Il Fatto 6.6.17
Una nuova sinistra per l’eguaglianza
di Anna Falcone e Tomaso Montanari
Siamo di fronte a una decisione urgente. Che non è decidere quale combinazione di sigle potrà sostenere il prossimo governo fotocopia, ma come far sì che nel prossimo Parlamento sia rappresentata la parte più fragile di questo Paese e quanti, giovani e meno giovani, in seguito alla crisi, sono scivolati nella fascia del bisogno, della precarietà, della mancanza di futuro e di prospettive. La parte di tutti coloro che da anni non votano perché non credono che la politica possa avere risposte per la loro vita quotidiana: coloro che non sono garantiti perché senza lavoro, o con lavoro precario; coloro che non arrivano alla fine del mese, per stipendi insufficienti o pensioni da fame.
La grande questione del nostro tempo è questa: la diseguaglianza. L’infelicità collettiva generata dal fatto che pochi lucrano su risorse e beni comuni in modo da rendere infelici tutti gli altri. La scandalosa realtà di questo mondo è un’economia che uccide: queste parole radicali – queste parole di verità – non sono parole pronunciate da un leader politico della sinistra, ma da Papa Francesco. La domanda è: “È pensabile trasporre questa verità in un programma politico coraggioso e innovativo”? Noi pensiamo che non ci sia altra scelta.
E pensiamo che il primo passo di una vera lotta alla diseguaglianza sia portare al voto tutti coloro che vogliono rovesciare questa condizione e riconquistare diritti e dignità. Per far questo è necessario aprire uno spazio politico nuovo, in cui il voto delle persone torni a contare. Soprattutto ora che sta per essere approvata l’ennesima legge elettorale che riporterà in Parlamento una pletora di “nominati”. Soprattutto in un quadro politico in cui i tre poli attuali: la Destra e il Partito democratico – purtroppo indistinguibili nelle politiche e nell’ispirazione neoliberista – e il Movimento 5 Stelle o demoliscono o almeno non mostrano alcun interesse per l’uguaglianza e la giustizia sociale. Ci vuole, dunque, una Sinistra unita, in un progetto condiviso e in una sola lista. Una grande lista di cittadinanza e di sinistra, aperta a tutti: partiti, movimenti, associazioni, comitati, società civile. Un progetto capace di dare una risposta al popolo che il 4 dicembre scorso è andato in massa a votare “No” al referendum costituzionale, perché in quella Costituzione si riconosce e da lì vorrebbe ripartire per attuarla e non limitarsi più a difenderla. Per troppi anni ci siamo sentiti dire che la partita si vinceva al centro, che era indispensabile una vocazione maggioritaria e che il punto era andare al governo. Da anni contempliamo i risultati: una classe politica che si diceva di sinistra è andata al governo per realizzare politiche di destra. Ne portiamo sulla pelle le conseguenze, e non vogliamo che torni al potere per completare il lavoro.
Serve dunque una rottura e, con essa, un nuovo inizio: un progetto politico che aspiri a dare rappresentanza agli italiani e soluzioni innovative alla crisi in atto, un percorso unitario aperto a tutti e non controllato da nessuno, che non tradisca lo spirito del 4 dicembre, ma ne sia, anzi, la continuazione. Un progetto che parta dai programmi, non dalle leadership e metta al centro il diritto al lavoro, il diritto a una remunerazione equa o a un reddito di dignità, il diritto alla salute, alla casa, all’istruzione. Un progetto che costruisca il futuro sull’economia della conoscenza e su un modello di economia sostenibile, non sul profitto, non sull’egemonia dei mercati sui diritti e sulla vita delle persone. Un progetto che dia priorità all’ambiente, al patrimonio culturale, a scuola, università e ricerca: non alla finanza; che affronti i problemi di bilancio contrastando evasione ed elusione fiscale, e promuovendo equità e progressività fiscale: non austerità e politiche recessive. Un simile progetto, e una lista unitaria, non si costruiscono dall’alto, ma dal basso. Con un processo di partecipazione aperto, che parta dalle liste civiche già presenti su tutto il territorio nazionale, e che si apra ai cittadini, per decidere insieme, con metodo democratico, programmi e candidati. Crediamo, del resto, che il cuore di questo programma sia già scritto nei principi fondamentali della Costituzione, e specialmente nel più importante: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale, e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3).
È su questa piattaforma politica, civica e di sinistra, che vogliamo costruire una nuova rappresentanza. È con questo programma che vogliamo chiamare le italiane e gli italiani a votare.
Vogliamo che sia chiaro fin da ora: noi non ci stiamo candidando a guidarla. Anzi, non ci stiamo candidando a nulla: anche perché le candidature devono essere scelte dagli elettori. Ma in un momento in cui gli schemi della politica italiana sembrano sul punto di ripetersi immutabili, e immutabilmente incapaci di generare giustizia ed eguaglianza, sentiamo – a titolo personale, e senza coinvolgere nessuna delle associazioni o dei comitati di cui facciamo parte – la responsabilità di fare questa proposta. L’unica adeguata a questo momento cruciale. Perché una sinistra di popolo non può che rinascere dal popolo. Invitiamo a riunirsi a Roma il prossimo 18 giugno tutti coloro che si riconoscono in questi valori, e vogliono avviare insieme questo processo.
*Vicepresidente Comitato per il No alla riforma costituzionale **Presidente di Libertà e Giustizia
di Anna Falcone* e Tomaso Montanari
il manifesto 6.6.17
Un’alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza
Il 18 giugno a Roma. È necessario uno spazio politico nuovo, ci vuole una sinistra unita e una sola, grande lista di cittadinanza aperta a tutti: partiti, movimenti, associazioni, comitati
Anna Falcone, Tomaso Montanari
Siamo di fronte ad una decisione urgente. Che non è decidere quale combinazione di sigle potrà sostenere il prossimo governo fotocopia, ma come far sì che nel prossimo Parlamento sia rappresentata la parte più fragile di questo Paese e quanti, giovani e meno giovani, in seguito alla crisi, sono scivolati nella fascia del bisogno, della precarietà, della mancanza di futuro e di prospettive. La parte di tutti coloro che da anni non votano perché non credono che la politica possa avere risposte per la loro vita quotidiana: coloro che non sono garantiti perché senza lavoro, o con lavoro precario; coloro che non arrivano alla fine del mese, per stipendi insufficienti o pensioni da fame.
La grande questione del nostro tempo è questa: la diseguaglianza. L’infelicità collettiva generata dal fatto che pochi lucrano su risorse e beni comuni in modo da rendere infelici tutti gli altri.
La scandalosa realtà di questo mondo è un’economia che uccide: queste parole radicali – queste parole di verità – non sono parole pronunciate da un leader politico della sinistra, ma da Papa Francesco. La domanda è: «E’ pensabile trasporre questa verità in un programma politico coraggioso e innovativo»? Noi pensiamo che non ci sia altra scelta. E pensiamo che il primo passo di una vera lotta alla diseguaglianza sia portare al voto tutti coloro che vogliono rovesciare questa condizione e riconquistare diritti e dignità.
Per far questo è necessario aprire uno spazio politico nuovo, in cui il voto delle persone torni a contare.
Soprattutto ora che sta per essere approvata l’ennesima legge elettorale che riporterà in Parlamento una pletora di “nominati”. Soprattutto in un quadro politico in cui i tre poli attuali: la Destra e il Partito Democratico – purtroppo indistinguibili nelle politiche e nell’ispirazione neoliberista – e il Movimento 5 Stelle o demoliscono o almeno non mostrano alcun interesse per l’uguaglianza e la giustizia sociale.
Ci vuole, dunque, una Sinistra unita, in un progetto condiviso e in una sola lista. Una grande lista di cittadinanza e di sinistra, aperta a tutti: partiti, movimenti, associazioni, comitati, società civile. Un progetto capace di dare una risposta al popolo che il 4 dicembre scorso è andato in massa a votare “No” al referendum costituzionale, perché in quella Costituzione si riconosce e da lì vorrebbe ripartire per attuarla e non limitarsi più a difenderla.
Per troppi anni ci siamo sentiti dire che la partita si vinceva al centro, che era indispensabile una vocazione maggioritaria e che il punto era andare al governo. Da anni contempliamo i risultati: una classe politica che si diceva di sinistra è andata al governo per realizzare politiche di destra. Ne portiamo sulla pelle le conseguenze, e non vogliamo che torni al potere per completare il lavoro.
Serve dunque una rottura e, con essa, un nuovo inizio: un progetto politico che aspiri a dare rappresentanza agli italiani e soluzioni innovative alla crisi in atto, un percorso unitario aperto a tutti e non controllato da nessuno, che non tradisca lo spirito del 4 dicembre, ma ne sia, anzi, la continuazione.
Un progetto che parta dai programmi, non dalle leadership e metta al centro il diritto al lavoro, il diritto a una remunerazione equa o a un reddito di dignità, il diritto alla salute, alla casa, all’istruzione.
Un progetto che costruisca il futuro sull’economia della conoscenza e su un modello di economia sostenibile, non sul profitto, non sull’egemonia dei mercati sui diritti e sulla vita delle persone.
Un progetto che dia priorità all’ambiente, al patrimonio culturale, a scuola, università e ricerca: non alla finanza; che affronti i problemi di bilancio contrastando evasione ed elusione fiscale, e promuovendo equità e progressività fiscale: non austerità e politiche recessive.
Un simile progetto, e una lista unitaria, non si costruiscono dall’alto, ma dal basso. Con un processo di partecipazione aperto, che parta dalle liste civiche già presenti su tutto il territorio nazionale, e che si apra ai cittadini, per decidere insieme, con metodo democratico, programmi e candidati.
Crediamo, del resto, che il cuore di questo programma sia già scritto nei principi fondamentali della Costituzione, e specialmente nel più importante: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale, e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3).
È su questa piattaforma politica, civica e di sinistra, che vogliamo costruire una nuova rappresentanza. È con questo programma che vogliamo chiamare le italiane e gli italiani a votare.
Vogliamo che sia chiaro fin da ora: noi non ci stiamo candidando a guidarla. Anzi, non ci stiamo candidando a nulla: anche perché le candidature devono essere scelte dagli elettori. Ma in un momento in cui gli schemi della politica italiana sembrano sul punto di ripetersi immutabili, e immutabilmente incapaci di generare giustizia ed eguaglianza, sentiamo – a titolo personale, e senza coinvolgere nessuna delle associazioni o dei comitati di cui facciamo parte – la responsabilità di fare questa proposta. L’unica adeguata a questo momento cruciale.
Perché una sinistra di popolo non può che rinascere dal popolo.
Invitiamo a riunirsi a Roma il prossimo 18 giugno tutti coloro che si riconoscono in questi valori, e vogliono avviare insieme questo processo.
Repubblica 6.6.17
Gli interessi di bottega
di Gustavo Zagrebelsky
CHI sa perché si debba chiudere la legislatura qualche mese prima della normale scadenza e votare in autunno? Se ce lo chiediamo, non sappiamo rispondere. Se lo chiedessimo, non avremmo chiare risposte. Infatti, non ci sono ragioni evidenti e, in mancanza, la stragrande maggioranza dei cittadini interpellati è per la prosecuzione fino alla scadenza naturale: c’è un governo, ci sono leggi importanti da approvare definitivamente, ci sono scadenze legislative importantissime da rispettare in materia finanziaria, ci sono rischi per la tenuta dei conti pubblici, ci sono apprensioni per le conseguenze di possibili violazioni dei parametri europei di stabilità finanziaria, per non parlare dei rischi della speculazione internazionale.
Vorremmo una risposta che riguardi non gli interessi di questo o quel partito in Parlamento e nemmeno di tutti o della maggior parte dei partiti, ma il bene del nostro Paese, quello che si chiama il “bene comune”. Nel nostro sistema costituzionale, a differenza di altri, non è previsto l’auto-scioglimento deciso dai partiti per propri interessi o timori. La durata prefissata e normale della legislatura (cinque anni) è una garanzia di ordinato e stabile sviluppo della vita politica.
LA “STABILITÀ” è stato il Leitmotiv invocato quando faceva comodo, anche quando si sono rese evidenti ragioni oggettive di scioglimento delle Camere, come dopo la dichiarazione d’incostituzionalità della legge elettorale, all’inizio dell’anno 2014.
Una risposta istituzionale non c’è. Ci sono anzi molta ipocrisia e reticenza che nascondono ragioni che sono, infatti, di mero interesse partitico. Da parte del maggior partito di maggioranza, il Partito democratico, si dice che votare in autunno o alla scadenza normale nella primavera dell’anno venturo non fa una grande differenza, ma poi si lavora forsennatamente a una legge elettorale nuova per andare al voto il più presto possibile. Lo muove il desiderio del suo segretario e della cerchia che gli sta intorno di una rivincita dopo la sconfitta nel referendum del 4 dicembre? Oppure, il desiderio di fare piazza pulita degli oppositori interni, privandoli della candidatura alle elezioni? Oppure, la volontà di ostacolare, strozzando i tempi, l’organizzazione di forze concorrenziali a sinistra? Oppure, il timore di dover sostenere misure impopolari da “lacrime e sangue” in autunno, che farebbero perdere consenso e voti alle elezioni a scadenza normale? Oppure, perfino la volontà di non dover sostenere riforme importanti e da lungo tempo attese su diritti fondamentali, come quelle che questo giornale ha segnalato e continua a segnalare, riforme che potrebbero essere in dirittura d’arrivo ma col rischio di far perdere consensi tra porzioni dei suoi elettori (misure antimafia, riforme della giustizia, lo
ius soli al posto dello ius sanguinis per la cittadinanza, il cosiddetto testamento biologico, il delitto di tortura, ecc.)? Dal Pd viene la spinta e gli altri partiti pro-elezioni anticipate si accodano per loro ragioni: chi perché pensa di poter subito incassare successi (M5Stelle, Lega), chi per rientrare in gioco (Forza Italia).
C’è pervicacia, ma se le ragioni sono quelle anzidette le si dovrebbe definire “interessi di bottega”. Al di sopra, ci dovrebbe essere l’interesse nazionale di cui custodi sono il Presidente del Consiglio e il Presidente della Repubblica. Né l’uno né l’altro hanno il potere di costringere qualcuno, se non vuole più, a sostenere il governo in carica, ma entrambi hanno almeno il potere di promuovere un chiarimento in Parlamento, prima di qualunque crisi di governo e di scioglimento delle Camere, e di chiamare i partiti ad assumere esplicitamente le loro responsabilità di fronte al Paese: “esplicitamente”, cosa in questa fase non facile per assenza di argomenti degni della posta in gioco ma, proprio per questo, doverosa.
Il voto anticipato s’intreccia con la nuova legge elettorale senza la quale, si dice, non si può votare. Poiché il voto è urgente, la legge è urgentissima. Tralascio le assurdità contenute nel testo iniziale, spiegabili in parte col voler continuare con i “nominati” e non con gli “eletti”, in parte con la cementificazione degli oligarchi di partito, in parte con la sfrenata fantasia creativa degli autori. Di questo s’è ampiamente scritto e detto e, del resto, ad alcuni dei macroscopici abusi sembra che qualche volenteroso voglia porre rimedio. Ciò che colpisce, sopra tutto, è che, pur di avere una legge, si rinnegano tante cose dette centinaia di volte nel passato recente: che non ci sarebbero più stati compromessi dopo le elezioni (gli “inciuci”); che “la sera stessa” si sarebbe saputo chi avrebbe vinto e governato per cinque anni, che il bipolarismo e l’alternanza erano dati acquisiti e che mai e poi mai si sarebbe ritornati agli obbrobri della prima repubblica. Tutto questo era diventato quasi una questione di fede, ma in un lampo s’è dileguato. Anzi, si sente il contrario. Certo, proporzionale o maggioritario è questione opinabile e, infatti, le opinioni divergono. Ma, che si sia passati da un momento all’altro, senza una riflessione di merito, da ballottaggi e premi di maggioranza, cioè dalla logica maggioritaria, alla proporzionale, questo è piuttosto sconcertante e si spiega con la voglia di voto anticipato. Che cosa potrà accadere, se si potranno formare maggioranze e quali, se si dovrà tornare a rivotare, se si dovrà rimettere mano, ancora una volta, alla legge elettorale, tutto questo sembra interessare poco o nulla i partiti che chiedono elezioni subito. Vogliono cogliere il loro frutto. Poi si vedrà.
E pure, la legge elettorale non è solo un mezzo di realizzazione d’interessi immediati, ma è una prefigurazione del sistema delle relazioni politiche a venire e di questo si tace. Che cosa s’immagina? Di poter governare da soli? Se non da soli, con chi? Il dopo, naturalmente, è nelle mani degli elettori, ma questi avranno pure il diritto di sapere prima come sarà poi utilizzato il loro voto! Ma, sul dopo esistono sospetti, reticenze e, sulle ipotesi meno presentabili ai propri elettori, silenzi o tiepide smentite. Come potranno orientarsi gli elettori? Non è la stessa cosa se il Pd si prepara a una coalizione con Forza Italia, oppure con una qualche formazione alla sua sinistra; non è la stessa cosa se il M5Stelle è o non è disposto a collaborare con la Lega. Non si può trattare gli elettori come burini e considerare i loro voti come “bottino” o massa di manovra. Meritano altro. L’astensione diffusa dovrebbe essere presa in considerazione come un segnale di secessione interiore: un segnale ancora più forte a sentire i tanti, sempre di più, che dicono che a queste condizioni non sono disposti a votare ancora.
Sia consentito un accenno personale, che forse rispecchia uno stato d’animo anche d’altri. Guardo le convulsioni di questa fine-legislatura e non posso fare a meno di pensare alla Nave dei folli, la Stultifera navis di Sebastian Brant. Potrebbe essere istruttiva l’immagine che ne diede Albrecht Dürer per l’edizione del 1494. Sono stipati in uno spazio stretto, non sanno dove vanno; chi indica avanti, chi guarda indietro e chi a destra o a sinistra; altri sono inebetiti; uno è colpito da un pugno e cade in mare. Tutti hanno le classiche orecchie d’asino. Non c’è allegria. È un triste carnevale. L’unico che sembra divertirsi sta attaccato alla fiaschetta. La pazzia, però, è generale. Nessuno si preoccupa di dirigere la nave. Non c’è segno di consapevolezza del pericolo che incombe. Che un minuto dopo si possa affondare tutti insieme, non interessa a nessuno. Questa è la pazzia: stare o agitarsi ciascuno per proprio conto, girare in tondo, ciechi, senza connessioni, senza futuro. Credere di poter sopravvivere solo sopravvivendo. S’avvicinano le elezioni e la frenesia sulla nave impazza. Nella poesia di Rimbaud, il Bateau ivre danza sui flutti, leggero come un tappo, ed è abbandonato alle correnti. Noi, invece, l’abbiamo tra noi e danziamo con lui.
Corriere 6.6.17
Legge elettorale in Aula, scontro Pd-sinistra
Via libera in commissione al proporzionale con soglia al 5%. Braccio di ferro sul disegno dei collegi Renzi a Pisapia: il nemico non siamo noi. Bersani: irresponsabile votare ora. Grillo risponde: Mdp ha paura
Dino Martirano
ROMA La legge proporzionale con sbarramento al 5% — concordata da Pd, FI, M5S e Lega — ha superato il primo giro di boa in commissione per sbarcare oggi in Aula alla Camera: e già domani, alle 13.30, si inizia a votare con molte incognite per i voti segreti. Tanta fretta sottintende la data del 24 settembre per le elezioni anticipate anche se i 4 sottoscrittori del patto continuano, ad ogni passo, a citare l’autonomia assoluta del capo dello Stato sul tema scioglimento delle Camere. E così la presidente Laura Boldrini ricorda a tutti che le «elezioni anticipate non sono un automatismo».
Le manovre di disturbo tra i partiti sono già iniziate. Matteo Renzi si rivolge a Giuliano Pisapia che addita come un male le larghe intese Pd-FI e insiste sul «voto utile al Pd»: «Quando la sinistra radicale si renderà conto che non siamo noi gli avversari contro cui fare polemica ogni momento sarà un gran giorno. Ogni voto dato ai partitini aiuterà lo schema delle larghe intese». Ma anche il ministro Andrea Orlando (Pd) «parla di accordo con Berlusconi come ipotesi innaturale». E Pier Luigi Bersani (Articolo 1) spiega il perché di tanta fretta del Pd e dei grillini: «Chi non governa vuole incassare il risultato, chi governa non vuole affrontare la finanziaria».
Ci pensa poi il blog di Beppe Grillo a bastonare Mdp, ribattezzato «Mantenimento delle poltrone»: «Il nuovo partito dei cambiacasacca ha una paura fottuta di andare alle elezioni per questo stanno sabotando al legge». Replica lampo di Alfredo D’Attorre (Mdp) che aveva chiesto ai grillini, senza successo, di votare per le preferenze e per il voto disgiunto: «Grillo è stato beccato con le mani nella marmellata».
Da domani, nel segreto dell’urna, un fronte trasversale maschile si preparerebbe a far vacillare l’equilibrio di genere 60%-40% previsto nei collegi uninominali, oltre che per i listini e i capilista. È stata invece aggiustata in corso d’opera la norma che azzera le multicandidature e che, per come era stata approvata, non vietava a un candidato di presentarsi anche in 28 circoscrizioni. La nuova formulazione, sollecitata da Giuseppe Lauricella (Pd, Orlando), apprezzata dai grillini e dalle deputate di FI, è decisamente più chiara.
La battaglia sui vecchi collegi del ‘93 — disegnati sui dati del censimento del ’91 e ora ripescati perché la fretta di andare al voto non permette di ridisegnarli — mette insieme Ap, Mdp e FdI: in particolare viene contestato che al Senato ci saranno 15 mega collegi (in Friuli, Emilia, Umbria, Abruzzo, Basilicata). Infine è passata tra le polemiche anche la norma che impone solo ad alcuni (Articolo 1, Ala, Radicali) l’obbligo di raccogliere le firme per presentare i candidati.
La Stampa 6.6.17
Adesso Renzi è preoccupato
Le critiche di Prodi possono aprire una diaspora elettorale
Il possibile esodo del Professore verso Pisapia agita il Pd
Fabio Martini
Ora Matteo Renzi confida di cominciare ad essere sinceramente «preoccupato». In pubblico non lo dirà mai, non appartiene alla sua natura tradire emozioni o paure autentiche e d’altra parte i politici son fatti quasi tutti così. Ma le recenti prese di posizione, pubbliche e informali, di Romano Prodi hanno fatto scattare l’allarme rosso dalle parti del Nazareno. In un’intervista al “Fatto Quotidiano”, il Professore è arrivato a dire: «Abito in una tenda vicina al Pd. Ma è una tenda canadese, pratica: si può mettere nello zaino e rimettersi in cammino per spostarsi...». Come dire: se sarà confermata la deriva proporzionalista voluta da Renzi e Berlusconi, ne trarrò le conseguenze. Per guardare con simpatia in direzione di Giuliano Pisapia? Questo Prodi non lo dice e in privato sostiene che di «tornare a far politica» non ci penso proprio. Eppure la novità c’è ed è di natura psicologica.
Da qualche mese il Professore sta vivendo una seconda giovinezza: parla senza reticenze delle vicende italiane, deve dir di no a continue richieste di intervista e giorni fa - a Modena - alla prima nazionale del suo nuovo libro, “Il piano inclinato”, si è formata una lunga fila di persone che aspettavano la firma di una copia: una immagine eloquente che altri avrebbero trasformato in una immagine virale, ma che gli amici del Professore si sono rifiutati di immortalare.
E davanti alla rinnovata “forza tranquilla” rappresentata dal Professore, Renzi teme un effetto-trascinamento che faccia franare tutto un mondo - politico ed intellettuale laico e cattolico - che finora è rimasto “dalle parti del Pd”. E teme che la frana vada a depositarsi “dalle parti” di Giuliano Pisapia, che - guarda caso - ha un buon rapporto personale con Romano Prodi e anche con Enrico Letta.
E infatti, ieri, per la prima volta da quando è leader del Pd, Renzi ha riservato a Pisapia una messa a punto garbata, ma con dentro una goccia di veleno. Solo semantica ma indicativa. Scrive Renzi sulla sua Enews: «Pisapia ha detto: come farà il PD a allearsi con chi ha fatto la legge per depenalizzare il falso in bilancio? Noi non vogliamo allearci, ma ci piacerebbe anche che venisse ricordato che la legge che depenalizzava il falso in bilancio l’abbiamo abolita noi». E poi con nonchalance: «Quando la sinistra radicale si renderà conto che non siamo noi gli avversari, sarà un gran giorno». Chiara l’etichetta che Renzi immagina di appioppare a Pisapia: altroché «centrosinistra», siete la sinistra radicale.
Ma il problema vero ora è Prodi. Il leader del Pd sa che il Professore è l’unico personaggio politico che abbia mantenuto una significativa credibilità in mezzo all’opinione pubblica di centrosinistra e dunque un suo eventuale distacco rischierebbe di aprire una vera e propria diaspora nell’elettorato, tanto più se il suo disincanto verso il Pd fosse accompagnato da una chiara indicazione di rotta in direzione di Giuliano Pisapia. Oltretutto l’allarme di Prodi arriva a conclusione di analoghe riflessioni da parte di altri personaggi che riscuotono ascolto tra l’opinione pubblica: oltre a Pier Luigi Bersani, che ha già lasciato il Pd, forti lamentazioni negli ultimi giorni sono state pronunciate verso la politica renziana da parte di Walter Veltroni, Rosy Bindi ed Enrico Letta.
Ma l’unico che può determinare la slavina è Prodi. Ecco perché Ettore Rosato, presidente dei deputati del Pd, si incarica di lanciare messaggi di pace: «Io, i vertici del Pd, Matteo Renzi, faremo di tutto» per evitare che qualcuno vada via dal partito, «il Pd è casa di tutti, anche di Rosy Bindi che è critica da diverso tempo», «ho una stima incondizionata per Prodi, e il suo giudizio come quello di Veltroni è molto importante». E su Pisapia, Rosato è massimamente aperturista «Ci farei qualsiasi tipo di governo. Anche con D’Alema, perché l’interesse del Paese viene prima». Come dire: è già superato il veto che non più tardi di qualche giorno fa proprio Matteo Renzi espresse nei confronti di Massimo D’Alema. È la conferma che il disincanto di Romano Prodi fa paura.
Corriere 6.6.17
Verso il voto a settembre con l’incognita del Quirinale
di Massimo Franco
L’ accelerazione verso le elezioni è nei fatti: al punto che Paolo Gentiloni sta esaminando i provvedimenti da approvare in extremis prima che siano sciolte le Camere. La controprova di un asse ferreo sulla riforma tra Pd, FI, M5S, più la Lega, è l’attacco di Beppe Grillo agli scissionisti di Mdp: i nemici giurati di Matteo Renzi. Il Movimento li bolla, sfruttando l’acronimo, come «Mantenimento delle Poltrone». E, schierandosi col segretario dem, dice che per quello temono il voto anticipato. Si parla addirittura del 24 settembre, giorno di elezioni anche tedesche, come possibile data.
Sembra tutto così scontato che c’è da chiedersi se finirà davvero così; soprattutto, se il capo dello Stato, Sergio Mattarella, dopo avere preso atto della volontà dei partiti, terrà conto dei timori diffusi in Italia e in Europa. L’ex premier Massimo D’Alema vede «un patto di potere per espropriare il Colle». E la presidente della Camera, Laura Boldrini, avverte: «Non c’è automatismo con il voto anticipato». Il capo del governo Paolo Gentiloni aspetta di sapere, e intanto cerca di governare, sapendo che c’è chi confida in un «incidente» al Senato per aprire la crisi.
Anche se una riforma condivisa va salutata positivamente, e Renzi infatti dice di esserne fiero. D’altronde, giuristi insigni ritengono che i pericoli di incostituzionalità siano ridotti. Alcune norme sono state corrette; altre solo in parte, come i collegi elettorali. Quelli nuovi sono stati ridefiniti sulla base di un censimento risalente al 1991, dunque molto vecchio, preparato per il sistema del Mattarellum del 1993. Ma erano gli unici pronti, e il Pd li ha utilizzati per la fretta di chiudere, sebbene col rischio di fare un pasticcio. Il problema non è la riforma elettorale, tuttavia: è il «dopo».
Allarma l’incognita sulle alleanze, perché per ora non si vedono maggioranze possibili. Preoccupa ancora di più il contraccolpo che un’Italia rigettata nell’instabilità può provocare sui mercati finanziari. E, sul piano dei rapporti politici, l’eventualità di un patto governativo tra Renzi e Silvio Berlusconi alimenta la conflittualità tra i dem. Il Pd non è pacificato dopo la scissione. Anzi: l’idea di una convergenza con Forza Italia spinge esponenti di peso come Romano Prodi su una posizione di attesa molto critica. C’è un filone ulivista, ma anche vicino al Guardasigilli Andrea Orlando, che appare come in bilico: aspetta di capire come finirà la trattativa per decidere se rimanere o andare via.
Di fatto, si indovina una seconda scissione in incubazione, col movimento dell’ex sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, come possibile contenitore della sinistra ostile a Renzi. Il fatto che nella riforma il Pd abbia voluto mantenere l’indicazione del «capo politico» come candidato a premier mostra la volontà disperata del segretario di puntare ancora su Palazzo Chigi. D’altronde, provocare la crisi del terzo governo a guida Pd in una sola legislatura, e a pochi mesi dalla scadenza, si giustifica solo con l’ansia di riprendere il potere. Si tratta di un azzardo che sarà difficile, però, spiegare all’opinione pubblica; e che si ritiene favorisca un M5S non a caso, di colpo, ammansito.
Corriere 6.6.17
I timori sull’ascesa dopo le parole di Prodi e Bindi
Renzi, il voto utile e l’obbligo di frenare i «cugini» a sinistra
di Francesco Verderami
ROMA La nuova legge elettorale è la Yalta della politica italiana, perché introducendo la soglia di sbarramento del 5%, Renzi, Grillo, Berlusconi e Salvini prevedono di spartirsi i seggi del futuro Parlamento. Ognuno con i propri obiettivi. Quello del leader democrat è chiaro: tornare a Palazzo Chigi, con la consapevolezza che — a meno di un clamoroso exploit nelle urne — la strada per arrivarci sarà un governo di larghe intese. Il suo progetto poggia su una scommessa, e cioè che nessun’altra forza — oltre i quattro grandi partiti — superi la soglia d’accesso. Ogni 5% fuori dalla sua contabilità comprometterebbe quel disegno.
E i primi guai per Renzi iniziano ad arrivare dalla sua sinistra. Campo progressista è accreditato di centrare il risultato, per una serie di fattori politici che al momento sembrano giocare a favore di Pisapia: oltre all’immagine dell’ex sindaco di Milano e al consenso degli scissionisti, è il dissenso di un pezzo del Pd a offrirgli il vero boos t . Le prese di posizione di Enrico Letta e della Bindi, unite ai segnali di Prodi — che si dice pronto a levare la propria tenda in caso di accordo tra Pd e Forza Italia — portano in dote il brand di un «nuovo centrosinistra», sono un richiamo verso un pezzo di elettorato nostalgico dell’Ulivo. E un’emorragia di voti democrat consentirebbe a Campo progressista di superare lo sbarramento.
C’è un motivo quindi se il Pd ha messo in atto le prime contromisure, se Renzi ieri si è rivolto a Pisapia dicendo che «non siamo noi il nemico», se Rosato ha sottolineato che «noi siamo pronti a fare un governo con voi». I vertici democratici ritengono infatti che i «cugini di sinistra» possano arrivare «al 6-7%» alle urne, «se riusciranno a evitare che D’Alema venga visto dagli elettori come il loro frontman». E almeno su questo punto anche gli scissionisti concordano. Sul resto ritengono complicata un’intesa in proiezione futura: già considerano «inaccettabile» una collaborazione al governo con Pd e Forza Italia, «men che meno potremmo appoggiare un gabinetto guidato da Renzi». Bersani è stato sintetico quanto diretto su questa ipotesi nelle riunioni: «Non in mio nome». E dicono faccia a gara con Pisapia a chi si mostra più duro.
Nel Pd, analizzando lo scenario del dopo-voto, prevedono però che — qualora Pisapia entrasse in Parlamento e fosse decisivo per la nascita del governo — sarebbero le pressioni europee e la moral suasion del Colle a far cambiare approccio ai «cugini». Ma dinnanzi a un «renzusconi», Campo progressista chiederebbe che fuori dall’esecutivo restasse Renzi (oltre Berlusconi). E Renzi, per evitare la minaccia, dovrà fare il pieno di consensi. Al Nazareno stimano che il Pd possa arrivare «fino al 35%», attraverso una campagna elettorale di cui già si scorgono le prime mosse: intanto verrà polarizzato lo scontro con Grillo che — raccontano esponenti vicini al segretario — farà di Berlusconi «il vaso di coccio» del duello; inoltre si insisterà sul messaggio del voto utile. Già ieri Renzi l’ha fatto: «Per evitare le larghe intese non bisognerà votare i piccoli partiti».
L’idea del «voto utile», propria dei modelli maggioritari, si scontrerà con la spinta al «voto identitario», che è tipica della futura legge elettorale proporzionale. Ed è questa la scommessa dei centristi e della destra. Il primo affondo per Fratelli d’Italia è arrivato ieri da Rampelli, che ha definito Renzi, Grillo e Berlusconi «tre rinnegati». Se la Meloni superasse il 5% — come ha spiegato Pagnoncelli sul Corriere — non ci sarebbero i numeri per le larghe intese: un tema su cui FdI — se costretto — darà battaglia al Cavaliere. Quanto ad Ap, che lavora a un rassemblemen t centrista, l’analisi di Alfano parte dai numeri, dal risultato delle Europee, dove Ncd e Udc presero insieme il 4,3%, ma a fronte della massima espansione del Pd (40,8%) e di una Forza Italia che ottenne un risultato (16,8%) superiore al dato odierno dei sondaggi. E non c’è dubbio che se i centristi riuscissero nell’impresa di entrare in Parlamento non si affannerebbero per il ritorno di Renzi a Palazzo Chigi. Il catalogo per Renzi e i suoi avversari è questo. Poi magari vinceranno i Cinquestelle e...
Corriere 6.6.17
Linea dura con Teheran, la Cia sceglie il Principe Oscuro
Washington affida le operazioni a Michael D’Andrea, l’agente che guidò la caccia a Bin Laden
Giuseppe Sarcina
WASHINGTON I soprannomi sono già un programma: «Principe Oscuro», «Ayatollah Mike». Michael D’Andrea è stato per anni il regista delle operazioni coperte antiterrorismo della Cia. È l’uomo che ha guidato la caccia a Osama Bin Laden, terminata con l’assalto al rifugio di Abbottabad e l’uccisione dell’Asso di picche, il nemico numero uno, il 2 maggio 2011.
Donald Trump ora gli ha affidato un altro obiettivo: l’Iran. La notizia è stata pubblicata dal New York Times , nessuna conferma ufficiale: D’Andrea resta un agente sotto copertura, dalla biografia misteriosa.
È nato nella Virginia settentrionale, dovrebbe avere più o meno 55 anni, 38 dei quali passati alla Cia, dove ha occupato fino al 2015 il posto di direttore del «Centro del controterrorismo». Un personaggio perfetto anche per ispirare Hollywood: è lui il «lupo» nel film Zero Dark Thirty che racconta l’inseguimento al leader di Al Qaeda. Ma, oggi, nella scelta di Trump c’è molta sostanza politica. Punto di partenza è il rapporto dei Servizi presentato alla Commissione Intelligence del Senato qualche settimana fa. È una lista, allarmante, delle «minacce imminenti» per la sicurezza degli Usa. Al primo posto c’è, naturalmente, l’Isis, ma subito dopo il documento indica l’Iran, considerato lo sponsor principale del terrorismo di matrice islamica radicale.
L’amministrazione Usa sta smantellando il faticoso lavoro diplomatico di Barack Obama. Gli Stati Uniti non hanno un’ambasciata a Teheran e l’accordo sul nucleare resta in bilico. Nel viaggio di fine maggio a Riad, Trump aveva chiesto agli oltre 50 leader arabi e musulmani convocati dal re saudita Salman di «isolare» il governo del riformista Hassad Rouhani.
Toccherà alla Cia, o meglio proprio a D’Andrea, tradurre l’appello in una rete quotidiana di vigilanza e di iniziative ostili, naturalmente iper segrete. «Il Principe Oscuro» ha una lunga esperienza nella «guerra sporca». Dopo l’addestramento ha frequentato praticamente tutti i campi di battaglia in cui erano impegnati i militari Usa. Ha vissuto diversi anni in Africa, poi ha partecipato al conflitto in Iraq. È stato tra i primi a comandare le spedizioni dei droni.
In Iraq ha conosciuto una donna musulmana: l’ha sposata e si è convertito all’Islam. Da quel momento è diventato anche l’«Ayatollah Mike». Non ha cambiato abitudini, però.
Il Sole 6.6.17
La politica dei paesi arabi
È Teheran il vero obiettivo
di Alberto Negri
L’isolamento del Qatar da parte dell’Arabia Saudita, degli Stati del Golfo e dell’Egitto è la conseguenza di una ruggine antica ma soprattutto del viaggio di Donald Trump a Riad il 19 maggio. Il presidente americano ha abbracciato la visione saudita, condivisa anche da Israele, che mette sullo stesso piano la lotta ai jihadisti dell’Isis con quella alla Repubblica islamica dell’Iran. In cambio di 110 miliardi di dollari di commesse militari, gli Stati Uniti hanno quasi “venduto” la testa dell’emiro al-Thani, simpatizzante dell’Iran, che potrebbe rischiare la sorte del padre Hamad, l’uomo che aveva “inventato” il Qatar, con al-Jazeera e una politica estera indipendente: per questo fu costretto dalle pressioni saudite ad abdicare in favore del figlio nel 2013.
L’accusa dei sauditi, appoggiati dall’Egitto, è che il Qatar sostiene i Fratelli Musulmani, i gruppi salafiti e il movimento palestinese Hamas. Tutto questo è assolutamente vero. Ma le accuse al Qatar di favorire il terrorismo potrebbero essere rivolte anche all’Arabia Saudita e alle altre monarchie del Golfo. Quindi per i sauditi si tratta di trovare un capro espiatorio del terrorismo jihadista per poter contrastare il suo vero rivale nel Golfo, l’Iran. È questa la moneta di scambio con gli Usa, che in Qatar hanno ancora un quartier generale con 10mila soldati, e che avrebbero voluto fondare una “Nato araba” anti-terrorismo oggi trasformata in una coalizione anti-iraniana.
Questa crisi del Golfo, in pieno Ramadan, è la conseguenza della sconfitta del fronte sunnita in Siria.
Le monarchie hanno perso la guerra contro il regime di Damasco, sostenuto da Iran, Russia e Hezbollah libanesi e tentano una rivincita bloccando l’influenza della Repubblica islamica. Gli Stati Uniti e l’Occidente devono però stare in guardia: un’ondata di instabilità tra monarchie labili e con nessuna base di consenso democratico potrebbe avere sviluppi imprevedibili, come già accadde con le “primavere arabe” del 2011. Se l’isolamento del Qatar dovesse continuare non si possono escludere ritorsioni contro i Paesi che fanno affari con Doha, tra questi anche l’Italia che per la verità cerca di conquistarsi quote di mercato in tutti gli Stati del Golfo. L’Europa - in particolare Gran Bretagna e Francia - ha già fatto in parte la sua scelta a fianco della monarchia saudita: il premier britannico May ha compiuto il suo primo viaggio all’estero a Riad, difendendo a spada tratta l’impegno militare inglese con i sauditi nella guerra in Yemen contro gli ribelli sciiti Houthi, e i francesi, dopo avere a lungo intrattenuto rapporti con il fondo sovrano del Qatar, si sono affidati agli investimenti sauditi per salvare la loro industria nucleare. L’Italia come al solito sta in mezzo ma dovrà valutare gli effetti in Libia dove il generale Khalifa Haftar, rivale del governo di Tripoli di Sarraj, si è schierato contro il Qatar.
Siamo di fronte a una vicenda contradditoria e lacerante. Il Qatar ha sostenuto gli estremisti islamici che la Turchia ha fatto passare sull’”autostrada della Jihad” per combattere in Siria. Ma cospicue donazioni ai jihadisti sono venute anche dagli altri Paesi del Golfo. Quindi l’accusa di terrorismo è in realtà collegata ai buoni rapporti intrattenuti da Doha con Teheran. I sauditi, con l’incoraggiamento israeliano, hanno chiesto ad americani, inglesi e giordani di tagliare il “corridoio” dei rifornimenti iraniani a Damasco e Hezbollah. Questa posta in gioco vale quanto la guerra all’Isis e la spartizione della Siria.
Mentre i Saud hanno colto al volo la visita di Trump per riposizionarsi come bastione anti-terrorismo, il Qatar non aveva intuito che era finita l’epoca della sua politica “indipendente” dalle altre monarchie arabe.
Non importa se proprio il wahabismo, dottrina religiosa radicale comune sia al Qatar che all’Arabia, sia la base ideologica di numerosi movimenti radicali islamici. Quel che conta oggi è opporsi alla “Mezzaluna sciita” dell’Iran che in questi anni ha combattuto davvero contro jihadisti ed estremisti sunniti, difendendo i suoi interessi strategici in Siria e in Iraq.
La nuova alleanza capeggiata da Riad contro Doha e Teheran ha solidi presupposti economici e finanziari ma è assai fragile se si scava dentro la realtà dei fatti. L’Occidente si schiera guardando al portafoglio, con la speranza di contenere il terrorismo anche attraverso coloro che lo hanno alimentato e ora dicono di volerlo combattere. Vedremo se sarà un altro calcolo sbagliato, uno dei tanti che hanno costellato la storia del Medio Oriente in questi decenni.
Repubblica 6.6.17
Rai3 perde un pezzo pregiato del palinsesto “Ringrazio Viale Mazzini Mi attende una grande sfida”
L’addio di Zoro: “Gazebo a La7” E adesso si teme l’effetto valanga
di Silvia Fumarola
ROMA. Com’era prevedibile, Diego Bianchi, in arte Zoro, trasloca col suo Gazebo da Rai3 a La7. Ha raggiunto un accordo con Urbano Cairo, dopo che dal primo giugno direttore della rete è diventato Andrea Salerno (storico autore del programma e complice di Bianchi). «Con lui, ovviamente, arriva tutta la sua “banda” a cominciare da Marco Dambrosio in arte Makkox », spiega la nota di La7. «Si ricompatta così un gruppo di lavoro che ha mostrato un modo nuovo di informare e divertire ». Rai3 perde un pezzo importante, in un momento cruciale. Qualcuno spera che la possibile nomina dell’ex direttore di Rai1 Giancarlo Leone come direttore generale potrebbe far cambiare idea a chi ha la valigia pronta. A cominciare da Fabio Fazio, che domenica ha salutato il pubblico di Che tempo che fa, con un monologo che sembrava un addio. Ma mentre Fiorello ribattezzava il programma “Che tempo che fu” e ironizzava («Tu non vuoi che si dica la parola Egitto, e allora come fai ad andare a lavorare da Cairo?»), Fazio negava. Chissà se la partita è ancora aperta. A Viale Mazzini fanno notare che non essendo stato presentato un piano per superare lo scoglio del tetto dei 240mila euro per i compensi, la trattativa non sarebbe ancora iniziata. Come non si sa quale sia la scelta di Alberto Angela, corteggiato da Sky e Discovery. Anche Massimo Giletti, salutando il pubblico dell’Arena, ha fatto capire che non è sicuro che resti in Rai. Il 28 giugno, giorno della presentazione dei palinsesti della Rai, si avvicina: sarà Raiexit o l’esodo sarà contenuto?
Per ora è ufficiale l’addio Nicola Savino (passato a Mediaset) e quello di Diego Bianchi, che in questi anni ha raccontato politica e palazzi del potere con uno sguardo disincantato. «Rai3 è stata casa. Come tale, ringraziando chi me l’ha fatta vivere così, la penserò sempre» scrive Zoro su Twitter. «La7 è una grande sfida, con i complici di prima». Era scontato che dopo il passaggio di Salerno, tutta la squadra l’avrebbe seguito. Orfana di Maurizio Crozza, La7 può offrirgli spazi giusti per la satira. Coach della squadra di Gazebo, Salerno ha postato foto insieme a Zoro, al vicedirettore de l’Espresso Marco Damilano, e al disegnatore Makkox, col commento: “Unità”. Mentre il direttore del TgLa7 Enrico Mentana su Facebook accoglie il gruppo: «C’è un taxi in arrivo a La7: Benvenuto Makkox Missouri e tutti gli altri (Salerno e Damilano già attovagliati)».
L’avventura televisiva di Gazebo — cominciata nel 2013 — ha dato una forte impronta a Rai3. Zoro si è inventato la classifica di Twitter, una social top ten (imitata un po’ ovunque), il tassista Missouri 4 ha portato in studio gli umori della città: una formula pop che ha conquistato il pubblico. Nato in seconda serata, il programma ha moltiplicato le puntate, è approdato in prima serata per poi diventare una striscia, passando dal Palazzo ai reportage sull’immigrazione.
Per Bianchi, 47 anni, liceo classico, laurea in Scienze politiche, la politica è una passione da quando, bambino, frequentava la sezione del Pci di San Giovanni a Porta Metronia, dove erano iscritti genitori (al rapporto dei militanti col partito ha dedicato il film Arance e martello). «È il corto circuito tra il mio sguardo e il linguaggio politico di adesso che fa ridere », spiegava. «La mia formazione è stata in famiglia e nel quartiere ». Il debutto è su YouTube: i dubbi sull’essere di sinistra, «di questa cosa chiamata Pci, poi Pds, infine Pd» li mette in scena nel primo video, intitolato Tolleranza Zoro. Sbarca su Rai3 nel 2008, da blogger di politica a Parla con me condotto da Serena Dandini, dove lavorava anche Salerno. Gazebo ha un pubblico fedele ed è cresciuto grazie ai social; un “suola e tacchi show”, come l’ha definito Bianchi, «per mostrare le cose nei posti dove succedono». Da Rai3 alla nuova7 di Salerno, pronto ad accogliere altri transfughi.
Repubblica 6.6.17
Pisapia e la sfida al Pd No ai vendoliani nel nuovo centrosinistra
I paletti dell’ex sindaco: fuori chi non crede alla coalizione
Goffredo De Marchis
ROMA. Il giro di incontri riservati di Giuliano Pisapia a Roma serve a costruire il profilo del suo Campo progressista. E anche a definirne i confini, dai quali rimane fuori Sinistra italiana per evitare l’effetto ammucchiata Arcobaleno, un rischio che continua a spaventare l’ex sindaco di Milano. «Del resto — dice Pisapia — loro non credono nel centrosinistra, anzi lo considerano morto. Così mancano i presupposti per lavorare insieme. Hanno preso una direzione diversa, magari non opposta ma diversa». Quindi, la pregiudiziale è sulla prospettiva, sui programmi. Non è un veto, ma un’incomunicabilità.
Perciò ieri l’ex primo cittadino milanese si è concentrato sulle figure più moderate della sua creatura per dare una coloritura di centrosinistra alla sua creatura. Senza rinunciare al rosso, ma non affidandosi solo a quello. Ha parlato con Bruno Tabacci che vedrà anche oggi e Mario Catania, ex ministro dell’Agricoltura nel governo Monti. L’idea è sempre quella di ricreare se non il marchio almeno lo spirito dell’Ulivo. Allargare perciò il raggio di azione mettendo alcuni paletti.
All’ora di cena Pisapia ha incontrato anche la presidente della Camera Laura Boldrini. Lei è dentro al progetto, non da oggi. Vista l’accelerazione sul voto anticipato (addirittura settembre più di ottobre), non è escluso che la terza carica dello Stato sia coinvolta direttamente nell’appuntamento del 1 luglio. Ma tra i tanti colloqui, la vera notizia per il fronte progressista arriva dalle parole di Romano Prodi al Fatto. Il no alle larghe intese e l’idea che il Professore sia in movimento lontano dal Pd lascia credere al Campo progressista di avere l’endorsement prodiano in tasca o quasi.
Ieri Pisapia ha visto i 31 parlamentari che hanno firmato il documento contro il patto Renzi- Berlusconi. C’erano alcuni del Pd (Mucchetti e Manconi) e i centristi. Ha incontrato il leader di Articolo 1 Roberto Speranza. Oggi sarà anche a Rieti per la campagna delle amministrative dove c’è un candidato del suo campo, in coalizione con il centrosinistra intero. «Un soggetto politico plurale è l’unico antidoto all’inciucio Berlusconi-Renzi. Questo vogliamo far capire agli elettori», dice Massimiliano Smeriglio, fra i primi ad aderire al progetto Pisapia.
Il germe della divisione a sinistra resta un pericolo. Ma l’accelerazione sul voto può eliminare il problema. Se le urne sono fra poche settimane i distinguo andranno lasciati da parte. Non c’è tempo da perdere: il 17 giugno la manifestazione romana a San Giovanni contro i voucher, il 24 Tabacci a Napoli ha convocato Pisapia e Bersani, il 1 luglio l’appuntamento romano dell’ex sindaco che, visti i tempi, diventerà un momento fondativo della lista da presentare alle elezioni.
Mdp non è convinta dell’esclusione di Sinistra Italiana. Pensa che tutti debbano portare voti per vincere la sfida. «I paletti mettiamoli sul progetto, non sulle sigle o sulle persone», avverte Speranza. Anche Massimo D’Alema è convinto della necessità di non escludere gli ex Sel e per la leadership, o per un ruolo di prima fila, punta sulla giovane giurista Anna Falcone.
il manifesto 6.6.17
Sicurezza, May nell’angolo e Corbyn cavalca la protesta
Gran Bretagna. Dopo gli attacchi riprende la campagna elettorale. Il leader laburista chiede le dimissioni della premier, troppi tagli alle forze dell’ordine. Si vota giovedì
di Leonardo Clausi
LONDRA Due volte interrotta e per due volte ricominciata dopo l’immane efferatezza degli attacchi a Manchester e Londra, la più importante e tumultuosa campagna elettorale in Gran Bretagna dal 1945 è a meno di due giorni dalle urne. Si vota questo giovedì, 8 giugno.
Nell’atmosfera grave dopo il trauma ieri Theresa May ha tenuto una conferenza stampa nella capitale, per poi proseguire nel tour elettorale in Scozia e nello Yorkshire. Jeremy Corbyn, che ne ha chiesto le dimissioni, ha passato la giornata in vari appuntamenti nel nord-est dell’Inghilterra.
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OPTANDO DOMENICA per un’indignazione tanto fiera quanto vaga – «Il troppo è troppo», aveva detto nella prima uscita dopo la strage – la premier ha avuto un classico riflesso pavloviano in puro stile Tory, sempre pronti a stigmatizzare e ad aumentare la repressione ogni qualvolta si trovino di fronte a un problema di dissenso o di ordine pubblico, pur di allontanare il sospetto che questo orrendo caos sia il raccolto seminato dalla loro politica estera. Ha tuonato contro i social media che fanno da veicolo indisturbato al materiale propagandistico dei jihadisti e insistito che il budget della polizia è protetto. Ma si è rifiutata di ammettere che aver tagliato 20mila poliziotti da Home Secretary abbia avuto nefaste ricadute sull’efficacia della polizia. In effetti la situazione è per lei quanto mai scivolosa: a rispondere meglio all’emergenza sono stati proprio quei settori del pubblico, sanità e polizia, più colpiti dall’austerità di marca conservatrice. Anche la comunità islamica ha risposto positivamente, denunciando i sospetti.
Le denunce hanno funzionato, le indagini no. Nelle parole di uno dei delatori: «Io ho fatto il mio piccolo, le autorità non hanno fatto il loro».
E May, che ha tiepidamente elogiato il sindaco di Londra Sadiq Khan per la sua condotta durante e dopo l’eccidio ma non lo ha difeso dai cinguettii inebriati di Donald Trump (che vorrebbe forse che Khan apostatasse l’Islam in mondovisione), si trova ora in chiara difficoltà.
ORMAI È INELUDIBILE: la questione sicurezza, marginalizzata inizialmente dalla strategia dei tories per far spazio alla Brexit, ha gettato la sua cupa ombra sul governo, costringendo all’angolo una premier tallonata da dubbi e critiche sul suo operato da ministro dell’interno.
Quasi dieci anni di ritornelli sul «fare meglio con meno» con cui i tories hanno giustificato l’assalto allo stato sociale si ritorcono loro contro. Nel frattempo tutto ciò ha trasformato la mansuetudine di Corbyn, in risalita nei sondaggi, nell’opportunismo-killer del politico classico. Per questo, approfittando anche delle critiche di Steve Hilton, un ex-aiuto di David Cameron, in una faida interna ai conservatori, Corbyn ha invocato le dimissioni di May.
LA DETERMINAZIONE a sfruttare politicamente l’attacco – segno inequivocabile di una cesura fra il Corbyn di lotta e quello di governo – s’era prefigurata già ieri, quando il leader Labour aveva gettato fuoribordo tutto il suo passato antimilitarista e antiautoritario per una inversione radicale sulla sicurezza. Unendosi al leader Libdem, Tim Farron, Corbyn ha rincarato gli attacchi al governo, che condanna l’estremismo mentre intesse un fitto commercio di armi e capitali con il maggiore esportatore del radicalismo wahabita, la liberale Arabia Saudita. Ben consapevole che la polizia aveva scaricato addosso agli attentatori 50 colpi d’arma da fuoco – un inedito assoluto in strade orgogliose di avere poliziotti disarmati – Corbyn ha detto che bisogna usare «ogni forza necessaria» contro il terrore: una chiara risposta a chi lo accusa di essere un ex-fricchettone vegetariano smidollato e non il primo ministro sagace e austero degno di tanto Paese. In questo May ha avuto facile replica, ricordando quante volte l’allora imprevedibile futuro leader avesse votato contro le leggi antiterrorismo, rincarando per scrupolo con le ben oliate invettive di amico dell’Ira e nemico della Patria.
È uno strano cambio di ruolo nel nome della policy contro la politics: i tories paladini della polizia la depotenziano, dando al pacifista e antiautoritario Corbyn l’abbrivio per presentarsi come difensore di legge e ordine. E l’esito della corsa appare imperscrutabile.
Repubblica 6.6.17
“Tagli alla polizia, May si dimetta” Corbyn attacca e sale nei sondaggi
Scontro dopo l’attentato. Da ministro aveva eliminato 20 mila agenti Il sindaco musulmano Khan: “Pochi fondi per garantire la sicurezza”
Enrico Franceschini
LONDRA. Il terrorismo arriva nelle urne, dando un finale incandescente alla campagna elettorale. Jeremy Corbyn chiede le «dimissioni» di Theresa May, accusandola di avere presieduto al taglio di 20 mila agenti nella polizia britannica, nei sei anni in cui è stata ministro degli Interni prima di entrare a Downing Street, «aprendo una falla nella sicurezza nazionale». Più tardi il leader laburista precisa: non pretende che la premier si dimetta, ma «la decisione spetterà giovedì agli elettori », che potranno destituirla votandole contro. La May risponde affermando di non avere tagliato «risorse alle forze anti- terrorismo» e accusando a sua volta Corbyn di essere contrario ad autorizzare la polizia a «sparare per uccidere»: cosa che lui peraltro smentisce. Tuttavia la leader conservatrice appare a disagio. Non può negare di avere ridotto di 20 mila uomini gli organici della polizia. Ed evita di rispondere, quando i giornalisti le ricordano cosa disse ai capi della polizia, che due anni fa protestavano contro i tagli sostenendo che riducevano la capacità di prevenire attentati: «Voi gridate al lupo, al lupo».
Ebbene, adesso il lupo si è manifestato, sotto forma di tre attentati in tre mesi, in almeno due dei quali i terroristi erano stati segnalati alla polizia ma non messi sotto controllo – dicono le indiscrezioni – per l’insufficiente numero di uomini a disposizione delle forze di sicurezza.
In genere la violenza favorisce i partiti “ law and order”, che predicano la legge e l’ordine, ovvero la mano forte, di norma i partiti di destra, ma in questo caso finora non è accaduto: dopo l’attacco a Manchester di due settimane fa, Corbyn ha continuato a recuperare terreno nei sondaggi. L’ultimo di YouGov, pubblicato ieri, vede i Tories in testa sul Labour di appena 4 punti, 42 a 38 per cento, una possibile quasi parità considerato il margine di errore statistico. Se l’opinione pubblica condividerà la tesi del leader laburista, secondo cui la premier è in qualche misura responsabile di scelte che hanno reso la Gran Bretagna meno sicura, dopodomani le elezioni potrebbero produrre la terza, clamorosa sorpresa dell’ultimo anno, dopo la Brexit e Trump: una vittoria del partito laburista, opera del leader più di sinistra che lo abbia guidato negli ultimi 35 anni. O perlomeno un “ hung Parliament”, un parlamento paralizzato, come si dice in gergo, in cui nessuno ha la maggioranza assoluta: i Tories potrebbero ottenere quella relativa, ma il Labour potrebbe raggiungere il quorum necessario a governare con una coalizione anti-conservatrice.
Anche il popolare sindaco laburista di Londra, Sadiq Khan, mette sotto accusa Theresa May: «Non stiamo ricevendo dal governo i fondi di cui la capitale ha bisogno per garantire la sicurezza». E in una veglia davanti al municipio, a poche centinaia di metri dal London Bridge e dal Borough Market luoghi dell’attacco, Khan, che è di origine pachistana, aggiunge: «Sono musulmano ma i terroristi non hanno commesso questo atto disgustoso nel nome mio o della mia religione. L’Islam non ha niente a che fare con queste barbare azioni. Il terrore non riuscirà a dividere la nostra città multietnica». Un’altra stoccata alla premier, che dopo l’attentato ha chiesto leggi speciali e criticato il multiculturalismo.
il manifesto 6.6.17
Il Leviatano coloniale si è fatto apartheid
Palestina/Israele 1967-2017. L’opposizione ai Due Stati dell’élite di ultradestra punta a mutare l’annessione de facto in un’annessione di diritto. «Vuoi la dote, ma non la sposa», disse nel 1967 Eshkol a Golda Meir. Le terre sono state prese, i residenti palestinesi no
di Neve Gordon
In un meeting del Partito laburista israeliano subito dopo la guerra del 1967, Golda Meir chiese al premier Levi Eshkol: «Che ne facciamo di un milione di arabi?». Dopo una pausa di un istante Eshkol rispose: «Capisco. Vuoi la dote ma non ti piace la sposa!».
L’aneddoto rivela come fin dal principio Israele abbia tracciato una netta distinzione tra la terra che aveva occupato – la dote – e i palestinesi che l’abitavano – la sposa.
Questa distinzione è in breve divenuta la logica fondante che ha plasmato la struttura del progetto coloniale di Israele, al punto che i meccanismi sviluppati per espropriare la terra palestinese e per tenere sottomessi gli abitanti colonizzati hanno prodotto una serie di contraddizioni che ancora oggi danno forma alla realtà geopolitica tra la Valle del Giordano e il Mediterraneo.
Non sorprende che la contraddizione di fondo sia quella tra geografia e demografia. L’insaziabile avidità di Israele per la terra palestinese, i reiterati sforzi per confinare gli abitanti palestinesi colonizzati in enclavi chiuse e la politica di trasferimento di centinaia di migliaia di ebrei in Cisgiordania e a Gerusalemme Est hanno reso la soluzione dei «due popoli-due Stati» sempre più insostenibile.
Una soluzione invocata praticamente da tutti i leader occidentali e dagli Stati del Golfo, da Israele, dall’Autorità palestinese e anche da Hamas, ma diventata ormai una chimera che rafforza solo lo status quo.
Ma lo status quo non può durare per sempre. L’annessione de facto della Cisgiordania in definitiva può soddisfare le brame territoriali di Israele ma al tempo stesso ha prodotto una nuova realtà che a lungo termine non sarà possibile sostenere. Ha prodotto un cambiamento dell’equilibrio demografico le cui ramificazioni sono senza dubbio politiche.
Al momento vivono tra la Valle del Giordano e il Mediterraneo circa 6,5 milioni di ebrei. Nello stesso territorio si trovano 6,2 milioni di palestinesi – sia musulmani che cristiani – e circa 400mila cristiani non arabi, membri di altre religioni o persone che non sono credenti, assieme a oltre 180mila cittadini stranieri.
Pertanto il territorio su cui Israele ha un controllo effettivo non ha una maggioranza di cittadini ebrei. Tutto questo rivela che la spinta espansionistica non si accorda bene con gli argomenti etno-demografici del Sionismo e produce, agli occhi di Israele, una minaccia esistenziale.
Inoltre, dato che esiste un solo potere sovrano nei territori che Israele ha conquistato nel 1967 (con l’esclusione della Penisola del Sinai, restituita all’Egitto) e che all’interno di questo territorio operano simultaneamente due sistemi legali (uno per i cittadini ebrei israeliani e palestinesi, l’altro per gli abitanti palestinesi occupati), quest’entità andrebbe legalmente considerata come un regime di apartheid.
Un sistema di apartheid certamente diverso da quello sudafricano, ma è vero anche che Italia e Usa sono diverse tra di loro, anche se entrambe considerate democrazie liberali. L’apartheid opera in maniera differente in contesti storici, geografici e demografici diversi. Conserva però la sua caratteristica fondamentale: un sistema legale di oppressione, espropriazione e segregazione razziale.
È un paradosso che la destra israeliana, al contrario dei sionisti liberali, riconosca la realtà di questa situazione, esortando il centro dello schieramento politico ad abbandonare il paradigma «due popoli-due Stati».
Il suo obiettivo immediato è la trasformazione dell’annessione de facto della Cisgiordania in un’annessione di diritto e, sebbene le sue strategie per la risoluzione della «minaccia demografica palestinese» siano poco chiare, due idee di primaria importanza si stanno diffondendo in Israele.
La prima è l’opzione giordana, secondo cui la Giordania sarebbe il vero Stato palestinese e la popolazione palestinese dovrebbe pertanto essere trasferita lì. La seconda idea si ispira al modello di «autonomia palestinese» ideato dall’ex primo ministro Menachem Begin: i palestinesi possono continuare a vivere in enclavi all’interno della Cisgiordania, con ruoli di responsabilità nella sanità, educazione e in altri servizi pubblici, come la raccolta della spazzatura. Anche questo modello ha un precedente: in Sudafrica lo chiamavano bantustan.
Anche se non lo dicono esplicitamente, il futuro immaginato dall’attuale élite politica israeliana va in due direzioni: o una consistente espulsione di palestinesi o la fortificazione di un regime di apartheid.
Tuttavia abbandonare il paradigma dei «due popoli-due Stati» potrebbe potenzialmente aprire un nuovo e da tempo auspicato dibattito. Il modello «un solo Stato» terrebbe conto di un’ammissione storica, che il conflitto non sia iniziato nel 1967 bensì agli inizi del XIX secolo, anche prima della Nakba palestinese del 1948 e dell’indipendenza di Israele.
Si possono affrontare le ingiustizie della storia, procedendo verso una soluzione possibile, solo quando si riconoscono e affrontano le realtà storiche.
Sfortunatamente, invece di affrontare la storia, il governo israeliano ha introdotto un’ondata di disposizioni, linee programmatiche e nuove leggi draconiane, avviando anche campagne di istigazione contro i cittadini palestinesi di Israele e anche contro gli israeliani progressisti.
Anzi, le strategie di governo sviluppate e dispiegate da Israele nelle aree occupate adesso stanno colonizzando anche lo Stato ebraico. Il fatto che il Leviatano coloniale stia ripiegando su sé stesso, istituendo la logica dell’apartheid nei confini anteriori al 1967, è particolarmente evidente nella zona del deserto israeliano del Negev, dove lo Stato ha intensificato la propria campagna contro la popolazione indigena beduina.
Lo dimostra Um al-Hiran, villaggio di cittadini beduini destinato a essere distrutto, sulle cui macerie crescerà un insediamento israeliano chiamato Hiran. A pochi km di distanza dal villaggio beduino una trentina di famiglie religiose vivono in una provvisoria comunità chiusa, in paziente attesa che il governo espella le famiglie beduine dalle loro case.
Durante una recente visita a questa comunità ebraica, ho visto case disposte attorno a un parco-giochi e una bella scuola materna con allegri dipinti murali sugli esterni. Non c’è bisogno di dire che questa cornice tanto bucolica era snervante e surreale, considerando la risacca violenta che produrrà. Ironia vuole che quelle persone, destinate a sfrattare i residenti di Um Al-Hiran, sono coloni ritornati in Israele per colonizzare la terra dei beduini.
Alla fine i nodi vengono al pettine. I coloni si impadroniscono della dote della sposa, sostengono il governo nel radicamento di un regime di apartheid ed erodono uno status quo fittizio. Seminano vento oggi, domani raccoglieranno tempesta.
(Traduzione di Alberto Prunetti)
il manifesto 6.6.17
Dalla liberazione alla finzione di Stato
Palestina/Israele 1967-2017. La sostituzione dell’Olp con l’Anp ha trasformato la società palestinese: operai invisibili, borghesia «reclutata». E sul piano politico la lotta di liberazione ha fatto posto all'illusione di poter creare uno Stato sovrano
di Jamil Hilal
La guerra del giugno 1967 ha modificato la mappa politica della regione, trasformando la questione palestinese da “questione di rifugiati” nella causa di un popolo in lotta per la sua libertà e la sua autodeterminazione.
Per i palestinesi, la guerra di giugno significò l’estendersi della colonizzazione israeliana a tutta la loro terra, la Palestina storica, e, contemporaneamente, la rinascita del loro movimento nazionale con il nome di Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp). Entrambi gli eventi hanno avuto enormi conseguenze sulla politica e la società palestinesi.
La riunificazione de facto della Palestina storica, seppure sotto il dominio coloniale militare israeliano, ha permesso ai palestinesi di Cisgiordania e Gaza di riavvicinarsi ai palestinesi in quell’area del paese che il movimento sionista aveva dichiarato Stato di Israele nel 1948.
L’attenuarsi del controllo dei regimi arabi sui palestinesi, a seguito della sconfitta subita nella guerra dei sei giorni (in particolare in Giordania, Siria e Libano), ha dato, già dal 1968, ai gruppi di resistenza palestinesi emersi negli anni ’50 e ’60, l’opportunità assumere il controllo dell’Olp trasformandolo in un movimento nazionale radicato in tutte le comunità palestinesi. L’Olp divenne ovunque e assai rapidamente il rappresentante del popolo palestinese.
L’occupazione israeliana della Cisgiordania e della Striscia di Gaza ha obbligato l’Olp a collocare i propri quartieri generali e le sue basi militari nei paesi arabi confinanti, dove si svilupparono anche le organizzazioni di massa ad essa legate (organizzazioni di donne, studenti, lavoratori, insegnanti, giornalisti, scrittori…).
L’impegno nella lotta armata e a favore della mobilitazione e organizzazione popolare ha inevitabilmente portato l’Olp a scontrarsi con gli stati arabi (in Giordania, Siria e Libano) e ha convinto la sua leadership dell’importanza di avere una sua propria base territoriale.
Ciò spiega, insieme ai rapidi stravolgimenti della situazione regionale e internazionale, il cambiamento avvenuto nel programma politico dell’Olp all’inizio degli anni ’70: l’abbandono dell’obiettivo di uno Stato laico e democratico per tutti i suoi cittadini, indipendentemente dall’appartenenza etnica e/o religiosa a favore di una soluzione basata sulla partizione della Palestina storica.
Nel 1974 l’Olp dichiarò di accettare una soluzione basata sulla creazione di uno stato sovrano palestinese «su ogni territorio liberato dall’occupazione israeliana».
Nel 1988, poi, dopo lo scoppio della prima Intifada, l’Olp esplicitamente dichiarò la propria accettazione di una soluzione fondata su due stati (uno palestinese e uno israeliano) e la sua intenzione di riconoscere lo Stato di Israele.
Il riconoscimento del diritto di Israele ad esistere da parte dell’Olp venne poi ufficializzato nel 1993 con gli Accordi di Oslo, frutto dell’impatto delle enormi trasformazioni nei rapporti di potere nella regione e a livello internazionale a seguito della guerra del Golfo del 1991 e della disintegrazione dell’Unione Sovietica, il principale alleato internazionale dell’Olp.
E’ da sottolineare tuttavia come non ci sia mai stato un reciproco riconoscimento da parte di Israele del diritto palestinese ad uno Stato sovrano in Cisgiordania e a Gaza con Gerusalemme est come capitale, né tanto meno del diritto dei rifugiati palestinesi di tornare nelle proprie case come stabilito dalle risoluzioni delle Nazioni Unite.
Né gli accordi di Oslo né la creazione dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) nel 1994 hanno spinto Israele a modificare le proprie politiche nei confronti dei palestinesi.
Quello a cui si è assistito da Oslo in poi sono state l’israelizzazione di Gerusalemme est e l’accelerazione della frammentazione del territorio palestinese in «riserve» o «bantustan»: città e villaggi palestinesi circondati da colonie israeliane, bypass road (strade riservate al traffico dei coloni israeliani) e Area C (il 62% della Cisgiordania).
Questo processo è andato di pari passo con l’istallazione di un sistema di checkpoint militari, la pratica della detenzione amministrativa, il controllo del movimento dei palestinesi attraverso il rilascio di permessi israeliani, il controllo delle risorse naturali e dei confini, la demolizione delle case e la confisca di terre, la frammentazione della fragile economia della Cisgiordania e di Gaza. Ma, soprattutto, l’Anp è stata vincolata ad un sistema di coordinamento sulla sicurezza, con tutte le conseguenti implicazioni (peraltro unilaterali) di una simile relazione.
La creazione dell’Anp in un contesto di occupazione e di colonialismo di insedimento ha avuto un impatto profondo sulla società palestinese. Le istituzioni dell’Olp sono state congelate mentre l’Anp concentrava i suoi sforzi nella costruzione di strutture quasi-statali con la speranza (l’illusione) che la fondazione di uno Stato sovrano palestinese stesse per realizzarsi. Fin dalla sua nascita, l’Anp è stata resa dipendente da aiuti stranieri e donazioni e dunque soggetta a pressioni esterne.
La struttura di classe palestinese è stata radicalmente trasformata dalla creazione dell’Anp che ha dato vita a una larga classe media. Una significativa porzione della forza lavoro palestinese infatti è stata impiegata dai due principali partiti (Fatah e Hamas), nella pubblica amministrazione, nelle scuole, negli ospedali e negli apparati di sicurezza così come nelle organizzazioni non governative che operano in Cisgiordania e Gaza.
Anche il settore dei moderni servizi (banche, assicurazioni e telecomunicazioni) sì è sviluppato assorbendo importanti settori della classe media.
Questa nuova classe media dipende per la sicurezza del suo reddito e per la sua sopravvivenza dalla stabilità della Anp. Essa si è così trasformata in una forza politica conservatrice.
D’altra parte, oltre il 90% della classe operaia palestinese è frammentata in decine di migliaia di piccolissime imprese (che impiegano meno di cinque persone) e solo una limitatissima percentuale è organizzata in sindacati. Come classe essa rimane esposta ad alti tassi di disoccupazione, bassi salari e a povertà diffusa.
Una simile trasformazione socio-economica e politica spiega perché la politica della classe dirigente palestinese sia significativamente cambiata, e l’enfasi non sia più posta sulla liberazione quanto invece sulla costruzione di uno stato, anche se in un contesto di occupazione coloniale.
Eppure, la continua colonizzazione israeliana, la repressione, l’assedio, la discriminazione e la persistente deprivazione di un futuro libero e dignitoso mantengono viva una situazione esplosiva che potrebbe erompere in qualsiasi momento in nuove forme di resistenza.
il manifesto 6.6.17
Il vero nemico: l’ascesa della destra israeliana
Palestina/Israele 1967-2017. Dall'euforia per la vittoria della Guerra dei Sei Giorni al pantano dell'occupazione infinita. Mezzo secolo dopo la realtà coloniale, la distruzione del tessuto democratico - anche per gli israeliani ebrei -, la corruzione dell’occupazione e del nazionalismo fondamentalista diventano dominanti
di Zvi Schuldiner
A due anni dalla fine della seconda guerra mondiale, 50 milioni di morti, l’Europa semidistrutta inizia a risollevarsi dall’inferno e gli ebrei cominciano a comprendere il prezzo crudele del nazismo che ha sterminato un terzo del loro popolo, sei milioni di persone.
Nel 1947 l’Onu decide la spartizione della Palestina mandataria in due Stati, uno arabo e uno ebraico, con Gerusalemme come città internazionale. Inizia il declino mondiale dell’Impero inglese: nel 1948 gli inglesi si ritirano dalla Palestina, il 14 maggio 1948 Israele dichiara l’indipendenza, che per i palestinesi è la Naqba, la catastrofe; Usa e Urss riconoscono lo Stato ebraico e su questo premono sugli altri paesi: per le due superpotenze si tratterà di un fattore vantaggioso per i rispettivi interessi nella regione.
VERSO LA GUERRA. Nel maggio 1967 il premier di Israele è Levi Eshkol, che aveva dato al governo laburista un taglio moderato, diverso dal governo del «padre fondatore» Ben Gurion. Si respira un’aria nuova in Israele, Stato nemmeno ventenne.
Nel 1966 il primo ministro aveva posto fine al triste «governo militare» a cui erano stati sottoposti i cittadini arabo-palestinesi di Israele. I mezzi di comunicazione si rafforzano e la radio e la tv pubblica sperimentano un minore controllo governativo.
A maggio il comandante generale dell’esercito Yitzhak Rabin va a incontrare Eshkol con notizie preoccupanti: il presidente Nasser ha spedito soldati nel Sinai e chiuso l’accesso via mare a Eilat, sud di Israele.
Il pericolo di guerra diventa imminente e entrambe le parti danno a intendere che si tratterebbe più che altro di una dimostrazione di forza, per alcuni un tentativo di Nasser di farsi leader del mondo arabo. Altri non tengono conto dell’escalation contro la Siria, iniziata da Rabin mesi prima.
Nel ricordo dell’olocausto, comincia a dominare la paura, la costante sensazione che nemmeno lo Stato possa assicurare l’esistenza del popolo ebraico. In diverse città, i rabbini militari benedicono piazze pubbliche perché servano da cimiteri, se troppe saranno le vittime (ma, nel 1972, il generale Bar Lev – comandante dell’esercito e numero due nella guerra – dichiarerà che l’esercito non aveva mai parlato di ’sopravvivenza’).
Chi pensa che le superpotenze freneranno il processo sbaglia: sia l’Urss che gli Usa giocano in modo sospetto, per errori di calcolo o per un vero disegno.
Scoppia la guerra del 1967. Tre ore dopo l’aviazione egiziana è già spazzata via, i giordani credono alla radio egiziana che parla di insistenti disfatte sioniste e muovono contro Israele su quello che si credeva un fronte calmo, Gerusalemme e la Cisgiordania cadono in mani israeliane e tre giorni dopo la Siria perde il Golan.
EUFORIA. In Israele si passa dalla paura all’euforia, vengono allo scoperto latenti pulsioni di tipo colonialistico, iniziano a sentirsi le arie minacciose del fondamentalismo religioso. La Bibbia come guida per il turismo politico; il Muro del pianto a Gerusalemme, fino a poco prima irrilevante nella vita politica, diventa un luogo sacro, anche di recente accarezzato tanto dal gran rabbino militare quanto da Donald Trump.
Il professor Yeshayahu Leibowitz poco dopo la guerra avverte: «O usciamo dai territori che abbiamo occupato o dovremo scontrarci con tutto il mondo islamico, o usciamo o diventeremo un popolo di agenti segreti!».
L’entusiasmo della «destra» è enorme e comprende vari ministri laburisti, come Ygal Alon, che danno avvio al processo coloniale nei Territori; sono i padri delle prime colonie e sanno che: ogni colonia delimiterà una nuova mappa.
Alcuni ministri avvertono del pericolo già nel 1967: diventare forza occupante ci porterà a scontri sanguinosi, perché i popoli non accettano il gioco colonialista. A poco a poco i frutti della vittoria ottenebrano la maggioranza degli israeliani. L’unica «democrazia» si avvia verso l’apartheid.
NESSUNA ECCEZIONE. Israele non è un’eccezione: popoli, società, Paesi abbandonano processi coloniali solo se il prezzo è molto alto. A partire dal 1967 gli israeliani cominciano ad affrontare due processi diversi che non sembrano connessi. Nei Territori Occupati la popolazione palestinese reagisce in modo complesso.
La politica del ministro della difesa Dayan che apre le porte di Israele ed elimina la «linea verde» (linea del cessate il fuoco del 1948) apre le porte a 150mila palestinesi che da Gaza e dalla Cisgiordania vengono a lavorare in Israele. Decine di migliaia di israeliani si recano come turisti nei Territori Occupati. Luoghi storici, Betlemme, Gerico, Ramallah, Gerusalemme Est; ristoranti, chiese, passeggiate.
E i livelli molto diversi dell’economia israeliana e dei Territori attraggono i lavoratori palestinesi che arrivano in gran numero benché sottopagati.L’economia dei Territori Occupati cresce in modo dipendente, ma la crescita permette di alleviare il prezzo dell’occupazione. Il carattere «liberale» dell’occupazione – in realtà mai esistito – facilita la repressione; servizi segreti e forze militari si avvalgono ancora della vittoria militare, anche se ben presto comincia la resistenza. Che, tuttavia, non è così forte da diventare un problema serio.
Quando le azioni militari palestinesi a Gaza aumentano, nel 1970-1971, la repressione dell’allora generale Ariel Sharon è molto forte: la regione viene acquietata con la violenza.Il «terrore», i nemici sono quelli di «fuori»: l’Olp, il Fronte democratico, il Fronte popolare. «All’interno possiamo metterci d’accordo, i muratori della casa di fronte mi salutano sempre, i palestinesi sono bravi meccanici, nei ristoranti di Betlemme sono cordiali»…ma i terroristi sono terribili e con loro non si può trattare!
OCCUPANTE E OCCUPATO. Non c’è bisogno di leggere Frantz Fanon per ricordare che l’occupante, il colono, difficilmente capisce cosa accade al colonizzato. La destra nazionalista e i suoi alleati fondamentalisti religiosi si rafforzano enormemente; mentre si costruiscono nuove colonie, la cecità prevale e solo nel 1987 arriva la scoperta, il dramma dell’Intifada: i palestinesi sono esseri umani e si ribellano.
Durante la prima Intifada, tuttavia, era possibile portare gruppi israeliani a parlare con i palestinesi nei Territori. Nel 1989 intervistavo su queste colonne il leader palestinese Faysal Hosseini, che sosteneva che era il momento di parlare con la società israeliana.
La pace possibile crea euforia in entrambi i popoli, ma molto presto tornano le confische delle terre. Gli israeliani che si vedono sempre come vittime del terrore, si sorprendono quando il medico Baruch Goldstein uccide 29 palestinesi a Hebron, si sorprendono delle ondate di terrore palestinese e si sorprenderanno quando nel 1995 il premier Rabin viene assassinato da un fondamentalista ebreo, parte della coalizione dominante che a poco a poco ci ha portato alla situazione attuale.
Sono i giorni nei quali Trump fa il suo giro di pagliaccio nella regione: una parte della destra israeliana è felice per l’arrivo di un rappresentante della versione peggiore e più estrema dell’imperialismo.
Trump viene dichiarato sionista onorario. Trova anche molto simpatici i despoti sauditi…che saranno mai decine di decapitati l’anno scorso nel reame, visto che non ce li esibiscono come fa Daesh (il sedicente Stato islamico)?
Ma quando The Donald lascia la regione per approdare a fare danni nella problematica Europa di oggi, si inizia a sentire che egli chiede alcuni limiti all’onnipotente potere israeliano. In Israele, l’«unica democrazia» governa con due milioni di cittadini arabo-palestinesi che potranno essere ufficialmente discriminati se la legge proposta un mese fa va avanti. L’unica democrazia della regione mantiene sotto il giogo dell’occupazione oltre quattro milioni di palestinesi sprovvisti dei più elementari diritti civili e umani.
L’unica democrazia continua ad attuare una repressione a causa della quale migliaia di palestinesi sono morti, vittime delle forze di sicurezza, e centinaia di migliaia sono passati per le carceri dell’occupante. Un professore di storia direbbe che il deputato Smotritz del partito nazionale religioso parla del futuro dei palestinesi nei Territori come potevano parlare dei gerarchi nazisti.
Mezzo secolo, sì, significa che la realtà coloniale, la distruzione del tessuto democratico – anche per gli israeliani ebrei -, la corruzione dell’occupazione e del nazionalismo fondamentalista diventano dominanti.
L’atmosfera fra il 1948 e il 1967 – che certo non era stata ideale – ormai suscita nostalgia, in un paese il quale, con un’ostinazione che dà le vertigini, si avvicina a un momento molto pericoloso della propria storia.
Il fondamentalismo nazionalista è un cancro più pericoloso dei nemici reali o immaginari. Il trionfo e l’euforia del 1967 sono un passato morto e sepolto di fronte a un presente che promette più sangue, più disastri.
Repubblica 6.6.17
Il direttore artistico racconta come ha ottenuto i fondi per l’Eliseo: “Ho rispettato le regole”
Luca Barbareschi “Nessuna vergogna c’è chi prende più soldi”
intervista di Concetto Vecchio
ROMA «VUOLE la verità? Ho vinto». Nello studio di Luca Barbareschi, al Teatro Eliseo, tra cimeli cinematografici, pile di libri, locandine, alle pareti ci sono due sole foto con i politici: in una è con Napolitano, nell’altra con Berlusconi. La settimana scorsa, grazie a un emendamento bipartisan Pd-Forza Italia, il direttore del teatro di via Nazionale ha portato a casa un finanziamento di 8 milioni di euro, che ha sollevato uno tsunami di proteste nel mondo dello spettacolo italiano.
Barbareschi, ha contro tutti: l’Agis, 40 teatri. Dicono: perché a lei sì e agli altri no? Non è una domanda legittima?
«Ma gli altri ricevono da anni. Il Piccolo prende, inclusi i contributi degli enti locali, 11 milioni annui, l’Argentina 9 milioni, lo Stabile di Napoli 7,3 milioni. Il Festival di Spoleto 3,5 milioni l’anno. Sa quanto prendeva l’Eliseo, quando sono arrivato qui nel gennaio 2015? 500mila euro ».
Ma l’Eliseo è privato.
«Qua di privato ci sono solo le mura, peraltro marce. Ci ho investito personalmente 5 milioni. Niente era a norma. Gli estintori risalivano al 1986».
Senza quei soldi l’Eliseo chiude?
«Garantito. Ed è un Tric, un Teatro di Rilevante Interesse Culturale. Mi attaccano per puro rosicamento».
Quanto costa gestirlo?
«Quattro milioni l’anno, tra due anni sarò di nuovo nella merda».
Fatto sta che lei rivolgendosi direttamente al Mef ha ottenuto una corsia preferenziale. Morando era contrario.
«Chi è Morando?»
Il viceministro all’Economia.
«Non hanno consapevolezza del nostro lavoro. Prenda i miei colleghi: vanno in Parlamento a sparlare degli altri, parlano di
physis. Sa invece come li ho convinti io? Sono andato a parlare con ognuno di loro in Commissione Bilancio. Avevo contro il governo. Se questo finanziamento fosse passato con Berlusconi al potere avreste evocato la P2...» Invece lei ha già fatto la grande coalizione Pd-Forza Italia.
«Ho rispettato le regole. Non mi devo vergognare. Il Parlamento ha capito che un teatro come quello di via Nazionale mai nella storia si è potuto sostenerlo coi soli incassi».
Non è un sostegno ad personam? Non è stato privilegiato per le sue entrature nel mondo politico?
«Guardi che i decisori politici sapevano benissimo che serviva un qualche intervento compensativo che accompagnasse la mia avventura, nella riapertura del teatro. Per citare Massimo Catalano (il “filosofo” di
Quelli della notte, ndr): meglio l’Eliseo chiuso o aperto?».
Per De Capitani, condirettore del Teatro Elfo-Puccini di Milano, così saltano tutte le regole.
«La salvezza dell’Eliseo è la piena sconfitta di quelle associazioni che negli ultimi trent’anni si sono occupate di teatro: Agis, Federvivo, Platea. Mi sono rivolto direttamente alla politica dimostrando con i fatti che davanti a interlocutori credibili e con le giuste motivazioni la stessa politica risponde ».
Con questi soldi si comprerà il teatro?
(Ride). «Paghiamo un canone di locazione di oltre 400mila euro l’anno. Motivo per cui stiamo studiando da tre anni una formula di acquisto dell’immobile che sarà un investimento privato, fatto con la mia società immobiliare».
I Cinquestelle lanciano questo slogan: 8 milioni a Barbareschi, zero alle vittime del terrorismo.
«Populismo puro. Se qualcuno spara alle mie figlie io sparo a Beppe Grillo».
È diventato renziano?
«Mi è molto simpatico. Però temo che questo Paese sia meno avanti di quello che lui crede».
Il ministro Franceschini che ruolo ha avuto nella vicenda?
«Ha cercato di dare una mano. Non intacco i fondi del Fus. All’estero questa sarebbe salutata come una best practice, nel nostro provincialismo siamo incapaci di cogliere la novità che sottintende a tutta l’operazione ».
Lei ci guadagna?
«Da quando sono qui non prendo un euro».
Suo suocero, Andrea Monorchio, è l’ex Ragioniere generale. Qualcuno ventila un suo ruolo. È così?
«Chi lo ha scritto sarà querelato. Mio suocero è in pensione da anni».
Cosa pensa delle disavventure di Fini?
«Lo mandai affanculo, lui mi diede del pagliaccio. Ora gli stessi che lo leccavano gli sputano in faccia. Allora io adesso lo difendo, con dolore: “Gianfranco ti voglio bene”».
Berlusconi andrà al governo con Renzi?
«Non lo so. Silvio lo sento spesso. È una persona di cuore. Se hai un problema lui ti manda tutto quello che vuoi».
Con la Raggi ha contatti?
«Se solo mi rispondesse al telefono. Il suo assessore alla cultura, Bergamo, dice che siamo irrilevanti. Facciamo la stagione Tor Bella Monaca, ci perdo 200mila euro l’anno, ma il teatro è sempre pieno: faccio più io di Bergamo per i ceti popolari».
Corriere 6.6.17
Pochi ma buoni i libri letti da Leonardo
di Luciano Canfora
Per Aristotele come per Plutarco — due celebri grandi «lettori» — si è tentato di ricostruire la loro «biblioteca»: vale a dire i libri che, a giudicare da ciò che citano, presumibilmente usarono. Per Plutarco è stato osservato che quelli che maggiormente mise a frutto non li ha forse nemmeno citati. Per Aristotele si pone il problema opposto: come fa a citare frasi da un’orazione di Pericle (forse per i morti nella guerra contro Samo) che difficilmente aveva preso la via della scrittura? Plinio dedica un intero libro a elencare i libri che ha letto o da cui ha stralciato qualche estratto.
Il più grande dotto del IX secolo — il patriarca bizantino Fozio — aveva organizzato una cerchia di lettori, il cui schedario si è salvato: è l’opera che di solito chiamiamo la Biblioteca (da qualche mese finalmente disponibile in edizione-traduzione italiana) e che si è a lungo creduto fosse un’opera destinata ai «posteri». Quella di Fozio fu di sicuro una «biblioteca perduta» (o meglio scomparsa) perché gli fu punitivamente confiscata quando cadde in disgrazia. Anche Fozio infatti, poiché leggeva libri e sollecitava la lettura critica di essi, fu reputato «mago», come del resto Gerbert d’Aurillac (Silvestro II, il Papa dell’anno 1000).
Quando si parla di biblioteche (perdute) di antichi, o di figure eminenti di epoca medievale o umanistica, non si deve favoleggiare di grandi masse di libri. Quella su cui Fozio concentrò il suo formidabile lavoro comprendeva circa 360 pezzi. Ed era considerata una enormità. Quella di Leonardo da Vinci, ora ristudiata da Carlo Vecce nel volume La biblioteca perduta (Salerno Editrice, pagine 214, e 13) era — a quanto si può ricavare dai manoscritti leonardeschi — composta di non molti pezzi ma studiati, epitomati, «usati» a fondo, e forieri di idee. Ricordiamo l’ironia di Seneca sulle pareti tappezzate di libri non letti, ma ostentati. Questi uomini invece — e Leonardo forse più che altri — seguirono la strada contraria: in omaggio al principio non «multa» sed «multum» .
Nel libro di Vecce, il lettore può anche trovare, in appendice, un quadro aggiornato e critico di manoscritti leonardeschi — disseminati ormai tra Londra, l’Institut de France, Madrid, Milano, Torino, Seattle — a partire dai quali è stata possibile la ricostruzione della biblioteca del presunto «omo sanza lettere». Nel quinto capitolo si apprezza il tentativo di fornire un quadro completo, ragionato, e per «scaffali» (poesia, filosofia, scrittori tecnici etc.). Nel dodicesimo ha giustamente una parte significativa Ovidio, le cui Metamorfosi — vero monumento «lucreziano» — furono per Leonardo una lettura financo inquietante.
Considerate nel loro insieme e sulla scala dei secoli, le biblioteche dei dotti ci appaiono come un cimitero. Per lo più «scoppiano», come dicono i bibliofili e gli antiquari francesi, o si disperdono. Molto dipende dalla moralità e qualità degli eredi, non solo dalle direttive dell’interessato. Mi piace perciò ricordare che le «lapidi» di questo cimitero sono i cataloghi di vendita. Biblioteche benemerite come l’Angelica di Roma o la Bibliothèque Nationale parigina (la mitica côte Delta della sala W) hanno il grande merito, tra gli altri, di aver messo, e di continuare a mettere in salvo queste «lapidi», recanti talvolta persino il nome dei fortunati acquirenti. Il che ci consente di seguire il cammino di un libro — e degli effetti che ha prodotto — sino al tempo nostro.