martedì 6 giugno 2017

il manifesto 6.6.17
Il Leviatano coloniale si è fatto apartheid
Palestina/Israele 1967-2017. L’opposizione ai Due Stati dell’élite di ultradestra punta a mutare l’annessione de facto in un’annessione di diritto. «Vuoi la dote, ma non la sposa», disse nel 1967 Eshkol a Golda Meir. Le terre sono state prese, i residenti palestinesi no
di Neve Gordon


In un meeting del Partito laburista israeliano subito dopo la guerra del 1967, Golda Meir chiese al premier Levi Eshkol: «Che ne facciamo di un milione di arabi?». Dopo una pausa di un istante Eshkol rispose: «Capisco. Vuoi la dote ma non ti piace la sposa!».
L’aneddoto rivela come fin dal principio Israele abbia tracciato una netta distinzione tra la terra che aveva occupato – la dote – e i palestinesi che l’abitavano – la sposa.
Questa distinzione è in breve divenuta la logica fondante che ha plasmato la struttura del progetto coloniale di Israele, al punto che i meccanismi sviluppati per espropriare la terra palestinese e per tenere sottomessi gli abitanti colonizzati hanno prodotto una serie di contraddizioni che ancora oggi danno forma alla realtà geopolitica tra la Valle del Giordano e il Mediterraneo.
Non sorprende che la contraddizione di fondo sia quella tra geografia e demografia. L’insaziabile avidità di Israele per la terra palestinese, i reiterati sforzi per confinare gli abitanti palestinesi colonizzati in enclavi chiuse e la politica di trasferimento di centinaia di migliaia di ebrei in Cisgiordania e a Gerusalemme Est hanno reso la soluzione dei «due popoli-due Stati» sempre più insostenibile.
Una soluzione invocata praticamente da tutti i leader occidentali e dagli Stati del Golfo, da Israele, dall’Autorità palestinese e anche da Hamas, ma diventata ormai una chimera che rafforza solo lo status quo.
Ma lo status quo non può durare per sempre. L’annessione de facto della Cisgiordania in definitiva può soddisfare le brame territoriali di Israele ma al tempo stesso ha prodotto una nuova realtà che a lungo termine non sarà possibile sostenere. Ha prodotto un cambiamento dell’equilibrio demografico le cui ramificazioni sono senza dubbio politiche.
Al momento vivono tra la Valle del Giordano e il Mediterraneo circa 6,5 milioni di ebrei. Nello stesso territorio si trovano 6,2 milioni di palestinesi – sia musulmani che cristiani – e circa 400mila cristiani non arabi, membri di altre religioni o persone che non sono credenti, assieme a oltre 180mila cittadini stranieri.
Pertanto il territorio su cui Israele ha un controllo effettivo non ha una maggioranza di cittadini ebrei. Tutto questo rivela che la spinta espansionistica non si accorda bene con gli argomenti etno-demografici del Sionismo e produce, agli occhi di Israele, una minaccia esistenziale.
Inoltre, dato che esiste un solo potere sovrano nei territori che Israele ha conquistato nel 1967 (con l’esclusione della Penisola del Sinai, restituita all’Egitto) e che all’interno di questo territorio operano simultaneamente due sistemi legali (uno per i cittadini ebrei israeliani e palestinesi, l’altro per gli abitanti palestinesi occupati), quest’entità andrebbe legalmente considerata come un regime di apartheid.
Un sistema di apartheid certamente diverso da quello sudafricano, ma è vero anche che Italia e Usa sono diverse tra di loro, anche se entrambe considerate democrazie liberali. L’apartheid opera in maniera differente in contesti storici, geografici e demografici diversi. Conserva però la sua caratteristica fondamentale: un sistema legale di oppressione, espropriazione e segregazione razziale.
È un paradosso che la destra israeliana, al contrario dei sionisti liberali, riconosca la realtà di questa situazione, esortando il centro dello schieramento politico ad abbandonare il paradigma «due popoli-due Stati».
Il suo obiettivo immediato è la trasformazione dell’annessione de facto della Cisgiordania in un’annessione di diritto e, sebbene le sue strategie per la risoluzione della «minaccia demografica palestinese» siano poco chiare, due idee di primaria importanza si stanno diffondendo in Israele.
La prima è l’opzione giordana, secondo cui la Giordania sarebbe il vero Stato palestinese e la popolazione palestinese dovrebbe pertanto essere trasferita lì. La seconda idea si ispira al modello di «autonomia palestinese» ideato dall’ex primo ministro Menachem Begin: i palestinesi possono continuare a vivere in enclavi all’interno della Cisgiordania, con ruoli di responsabilità nella sanità, educazione e in altri servizi pubblici, come la raccolta della spazzatura. Anche questo modello ha un precedente: in Sudafrica lo chiamavano bantustan.
Anche se non lo dicono esplicitamente, il futuro immaginato dall’attuale élite politica israeliana va in due direzioni: o una consistente espulsione di palestinesi o la fortificazione di un regime di apartheid.
Tuttavia abbandonare il paradigma dei «due popoli-due Stati» potrebbe potenzialmente aprire un nuovo e da tempo auspicato dibattito. Il modello «un solo Stato» terrebbe conto di un’ammissione storica, che il conflitto non sia iniziato nel 1967 bensì agli inizi del XIX secolo, anche prima della Nakba palestinese del 1948 e dell’indipendenza di Israele.
Si possono affrontare le ingiustizie della storia, procedendo verso una soluzione possibile, solo quando si riconoscono e affrontano le realtà storiche.
Sfortunatamente, invece di affrontare la storia, il governo israeliano ha introdotto un’ondata di disposizioni, linee programmatiche e nuove leggi draconiane, avviando anche campagne di istigazione contro i cittadini palestinesi di Israele e anche contro gli israeliani progressisti.
Anzi, le strategie di governo sviluppate e dispiegate da Israele nelle aree occupate adesso stanno colonizzando anche lo Stato ebraico. Il fatto che il Leviatano coloniale stia ripiegando su sé stesso, istituendo la logica dell’apartheid nei confini anteriori al 1967, è particolarmente evidente nella zona del deserto israeliano del Negev, dove lo Stato ha intensificato la propria campagna contro la popolazione indigena beduina.
Lo dimostra Um al-Hiran, villaggio di cittadini beduini destinato a essere distrutto, sulle cui macerie crescerà un insediamento israeliano chiamato Hiran. A pochi km di distanza dal villaggio beduino una trentina di famiglie religiose vivono in una provvisoria comunità chiusa, in paziente attesa che il governo espella le famiglie beduine dalle loro case.
Durante una recente visita a questa comunità ebraica, ho visto case disposte attorno a un parco-giochi e una bella scuola materna con allegri dipinti murali sugli esterni. Non c’è bisogno di dire che questa cornice tanto bucolica era snervante e surreale, considerando la risacca violenta che produrrà. Ironia vuole che quelle persone, destinate a sfrattare i residenti di Um Al-Hiran, sono coloni ritornati in Israele per colonizzare la terra dei beduini.
Alla fine i nodi vengono al pettine. I coloni si impadroniscono della dote della sposa, sostengono il governo nel radicamento di un regime di apartheid ed erodono uno status quo fittizio. Seminano vento oggi, domani raccoglieranno tempesta.
(Traduzione di Alberto Prunetti)