La Stampa 1.6.17
L’infanzia violata: 168 milioni di minori costretti a lavorare, ogni 7 secondi una bambina si sposa
L'ultimo rapporto di Save the Children: il mondo ha dimenticato l’età dell’innocenza
di Francesca Paci
qui
http://www.lastampa.it/2017/06/01/esteri/linfanzia-violata-milioni-di-minori-costretti-a-lavorare-ogni-secondi-una-bambina-si-sposa-ofjYIUFydcBL4cxNF2iu6I/pagina.html
il manifesto 1.6.17
Cgil verso la protesta del 17 giugno a Roma: «No alla truffa sui nuovi voucher»
«Stiamo preparando la manifestazione nazionale che si terrà a Roma il 17 giugno, sarà una grande manifestazione per il lavoro, la democrazia e i diritti. Il Parlamento sta facendo una cosa molto grave, che svilisce il ruolo del referendum e delle migliaia di firme raccolte» sostiene Maurizio Landini, segretario generale della Fiom. «Mai nella storia della Repubblica si legge ancora – era accaduto che un governo intervenisse su un decreto per impedire un referendum e, pochi giorni dopo, promuovesse un’iniziativa parlamentare per introdurre ciò che il referendum intendeva abrogare» – ha sostenuto il sindacato ieri nel corso di un presidio davanti alla prefettura di Torino – L’eventuale approvazione di emendamenti che prefigurerebbero il ritorno di una modalità di pagamento del lavoro occasionale peggiorativa rispetto alla situazione precedente. È inaccettabile». «Quello a cui stiamo assistendo è un vero e proprio attacco alla democrazia, senza precedenti nella storia di questo paese – sostiene Elisa Marchetti, coordinatrice nazionale dell’Udu – Per questo sosterremo e diffonderemo l’appello promosso dalla Cgil».
il manifesto 1.6.17
Il raggiro sui nuovi voucher passa alla Camera con un voto di fiducia
Precarietà. Non votano gli scissionisti Mdp e i centristi dell'Udc. Laforgia (Mdp): «Siamo responsabili ma non vogliamo essere corresponsabili». Al Senato gli alfaniani potrebbero votare contro per rappresaglia contro Renzi dopo la rottura sulla nuova legge elettorale
di Andrea Colombo
La fiducia posta dal governo sulla manovra correttiva imposta dall’Europa, 3,1 miliardi di euro pari allo 0,2% del Pil, passa alla Camera con 315 sì, 142 voti contrari e 5 astensioni. Ci sono però due buchi che, se si allargassero, potrebbero diventare voragini al Senato, dove il voto è atteso tra un paio di settimane. Non hanno votato infatti la fiducia, per motivi diversi, gli scissionisti dell’Mdp ma anche i centristi dell’Udc.
Mdp ha scelto di non votare per protesta contro il reinserimento dei voucher, una truffa che non solo reintroduce quello che negli ultimi anni è stato il principale veicolo per il dilagare del precariato ma viola palesemente l’articolo 75 della Costituzione che regola i referendum. Il gioco delle tre carte è stato sfrontato: prima la cancellazione dei voucher per evitare il referendum, poi il loro ripristino, oltretutto tramite emendamento presentato da una ex dirigente Cgil come Titti Di Salvo. La stessa fomulazione del testo, peraltro, è truffaldina. Ufficialmente ci sono paletti che dovrebbero almeno limitare l’abuso dei buoni-lavoro, però piazzati in modo tale da permettere ai datori di lavoro di aggirarli quasi a piacimento. «Siamo responsabili ma non vogliamo essere corresponsabili», ha spiegato il capogruppo Mdp Laforgia aggiungendo che se la ferita non verrà sanata al Senato la fiducia verrà negata anche lì. Durissime anche le critiche rivolte alla ministra per i Rapporti per il Parlamento Anna Finocchiaro, che in un articolo pubblicato ieri dal Sole 24 Ore aveva negato che l’emendamento approvato costituisca una resurrezione dei voucher: «È un insulto ai lavoratori italiani. È gravissimo che la ministra finga di non riconoscere la ferita democratica che si sta aprendo nel Paese», dice la senatrice Ricchiuti. La Cgil si sta muovendo su due piani: la grande manifestazione nazionale del 17 giugno a Roma ma anche il ricorso alla Corte costituzionale. Il problema è che, se anche confermerà l’incostituzionalità del raggiro, la sentenza arriverà con immenso ritardo.
Dal punto di vista politico la decisione dell’Mdp dimostra in realtà che il partito di Bersani non intende offrire alibi per anticipare ulteriormente le elezioni facendo saltare la legge elettorale. Alla Camera la manovra sarebbe passata certamente anche col voto contrario dell’Mdp. Si sarebbe però inevitabilmente posto un enorme problema politico: se un partito della maggioranza sfiducia il governo pone infatti automaticamente le basi per la crisi. Al Senato le cose sono però diverse. Anche a palazzo Madama Mdp eviterà il voto contro la fiducia abbandonando l’aula. Lì, però, quei voti almeno sulla carta sono necessari. La maggioranza dispone di 172 voti e senza i 15 degli scissionisti finirebbe sotto la soglia dei 161 voti. Pura teoria. Forza Italia ha votato ieri contro la fiducia ma se sarà necessario non esiterà a far uscire i propri senatori per assicurare la fiducia, riproponendo quel soccorso azzurro già visto nella commissione Bilancio di Montecitorio, dove l’emendamento sui voucher è passato proprio grazie al voto a favore di Fi e della Lega.
La situazione potrebbe però diventare più rischiosa se all’Mdp si aggiungessero i centristi, come rappresaglia per il rifiuto di Renzi di abbassare la soglia di sbarramento nella legge elettorale. Ieri anche l’Udc ha scelto di non votare la fiducia, per la prima volta in questa legislatura. Paola Binetti ha motivato la decisione con i contenuti della manovra, che non mettono al centro esigenze reali, come il sostegno alle aree terremotate, ma «cose che rispondono a logiche di lobbies». Però ha anche detto chiaramente che «è difficile dare la fiducia a un governo che ha innestato un processo accelerato verso il proprio dissolvimento senza tenere in nessun conto le esigenze degli italiani».
L’Ncd ha invece votato ieri la fiducia e Alfano non ha mai minacciato apertamente di farla mancare, neppure nei momenti più tesi dello scontro sulla legge elettorale. Ma una decisione vera sarà presa solo il primo giugno dalla direzione e in ogni caso ormai la presa di Alfano sui suoi è almeno malcerta. Se anche l’Ncd decidesse di seguire al Senato l’esempio dell’Udc il soccorso di Forza Italia potrebbe non bastare.
il manifesto 1.6.17
Il lavoro che cresce è quello precario: più occupati gli over 50 e a termine
Istat. Modesto aumento dell'occupazione a aprile 2017 e suona la grancassa del Pd e di Renzi in vista delle prossime elezioni. Ma i dati vanno decrittati: 225 mila occupati a termine in più ad aprile secondo l’Istat. Quelli «permanenti» sono 155 mila. Il 67% degli occupati in Italia sono precari. Meno 122 mila occupati in meno nella fascia anagrafica 25-49 anni, ovvero quella più «produttiva». Insieme ai giovani, i lavoratori adulti sono i più colpiti dalla crisi
di Roberto Ciccarelli
La crescita dell’occupazione è del lavoro precario a termine ed è trainata dai lavoratori over 50 tra i quali aumenta anche la disoccupazione. Il tasso di disoccupazione cala all’11,1%, il valore più basso da settembre 2012, ma aumentano sul mese gli inattivi (+34,7%), ovvero i lavoratori che non cercano più lavoro.
La rilevazione mensile dell’Istat conferma un mercato del lavoro con modesti saldi positivi: +94 mila occupati, soprattutto tra le donne rispetto a marzo, + 277 mila su base annua. Il tasso di occupazione generale, ovvero il perimetro entro il quale avviene questa crescita, resta ristretto: il 57,9%, una percentuale tra le più basse in Europa. Sintomo che non si produce nuovo lavoro, e dunque più posti di lavoro, ma aumenta il numero dei precariamente occupati.
I dati dell’Istat sono utili per capire la differenza: la crescita, infatti, riguarda i contratti a termine (+225 mila) e meno quelli permanenti (+155 mila), mentre continua il calo degli «indipendenti», le partite Iva. Non può passare inosservato il fatto che sui 380 mila occupati complessivi, 362 mila lavoratori hanno più di 50 anni. È un trend macroscopico a cui corrisponde a aprile un poco significativo aumento degli occupati tra i 15 e i 34 anni (+37 mila) e un buco nero tra gli adulti 35-49enni. Per loro si può parlare di un crollo: -122 mila occupati. E pensare che questa fascia anagrafica passa per essere quella «più produttiva» in un’economia capitalistica.
Questa asimmetria generazionale è dovuta a tre fattori. Il più importante è la riforma Fornero delle pensioni che ha aumentato drasticamente l’età pensionabile, obbligando i dipendenti a restare più a lungo al lavoro. Così facendo è stato impedito il subentro dei più giovani. Nel pubblico, questo vincolo è aggravato dal blocco del turn-over e dai tagli. In secondo luogo c’è la riforma dei contratti a termine di Poletti. Pochi ricordano l’abolizione della «causale» è stato il primo atto del governo Renzi, ancor prima del Jobs Act. Ciò ha permesso alla forma contrattuale dominante sul mercato del lavoro di essere prorogata infinite volte incidendo sul numero degli occupati registrati dall’Istat.
Una cifra può essere utile per comprendere la dimensione del fenomeno. Da gennaio 2015 il numero di occupati a tempo indeterminato è cresciuto del 3,64%, quello degli occupati a termine del 12,26%. Oggi in Italia il 67% nuovi occupati dipendenti è a termine. Questa precarizzazione della forza lavoro ha prodotto maggiori risultati, in termini di propaganda sui numeri dell’occupazione ad uso dei governi,rispetto al Jobs Act vero e proprio.
La nota «riforma» ha infatti prodotto risultati deludenti a fronte del gigantesco spostamento di ricchezza pubblica nelle tasche delle imprese. Ai 18 miliardi di euro spesi da Renzi in sgravi contributivi triennali per i neo-assunti con il «contratto a tutele crescenti» non corrispondono significativi risultati. Con il taglio degli sgravi sono diminuite drasticamente le assunzioni. Per l’Inps, a marzo, i contratti a tempo indeterminato veri e propri erano solo 22 mila. I contratti a termine, inclusi quelli stagionali, sono 315 mila. Questo è l’esito dell’assistenzialismo statale alle imprese. Liberisti, con i soldi pubblici: la cifra di un’epoca.
Come il sole d’estate, e la neve d’inverno, immancabilmente ieri è tornata a tuonare la grancassa di Renzi. L’aumento dell’occupazione ad aprile è stato celebrato con un messaggio d’ordinanza su twitter. «Vogliamo continuare: lavoro per tutti, non reddito di cittadinanza con sussidi e assistenzialismo». La polemica è contro il Movimento 5 Stelle che sostiene il «reddito di cittadinanza», in realtà un «reddito minimo». Letta in un contesto «decrittato», la dichiarazione prende tutt’altro senso: i sussidi e l’assistenzialismo sono alle imprese e il lavoro, tanto evocato, è in maggioranza quello precario.
La Stampa 1.6.17
Davigo al convegno M5S si scaglia contro il Pd
“Ci ha messo genuflessi”
Di Maio corteggia le toghe. Di Matteo pronto a candidarsi
di Francesco Grignetti
Se mai esisterà un «partito dei magistrati», questo sarà il M5S. E non per finta. Luigi Di Maio, con postura da aspirante presidente del Consiglio, aprendo un megaconvegno sulla giustizia, ha annunciato un cambio di paradigma della politica italiana, ove mai i grillini vincessero le elezioni: «Negli ultimi 25 anni - spiega - il rapporto tra magistratura e politica è stato sempre più problematico: quando un giudice indagava un esponente politico, la risposta immediata di quest’ultimo era gridare al complotto, screditando l’intera magistratura agli occhi di una fetta purtroppo consistente dell’opinione pubblica», con l’effetto collaterale del crescente «scollamento tra Stato e cittadini». E se con Berlusconi ci sono state le leggi ad personam, con Renzi è arrivato lo scaricabarile. «La classe politica ha avuto gioco facile a scaricare sulla magistratura tutte le responsabilità di un sistema che le statistiche effettivamente non descrivono in buona salute».
Un domani, però, con il M5S al potere, si cambierà registro. Il convegno è una prima prova. «Oggi la politica siede nei banchi e ascolta». Una rivoluzione anche nei ruoli. «In questi anni ho imparato che in Parlamento si legifera troppo e male. Si fa una legge ogni 2 giorni e mezzo, ma nessuno si preoccupa poi dell’efficacia. E allora, chi meglio dei magistrati ci può dare un feedback?».
Poi, certo, se un magistrato stranoto come il pm palermitano Nino Di Matteo annuncia di essere pronto «ad assumere un ruolo civile», precisando che «l’eventuale impegno politico di un pm non mi scandalizza», per lui in un futuro governo grillino ci sarebbero tappeti rossi (si parla del Viminale). «Una buona notizia - dice Di Maio - . Siamo contenti della sua disponibilità». Ecco dunque il senso di questo convegno - cui erano invitati Di Matteo, magistrati illustri ora dirigenti del ministero quale Giacchino Natoli, l’ex presidente della Corte Costituzionale Ugo De Siervo, il presidente dell’Autorità anticorruzione Raffaele Cantone, e Piercamillo Davigo, una star dei grillini, il loro sogno proibito. «Non siamo qui a reclutare ministri», dice Di Maio. «Vogliamo ascoltare e capire, in un’ottica di governo, come una politica sana possa aiutare la magistratura a fare il suo lavoro». Come dirà anche l’organizzatore del convegno, il deputato Alfonso Bonafede, uno dei suoi colonnelli: «Ci vuole più attenzione a quello che ci dicono tribunali e procure».
Con un’introduzione del genere, non ha deluso l’intervento di Davigo, che è stato per un anno presidente dell’Associazione nazionale magistrati, e ora è tornato a fare il presidente di sezione in Cassazione. «Io non mi occupo di politica, ma di politici che rubano, che è un’altra cosa», il suo esordio fulminante.
Davigo ha le idee chiare su come dovrebbe funzionare la giustizia. Chi dice che in Italia ci sarebbe poca corruzione, basandosi sulle statistiche giudiziarie, «è in malafede. Poche condanne non significano poca corruzione, ma che ne hanno presi pochi». A chi si scandalizza perché sui giornali finiscono troppe intercettazioni irrilevanti, risponde che lui «è esterrefatto di come i politici continuano a parlare liberamente al telefono». Il suo cattivo rapporto con i partiti viene da lontano, «tutte le volte che condannavo qualcuno, quello iniziava subito una sfolgorante carriera politica». Condanne ne vengono poche, perché ai magistrati legano le mani. «E poi c’è qualcuno che parla di abuso nella custodia cautelare....».
Va da sé che Berlusconi è stato il male assoluto, «quando venne un giudice malese delle Nazioni Unite e scrisse due rapporti di fuoco sul fatto che era a rischio l’indipendenza della magistratura italiana», ma non è che le cose siano andate meglio con il centrosinistra. «Centrodestra e centrosinistra si sono sempre dati da fare non per contrastare la corruzione ma per contrastare le indagini. Con una fondamentale differenza: il centrodestra le ha fatte così grosse e così male che di solito non hanno funzionato. Invece il centrosinistra le ha fatte mirate e ci ha messo se non in ginocchio almeno genuflessi». Con il che ha lanciato anche una frecciata ai suoi colleghi non così battaglieri contro il Pd e contro Andrea Orlando (cui riserva un paio di battute acide). Ne ha avuto anche per il procuratore Gratteri, colpevole di fare «congetture» sulla storia della fuga di notizie da addebitare ai pm. Al termine, standing ovation.
La Stampa 1.6.17
L’inedito asse centristi-Mdp fa traballare l’esecutivo
di Marcello Sorgi
La manovra economica con i nuovi (e contestati) voucher, approvata alla Camera senza i voti degli alfaniani e dei bersaniani, ha segnato il fischio di inizio per due strategie contrapposte che si fronteggeranno al Senato, con il risultato, ormai inevitabile di far concludere la legislatura, sia pure in modi diversi. I due alleati, centrista e di sinistra, di Gentiloni mirano, a Palazzo Madama, dove i numeri sono più scarsi, a far cadere il governo proprio sulla manovra, per evitare che nel frattempo possa essere approvata la nuova legge elettorale che ieri sera a Montecitorio è stata incardinata in commissione e che Pd, Forza Italia e Movimento 5 stelle, con l’aggiunta della Lega, si sono impegnati a far passare rapidamente, in modo da arrivare alle elezioni politiche il 24 settembre. Alfano e Bersani, formalmente schierati per la conclusione naturale della legislatura al 2018, sono in realtà rassegnati all’accorciamento dei tempi; ma essendo minacciati dallo sbarramento al 5 per cento previsto dal nuovo sistema elettorale, non smettono di sperare che le elezioni possano svolgersi con le norme introdotte dalle sentenze della Corte Costituzionale, che hanno lasciato in vita per la Camera una soglia di ingresso solo del 3 per cento.
La partita, che ha visto ieri sera prevalere il governo con 315 voti, è abbastanza complicata. Per avere il tedesco, Berlusconi dovrebbe garantire l’approvazione al Senato della manovra economica, difficile da digerire alla vigilia della campagna elettorale. È vero che i senatori di Forza Italia, uscendo dall’aula, altre volte hanno offerto un aiutino al governo: ma stavolta, con tutti i gruppi minori che abitualmente soccorrono la maggioranza schierati contro la legge elettorale (e dunque contro la manovra, per favorire la crisi che ne bloccherebbe la discussione), il soccorso azzurro dovrebbe essere più consistente, dato che l’accordo con 5 stelle e Lega resta limitato solo al modello tedesco. In un caso e nell’altro, luglio si annuncia un mese molto caldo a Palazzo Madama.
Corriere 1.6.17
La maggioranza perde pezzi e i cinque stelle fanno proseliti
di Massimo Franco
Più l’asse tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi si consolida, più diventa friabile la maggioranza di governo. Viene travolta qualunque resistenza presente in Parlamento sia sulla riforma del sistema elettorale, sia sulla prospettiva del voto anticipato. Ma gli scissionisti del Mdp annunciano che non voteranno la fiducia sulla manovra economica. E il ministro degli Esteri, Angelino Alfano, reagisce agli attacchi di Renzi contro i «veti dei piccoli partiti», rinfacciandogli di aver fatto cadere lui due governi; e di sabotare quello di Paolo Gentiloni. Insomma, incombe il rischio di rotolare verso una crisi. Ma senza il Movimento 5 stelle, Pd e Forza Italia non potrebbero avanzare come rulli compressori.
Il fantasma del «nuovo patto del Nazareno» tra leader dem e Berlusconi mette in ombra tutto il resto. C’è un imbarazzo palpabile all’idea di un governo post-elettorale tra i due partiti: il leader di FI è costretto a precisare che l’accordo è «sulle regole, non politico», con un occhio al proprio elettorato. È anche grazie a questo imbarazzo che i seguaci di Beppe Grillo possono appoggiare l’accelerazione verso le urne, senza essere additati come responsabili quanto le altre due forze. Il fatto di ribadire che non si alleeranno con nessuno, nemmeno con la Lega, sembra metterli al riparo dal fuoco incrociato. In questa fase, i veleni scorrono all’interno della sinistra.
Debordano da un Pd dove la minoranza è in tensione. Ma anche da quei settori che vorrebbero presentarsi come alternativa eppure già litigano col gruppo dell’ex sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, potenziale federatore dell’«altra sinistra». L’autoisolamento del M5S lo protegge da questi conflitti; e anche dalle polemiche su una compressione del dibattito alle Camere, che ricorda le forzature sull’ Italicum e sulle riforme costituzionali sottoposte al referendum del 4 dicembre. Allora, i Cinque Stelle tuonavano contro il governo. Ora, invece, sono parte del terzetto dei partiti che marciano verso le urne.
I parlamentari di Grillo fanno sapere che vigileranno sulla commissione di indagine sul sistema bancario annunciata dal Pd entro metà giugno. Luigi Di Maio accusa Renzi di anticipare il voto per prevenire una sconfitta alle elezioni di novembre in Sicilia. E intanto cerca di costruire alleanze all’esterno del Parlamento, in Vaticano, nella magistratura. In un convegno del M5S, ieri, l’ex presidente dell’Anm, Pier Camillo Davigo, ha ricevuto un’ovazione dopo avere attaccato il centrosinistra sulla giustizia: nonostante il suo rifiuto di essere candidato a Guardasigilli.
Di Maio, candidato premier in pectore, accarezza sempre più l’idea che il M5S diventi il primo partito. Confida nella fretta renziana, col segretario del Pd convinto che «votare sei mesi prima o dopo non fa differenza»: parole che trascurano la questione dirimente della Legge di stabilità e dei conti pubblici. Se non accade nulla, il 7 luglio si avrà un nuovo sistema elettorale. Sarebbe un’ottima notizia, ma dopo cominceranno le vere incognite. Il Pd dovrà trovare un modo per far dimettere Gentiloni: e d’intesa con un Quirinale che finora è costretto a fare da spettatore, ma non vuole né può permettere di essere visto come mero esecutore delle decisioni dei partiti.
Corriere 1.6.17
E Berlusconi con il Pd non esclude anche un accordo di governo
di Marco Galluzzo
Le strategie del leader di FI che punta al 20%. La distanza sempre più forte dalla Lega
ROMA Dietro la grande accelerazione verso il voto, con un sistema elettorale diverso, c’è anche il lavoro che gli emissari di Renzi e di Berlusconi hanno compiuto in queste settimane. Ad Arcore addirittura parlano di accordo «sia di governo che di programma», dove con la prima parola si indicano proporzioni, ovviamente flessibili, di dicasteri da assegnare ora al Partito democratico ora al partito dell’ex Cavaliere, e con la seconda si fa capire che anche sull’agenda di un governo di larghe intese gli abboccamenti sono in fase avanzata, in primo luogo su una forte spinta alla riduzione della pressione fiscale.
Berlusconi in pubblico ovviamente sta un passo indietro, dice che «l’accordo sulle regole fra le principali forze politiche non prefigura alcun accordo politico per la prossima legislatura, nessuna grande coalizione, ma solo la corretta condivisione delle regole elettorali». Eppure sia Nicolò Ghedini che Gianni Letta, negli ultimi giorni, hanno avuto e continuano avere non pochi contatti operativi con i fedelissimi di Renzi: per parlare di legge elettorale, certo, ma anche degli accordi di cui sopra.
Se millanti o meno è impossibile dirlo ma l’ex Cavaliere con qualche esponente del suo partito si è detto disponibile per alcuni ministeri da assegnare, e poco importa che i numeri al momento, sia del Pd che di Forza Italia, non autorizzano conclusioni univoche. Dalle parti di Arcore sono convinti che una campagna elettorale di Berlusconi può valere 8 punti percentuali, e che il partito degli azzurri dunque, che oggi viaggia sul 15%, sia proiettato almeno verso il 20%.
Auspici, o meglio calcoli, ai quali di solito l’ex premier è stato sempre molto attento, e che in questo caso confliggono con i conti di Salvini e della Lega. I rapporti fra Berlusconi e il leader del Carroccio sono ai minimi storici, i due non si parlano da due mesi, e ancora ieri il secondo ha chiesto al primo «un chiarimento», assicurando che la sua Lega «non andrà mai con la sinistra. Altri invece tengono i piedi in sei scarpe, pronti all’inciucio...».
Facile a questo punto immaginare la campagna elettorale: fra pochi giorni a Genova si vota per il rinnovo del sindaco e nello staff dell’ex Cavaliere raccontano che segue in modo distratto la vicenda, quasi sperando che l’alleanza fra Lega e Forza Italia, in questo caso, in Liguria, suggellata da Giovanni Toti, incontri una sorta di stop definitivo.
Berlusconi infatti è convinto che il centrodestra italiano è arrivato in qualche modo al capolinea, «se è, non può che essere populista, cosa che non ci appartiene». E dunque meglio Renzi, che sarà anche «poco affidabile, ma almeno ha il merito di aver ucciso i comunisti che aveva in casa». E se la sentenza di Strasburgo ora non è più attesa con la stessa impazienza di prima (con il voto in autunno Berlusconi non ha più come primo obiettivo una riabilitazione politica), di sicuro restano i paletti dell’accordo sulle norme elettorali col Pd: «Sbarramento al 5%, liste proporzionali di lunghezza adeguata, metodo proporzionale di attribuzione dei seggi, su base nazionale, analogo a quello utilizzato in Germania, escludendo qualsiasi ipotesi di voto di preferenza».
Repubblica 1.6.17
Trattativa confermata Barbareschi: “Ognuno si è salvato come poteva”
Dopo le polemiche l’offerta d’acquisto per il Teatro Eliseo
Rosaria Amato Anna Bandettini
ROMA. Il via libera alla manovra ha assicurato in maniera praticamente definitiva il finanziamento straordinario di 8 milioni in due anni al Teatro Eliseo di Roma. Infatti è difficile che al Senato ci siano modifiche, data l’urgenza del provvedimento, nonostante fonti dei ministeri dell’Economia e della Cultura ribadiscano la forte contrarietà all’emendamento. E intanto spunta un retroscena: c’è una proposta di acquisto per lo stabile del Teatro Eliseo. La conferma viene da Carlo Eleuteri, uno dei due soci proprietari dell’immobile di via Nazionale, che parla di «trattative private con l’attuale inquilino ». Da indiscrezioni emerge che l’offerta d’acquisto per l’immobile si aggirerebbe tra i 6,4 e i 6,8 milioni di euro, e dunque una parte consistente dei finanziamenti garantiti dalla manovra. Una parte dei fondi servirà invece a coprire in parte il deficit del teatro, dichiarato in una conferenza stampa dallo stesso Luca Barbareschi, amministratore unico della società che ha in gestione il teatro: quattro milioni. Dice Barbareschi: «L’immobiliare è una questione diversa, in ogni caso non è un mio problema, io in qualunque momento potrei vendere un appartamento e comprare lo stabile. E comunque il costo di acquisto della proprietà impatta nel bilancio come il suo affitto attuale: 430.000 euro l’anno».
Barbareschi spiega così le motivazioni del finanziamento: «Io ho preso questo teatro che era fallito, ho raccolto una sfida, ho messo di tasca mia cinque milioni solo per rimetterlo in moto perché non era a norma, era una cosa da galera. Tenere aperto l’Eliseo costa quattro milioni l’anno, il botteghino incide sì e no per il 10 per cento». Cita le tante manifestazioni gratuite, gli spettacoli al teatro di Tor Bella Monaca (periferia popolare della capitale). Anche se dai dati del Mibact risulta che per questo progetto il Teatro Eliseo ha percepito un finanziamento ad hoc di 250.000 euro. In tutto 1,2 milioni di euro in due anni che secondo lo stesso Mibact collocano l’Eliseo «nella media degli altri Teatri di Rilevante Interesse Culturale ». Mentre questi altri 8 milioni lo pongono decisamente al di sopra: da qui le vibrate proteste dell’Agis, di Federvivo e della Consulta dello Spettacolo. Contattato da
Repubblica
uno dei due proponenti dell’emendamento, Sergio Boccadutri del Pd, non dà spiegazioni e riaggancia precipitosamente, senza più rispondere.
Il Fondo per lo spettacolo da tempo è una coperta corta: è all’esame del Senato un progetto di legge che porterà a circa 450 milioni lo stanziamento annuale e sdoppierà il Fus, separando le fondazioni lirico-sinfoniche da tutte le altre istituzioni dello spettacolo. Nell’attesa, ammette lo stesso Barbareschi, «poiché non c’è stato un trattamento equo, ognuno si è salvato come poteva. Io ho ricevuto il sostegno di tanti teatri, dallo Stabile di Genova al Teatro della Toscana». Dimenticando che martedì l’Agis e le associazioni di categoria del teatro hanno duramente protestato con il ministro Padoan.
Repubblica 1.6.17
Elio De Capitani
Adesso è necessario ripensare tutti i finanziamenti
De Capitani “Così saltano tutte le regole del settore”
ROMA. «Ora andremo tutti dal ministro Padoan a bussare per chiedere soldi che poi ci verranno dati?», ironizza Elio De Capitani codirettore del Teatro Elfo- Puccini di Milano, tra i firmatari della lettera che chiede al ministro dell’Economia ragione degli 8 milioni stanziati per il teatro Eliseo.
Attore, regista, 44 anni di attività, attento alle questioni economiche del teatro, De Capitani (interpretava Berlusconi nel
Caimano
di Moretti) chiarisce subito di avere tutti gli interessi «che l’Eliseo sia un teatro aperto e attivo. Figuriamoci, produciamo insieme
Cous cous Klan
di Carrozzeria Orfeo — dice — Il problema infatti non è l’Eliseo».
E qual è?
«Che con questi 8 milioni “ad personam” sono saltate le regole. C’è un Parlamento che sta lavorando da mesi per un nuova legge sullo Spettacolo: audizioni, incontri, si studiano criteri equi per la ripartizione dei fondi... arriva Barbareschi e convince due deputati a dargli un pacco di soldi, coprendo i buchi di un teatro privato come se fosse pubblico. Chi glieli ha dati forse pensa di salvare un teatro, ma ha solo scardinato un sistema».
Anche voi però eravate andati contro “il sistema”: avevate fatto ricorso al Tar contro le nuove regole di distribuzione dei fondi.
«Certo, abbiamo criticato quel sistema, ma con mezzi legali. Ne siamo usciti sconfitti, ma spero di aver smosso qualcosa. Però non siamo mai mancati al rispetto istituzionale, anche se avevamo idee diverse. E in Italia oggi è necessario proprio il rispetto delle istituzioni. Gli 8 milioni a Barbareschi fanno saltare ogni logica. Per questo, se fossi in lui con 8 milioni che si è garantito, avrei un po’ più di umiltà».
E adesso?
«Occorre che dopo il bel favore fatto a Barbareschi se ne faccia uno all’Italia. Il Parlamento faccia la legge sul teatro e lo finanzi per far sì che Barbareschi non sia il solo privilegiato. Il quale per di più accusa i teatranti perché rispettano le regole ».
Offesi?
«Conosco bene Luca, ci insulti pure, fa parte del suo carattere. Mi ricorda Roy Cohn il personaggio di Angels in America di Tony Kushner, considerato il mentore di Trump: gli hanno insegnato a attaccare, mordere e non chiedere mai scusa».
( a. b.)
Repubblica 1.6.17
Perché i figli d’Europa scelgono l’Isis
Ezio Mauro
Quando appassiscono i fiori che noi lasciamo sul luogo degli attentati (perché la compassione è per noi occidentali molto più facile della condivisione) resta una domanda nell’Arena di Manchester, sulla Promenade di Nizza, sul legno del Bataclan, nell’ufficio di “Charlie Hebdo”: com’è avvenuta sotto i nostri occhi l’ultima metamorfosi della modernità, quella che trasforma musulmani di seconda generazione da giovani europei cresciuti nelle nostre scuole e nel nostro stesso spazio di libertà e di democrazia, in testimoni di una cultura assassina che retrocede la religione in ideologia del terrore?
Tutto si compie sotto la linea d’ombra del pensiero moderno, rifiutandone le coordinate, respingendo il calcolo cartesiano dei costi e dei benefici. Anche il terrorismo che ha attaccato l’Europa negli anni Settanta, essendo una deformazione estrema del politico, stava dentro quel codice: e infatti per ogni azione valutava la proporzione tra l’attacco e la difesa, e in questa misura di precauzione criminale prevedeva ogni volta la via di fuga, l’uscita di sicurezza. Oggi il terrorismo jihadista viola il paradigma prima pensando l’impensabile con l’assalto alle Torri Gemelle, poi trasformando l’attentatore in arma e il suicidio in martirio, chiudendo nello stesso orizzonte sacrificale la vittima e il carnefice, ed escludendo così la razionalità fin qui frequentata in Occidente. Non ci si può difendere dalla vita che a nostra insaputa ha già scelto di diventare morte, e non solo di portarla, annientando gli altri con l’annientamento di sé.
C’è tuttavia un contesto — se non razionale, pseudoculturale — che tiene insieme la mitologia ideologica del Califfato, la minaccia globale dell’Isis, il jihadismo indigeno europeo e il singolo terrorista che progetta l’attentato sapendo che sarà il suo atto finale. Lo ricrea Olivier Roy nel suo ultimo libro, Generazione Isis, indagando sul profilo di cento soggetti coinvolti in progetti terroristici in Francia e Belgio, o convinti a lasciare il Paese per raggiungere la jihad globale, e analizzando lo schedario dei 4118 stranieri reclutati dall’Isis nel biennio 2013-2014. Molto spesso i terroristi arrivano all’azione dopo un passaggio nella jihad, ma non sempre e non tutti, così come non tutti i jihadisti vengono selezionati dall’Isis come idonei all’attacco. Ma il punto in comune di entrambe le “scuole” è la scelta della morte volontaria, la vera novità rispetto alle forme di terrorismo che avevamo conosciuto nel nostro mondo: partendo da Khaled Kelkal, ucciso a 24 anni dai gendarmi dopo una serie di attentati in Francia nel ’95, per arrivare agli ultimi attentati, tutti gli assaltatori si fanno esplodere come bombe umane o si lasciano uccidere dalla polizia senza preoccuparsi di cercare un riparo o di fuggire.
È l’incarnazione della profezia identitaria di Osama Bin Laden: «Noi amiamo la morte, voi la vita ». Però è anche uno scarto rispetto alla predicazione musulmana — e in particolare alla tradizione salafita — che esalta il martire di guerra ma considera la scelta di spezzare la propria vita come un’espropriazione illegittima della suprema potestà divina. Questa deviazione nasce da un rifiuto delle radici religiose dei genitori e del loro deposito culturale, considerato dai giovani radicali islamisti come un lascito di sottomissione, un’eredità coloniale, una passività rituale: e insieme da un’esasperazione dell’odio generazionale iconoclasta che chiede la distruzione non solo dei corpi e dei simboli, ma della memoria e della tradizione comunemente accettata, in una rottura senza ritorno.
Senza ritorno e senza alternativa, perché la strategia funebre jihadista azzera la politica e la uccide invece di chiederle soluzione, annulla qualunque geostrategia che non sia quella leggendaria e irreale del Califfato, spegne sul nascere qualsiasi diplomazia perché la scelta definitiva della morte cancella ogni negoziazione. Proprio questa trasposizione in un universo irreale, fuori dalla storia e dalla geografia per inseguire soltanto il tempo del Profeta nell’annichilimento finale della vicenda umana, autorizza e giustifica — ingigantendola — la scelta individuale di morte.
Solo il nichilismo come orizzonte cieco e insieme glorioso spiega infatti la morte come obiettivo. Religione e frustrazione non bastano, dice Roy, il fondamentalismo nemmeno, e neppure le colpe dell’Occidente, dal colonialismo al razzismo, tanto che gli autori degli attentati in Europa non sono geograficamente e propriamente le “vittime”, così come la mappa del terrorismo non coincide con quella dei quartieri più poveri e dimenticati. Questa mappa rivela invece una buona scolarizzazione (la maggior parte dei giovani terroristi ha finito le superiori), una discreta integrazione iniziale, una pratica religiosa modesta e discontinua, fino alla “rinascita” al nuovo Islam. La percentuale di “convertiti” è infatti molto alta tra i reclutati dell’Isis in Francia, Germania e Stati Uniti, una seconda generazione islamica che sceglie di diventare islamista dopo che i genitori hanno cercato un inserimento sociale europeo, mentre in Belgio si affac- cia già la terza generazione.
Da vent’anni, secondo questo studio, il profilo collettivo segue gli stessi passaggi individuali. Genitori musulmani che trovano lavoro nei nostri Paesi, figli nati in Occidente, scuole europee, poi molto spesso un ingresso nella microcriminalità, la radicalizzazione in carcere (dove si impara un salafismo basico di rivolta) o nel piccolo gruppo ristretto di amici d’infanzia, o addirittura familiare, se è vero che nella cellula degli attentati al Bataclan e a Bruxelles ci sono ben cinque coppie di fratelli: cioè metà degli attori, quasi una conferma della curva dei figli rispetto al percorso dei padri.
La mimetica generazionale nasconde la radicalità e insieme la universalizza. Gli jihadisti d’Occidente sono dentro il contemporaneo della cultura giovanile, prima della conversione bevono alcol, vanno in discoteca, fumano, conoscono la tecnologia della comunicazione, usano i cappellini e le felpe, amano il rap, frequentano i videogiochi, i manga e il cinema americano, passano per le palestre del kung-fu, del taekwondo e del thai-boxe. Tanto che dopo gli attentati, la morte o gli arresti si registra sempre uno straniamento nel mondo che li circonda, stupore, incredulità, sorpresa. In questo non c’è solo la rottura familiare, la convinzione dei born again di aver scoperto la vera fede e di avere realizzato così un’inversione di conoscenza religiosa rispetto ai genitori. C’è soprattutto la chiusura estrema e definitiva in una sorta di piccolo universo parallelo, una microsocietà — come la chiama Roy — fatta di fratelli, amici d’armi e di carcere, mogli che sono prima di tutto compagne d’ideologia, pronte a diventare subito “vedove nere”, presto madri di orfani di martiri.
Per Roy il terrorismo non deriva dalla radicalizzazione dell’Islam ma dall’islamizzazione della radicalità. Questo non assolve l’Islam, se proprio qui — e nel fondamentalismo cresciuto a dismisura negli ultimi quarant’anni — la ribellione trova un orizzonte culturale di riferimento, anzi di cattura, certo di giustificazione. Lo scopo della jihad non è soltanto la vittoria sul campo, ma ideologicamente la costruzione ex novo di un musulmano militante e globale pronto a lasciare ogni cosa per inseguire lo spazio mitologico del “vero Islam” puro, oltre i legami tribali, nazionali, di famiglia, le tradizioni religiose, la società con le sue regole. I giovani radicalizzati hanno una cultura religiosa approssimativa, ma l’-I-slam offre al loro immaginario estremizzato una razionalizzazione teologico-mitologica che per Roy «assume forme incantatorie », rende metafisico ogni conflitto, iscrive l’azione individuale — fino all’annientamento — in una fascinazione dell’Apocalisse. Perché se la fine del mondo è vicina, allora l’assassinio nel nome di Dio e la morte di sé non fanno altro che avvicinare il Paradiso, anticipando la battaglia finale a Dabiq, quando comparirà il Dajjal mentitore e regnerà 40 giorni per essere respinto da Gesù, prima che il mondo scompaia.
Nell’attesa, Roy invita nel suo libro l’Europa a riflettere sulla devitalizzazione del religioso nel nostro mondo, sulla sua riduzione a cultura fredda, singolarizzata, a segno strano e scandaloso in mezzo alla secolarizzazione, un segno che proprio per questo diventa rifugio, arma e strumento di rottura per chi cerca una ribellione identitaria. La “deculturazione” dell’elemento religioso apre la strada alla sua ricostruzione in forma fondamentalista, conclude il saggio. Potremmo aggiungere che in realtà c’è un’ultima questione, e riguarda addirittura la democrazia, cioè qualcosa che contiene la laicità e la religione insieme, e dovrebbe garantire la libertà nei diritti e nei doveri dell’individuo fatto cittadino: perché questa cornice non affascina e non tutela i ribelli della seconda generazione, non prevede e non include lo spazio antagonista della loro radicalità prima che fuoriesca in un’ideologia religiosa assassina? È una questione che riguarda noi e non solo loro: perché il miraggio abbacinato del martirio assassino, in ogni caso, non può prevalere sulla promessa di felicità imperfetta della democrazia.
Il rifiuto delle radici religiose dei genitori considerate un’eredità coloniale, una sottomissione
* IL LIBRO Generazione Isis di Olivier Roy ( Feltrinelli, trad. di Massimiliano Guareschi pagg. 144 euro 14)
Corriere 1.6.17
La sfida low cost dei norvegesi: «Da Roma agli Usa con 180 euro»
Il via a novembre con i voli verso New York e Los Angeles. I piani per Milano
Leonard Berberi
ROMA A parte il volo, tutto il resto si paga extra. La scelta del posto. Il pasto a bordo. Il bagaglio in stiva. Le bibite. Ma è, del resto, la filosofia del viaggio low cost . Pochi servizi, prezzi ridotti. Soltanto che in questo caso la destinazione non è dietro l’angolo. Si atterra lungo la costa orientale americana. O ci si affaccia sul Pacifico. A cifre più basse anche del 20-30% rispetto alla media. Tra cinque mesi decollano da Roma i collegamenti a basso costo di lungo raggio di Norwegian, la terza low cost europea per numero di passeggeri (circa trenta milioni nel 2016 di cui un milione nostri connazionali).
Dal 9 novembre si parte verso New York-Newark (da 179 euro a tratta) e Los Angeles (da 199 euro). Poi verso San Francisco dal 6 febbraio 2018 (sempre da 199 euro): 115 mila biglietti sono già in vendita da ieri. Con la prospettiva, «magari tra un annetto», di ripetere l’operazione a Milano. Perché Bjørn Kjos, amministratore delegato di Norwegian, non nasconde i suoi piani.
Il calendario prevede quattro collegamenti alla settimana verso New York (dove volano American Airlines, United, Delta Air Lines e Alitalia) e altri due verso Los Angeles (dove opera l’ex compagnia di bandiera) da novembre a febbraio. Quando a Fiumicino arriverà il secondo Boeing 787 (con 291 posti di cui trentadue in classe Premium e 259 in Economy) i viaggi per la «Grande mela» diventeranno sei alla settimana e quelli per Los Angeles tre. Su San Francisco la frequenza sarà, all’inizio, di un paio ogni sette giorni.
«Non ci fermiamo qui», dice Kjos al Corriere . «L’Italia e il Sudamerica hanno forti legami e stiamo pensando di collegarle con voli diretti, possiamo farlo perché abbiamo aerei in grado di arrivare lontano». Quanto lontano, l’amministratore delegato della compagnia che entro il 2020 avrà 42 jet per il lungo raggio, lo dice da sempre. Da mesi, per esempio, vorrebbe atterrare in Asia: «Ma soltanto se i russi ci autorizzano a sorvolare il corridoio siberiano». E da un po’ vorrebbe usare l’Italia come hub verso l’Africa: «Perché per andare laggiù devo fermarmi a Istanbul o a Dubai, quando posso far sostare i passeggeri a Roma?».
Sempre più passeggeri non escludono di volare low cost per raggiungere l’America. E non è un caso se oggi da Barcellona — dove Norwegian inizierà il 5 giugno — decolla la low cost intercontinentale Level, del gruppo Iag (holding di British Airways, Aer Lingus, Iberia, Vueling).
Così come non è un caso se altri vettori tradizionali — come Lufthansa con Eurowings e Air France-Klm con Boost — hanno deciso di offrire alternative a poco prezzo per attirare ancora più passeggeri. In attesa che Norwegian concluda gli accordi con i colossi Ryanair (117 milioni di passeggeri nel 2016) ed easyJet (74,5 milioni) che — secondo Kjos — «alimenteranno» i suoi aerei portando i viaggiatori europei verso i grandi hub di Norwegian e poi verso Est o Ovest, e gli americani (e gli asiatici) in ogni angolo del Vecchio Continente.
Corriere 1.6.17
Operazione rifiuti, a Roma un piano c’è, eccolo
risponde Aldo Cazzullo
Caro Aldo,
tra le tante peculiarità del nostro Paese, vi è quella di pagare affinché altri prendano la nostra spazzatura. Tra i tanti Paesi a cui devolviamo i nostri soldi affinché prenda i nostri rifiuti vi è l’Austria: gli austriaci ricevono i nostri soldi per fare energia con la nostra spazzatura. A questo punto la domanda è d’obbligo: chi è che fa l’affare, noi italiani o gli austriaci?
Angela Lanzo Lamezia Terme (Cz)
Cara Angela,
L’ affare ovviamente lo fanno gli austriaci, ma anche gli olandesi, i tedeschi… Perché a Brescia si è potuto fare un termovalorizzatore all’avanguardia, e da Roma in giù non si può? L’alternativa al grande impianto è una serie di impianti piccoli, con minore impatto per il paesaggio e per l’ambiente. Ma bisogna farli. Invece risulta più comodo caricare tutto sui camion in partenza verso il Nord Europa: una tratta che ha dato sollievo ma non risolto davvero l’emergenza napoletana degli anni scorsi.
In questi giorni ho ricevuto moltissime mail sullo scandalo rifiuti nella capitale. Ho preso qualche informazione e mi ha colpito in particolare il rapporto di Legambiente, che non fa polemiche politiche interessate ma ha messo sul tavolo un piano, articolato su quattro punti.
Primo: estensione della raccolta «porta a porta» a tutta la città; un servizio che a Roma langue.
Secondo: costruzione di almeno dieci impianti anaerobici per la gestione dell’organico e la produzione di biometano. La frazione organica pesa per circa il 30% del totale dei rifiuti urbani: a Roma, se si superasse il 65% di raccolta differenziata come previsto per legge, sarebbe di circa 500 mila tonnellate annue; per smaltirle sarebbero necessari 10-15 «digestori anaerobici» per il trattamento dell’organico e la produzione di biometano. Impianti piccoli, a zero emissioni e miasmi.
Terzo: costruzione di centri del riuso che anticipino le isole ecologiche, intercettando gli scarti prima che diventino rifiuti, e dando la possibilità di una nuova vita agli oggetti ancora potenzialmente utili: si alimenterebbe così in maniera legale il mercato dell’usato, evitando sprechi e traffici malavitosi.
Quarto: applicazione della tariffa puntuale, secondo il principio «chi inquina paga». È una modalità di tariffazione dei rifiuti già in campo con ottimi risultati in altre città; ad esempio Parma.
Il Fatto 1.6.17
“Me la paghe-Rai”. La guerra di Viale Mazzini
di Silvia Truzzi
Gli eventi delle ultime settimane confermano un sospetto che avevamo da tempo: la mission del servizio pubblico è la campagna elettorale. E se nelle trattative pre (per non dire di quelle post) voto ci scappa di fare qualche favorino a Mediaset, poco male. Anzi. A meno di un mese dalla presentazione dei palinsesti, la situazione interna a Viale Mazzini è più che kafkiana. Il direttore generale è dimissionario, dunque non è chiaro chi possa programmare i medesimi palinsesti. Renzi e Berlusconi (“Fuori i partiti dalla Rai!”) si sarebbero accordati sul nome di Paolo Del Brocco, attuale dg di Rai Cinema e dunque entro una settimana ci sarà la nomina. Sarà coraggioso lui ad accettare perché nei prossimi mesi, sul cadavere della Rai, si consumeranno guerre di ogni tipo. E comunque, la nomina risolverà qualcosa? Non proprio. Il piano di Antonio Campo Dall’Orto (che oggi dovrebbe formalizzare le dimissioni in Cda) prevedeva una serie di parametri per sistemare una volta per tutte la questione del tetto ai compensi degli artisti, che teneva conto anche degli introiti pubblicitari delle trasmissioni. Così, casomai un giorno Fiorello dovesse decidere di fare uno show su Rai1 o di presentare Sanremo, si potrebbe offrigli qualcosa di più della gloria. Qualche consigliere però non è d’accordo e vorrebbe un tetto generale massimo (probabilmente 1 milione di euro, a prescindere per esempio da quante ore di trasmissione uno fa).
Se si potesse usare la parola populismo, lo faremmo. Siccome però ormai è come per fake news, cioè si porta su qualunque mise, ne utilizzeremo un’altra meno fastidiosa: cretinismo. Si sente parlare solo dei compensi dei volti Rai, in quanto denaro pubblico. Se è questo il punto – e attenzione: giusto che ci si ponga il problema di come vengono spesi i soldi della collettività – deve valere per tutto. Le produzioni Rai sono anche cinema e fiction (talvolta davvero di alto livello, come Montalbano). Quanto costano alla Rai? Ha ragione Fabio Fazio quando dice che è inaccettabile essere considerati “un costo” perché il sottotesto nemmeno troppo celato è “rubi i soldi della comunità”. Se la televisione di Stato vuole stare sul mercato, gli artisti che lavorano lì non possono guadagnare come un operaio: è un’ovvietà. La Rai può anche decidere di trasformarsi in qualcosa d’altro, e allora però tutto l’orizzonte dell’offerta deve essere coerente (e quindi via la pubblicità, intanto). Senza dire che non sono soltanto i compensi degli artisti Rai – già dimezzati rispetto a quelli della concorrenza – a essere “soldi pubblici”. Forse è vero che qualcuno se n’è approfittato, ma possiamo dire che l’affermazione non riguarda anche gli stessi politici che sparano a zero sulla Rai? Quando fa comodo è la prima industria culturale del Paese, altrimenti è il paradiso dei mangia pane a tradimento. Quale credibilità ha una classe politica che sragiona in questo modo? Davvero credono che qualcuno caschi nel tranello dei “risparmi”? È giusto, specie in un momento di crisi, che tutti coloro che lavorano nel settore pubblico a certi livelli si pongano il problema morale degli sprechi. Ma allora: la Presidenza del Consiglio aveva bisogno dell’aereo (l’Air force Renzi) pagato 40 mila euro al giorno in leasing? E solo un esempio tra mille. L’abbiamo già scritto: una Rai debole, senza centri decisionali autonomi, fa comodo a chi pensa di giocarsi lì il prossimo giro di giostra politico. Ma è un gioco pericoloso, specie se – come ha detto Roberto Saviano di Renzi – a condurre sono persone “ossessionate dalla Rai” ma che pretendono di apparire completamente disinteressate. “Me la paghe-Rai” è il vero motto di Viale Mazzini, occhio che tanta solerzia non si trasformi in un boomerang.
Il Fato 1.6.17
Il menu turistico delle Renzi-news
di Daniela Ranieri
Commentiamo l’ultima trovata promozionale di Renzi consci che nel frattempo lui ne starà partorendo un’altra, ancora più stupefacente, immaginifica, totalitaria; un Facebook live, un #magliettegialle, una Candid Camera, un’app che porta il suo nome o quello di un Kennedy morto: qualcosa che, spera, possa restituirgli freschezza e visibilità. È ancora convinto che qualcuno possa vederlo e pensare: “Ehi, questo giovane mi piace”.
Ieri, in diretta dal Nazareno alle 9 in punto (c’è gente che ha messo la sveglia), ha inaugurato su Facebook la rassegna stampa del Pd, “contro la montagna di bufale e fake news, le pagliacciate, i trolls e le finzioni”, che noi credevamo speacialità renziane, invece sono difetti nostri sui quali lui vigilerà; un’inversione considerevole in democrazia, dove di solito avviene il contrario. Del resto l’ha sempre fatto, in Tv e dal palco della Leopolda, dove, con la trascinante simpatia da animatore di villaggio vacanze che gli conosciamo, aizzò la folla a votare “il peggior titolo di giornale” (che vincemmo noi del Fatto, sia detto con modestia).
S’è messo dicevamo alle 9 spaccate (alcuni hanno seguito la diretta sul bus, andando al lavoro) a elargire censure o grazie: Repubblica è “uno dei quotidiani più autorevoli”, “Il manifesto non è la mia prima lettura mattutina”, “Compimenti a Cerasa e al Foglio”. Ora, qualunque persona sana di mente sa che una rassegna stampa è credibile se a farla è qualcuno che non sia contestualmente oggetto della stampa che si accinge a rassegnare. Persino un morto proverebbe pudore ad aprire il giornale e a commentare i necrologi che gli hanno dedicato.
Renzi no. Ex premier, ri-candidato premier, lui è lì per riparare i torti subiti dalla stampa prima e dopo il 4 dicembre. Hai voglia a iniziare da un pezzo del Corriere sui bambini soldato dell’Isis (“Hanno l’età di Francesco e Emanuele, i miei figli”), come i leader con lo sguardo sul mondo. Dove va a parare, dove è il suo baricentro, è sempre sé stesso e la sua presidenza sottratta, la sua premiership in contumacia.
Eccolo, dietro a una scrivania da start-up, camicia bianca da neo-liberista perdente, il piglio di chi ha detto no alla stampa ostile. Non come Erdogan, ma web-democraticamente. La Rete è il suo Generale Inverno: pensava di espugnarla con una twittata, una direttuccia, un blogghetto; poi, la disfatta.
Così da ieri ogni giorno alle 9 (chissà i soldi buttati in spin-doctoring per chiamare la rubrica “Ore nove”), puntuale come una iniezione, dalla splendida cornice del Nazareno è online la rassegna “fatta da un dirigente del Pd” (c’è chi, sapendo che oggi c’era Martina, ha disdetto le vacanze per non perdersene manco una).
Ma chissà che imbarazzo proverà Renzi a leggere gli articoli che riportano diligentemente le frasi di Renzi (inviate ai giornalisti organici la sera prima via WhatsApp), uno di quei “Renzi ai suoi” che ormai fanno genere letterario a sé, in un avvitamento di semiotica aberrante e di autoreferenzialità da reparto psichiatrico. Ma serenissimo in fatto di stampa, Renzi ci gira attorno stilando le sue notizie calde: Gianfranco Fini e la Raggi (“vale sempre il garantismo”, e ci mancherebbe che per loro no e per Lotti e Boschi sì). “C’è un sorcio che sale le scale del Campidoglio”, notizia del Messaggero, noto osservatore neutrale della giunta Raggi (i sorci a Roma prima non c’erano, li ha portati la Raggi, che li alleva rendendoli assassini. Resta da capire come mai se il dottor Marino era un anti-topo naturale, il Pd lo abbia sfiduciato dal notaio). Le fughe di notizie: “Stiamo aspettando di sapere come è stato rivelato il segreto d’ufficio su prove che potrebbero essere false tra i carabinieri del Noe e la redazione del Fatto”, giammai sulla violazione del segreto d’ufficio da parte dell’amico Lotti e dei carabinieri compagni di braciate del babbo.
Insomma la rassegna non è che un menu turistico di Renzilandia: fake news (“Noi abbiamo lasciato un tesoretto”; “La disoccupazione giovanile l’abbiamo abbassata noi”); Bono degli U2; la Apple; le Olimpiadi “grande metafora”; le elezioni in Regno Unito, che lui chiama “Iu chei”; il referendum: “Volevamo un sistema con meno politici e meno poltrone, l’unica che è saltata è la mia”. Ormai va a memoria come i preti durante la messa. Lui sta alle cialtronate come Claudio Magris sta alla Mitteleuropa. Lo statista che ha iniziato la sua ascesa con una slealtà e l’ha chiusa con una promessa tradita (cioè non l’ha chiusa), sul finale congiunge le mani, guarda la telecamera con aria sognante: “Torneremo a abbracciarci” in un “lungo tour che faremo in treno”, in questo “Paese meraviglioso” , e annuncia la prossima scoppiettante avventura.
Dal 5 giugno, sarà in onda La Terrazza con Marco Minniti. Tema: “La sicurezza è di sinistra?”, alla quale seguirà un #matteorisponde sul tema se sia giusto lasciare alla destra la bonifica dell’Agro Pontino.
Il Fatto 1.6.17
“Uranio 238 usato anche in Italia”
Un ex maresciallo: “Fotografai quei proiettili nel 1994 in un deposito a Pozzuoli, li spararono i finanzieri tra Ponza e Ventotene”. I ministri, compreso Mattarella, hanno sempre detto: “Mai avuti”
di Alessandro Mantovani
Nel lontano 1994, quando non si parlava ancora di sindrome del Golfo, le forze armate italiane avevano a disposizione proiettili all’uranio impoverito, al contrario di quanto affermato per vent’anni da ministri, Stati maggiori e commissioni d’inchiesta. Ce lo racconta oggi, documenti alla mano, un ex sottufficiale della Guardia di Finanza, armaiolo: afferma di averne trovati “decine di casse” in un deposito di munizioni della Marina militare alla Montagna Spaccata di Pozzuoli (Napoli), utilizzato anche dal gruppo navale della Finanza.
“Sulle casse c’era il simbolo della radioattività. Per un certo periodo erano state custodite nella nostra armeria alla Caserma Zanzur a Napoli. Il caso volle – racconta l’ex maresciallo Giuseppe Carofiglio, in congedo dal 2002 – che avessi un contatore geiger. Vicino alle casse i led si accendevano tutti. Allarmato, avvisai i colleghi del comando generale che ci inviarono le schede dove confermavano: erano munizioni all’uranio impoverito. Feci un casino. Dissi che non avrei toccato più nulla. Fecero venire quelli dell’Anpa”, l’Agenzia nazionale protezione ambiente dell’epoca.
La relazione a firma del dottor C. Corato e del signor M. Blasi dell’Anpa, datata 24 giugno 1994 dopo il sopralluogo del 15, conferma. Descrive le casse dove era scritto “Isotopo U 238”, l’uranio impoverito appunto, e indicato il produttore di quei colpi da 30 mm, la Breda meccanica Bresciana di Peschiera del Garda (Brescia) poi acquisita da Finmeccanica (oggi Leonardo). E misura la radioattività nell’ambiente, più che apprezzabile ma, si legge, non superiore ai limiti di un decreto ministeriale del 1971 né a quelli europei, quindi non pericolosa. “Quel verbale dice tutto e non dice niente – osserva Carofiglio –. Tra l’altro, uno dei controllori disse che se avessimo avuto una cartuccia come soprammobile sulla scrivania ci saremmo beccati il cancro dopo un anno”. Oggi sappiamo che le radiazioni sono pericolose ma soprattutto lo sono le nanoparticelle che si diffondono dopo l’esplosione del proiettile. Come è ormai noto dopo l’Iraq e i Balcani le munizioni all’uranio perforano, incendiandole, le corazze dei carri.
Ma che ci faceva la Finanza con quei proiettili? Secondo l’ex maresciallo erano in dotazione a due pattugliatori del gruppo navale di Napoli, forse inizialmente destinati a un altro Paese ma utilizzati nel mar Tirreno. “Di quei proiettili non c’era il carico contabile – racconta Carofiglio –, potevamo portarceli anche a casa. Per eliminarli fecero un’esercitazione straordinaria, non so con certezza dove sono stati sparati perché non ci andai, però suppongo si trovino, mi riferisco alle ogive, tra Ponza e Ventotene dove generalmente si andava a sparare con le unità navali”. Il telex 208/22 del luglio 1994 da Cogeguarfi Uga (comando generale Gdf) a Leguarfi Napoli (gruppo navale) si riferisce a un’“esercitazione straordinaria tiro con munizionamento da 30 mm tipo Ap-I” (sigla che indica colpi perforanti e incendiari) da tenersi il giorno 13, cioè poco dopo la relazione dell’Anpa: specifica i “colpi di tipo Tp” (normali da addestramento) dovranno essere sparati “soltanto dopo Ap-I at scopo ‘pulire’ canna da eventuali residui” e raccomanda i “guanti da lavoro” per chi avrebbe maneggiato quei proiettili.
Perché Carofiglio, congedato nel 2002 per motivi di salute, tira fuori le carte dopo 23 anni? “Avevo paura, anche dopo il congedo ti rimane quel tipo di mentalità militare, oggi invece troppa gente è morta: la questione è venuta fuori”, spiega l’ex maresciallo riferendosi alle commissioni d’inchiesta e alle proposte di legge per i militari che si sono ammalati (circa 700) o sono morti (342), per lo più, dopo missioni all’estero. Non tra Ponza e Ventotene. Fin qui ad esempio è stato escluso l’uso di uranio 238 nel poligono di Capo Teulada in Sardegna, c’è da crederci? Carofiglio, 55 anni, non ha malattie ritenute legate all’esposizione: “No, ma per anni ho avuto paura”. Ha un fratello generale della Finanza, Francesco, oggi all’Anac, con lui ne ha parlato? “Poco, non ci parliamo da anni”.
Dalla Difesa e dalla Finanza, per ora, nessun commento. Tutti i ministri della Difesa, compreso Sergio Mattarella nel 2000, hanno sempre escluso l’impiego e lo stoccaggio in Italia di proiettili all’uranio impoverito da parte delle nostre forze armate.
il manifesto 1.6.17
Camp Darby si riarma, no-war in piazza
Le guerre di Trump. Un progetto tenuto segreto per un anno ("opera strategica militare e per la sicurezza e la salute nazionale") per far arrivare i treni carichi di armamenti all'interno della base, con una nuova linea ferrata e il passaggio sul Canale dei Navicelli. Antimilitaristi mobilitati, organizzati presidio e corteo per la Festa della Repubblica.
di Riccardo Chiari
PISA “E’ una cosa talmente grossa che perfino le amministrazioni locali sono state spiazzate dalle decisioni prese a Washington e a Roma – racconta Ciccio Auletta – e intanto nel più completo silenzio il governo statunitense e quello italiano stanno già lavorando per potenziare le strutture della base di Camp Darby, destinata a diventare la polveriera del Mediterraneo per il trasporto di armi verso le guerre americane nel mondo”.
Il consigliere comunale di “Una città in Comune” non esagera: sul progetto è stato apposto il timbro di riservatezza, perché “Opera strategica militare e per la sicurezza e la salute nazionale”. Di qui il silenzio, durato quasi un anno, sulla realizzazione di una nuova linea ferroviaria lunga 2,5 chilometri per collegare la base alla stazione di Tombolo, e di due nuovi terminal all’interno dell’installazione militare. Il primo di ben 18 metri di altezza, destinato ad accogliere le merci, e un altro che dovrebbe assumere le funzioni di controllo e sicurezza.
Nel progetto rientra anche la costruzione di un ponte mobile sul Canale dei Navicelli, per permettere l’attraversamento dei treni, carichi di armamenti, oltre che la navigazione delle barche. E il bello – o meglio il brutto – è che tutto questo poserà una pietra tombale sull’altro progetto, civile, che avrebbe permesso la navigabilità dal mare livornese fino a Pisa, proprio grazie al Canale dei Navicelli. Già, perché le opere messe in cantiere dovrebbero assicurare l’arrivo di due treni al giorno, rispetto al singolo passaggio che oggi avviene in media ogni due, tre mesi.
Di qui l’imbarazzo dell’amministrazione comunale pisana, che per anni ha sbandierato la riconquistata navigabilità del Canale dei Navicelli come grande opera al servizio della collettività: “Il Comune di Pisa – ha spiegato l’assessora all’urbanistica Ylenia Zambito al quotidiano ‘Il Tirreno’ – è stato coinvolto solo inizialmente in un vertice durante il quale è stato presentato il progetto militare. In seguito non è stato più invitato ai summit, anche perché non ha competenze e responsabilità urbanistiche se non per il Canale dei Navicelli, per il quale il sindaco Filippeschi ha chiesto alla Regione Toscana di convocare un tavolo, che però in questi mesi non è mai stato organizzato”.
Nel dettaglio, il progetto ha l’obiettivo di evitare il trasferimento su gomma degli armamenti, lasciando alla linea ferroviaria il compito di far arrivare a Camp Darby tutto il materiale, militare e logistico, necessario alla vita quotidiana della base Usa. Secondo molti analisti bellici, il piano del Pentagono di potenziare le capacità della gigantesca struttura tra Pisa e Livorno, con un investimento di circa 50 milioni di dollari, potrebbe anche indicare la volontà dell’amministrazione statunitense di far recuperare centralità alla base, nata nel 1951, che ha trasformato mille ettari di territorio – in massima parte inseriti nelle aree protette del Parco di Migliarino-San Rossore-Massaciuccoli – in una struttura bellica.
Grazie ai consiglieri pisani Ciccio Auletta e Marco Ricci, eletti in una coalizione di sinistra comprendente “Una città in Comune” e Rifondazione comunista, il question time presentato all’ultimo consiglio comunale sotto la Torre Pendente ha permesso di far conoscere all’opinione pubblica l’intero progetto militare. Compresa la decisione di abbattere tutti gli ostacoli sulla strada della nuova linea ferroviaria. Così saranno abbattuti circa mille alberi, sette ettari di parco sui 36 interessati dal piano militare.
Con una interrogazione urgente alla giunta di Enrico Rossi, i consiglieri regionali Tommaso Fattori e Paolo Sarti hanno tirato le somme: “Sono in corso grandi manovre in vista di possibili scenari di guerra, e la nostra regione ne è involontaria protagonista, oltre che obiettivo privilegiato di ritorsioni da parte di chi è esposto ad attacchi con armi provenienti dalla Toscana”.
Intanto l’appello promosso dagli antimilitaristi (vedi l’indirizzo sul web comitatoterritorialenoguerra@inventati.org) si è concretizzato con un appuntamento per la mattina di venerdì 2 Giugno, festa della Repubblica, davanti a Camp Darby. Sarà un presidio di tutti coloro che vogliono mobilitarsi per resistere alla guerra. Hanno già aderito, fra le forze politiche, Rifondazione e Sinistra italiana di Pisa e Livorno, insieme a tante variegate realtà di movimento dell’intera Toscana, in testa il Coordinamento fiorentino contro la guerra.
il manifesto 1.6.17
Solo buoni propositi e 3,8 milioni di fondi Ue, nel piano di Virginia Raggi
Roma Capitale. La strategia della sindaca pentastellata per il superamento dei campi Rsc
di Eleonora Martini
ROMA «Scolarizzazione, occupazione, salute e abitazione» sono i quattro elementi chiave su cui poggia il «piano per il superamento dei campi Rom» a Roma approvato con una delibera di giunta e presentato ieri in conferenza stampa dalla sindaca Virginia Raggi come se fosse la svolta epocale al decennale problema della mancata inclusione delle popolazioni Rom, Sinti e Camminanti (Rsc). Ma è un piano che gli esperti – a cominciare dall’Associazione 21 luglio – giudicano raffazzonato, assolutamente ascientifico, privo di una seria analisi, di un cronoprogramma e di studi di fattibilità e sostenibilità.
Appare però saldamente ancorato ad alcuni buoni principi (a cominciare dalla dedica alle tre sorelline rom morte nel rogo del 10 maggio scorso); tendenzialmente rassicurante («fine della logica assistenzialista», «stessi diritti e doveri», «ripristino della legalità», «eliminazione del lavoro nero»); pieno di intenti sensati («favorire la scolarizzazione» e i «percorsi di formazione», incentivare la «creazione di cooperative di servizi», «favorire il micro-credito», «implementare la medicina preventiva e l’educazione alla salute», ecc., ripetuti però almeno dai tempi di Francesco Rutelli, a.d. 1994). E che riparte da dove si era fermata la precedente giunta Marino (l’utilizzo di 3,8 milioni di fondi europei per lo smantellamento dei primi due campi: La Monachina e La Barbuta) o da dove era approdata la magistratura («ritiro di tutti i bandi coinvolti in Mafia Capitale»).
Già sui numeri, però, si nota una certa approssimazione: il piano pentastellato infatti si limita a programmare la «conoscenza dettagliata» di tutte le «4.500 persone» che, riferisce Raggi, risulterebbero insediate «negli attuali nove villaggi» secondo «il primo censimento compiuto dalla Polizia locale». L’ultimo rapporto dell’Associazione 21 luglio, invece, parla di almeno 7500 le persone di etnia Rsc che vivono a Roma nei 19 campi, tra istituzionali e «tollerati», e nelle decine di micro insediamenti «informali» come quelli dove sono morte, appunto, le tre sorelline rom.
Secondo le intenzioni della sindaca Raggi e dell’assessora Laura Baldassarre, «per ciascuna persona (persone singole o appartenenti a nuclei familiari) verrà preventivamente definito un piano individuale di intervento, accompagnato dalla sottoscrizione del Patto di Responsabilità con Roma Capitale da parte del capofamiglia, in base al quale chi non lo rispetta perderà il diritto a fruire delle misure previste». Azioni «pianificate» e interventi che «saranno avviati, da subito» in due campi che più diversi in composizione e problematiche non si può: La Monachina (115 persone in circa 30 nuclei familiari) che presenta, secondo le associazioni di volontariato, poche situazioni davvero difficili, e La Barbuta (656 persone in circa 100 nuclei ) che invece è giudicato tra i più complicati della Capitale.
Come sono stati scelti, in base a quale programmazione sociale e quali siano esattamente le azioni concrete con le quali si intende raggiungere gli obiettivi prefissati, rimangono onestamente misteri della fede. Probabilmente bisognerà aspettare il «rafforzamento dell’ufficio Rom» adibito alla «supervisione e all’attuazione del piano» che Raggi annuncia di mettere in campo tramite «un’ordinanza che emetterò nei prossimi giorni».
C’è una sola azione che appare invece molto chiara fin da subito: nella bozza del piano che l’Associazione 21 luglio e il manifesto hanno potuto visionare si parla di una «struttura intermedia adeguata, nella disponibilità del patrimonio di Roma Capitale, per poter ospitare le famiglie» fuoriuscite dai campi in via di smantellamento. Nelle passate amministrazioni capitoline però le «strutture intermedie» sono sempre stati nuovi campi o centri di accoglienza per soli Rom. Vale a dire il riprodursi della segregazione razziale e il perdurare della politica assistenziale. Vedremo se Raggi saprà fare di meglio.