il manifesto 1.6.17
Il lavoro che cresce è quello precario: più occupati gli over 50 e a termine
Istat.
Modesto aumento dell'occupazione a aprile 2017 e suona la grancassa del
Pd e di Renzi in vista delle prossime elezioni. Ma i dati vanno
decrittati: 225 mila occupati a termine in più ad aprile secondo
l’Istat. Quelli «permanenti» sono 155 mila. Il 67% degli occupati in
Italia sono precari. Meno 122 mila occupati in meno nella fascia
anagrafica 25-49 anni, ovvero quella più «produttiva». Insieme ai
giovani, i lavoratori adulti sono i più colpiti dalla crisi
di Roberto Ciccarelli
La
crescita dell’occupazione è del lavoro precario a termine ed è trainata
dai lavoratori over 50 tra i quali aumenta anche la disoccupazione. Il
tasso di disoccupazione cala all’11,1%, il valore più basso da settembre
2012, ma aumentano sul mese gli inattivi (+34,7%), ovvero i lavoratori
che non cercano più lavoro.
La rilevazione mensile dell’Istat
conferma un mercato del lavoro con modesti saldi positivi: +94 mila
occupati, soprattutto tra le donne rispetto a marzo, + 277 mila su base
annua. Il tasso di occupazione generale, ovvero il perimetro entro il
quale avviene questa crescita, resta ristretto: il 57,9%, una
percentuale tra le più basse in Europa. Sintomo che non si produce nuovo
lavoro, e dunque più posti di lavoro, ma aumenta il numero dei
precariamente occupati.
I dati dell’Istat sono utili per capire la
differenza: la crescita, infatti, riguarda i contratti a termine (+225
mila) e meno quelli permanenti (+155 mila), mentre continua il calo
degli «indipendenti», le partite Iva. Non può passare inosservato il
fatto che sui 380 mila occupati complessivi, 362 mila lavoratori hanno
più di 50 anni. È un trend macroscopico a cui corrisponde a aprile un
poco significativo aumento degli occupati tra i 15 e i 34 anni (+37
mila) e un buco nero tra gli adulti 35-49enni. Per loro si può parlare
di un crollo: -122 mila occupati. E pensare che questa fascia anagrafica
passa per essere quella «più produttiva» in un’economia capitalistica.
Questa
asimmetria generazionale è dovuta a tre fattori. Il più importante è la
riforma Fornero delle pensioni che ha aumentato drasticamente l’età
pensionabile, obbligando i dipendenti a restare più a lungo al lavoro.
Così facendo è stato impedito il subentro dei più giovani. Nel pubblico,
questo vincolo è aggravato dal blocco del turn-over e dai tagli. In
secondo luogo c’è la riforma dei contratti a termine di Poletti. Pochi
ricordano l’abolizione della «causale» è stato il primo atto del governo
Renzi, ancor prima del Jobs Act. Ciò ha permesso alla forma
contrattuale dominante sul mercato del lavoro di essere prorogata
infinite volte incidendo sul numero degli occupati registrati
dall’Istat.
Una cifra può essere utile per comprendere la
dimensione del fenomeno. Da gennaio 2015 il numero di occupati a tempo
indeterminato è cresciuto del 3,64%, quello degli occupati a termine del
12,26%. Oggi in Italia il 67% nuovi occupati dipendenti è a termine.
Questa precarizzazione della forza lavoro ha prodotto maggiori
risultati, in termini di propaganda sui numeri dell’occupazione ad uso
dei governi,rispetto al Jobs Act vero e proprio.
La nota «riforma»
ha infatti prodotto risultati deludenti a fronte del gigantesco
spostamento di ricchezza pubblica nelle tasche delle imprese. Ai 18
miliardi di euro spesi da Renzi in sgravi contributivi triennali per i
neo-assunti con il «contratto a tutele crescenti» non corrispondono
significativi risultati. Con il taglio degli sgravi sono diminuite
drasticamente le assunzioni. Per l’Inps, a marzo, i contratti a tempo
indeterminato veri e propri erano solo 22 mila. I contratti a termine,
inclusi quelli stagionali, sono 315 mila. Questo è l’esito
dell’assistenzialismo statale alle imprese. Liberisti, con i soldi
pubblici: la cifra di un’epoca.
Come il sole d’estate, e la neve
d’inverno, immancabilmente ieri è tornata a tuonare la grancassa di
Renzi. L’aumento dell’occupazione ad aprile è stato celebrato con un
messaggio d’ordinanza su twitter. «Vogliamo continuare: lavoro per
tutti, non reddito di cittadinanza con sussidi e assistenzialismo». La
polemica è contro il Movimento 5 Stelle che sostiene il «reddito di
cittadinanza», in realtà un «reddito minimo». Letta in un contesto
«decrittato», la dichiarazione prende tutt’altro senso: i sussidi e
l’assistenzialismo sono alle imprese e il lavoro, tanto evocato, è in
maggioranza quello precario.