata da loro stessi
con gli stessi strumenti del passato. Quelli che Raggi chiama «migranti»
generici si suppone siano richiedenti asilo. A Roma sono fra le 13 e le
15 mila. Nessuna invasione: si parla dello 0,5% della popolazione. Il
fatto è che l’ultimo bando dell’amministrazione capitolina invece di
privilegiare l’accoglienza diffusa ha agevolato i grandi gruppi. È il
modello che nei casi peggiori è degenerato in Mafia Capitale.
Insomma,
mentre Raggi stabilisce arbitrari livelli di allarme e traccia soglie
di non accesso, ci sarebbe un modello da ristrutturare. Secondo i
volontari di Baobab «sono circa 500 i nuovi arrivi di migranti al mese
». «Riteniamo che il fenomeno sia in aumento rispetto agli anni scorsi –
proseguono – Ma abbiamo più difficoltà a mapparlo, visti i continui
sgomberi del nostro presidio».
il manifesto 14.6.17
Roma, città chiusa ma a 5 Stelle
di Sandro Medici
Brutti,
sporchi e ovviamente cattivi. Migranti, profughi, rifugiati, fuggitivi,
sopravvissuti. Non ne vogliamo più. Scaricateli in qualche altra città.
Da oggi Roma è città chiusa.
È partita una lettera trepidante e
animosa della sindaca Virginia Raggi. Nella quale chiede alla prefetta
Paola Basilone d’interrompere il flusso migratorio in città: non
vogliamo più stranieri, accoglierli sarebbe «impossibile e rischioso». E
ad amplificare il messaggio arriva di sponda anche Beppe Grillo con il
suo sacro blog, a minacciare espulsioni e rastrellamenti: faremo a Roma
quello che per vent’anni nessuno ha fatto. Eccola affiorare, la pulsione
razzista a cinque stelle. È di sicuro un riflesso elettorale, tanto
meccanico quanto primitivo. Conseguenza diretta del deludente risultato
nelle amministrative di domenica, con tutti quei voti reazionari che
sono tornati da dove erano venuti, cioè a destra.
Ma è qualcosa di
più. Fa parte dell’orizzonte culturale piccolo-borghese con cui il
movimento di Grillo è riuscito a raccogliere consensi indifferenziati.
Interpretando e accarezzando gli egoismi gretti, le angustie
benpensanti, le collere malintese, i furori xenofobi. Prendersela allora
con i Rom che chiedono l’elemosina alle stazioni della Metro o con i
ragazzi africani che si accampano alla Stazione Tiburtina, rassicura il
perbenismo incupito e le coscienze ottuse.
Finora a Roma ci si era
limitati a qualche sgombero di richiedenti asilo e a qualche retata di
ambulanti abusivi, con una polizia municipale sempre più manesca e
sbrigativa.
E nulla era stato allestito per l’accoglienza, saturando
ben presto le strutture preesistenti. Un’inerzia amministrativa
inefficiente e impaurita, che non ha regolato i flussi né dislocato i
nuovi arrivi, finendo così per amplificare l’impatto migratorio in
città.
Non che il Campidoglio brilli per efficacia e prontezza, ma a
Roma le possibilità di gestire un’emergenza sociale, accogliendo e
ospitando, ci sono e non sono poche. Volumetrie pubbliche inutilizzate,
ospedali dismessi, caserme acquisite dal Comune, stabilimenti
industriali abbandonati, oltre a migliaia di ettari lungo i margini
della città. La sindaca Raggi ha però preferito cullarsi nell’ignavia:
per non sottrarre al mercato patrimonio comunale in vendita e per non
insediare nuovi centri d’accoglienza invisi ai territori.
Meglio dunque fermare tutto, fermare tutti, e chissenefrega di tutta quella povera gente disperata.
La Stampa 14.6.17
Quando l’avversario politico non ha il diritto di esistere
Pci
“ateo e totalitario”, Dc “piovra”, Nenni “patetico”. Uno studio curato
da Orsina e Panvini sulla delegittimazione reciproca in Italia dal ’45 a
oggi
di Massimiliano Panarari
Prima dello storytelling
negativo e dei negative spot, la politica non rifuggiva certo dal «corpo
a corpo». Anzi. Ma faceva chiaramente ricorso ad altri metodi e format.
E visto che la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi
(come diceva il prussianissimo generale Carl von Clausewitz), l’arma
utilizzata in abbondanza nel passato - e mai dismessa - era quella della
delegittimazione dell’avversario che veniva convertito in nemico
totale.
Una tematica su cui l’accademia, tra storiografia (i lavori
di Fulvio Cammarano e Stefano Cavazza, di Paolo Pombeni e di Angelo
Ventrone) e politologia (Marc Lazar, fra gli altri), ha cominciato
organicamente a lavorare negli ultimi anni. E da poco è uscito un libro
che affronta in modo sistematico la questione, La delegittimazione
politica nell’età contemporanea. Nemici e avversari politici nell’Italia
contemporanea (vol. 1), curato dagli storici Giovanni Orsina e Guido
Panvini (Viella, pp. 300, € 26); e sempre Orsina è il curatore
dell’ultimo numero monografico del Journal of Modern Italian Studies
(22/2017) dedicato a questa tematica nell’Italia dal 1945 al 2011.
Una lunga tradizione
La
delegittimazione viene inquadrata nei termini di una tendenza di lunga
durata (con radici nello stesso percorso di costruzione della nazione
italiana), ma che ha conosciuto una serie di «salti di qualità» - come
la «demonizzazione» degli avversari - a partire dal secondo dopoguerra,
via via fino a Tangentopoli. Ad accomunare i sistemi istituzionali che
si sono succeduti all’indomani dell’Unità è stata infatti la minaccia
costante della crisi di regime: la delegittimazione reciproca ha finito
così per svolgere un ruolo rilevante nei processi di formazione delle
culture politiche nei decenni finali dell’Ottocento, per propagarsi
successivamente nei partiti di massa, e vivere una delle stagioni più
intense nel contesto della Guerra fredda.
La conflittualità in
politica rappresenta la normalità, ma il di più rappresentato dalla
delegittimazione consiste, come scrivono i curatori, nel «processo
secondo cui uno o più soggetti negano ad altri il diritto di governare
una nazione, e in termini più radicali addirittura di esistere,
sostenendo che essi sono incompatibili con uno o più valori sui quali è
fondata la sfera pubblica, indipendentemente dal fatto che quei valori
siano o non siano iscritti nella Costituzione». La prima è una
delegittimazione «per sfiducia», la seconda è «istituzionale», con
alcune «regole di fondo»: a codificarla e costruirla sono le élite e gli
intellettuali, che possono anche subirla, mentre non viene
delegittimata la loro base (almeno prima dell’ingresso nella fase
postmoderna, che ha fatto saltare anche queste linee di demarcazione).
Il
gruppo di studiosi che ha contribuito al volume ha analizzato
soprattutto riviste e periodici della nostra storia repubblicana, la cui
cultura politica si è imperniata sulla frattura tra anticomunismo e
comunismo, a colpi - da una parte - di «fattore K» e conventio ad
excludendum, e - dall’altra - di una «delegittimazione dei
delegittimanti» che proclamava l’incompatibilità dell’ideologia
anticomunista con la Costituzione e i valori repubblicani.
Per la
Democrazia cristiana, erano in particolare due fogli della destra
interna - Concretezza (fondata nel 1955, e diretta da Giulio Andreotti) e
Il Centro (nato nel ’62) - a suonare i tasti della delegittimazione
contro i comunisti che avrebbero sicuramente tolto la libertà,
instaurando il totalitarismo e imponendo il materialismo ateo, e contro
il Psi cavallo di Troia del togliattismo. Sempre in ambito
anticomunista, a menare le danze delegittimatrici ci pensarono Il
Borghese longanesiano e, come racconta il capitolo di Eugenio Capozzi,
alcune testate del movimento della Maggioranza silenziosa (Lotta
europea, Iniziativa democratica e Resistenza democratica) che
cannoneggiavano la «canagliocrazia» e la «rettorica partigiana»
«paravento del comunismo».
Conflitto esacerbato
In campo avverso,
si esercitò nel tiro al piattello della delegittimazione la stampa del
Pci, per la quale la Dc era una «piovra», i cui tentacoli si erano
infiltrati in ogni anfratto del potere e accarezzavano senza sosta la
tentazione di instaurare un clima integralista e clericale, mentre la
svolta autonomista del «patetico» e «miserabile» Pietro Nenni avrebbe
portato il Partito socialista a «una serie di fallimentari fughe in
avanti». C’era poi la galassia dei periodici della sinistra
extraparlamentare, che negli anni Sessanta bersagliavano il riformismo,
il governo del centro-sinistra e il gruppo dirigente del Pci che si era
«imborghesito». E con il «regime» democristiano non furono per niente
tenere neppure varie riviste dell’intellettualità azionista come Il
Ponte, L’Astrolabio e Resistenza (studiate nel saggio di Luca Polese
Remaggi).
La storia della politica nazionale può così venire letta
come un pendolo tra il conflitto esacerbato - di cui la delegittimazione
è una delle maggiori espressioni - e i tentativi da parte delle classi
dirigenti di scongiurare le possibili crisi di regime.
La Stampa TuttoScienze 14.6.16
“La verità è anche bellezza”
Al Cern come nell’Atene classica
I fisici ospitano gli artisti: “Cerchiamo linguaggi comuni”
Agli
antichi greci piaceva identificare la verità con la bellezza. Molti
fisici e matematici moderni sono d’accordo: la soluzione giusta di un
problema è di solito anche la più bella, la più elegante, la più
armoniosa. Al Cern di Ginevra, dove si trova il più grande acceleratore
di particelle del mondo, insomma il posto in cui la nostra Fabiola
Gianotti ha scoperto la «particella di Dio», stanno cercando un altro
approccio al legame fra verità e bellezza: invitano gli artisti a
trascorrere qualche settimana in mezzo agli scienziati e ai loro
strumenti di ricerca, contando così di accendere la scintilla creativa
di fotografi, pittori, scultori, performer e chi più ne ha più ne metta.
Non
sempre l’esperimento riesce, naturalmente, perché quella scintilla non
si può accendere a comando. Ma il più delle volte i risultati si vedono
e, infatti, dal 2011 il Cern ha lanciato a ripetizione diversi bandi per
questi «stage» artistico-scientifici.
I concorsi riguardano a ogni
tornata specifiche nazionalità, e soltanto quelle, con scadenze
diversificate. È bene diffondere la consapevolezza che esiste questa
opportunità presso il Cern in modo che, quando arriverà l’occasione
giusta, gli italiani siano preparati a candidarsi. Da poco sono stati
annunciati i nomi di nuovi quattro artisti ospiti: il britannico Haroon
Mirza, la svizzera Laura Couto Rosado, il coreano Cheolwon Chang e il
croato Tomo Savic-Gecan.
Spunti di ispirazione
L’iniziativa si
chiama «Arts@Cern». Data la specialità della casa, gli ambiti con i
quali gli artisti vengono invitati a familiarizzarsi sono la fisica
delle particelle e le leggi fondamentali dell’Universo, ma pure le
tecnologie di ricerca costituiscono un oggetto di interesse di per sé e
offrono spunti di ispirazione. Spiega Monica Bello, responsabile del
programma: «I bandi si susseguono negli anni, perché uno solo non basta
per illustrare l’attività scientifica che si svolge qui al Cern.
Esistono sempre nuovi modi per esplorare artisticamente la fisica delle
particelle. L’arte e la scienza danno forma a nuove idee sul mondo e a
ogni nuovo bando non vediamo l’ora di incontrare i nuovi artisti che
arrivano qui al Cern».
Prendiamo, per esempio, il duo inglese
Semiconductor, composto da Ruth Jarman e Joe Gerhardt. Durante il
soggiorno al Cern hanno prodotto un’opera grafica digitale sulla natura
del mondo e sulla percezione che ne abbiamo. Sempre in campo grafico,
poi, tre giovanissimi svizzeri, Laura Perrenoud, Simon de Diesbach e
Marc Dubois, hanno tratto ispirazione per installazioni interattive e
videogames. Poi c’è l’americano Bill Fontana, che si definisce «scultore
del suono» e sostiene che «ogni suono è musica»: è interessato a
«scovare suoni nascosti in posti improbabili» e le interminabili
gallerie del super-acceleratore gli hanno ispirato l’opera «Acoustic
Time Travel». Spiega che «le conversazioni con le persone e l’ascolto
dei suoni al Cern, per me, sono stati un’esperienza spirituale».
La danza delle particelle
Invece
il tedesco Julius von Bismarck lavora con le luci: usando una serie di
faretti orbitanti, ha creato al Cern (e poi replicato da Berlino fino a
Taiwan) la performance «Versucht unter Kreisen», che si ispira alla
danza delle particelle elementari. Dopodiché, senza che questo fosse
programmato, un altro artista ospite del mega-laboratorio, il ballerino
svizzero Gilles Jobin, ha chiesto a von Bismarck di inserire le sue luci
in una coreografia di danza che ha intitolato «Quantum». I due artisti
definiscono quest’interazione come «un’inaspettata collisione creativa».
Come dire: al Cern collidono non solo le particelle ma anche le idee.
La Stampa TuttoScienze 14.6.17
Siamo più vecchi di 100 mila anni
I Sapiens scoperti in Marocco riscrivono le nostre origini
di Marco Cambiaghi
In
Africa non c’è un solo Giardino dell’Eden. Quando ci eravamo convinti
che la culla della nostra specie fosse comparsa, circa 200 mila anni fa,
a Est, nell’attuale Etiopia, scopriamo che la nostra storia è iniziata
altrove e molto prima: in Marocco, almeno 300 mila anni fa.
Le prove
sono in diversi resti fossili, datati tra i 280 e i 350 mila anni,
ritrovati sul massiccio di Jebel Irhoud, in una zona oggi scenografica
ma desertica. All’epoca dei primi Sapiens, invece, era un’area verde,
ricca di laghi e fiumi, popolata di animali: insomma, un «giardino
ideale» dove sviluppare «tratti moderni». «Si tratta di un’enorme novità
- commenta Stefano Benazzi, coautore di uno dei due studi pubblicati su
«Nature» e professore all’Università di Bologna -. Non solo dobbiamo
rivedere il quando, ma anche il dove. I nuovi dati - continua - ci
portano a pensare che in tempi più antichi di quelli ipotizzati finora
una forma arcaica di Sapiens si stesse già diffondendo in diverse parti
del continente, anche se non siamo in grado di stabilire con esattezza
il punto d’origine».
In realtà, i fossili di un teschio quasi
completo e di una mandibola trovati in Marocco erano già noti dagli Anni
60, quando erano stati datati intorno ai 40 mila anni fa. Eppure, già
allora, qualcosa non tornava: la struttura suggeriva che il viso fosse
simile all’uomo moderno, mentre la parte posteriore del cranio appariva
più arcaica. Scavi successivi hanno portato alla luce i resti di 5
individui e diversi utensili. Grazie alla termoluminescenza i fossili
sono stati quindi sottoposti a ulteriori analisi: poiché questi nostri
antenati mettevano gli utensili a contatto con il fuoco, il calore ha
rilasciato elettroni dalla struttura cristallina della silice, il
minerale di cui erano costituiti. Nel tempo le radiazioni solari hanno
lentamente rimpiazzato questi elettroni, che oggi gli scienziati
riescono a misurare. E così è stato finalmente svelato il mistero
dell’età di questi reperti: risalgono a oltre 300 mila anni fa e
appartengono proprio a Homo sapiens.
«Mentre non abbiamo più dubbi
sulla datazione - chiarisce - sono le caratteristiche ancora materia di
dibattito, perché non è semplice stabilire dove si collochi la soglia
tra sapiens e le specie precedenti. Per questo motivo abbiamo definito
quei fossili come Sapiens arcaici».
La scoperta non fa che complicare
ulteriormente il quadro già frastagliato delle nostre origini.
«Prossimo passo - conclude Benazzi - è capire meglio le prime forme di
cultura dei Sapiens, come l’uso di ornamenti: dobbiamo aspettarci ancora
molte novità sul nostro passato remoto».
La Stampa TuttoScienze 14.6.17
Pesare una stella con la luce deviata dalla gravità
Si realizza il «sogno impossibile» di Einstein
Si
realizza il sogno «senza speranza» di Einstein: per la prima volta è
stato possibile determinare la massa di una stella studiando il modo in
cui la sua forza di gravità curva lo spazio circostante, deviando il
cammino della luce proveniente da un'altra stella posta sullo sfondo ma
non perfettamente allineata. Lo studio, pubblicato sulla rivista
«Science», si basa sui dati del telescopio spaziale Hubble, oltre che di
Nasa ed Esa, analizzati da un team che include anche tre ricercatori
italiani negli Usa: Andrea Bellini, Stefano Casertano e Annalisa
Calamida, dello Space Telescope Science Institute di Baltimora. Oltre a
confermare ancora una volta la validità della Relatività, il risultato
aiuterà a misurare la massa di molti altri oggetti celesti altrimenti
impossibili da «pesare». A fare da apripista è stata la stella Stein
2051 B, che ha rivelato una massa pari al 68% di quella del Sole: è una
nana bianca, vale a dire una stella allo stadio finale, che ha bruciato
tutto il «carburante». Indagare le sue caratteristiche sarà fondamentale
per ricostruire la storia e prevedere il futuro della Via Lattea, dove
il 97% delle stelle sono o diventeranno nane bianche.
La Lettura del Corriere Domenica 11.6.17
Aristofane inventò la psicoanalisi
di Mauro Bonazzi
«Adesso
sdraiati qui e tira fuori qualche pensiero sui casi tuoi». Si ripete
sempre che la psicoanalisi è nata alla fine dell’Ottocento, quando
Sigmund Freud iniziò a esaminare le sue pazienti, distese sul famoso
divano. Ma se questo è il gesto che inaugura la psicoanalisi, allora
tutto è cominciato prima, molto prima.
Nel marzo del 423 a.C. gli
Ateniesi si ritrovarono a teatro per assistere alla nuova commedia di
Aristofane, le Nuvole . La storia, eternamente uguale a se stessa, è
quella di un padre che non sa come fare per sbarcare il lunario, con una
moglie poco propensa al risparmio (ma viene dalla società bene, lei,
mentre il marito è un contadino inurbato), un figlio scapestrato (tutto
la madre) e tanti creditori che lo assillano. È l’alba, il momento dei
pensieri più angosciosi e delle intuizioni più ardite. Corre voce di un
sapientone, si chiama Socrate, che aiuta a risolvere i problemi,
insegnando come fregare gli altri. Ecco chi lo salverà! Strepsiade si
precipita da Socrate, che lo guarda dubbioso: prima lo vuole conoscere, e
Strepsiade deve conoscere se stesso. C’è un lettino nel suo pensatoio,
pieno di cimici e pidocchi, ma pur sempre un lettino: Strepsiade è
invitato a sdraiarsi e ad aprirsi al maestro (è il verso citato
all’inizio). La psicoanalisi è nata quel giorno, all'ombra dell’Acropoli
di Atene.
Una battuta? Di quelle che nascondono un grano di verità,
però. La scoperta di Freud, che scandalizzò l’Europa, fu che non siamo
quello che pensiamo di essere. Ci crediamo razionali e morali; invece
siamo un calderone ribollente di passioni, impulsi, istinti di cui non
siamo neppure consapevoli. Questo è, precisamente, quello che il Socrate
di Aristofane rivelava ai suoi malcapitati pazienti. Strepsiade,
poveretto, è troppo stupido per seguire. Ma suo figlio, Fidippide,
capisce, e in fretta: pensiamo di essere superiori, ma ci sono davvero
differenze tra noi e gli animali? Non inseguiamo le stesse cose — sesso,
sesso, e ancora sesso? (« c’est le sexe, toujours le sexe », spiegava
Charcot, uno dei maestri di Freud). E cosa sono le leggi o la morale, se
non dei tentativi di contenere la nostra natura profonda? Ostacoli,
insomma, che ci impediscono di inseguire i nostri bisogni, condannandoci
all’infelicità? (E uno legge Il disagio della civiltà ). È ora di
cambiare! A partire dal problema dei problemi, la causa di tutti i mali.
La guerra di liberazione di Fidippide inizia con il gesto più semplice,
quello che — secondo Freud — tutti sognano di fare, fin dalla più
tenera età: negare il padre. Il complesso di Edipo. Avrebbe potuto
chiamarlo il complesso di Aristofane.
Freud conosceva molto bene il
mondo antico. Di Aristofane, però, non parla mai: per nascondere il suo
debito? Anche per un’altra ragione.
George Steiner lo ha suggerito
con una osservazione fulminante: molte delle nevrosi di cui parla Freud
sono spuntate fuori solo dopo che lui ne ha parlato, come profezie che
si autoavverano. Che si stesse meglio prima di scoprire l’inconscio?
Aristofane, un conoscitore dei nostri abissi, ne era convinto. Davvero
occorre portare tutto alla luce? Forse c’è un motivo se in noi sono
attivi dei meccanismi che occultano le pulsioni più bestiali,
ricacciandole nelle profondità dell’Io. Sul lettino di Socrate Fidippide
ha guardato nel suo disordine, recuperando ciò che aveva rimosso. Si è
conosciuto per quello che è e ha picchiato suo padre, spiegandogli pure
che era giusto farlo. Già «la vita non è facile», come lo stesso Freud
una volta ammise: era proprio necessario che Fidippide scoprisse queste
cose? Che bella cosa la rimozione! Strepsiade, pentito, bastona Socrate e
incendia il pensatoio. Nelle Nuvole Aristofane non solo ha inventato la
psicoanalisi: ha anche cercato di affondarla per sempre.
Se non ci è
riuscito è perché ad Atene Freud ha trovato un alleato. Si parla di
Platone come di uno scrittore composto, sereno, equanime. Ma la sua
qualità più bella è la perfidia con cui sa rimettere a posto avversari e
rivali — non erano pochi, e per tutti c’è in serbo qualcosa. Aristofane
aveva proiettato un’ombra su Socrate, che bisognava vendicare. Nel
Simposio il personaggio sarà lui.
È una serata di discorsi in onore
di Eros, ma quando arriva il suo turno, Aristofane non riesce a parlare:
scoppia in un singhiozzo terribile, incontenibile — saltella, si
solletica il naso, starnutisce, ma niente...
Non ci potrebbe essere
difesa più brillante della psicoanalisi. Questo singhiozzo irrefrenabile
ricorda i tic nervosi delle pazienti di Freud, che erompono tanto più
furiosi quanto più si cerca di reprimerli; è il sintomo che rivela il
suo punto debole, come la tosse nervosa rivelava quello di Anna O.: che
abbia anche lui un problema con amore e sesso? È la risposta di Platone
alle domande di Aristofane. Inutile illudersi di nascondere quello che
abbiamo dentro, perché tanto viene fuori, in un modo o nell’altro:
Aristofane, il moralista spregiudicato, in fondo è come le fragili
damigelle della borghesia viennese. Magari la filosofia e la
psicoanalisi potrebbero aiutarlo a fare chiarezza dentro di sé, a
convivere con i suoi problemi.
Improvvisamente tutto si fa turbinoso.
Freud non cita spesso Platone, ma quando lo fa le sorprese non mancano.
Come in Al di là del principio di piacere , in cui rievoca le uniche
pagine che non ci si sarebbe aspettato: il discorso di Aristofane nel
Simposio , quando finalmente si è liberato del singhiozzo. Ma non poteva
essere altrimenti perché proprio in quelle parole c’è la risposta
ultima ai misteri della nostra esistenza, la rivelazione che dentro di
noi la tensione verso la vita è controbilanciata da un oscuro impulso
verso la morte. Eros e Thanatos : il ritmo della nostra esistenza è
scandito dal conflitto tra queste forze, con una sorpresa finale. A
prevalere è la seconda, la nostalgia della quiete, l’inerzia perfetta
della materia inorganica. La vita è una tragica anomalia, un’eccezione
che va ricomposta; il compimento della libido è il riposo della morte:
come appunto insegnava il mito aristofanesco degli uomini disperatamente
in cerca dell’unità perduta, che quando ritrovavano la propria metà «si
lasciavano morire di fame e di inerzia». La teoria più audace di Freud
era stata anticipata dall’Aristofane del Simposio . Era il capolavoro di
Platone, il cerchio che si chiude: Aristofane, nemico ostinato, è
arruolato tra i grandi della psicoanalisi.
Quando arrivò ad Atene, la
reazione di Aristotele fu di sconcerto. La Macedonia era una regione
colta, che ospitava poeti e filosofi. Era anche una terra ricca di buon
senso. Proprio quello che mancava agli intellettuali ateniesi:
raffinati, raffinatissimi, ma anche nevrotici, persi in polemiche,
invidie e gelosie. Così Aristotele, figlio di un medico, avrebbe
ragionato da scienziato, dissipando come nuvole al vento tutte queste
idee sull’anima, l’amore e la morte. Con una sola mossa.
Platone,
come Freud e Aristofane, aveva organizzato il suo discorso intorno alla
potenza di Eros, riconoscendo in noi la presenza di passioni violente e
indomabili. C’è una componente razionale, ovviamente, e diversi tipi di
desideri: desideri che possono essere educati, ma anche brame bestiali,
con cui è impossibile fare i conti. Il mostro dalle mille teste,
scriveva Platone; il calderone di impulsi ribollenti, avrebbe ribattuto
Freud.
Il rovesciamento aristotelico è semplice. Ci sono, Platone ha
ragione, come tre centri dentro di noi, uno dei quali sordo a qualunque
possibilità di controllo. Ma questa «parte» non ha niente a che vedere
con l’amore o il sesso: è quella che sovrintende alle funzioni organiche
di base — respirazione, digestione, circolazione del sangue. È la vita
che trionfa, incurante dei nostri pensieri. Quanto al resto, passioni
amorose incluse, tutto può essere corretto, con un po’ di educazione e
un po’ di sana attività fisica. Gli psicodrammi di Aristofane e Platone
non servono.
È la sfida dei nostri giorni, con medici e scienziati
che guadagnano terreno a spese di filosofi e psicologi. Forse avranno
anche ragione, gli eredi di Aristotele. Ma non sarebbe fin troppo noioso
un mondo privo delle bizzarre teorie dei Platone e dei Freud? Senza
dimenticare che tutto è ancora incerto: e se anche filosofi e psicologi
avessero le loro ragioni? Sono domande. Peccato che non ci sia più in
giro Aristofane per aiutarci a rispondere.
La Lettura del Corriere Domenica
Fellini e David Lynch pazzi per Apuleio
di Marco Rizzi
Chi
è nato negli anni Sessanta del secolo scorso, e ha frequentato le
scuole superiori nel decennio successivo, vive una condizione
intellettuale particolare, divisa tra una formazione fatta di libri e
studio dei classici — il liceo! — e il presente di una cultura pop in
cui alto e basso si mischiano e il «classico» non si sottrae al destino
della destrutturazione. Ma il fascino di certe letture rimane, sia pure
spogliato di ogni aura di sacralità.
Così Franco Pezzini (nato nel
1962) inaugura la serie dei «Classici pop» per Odoya con il volume
L’importanza di essere Lucio : una rilettura dell’unico romanzo latino a
noi pervenuto, Lucio ovvero l’asino d’oro di Apuleio, del II secolo
dopo Cristo, che già di per sé rappresenta un intrigante miscuglio di
avventura, erotismo, religiosità e magia.
In un susseguirsi costante
di colpi di scena si snoda la vicenda di un giovane, Lucio appunto, che
per la sua morbosa curiosità si ritrova trasformato in asino e deve
misurarsi, tra mille altre difficoltà, pure con fantasmi e nobildonne
erotomani.
Pezzini rinarra il plot del racconto di Apuleio,
inframmezzandolo però con divagazioni — dal colto al divertente — sulle
caratteristiche narratologiche e storiche dell’opera, con illustrazioni
varie e bozzetti dell’amico Massimiliano Korn-müller. L’autore fornisce
ampie informazioni sul fascino esercitato dal romanzo apuleiano
nell’immaginario letterario e artistico, da Giovanni Boccaccio e Matteo
Maria Boiardo, a Federico Fellini e David Lynch, ad Antonio Canova e
Milo Manara — e ovviamente non mancano i ricordi di un giovane degli
anni Settanta. Il libro è dedicato dall’autore al suo professore del
liceo (il D’Azeglio di Torino): e non avrebbe potuto essere
diversamente.
La Lettura del Corriere Domenica 11.6.17
Eichmann smascherato. Di banale non ha nulla
di Donatella Di Cesare
Si
dice Eichmann e si pensa al male nella sua versione novecentesca. Ma
che genere di male? Hannah Arendt ci ha spinto a parlare di «banalità
del male». Questa formula aveva per lei un significato filosofico
preciso. In veste di giornalista Arendt aveva seguito per il periodico
«The New Yorker» il processo contro l’ex tenente colonnello delle SS
Adolf Eichmann. Nel maggio del 1963 uscì il suo libro Eichmann a
Gerusalemme . Il sottotitolo A Report on the Banality of Evil era
destinato a suscitare accese polemiche. Un sinonimo di banalità potrebbe
essere stupidità, o «assenza di pensiero», sconsideratezza. Eichmann
non era la bestia degli abissi; non aveva nulla di demoniaco, né di
profondo o addirittura abissale. A guardarlo da vicino era un piatto e
grigio impiegato, una rotella all’interno di un ingranaggio che, anche
senza di lui, avrebbe comunque funzionato. Per questa scandalosa
banalità Eichmann appariva agli occhi della filosofa il prototipo del
burocrate, incapace di «mettersi nei panni degli altri», al quale si
poteva imputare l’unica colpa di non aver «pensato» e non aver agito,
sottraendosi ai suoi compiti, con la «disobbedienza civile».
Arendt
ha avuto il merito di rompere il silenzio sullo sterminio con una
riflessione originale. Ma l’impressione che resta, dopo aver letto
attentamente il suo libro, è che il ritratto di Eichmann abbia qualcosa
di artificioso e sia perciò poco convincente. A spiegare il perché è il
prezioso lavoro della storica e filosofa tedesca Bettina Stangneth, La
verità del male , pubblicato finalmente in italiano da Luiss University
Press. Il volume imponente, che si legge però con facilità — anche
perché ha quasi le caratteristiche di un giallo — è la raccolta
meticolosa di prove, testimonianze, documenti inediti, soprattutto le
cosiddette Carte argentine , da cui emerge un Eichmann ben diverso da
quello descritto da Arendt. Si capisce perché il libro di Stangneth sia
stato un successo sia in Germania, sia soprattutto in America. Ha
scritto Steven Aschheim, professore emerito della Università Ebraica e
storico della cultura: «Non sarà più possibile in futuro occuparsi del
“fenomeno Eichmann” e delle sue implicazioni politiche senza
confrontarsi con La verità del male ».
Vale la pena ricordare che il
titolo del libro in tedesco è Eichmann prima di Gerusalemme (diventato
il sottotitolo nell’edizione italiana). Esplicito è dunque il rinvio ad
Arendt, verso la quale Stangneth riconosce il suo debito. Ma il suo
interesse si concentra sulla figura del gerarca nazista prima di
Gerusalemme, cioè nel periodo che va dal 1945 fino al 23 maggio 1960,
quando il premier israeliano David Ben Gurion annunciò al mondo che
l’architetto della Shoah era stato catturato dagli agenti del Mossad in
Argentina e che sarebbe stato presto processato. Grazie a numerosi
appoggi e complicità, Eichmann si era infatti imbarcato a Genova, con il
falso nome di Ricardo Klement, ed era riuscito a raggiungere
l’Argentina nel luglio del 1950. Aveva cominciato allora una nuova vita
grazie alla sua capacità di reinventarsi, senza per questo venir mai
meno alla fede nazionalsocialista. Come d’altronde i molti nazisti che
avevano trovato rifugio in Sudamerica.
Le Carte argentine sono gli
appunti di Eichmann in esilio, nonché i dialoghi e le interviste
protocollati, da cui fra l’altro viene fuori l’impressionante rete di
rapporti che intratteneva un po’ ovunque nel mondo. Il primo risultato
della ricerca di Stangneth è la decostruzione di un mito: quello dell’ex
nazista isolato, che cerca di nascondersi, nel tentativo di dimenticare
ed essere dimenticato. Nulla di tutto ciò. La sua vita sociale in
Argentina mostra che il grande esperto della «questione ebraica»,
l’amico del Gran Muftì, il boia che considerava la Shoah il suo
«capolavoro», non solo non aveva mai rivisto le sue convinzioni
politiche, ma si preparava semmai a realizzarle sotto nuovi cieli e in
altre terre.
Bettina Stangneth, nata e cresciuta nella Repubblica
federale tedesca, riflette criticamente sul ruolo giocato in quegli anni
dalla Germania. Il «fenomeno Eichmann» non si limitava solo
all’Argentina. Che il principale stratega e testimone di quei crimini
contro l’umanità, che pesavano sul popolo tedesco, fosse ancora in vita,
costituiva certo un ostacolo che rendeva difficile, se non impossibile,
una rielaborazione del passato. Eichmann era talmente sicuro di sé che
si era persino spinto a scrivere una lettera aperta al cancelliere
Konrad Adenauer. Quasi a voler suggellare quella continuità, che molti
congetturavano, tra il vecchio regime e la nuova repubblica. E Stangneth
denuncia il rifiuto delle autorità tedesche che ancor oggi custodiscono
gli atti su Eichmann, preclusi al pubblico con la scusa che potrebbero
provocare turbamento.
Né isolato, né pentito — ma neppure un
burocrate. Arendt è caduta nella trappola ben congegnata dallo stesso
Eichmann che, una volta catturato, scelse intenzionalmente la maschera
dell’inetto impiegato, del grigio funzionario. Lui che era considerato
più intelligente e astuto di ogni altro, lui che aveva concepito e
guidato lo sterminio. Sperava di aver salva la vita attraverso
quell’abile manipolazione. Non ci riuscì. Ma ottenne almeno di passare
alla storia come esponente di un male banale. È tempo di conoscere la
sua storia e il male che ha consapevolmente compiuto.