Corriere 19.6.17
La post-verità da Platone fino a Trump
di Adriana Cavarero
Gli
Oxford Dictionaries hanno eletto «post verità» parola internazionale
dell’anno 2016, a seguito del controverso referendum sulla «Brexit» e
dell’elezione presidenziale americana ugualmente contestata, che hanno
contribuito a diffondere questo termine tanto nei mass media che nel
gergo politico. Il dizionario definisce «post-verità» come «in rapporto o
contestuale a circostanze in cui i fatti oggettivi sono meno influenti
nel plasmare l’opinione pubblica rispetto alla leva esercitata sulle
emozioni e sulle credenze personali». Il prefisso «post», in questo
caso, non significa «successivo», ma anzi denota un’atmosfera in cui la
verità è irrilevante e prevalgono le credenze radicate nelle emozioni.
Ci
si chiede se una politica che fonda la sua agenda sul principio della
verità, scartando il regno emotivo di sentimenti e credenze, sia mai
esistita nell’intera tradizione politica dell’Occidente.
A dire il vero è esistita, ma solo nel registro astratto della teoria: nella fervida immaginazione politica di Platone.
Nella
Repubblica, Platone esamina l’antagonismo tra una politica costruita
sulla verità, che corrisponde alla sua concezione della polis ideale, e
una politica costruita invece sulle emozioni, ovvero sul pathos, la
patologia di quella entità politica collettiva che egli chiama «i molti»
— hoi polloi — e che descrive in modo allegorico come «un grosso
animale».
Il contesto in cui questa celebre e ignobile immagine
emerge è un discorso di Socrate sulla natura del vero filosofo, che si
distingue dalla natura di altri esperti di logos nell’Atene
contemporanea, i sofisti. Nello sviluppare una speciale tecnica di
linguaggio che riesce ad emozionare «i molti» i sofisti si prestano a
pagamento a istruire i futuri leader politici su un discorso che miri a
manipolare il pubblico e, tecnicamente, a conquistarsi i voti degli
elettori. Platone paragona il sofista a qualcuno che «avesse compreso
gli impulsi e i desideri di un animale da lui allevato grande e forte e
sapesse come bisogna avvicinarsi a lui e quando e per quali motivi
diventa più irascibile o più mite, quali suoni è solito emettere a
seconda delle circostanze, e quali, se proferiti da altri, lo
ammansiscono e lo irritano; e tutte queste conoscenze, apprese grazie a
una lunga dimestichezza, le chiamasse sapienza e si volgesse a
insegnarle quasi avesse istituito un’arte;… tutto in base alle opinioni
di quel grosso animale».
È risaputo che le teorie antidemocratiche
di Platone sono state storicamente cooptate dalla tradizione
reazionaria e dall’estrema destra, persino dalle ideologie naziste.
Eppure vale la pena riflettere sulla sua critica della democrazia.
Platone sostiene che la democrazia si trasforma inevitabilmente in
demagogia, un regime politico che provoca la corruzione del popolo
tramite la manipolazione dell’opinione pubblica e crea governanti che
accrescono la loro popolarità sfruttando il pregiudizio e l’ignoranza di
molti, rinfocolando le loro emozioni e contrastando le decisioni
ragionate. Questi leader si specializzano nel coltivare, incrementare,
riprodurre e riformulare gli impulsi del grosso animale, allo scopo di
stabilire e affermare un sistema di potere fondato sul pathos, una forma
di «politica patologica». In questo senso, la polis ideale di Platone è
all’opposto: come governanti, i filosofi sono in realtà guidati dalla
verità del logos, ovvero dalla capacità della ragione di controllare e
reprimere gli impulsi delle parti più basse e viscerali. I filosofi,
sostiene Platone, devono essere educati ad amare la verità e provare
vergogna nel mentire.
Al contrario, dato che i politici educati
dai sofisti guardano al logos non come una struttura che racchiude
l’ordine della verità, ma piuttosto come uno strumento di azione per
manipolare le emozioni della gente, essi mentono. La verità è
irrilevante in questo contesto patologico. Talmente irrilevante che
qualunque cosa il grosso animale creda o sia persuaso a credere, ciò
corrisponde al vero. Il concetto della post-verità applicata alla
politica, come suggerisce il dizionario di Oxford e come Platone sembra
presagire, non liquida la verità, bensì la rende irrilevante.
La
posta in gioco non è la verità, bensì il potere: sia il potere
generalmente definito come dominio sugli altri tramite mezzi di
persuasione oppure, più nello specifico, come caratteristica distintiva
di operazioni linguistiche capaci di dimostrare l’irrilevanza e, in
ultima analisi, la superfluità del vero.
Platone, antidemocratico
ed elitista, è il primo a detestare i tecnici della manipolazione del
popolo che trasformano l’esercizio della menzogna in un’arte politica
efficace, accettabile e gradevole, l’arte del discorso acrobatico, una
specie di funambolismo verbale assai divertente. Per questo motivo
Platone non esita a definire ciarlatani i sofisti e i loro emuli in
politica, aggiungendo che la loro esibizione corrisponde ai gusti
popolari degli spettatori del circo.