mercoledì 14 giugno 2017

Il Fatto 14.6.16
Matteo e Beppe, Dio acceca chi vuole perdere
di Peter Gomez


Tra i due litiganti il terzo gode, dice il proverbio. E lo dicono ora pure i risultati del primo turno delle elezioni amministrative. La destra in Italia c’è e avanza. È in testa in 13 su 19 ballottaggi nelle principali città e se per caso vincerà a Genova per il Pd la sconfitta sarà bruciante come quella subita domenica scorsa dal Movimento 5 Stelle. Curiosamente però né Matteo Renzi, né Beppe Grillo sembrano rendersi conto della situazione. Il primo, ancora ieri, spendeva buona parte del tempo per attaccare gli odiati grillini e, sprezzante del ridicolo, sosteneva che Palermo fosse una vittoria del suo partito. Dimenticando che i Dem per poter correre con Leoluca Orlando avevano dovuto nascondere il simbolo (fondendosi con gli alfaniani) e che lo stesso Orlando si era rifiutato di presentarsi davanti alle telecamere di La7 dopo che il suo nome era stato accostato al Pd. Il secondo, invece, forse ansioso di imitare i politici della Prima Repubblica, arrivava a sostenere che quella dei 5Stelle era una “crescita lenta, ma inesorabile”: frase cult da mettere negli annali come la versione 2.0 della “sostanziale tenuta” di democristiana memoria. Contenti loro. Se i due non si svegliano ci penserà la realtà a farlo: investendoli a tutta velocità con una caterva di voti di destra.
I presupposti ci sono tutti. La Lega oltre che utilizzare parole discutibili (per usare un eufemismo), ma certamente utili per cavalcare i disagi e le paure provocati dall’accoppiata crisi economica più immigrazione, può vantare al nord due regioni che agli occhi di molti cittadini appaiono ben governate. Così, mentre Matteo Salvini invita alla lotta, Luca Zaia e molti altri amministratori pubblici hanno il physique du rôle e i curricula adatti per rassicurare anche gli elettori moderati. In Puglia, Raffaele Fitto, con la sua vasta rete di amicizie e clientes, fa il pieno di voti. E Giorgia Meloni, grazie al nazionalismo di ritorno guadagna spazio in quelle regioni in cui Salvini per questioni di pedigree politico, di fatto, non può ancora mettere piede. Infine c’è Forza Italia: Silvio Berlusconi, acciaccato dagli anni e fuori dai riflettori da tempo, riesce ormai a farsi percepire anche da chi lo ha a lungo avversato come un arzillo e simpatico vecchietto, tutto sommato innocuo. A ben vedere, complici le circostanze, la sua grande astuzia è stata quella del Diavolo di Baudelaire: convincere tutti di non esistere.
Certo, per ora le destre vanno in ordine sparso. La legge elettorale uscita dalla Consulta non prevede le coalizioni. Lo stesso Berlusconi è titubante: a lui il proporzionale piace. Viste le forze in campo, pensa (o meglio pensava) di poter riportare il suo partito al governo con un’alleanza post urne con il Pd. Ma da domenica i numeri raccontano pure dell’altro. Se si torna al Mattarellun, o a qualcosa del genere, il centrodestra se la può giocare. Per prendere tutto il piatto. Anche perché di possibili candidati premier non ne ha uno, ma due: Zaia e il presidente della Liguria, Giovanni Toti. In queste condizioni le eventuali primarie del centrodestra (vedrete, prima o poi ci arriveranno pure loro) rischiano di diventare un ulteriore volano verso le Politiche del 2018. Ma Matteo e Beppe, come i due capponi di Renzo, non vogliono pensarci. Uno perché in fondo non sente Berlusconi come un nemico. L’altro perché è sicuro che intanto si andrà al voto col proporzionale. Può essere. Noi ci limitiamo a ricordare che Dio acceca chi vuole perdere. Sarà il caso che Pd e M5S incomincino a inforcare gli occhiali.