il manifesto 8.6.17
Siamo vittime di un conflitto a bassa intensità
di Marco Revelli
Il
surplus – l’eccedenza – di messaggi e di energia negativa dell’evento, e
il deficit di pensiero con cui è stato elaborato. L’accaduto è (non
riesco a trovare altra parola) “inusitato”: una folla ferma, ordinata,
fino ad allora tranquilla d’improvviso impazzisce, senza altra apparente
ragione se non la folla stessa. Qui non ci sono hooligans che
aggrediscono, come all’Heysell trent’anni fa. E nemmeno un attacco
terroristico: di terroristi nemmeno l’ombra, solo molto terrore
sottocutaneo che evidentemente attraversava come una corrente elettrica
quella massa di corpi assiepati. Per tre giorni si è cercato un
episodio,anche minimo, che possa aver scatenato il panico: un petardo,
uno spray urticante, delle urla minacciose, un gesto provocatorio.
Nulla. Almeno fino ad ora. Tutto sembra parlare di un fenomeno
(“inusitato”, appunto) di autocombustione della folla. Di un evento
(terribilmente distruttivo) privo di causa efficiente. E di un “autore”.
È
questa la cosa – il monstrum, grande come una piazza grande – su cui
dovremmo alzare l’allarme e applicare il cervello: questa gigantesca
sindrome mentale che ci rende irriconoscibili a noi stessi (e
inspiegabili), materializzatasi nel cuore di Torino. E invece è partita
subito la banale caccia all’errore da cronaca quotidiana, la più trita
polemica politica sulle colpe amministrative e sui loro colpevoli: il
prefetto, il questore, il sindaco, il capo dei vigili, che pure qualche
errore avranno fatto se alla fine si sono contati oltre 1500 feriti (in
gran parte, bisogna dirlo, non gravi). Ma che non possono certo essere
indicati all’origine del disastro (a meno di pensare che un’ordinanza,
qualche transenna meglio posizionata, un centinaio di vigili o agenti in
più avrebbero potuto per miracolo arginare quel fiume di folla
impazzita). E la focalizzazione sui quali serve solo a rassicurare e
rimuovere il carattere tremendamente perturbante dei fatti.
Invece
quel perturbante dobbiamo tenerlo ben fermo davanti agli occhi. Per
decodificare ciò di cui ci parla. E la prima cosa che ci dice,
attraverso quelle immagini notturne, un po’ gotiche, di quella piazza in
preda ai fantasmi, è che siamo cambiati. Nel profondo. La guerra a
bassissima intensità che da anni si combatte nel cuore d’Europa (a
fronte di quella ad altissima intensità che si consuma oltre i suoi
confini), questa guerra le cui armi sono coltelli, martelli, furgoni,
Suv Van e Tir, oggetti domestici o quasi, ha avuto in realtà un
fortissimo impatto mentale, sulla nostra sfera psichica. Quello
stillicidio di attacchi, da Charlie Hebdo a Bataclan a Nizza Berlino
Londra Manchester… ha depositato sul nostro sistema nervoso collettivo
una pellicola tossica. Ha riconfigurato i nostri neuroni-specchio sui
codici del panico. E ha abbassato la soglia di allarme fin quasi a zero,
così che il meccanismo della chiusura difensiva verso ogni altro scatta
pressoché “per nulla”. Siamo davvero tutti dei “mutanti”, anzi ormai
dei mutati.
La seconda cosa che Torino ci dice è che la profezia
annunciata dalla signora Thatcher all’inizio degli anni ’80, si è
pienamente adempiuta. «La società non esiste, esistono solo gli
individui», predicava. E in effetti in quello spazio pubblico per
eccellenza che è la piazza centrale della città la Società non c’era.
C’erano solo individui. Atomi solitari, ognuno accecato da un «si salvi
chi può» esclusivo, arrestato al confine del proprio Io. Ognuno in
guerra disperata col proprio vicino in una fuga da non-si-sa-cosa verso
non-si-sa-dove… Chi c’era racconta cose che chiede di non ripetere, di
nasi fratturati a gomitate, gambe storpiate, bambini calpestati e neppur
visti, abiti stracciati nel tentativo di sopravanzare chi era davanti
come ostacolo, i più fragili abbattuti dai più muscolosi, i più lenti
dai più veloci… È come se lì si fosse materializzata, in forma di girone
infernale, l’immagine plastica del paradigma che definiamo
“neo-liberista”. La potenza dissolvente del suo negativo, in una
rappresentazione drammaturgica del suo individualismo possessivo, anzi
predatorio. La sua competitività – il suo mors tua vita mea – eletta a
dato strutturale e naturale. La rottura dei legami sociali visti come
ostacolo e rallentamento. L’assenza di senso che non sia quello del mero
sopravvivere. La dissoluzione di ogni lavoro – anzi “mestiere” – in
astratta ed effimera funzione. Non è senza significato che gli unici
“eroi” di quella notte, coloro che hanno fatto scudo e salvato Kelvin,
il bambino di origine cinese, siano un bodyguard nero e un ex soldato
italiano, due che hanno ritrovato nella propria “professione” la risorsa
per “restare umani”. E che il giovane che, a braccia larghe, si
sforzava di calmare i vicini perché non era “successo niente” – uno dei
pochi “spiriti critici” in quella follia – sia stato selezionato come
possibile colpevole, fermato e interrogato per ore.
Curare questa
doppia sindrome dovrebbe essere compito della politica. Che invece oggi
più che mai mostra la propria miseria, miopia e, in qualche caso,
vocazione sciacallesca, nel ricercare nel proprio competitor immediato
il colpevole di tutti i mali.