lunedì 19 giugno 2017

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Ma il vero scoglio
è addestrarli al colpo di genio
Il nodo | I computer imparano per incrementi graduali.
Non sono in grado di compiere quei salti cognitivi che sono
essenziali nella scienza e nell’arte. In pratica, sono stupidi

Le stime sul ritmo di progresso dell’intelligenza artificiale (AI) sono riconducibili a tre fattori: il tendenziale storico degli ultimi anni, l’ottimizzazione nella codificazione software, la Legge di Moore. Quest’ultima condizione, relativa allo sviluppo dell’hardware, svolge la funzione di requisito necessario, ma non sufficiente. Anche le autorità del Mit (Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee) e del Miri (Katja Grace), citate nel saggio When Will AI Exceed Human Performance?, contano sul fatto che il raddoppio della potenza di calcolo ogni 18 mesi, proseguito per oltre 60 anni nell’industria dei microprocessori, si faccia carico di due promesse. La prima è continuare a garantire la stessa regolarità di crescita; la seconda è assicurare il superamento dei limiti computazionali che, fino a solo tre o quattro anni fa, si riteneva avrebbero preservato gran parte delle professionalità umane dall’assalto dell’automazione. La brutta notizia è che Intel, e le altre imprese del settore, hanno annunciato nei mesi scorsi di considerare terminata la corsa della legge di Moore: non si può miniaturizzare l’hardware oltre i limiti raggiunti, perché le misure hanno sfiorato la soglia di imprevedibilità dettata dalle leggi della fisica quantistica. Il progresso deve trasferirsi dalla contrazione delle dimensioni, alla specializzazione dei chip per ambiti di applicazione. Ma non sono i limiti della tecnologia a suggerire le perplessità più rilevanti. L’evoluzione dell’intelligenza artificiale ha di fronte a sé barriere concettuali, ben più difficili da superare, legate a quelle facoltà cognitive che il filosofo Thomas Kuhn descriveva come «fase ordinaria» della scienza. Semplificando colpevolmente (così si dice in questi casi) – scienza, arti e mestieri vengono intesi come un gioco di soluzione di rompicapi, con cui si avanza per incrementi progressivi su un percorso lineare, senza che sia necessario ristrutturare ogni volta i fondamentali. Kuhn osserva che nella scienza ordinaria gli esperti scrivono articoli ma non libri: i volumi appaiono in momenti straordinari, perché serve molto spazio per argomentare un’ipotesi, propagare l’audacia di una rivoluzione che rigetta le basi della disciplina. Non c’è abbastanza spazio per Galileo Galilei tra gli articoli di Nature, né grande accoglienza per James Joyce tra i bestseller del New York Times, né buone prospettive per Arnold Schoenberg nella top ten delle vendite discografiche del mese. Come si formulano buone ipotesi che consentono di smantellare vecchie teorie? Si tratta di un’«arte nascosta nella profondità dell’anima umana» (come la definiva Kant) che distingue le persone intelligenti da quelle stupide; ma a quanto pare, l’intelligenza artificiale non ha ancora cominciato a occuparsene. Forse perché è ancora un po’ stupida.
P. B.