Il Fatto 14.6.16
Matteo e Beppe, Dio acceca chi vuole perdere
di Peter Gomez
Tra
i due litiganti il terzo gode, dice il proverbio. E lo dicono ora pure i
risultati del primo turno delle elezioni amministrative. La destra in
Italia c’è e avanza. È in testa in 13 su 19 ballottaggi nelle principali
città e se per caso vincerà a Genova per il Pd la sconfitta sarà
bruciante come quella subita domenica scorsa dal Movimento 5 Stelle.
Curiosamente però né Matteo Renzi, né Beppe Grillo sembrano rendersi
conto della situazione. Il primo, ancora ieri, spendeva buona parte del
tempo per attaccare gli odiati grillini e, sprezzante del ridicolo,
sosteneva che Palermo fosse una vittoria del suo partito. Dimenticando
che i Dem per poter correre con Leoluca Orlando avevano dovuto
nascondere il simbolo (fondendosi con gli alfaniani) e che lo stesso
Orlando si era rifiutato di presentarsi davanti alle telecamere di La7
dopo che il suo nome era stato accostato al Pd. Il secondo, invece,
forse ansioso di imitare i politici della Prima Repubblica, arrivava a
sostenere che quella dei 5Stelle era una “crescita lenta, ma
inesorabile”: frase cult da mettere negli annali come la versione 2.0
della “sostanziale tenuta” di democristiana memoria. Contenti loro. Se i
due non si svegliano ci penserà la realtà a farlo: investendoli a tutta
velocità con una caterva di voti di destra.
I presupposti ci sono
tutti. La Lega oltre che utilizzare parole discutibili (per usare un
eufemismo), ma certamente utili per cavalcare i disagi e le paure
provocati dall’accoppiata crisi economica più immigrazione, può vantare
al nord due regioni che agli occhi di molti cittadini appaiono ben
governate. Così, mentre Matteo Salvini invita alla lotta, Luca Zaia e
molti altri amministratori pubblici hanno il physique du rôle e i
curricula adatti per rassicurare anche gli elettori moderati. In Puglia,
Raffaele Fitto, con la sua vasta rete di amicizie e clientes, fa il
pieno di voti. E Giorgia Meloni, grazie al nazionalismo di ritorno
guadagna spazio in quelle regioni in cui Salvini per questioni di
pedigree politico, di fatto, non può ancora mettere piede. Infine c’è
Forza Italia: Silvio Berlusconi, acciaccato dagli anni e fuori dai
riflettori da tempo, riesce ormai a farsi percepire anche da chi lo ha a
lungo avversato come un arzillo e simpatico vecchietto, tutto sommato
innocuo. A ben vedere, complici le circostanze, la sua grande astuzia è
stata quella del Diavolo di Baudelaire: convincere tutti di non
esistere.
Certo, per ora le destre vanno in ordine sparso. La legge
elettorale uscita dalla Consulta non prevede le coalizioni. Lo stesso
Berlusconi è titubante: a lui il proporzionale piace. Viste le forze in
campo, pensa (o meglio pensava) di poter riportare il suo partito al
governo con un’alleanza post urne con il Pd. Ma da domenica i numeri
raccontano pure dell’altro. Se si torna al Mattarellun, o a qualcosa del
genere, il centrodestra se la può giocare. Per prendere tutto il
piatto. Anche perché di possibili candidati premier non ne ha uno, ma
due: Zaia e il presidente della Liguria, Giovanni Toti. In queste
condizioni le eventuali primarie del centrodestra (vedrete, prima o poi
ci arriveranno pure loro) rischiano di diventare un ulteriore volano
verso le Politiche del 2018. Ma Matteo e Beppe, come i due capponi di
Renzo, non vogliono pensarci. Uno perché in fondo non sente Berlusconi
come un nemico. L’altro perché è sicuro che intanto si andrà al voto col
proporzionale. Può essere. Noi ci limitiamo a ricordare che Dio acceca
chi vuole perdere. Sarà il caso che Pd e M5S incomincino a inforcare gli
occhiali.