giovedì 25 maggio 2017

SULLA STAMPA DI GIOVEDI 25 MAGGIO

Repubblica 25.5.17
Naufragio di bimbi, 34 morti “Centinaia salvati dalle Ong”
Strage di migranti al largo della Libia. L’Oim denuncia: 150 dispersi Record di sbarchi dall’inizio dell’anno: oltre 50mila già arrivati in Italia
di Alessandra Ziniti

PALERMO. I trafficanti di uomini hanno ricominciato a mettere in mare i grandi barconi di legno e a stiparvi su centinaia di persone e i numeri dei morti nel Mediterraneo sono tornati a salire: 34, e purtroppo almeno una decina di bambini, i corpi recuperati in mare dalla nave umanitaria Phoenix di Moas ma i dispersi, stando anche alla segnalazione di un altro presunto naufragio da parte dell’Oim, potrebbero essere più di 150. Un barcone strapieno di migranti con le mani tese verso le navi di soccorso, forse un’onda anomala, il terrore a bordo, uomini, donne, bambini che cercano la salvezza e si muovono facendo oscillare paurosamente l’imbarcazione che si rovescia su un fianco proprio mentre la Phoenix è ormai in vista. Decine di teste che, pian piano vanno giù, nessuno ha il giubbotto salvagente, braccia che escono fuori dall’acqua nel tentativo di rimanere a galla e poi decine di corpi composti pietosamente in sacchi di tela bianca, alcuni con dentro piccolissimi corpicini, ammonticchiati uno sopra l’altro sulla prua e sui ponti della nave.
Sono immagini drammatiche quelle diffuse da Moas su Twitter ieri pomeriggio che, insieme alla registrazione audio di una chiamata di soccorso di un migrante che implorava «Venite, ci sono dei morti in acqua», hanno reso tutta la drammaticità delle ultime 48 ore vissute davanti alle coste libiche dove motovedette della Guardia costiera, la nave Lybra della Marina militare, navi umanitarie e anche alcuni mercantili chiamati a dare aiuto dalla sala operativa della Guardia costiera hanno portato in salvo più di 1.800 persone portando a 50.267 il numero dei migranti soccorsi in questi primi mesi del 2017 e a più di 1.400 il numero delle vittime.
Erano oltre 500 a bordo del barcone che ieri mattina si è rovesciato a poche miglia dalla costa di Al Zuwara nelle stesse ore in cui unità di soccorso della Guardia costiera, della Marina militare, della nave umanitaria Phoenix della Ong Moas, ma anche la Vos Prudence di Msf e Sos Mediterranee operavano nella zona in cui, uno dietro l’altro, venivano avvistati gommoni e barconi fatti partire contemporaneamente. I trafficanti, sfruttando le buone condizioni meteo, hanno effettuato quello che ormai viene definito un «lancio multiplo» mettendo contemporaneamente in mare dodici tra gommoni e grossi barconi in legno.
Drammatiche le fasi del salvataggio dei migranti a bordo di altri due gommoni. La nave Aquarius di Msf e Sos Mediterranee aveva già distribuito i giubbotti di salvataggio e portato a bordo venti persone quando sono arrivate le motovedette libiche. «In uniforme e armati sono saliti su uno dei gommoni. Hanno preso i telefoni, i soldi e gli oggetti personali. I migranti si sono sentiti minacciati e sono entrati in panico — racconta Annemarie Loof di Msf — molti di loro si sono buttati in acqua per paura. Ne abbiamo tirato fuori 67 mentre i libici sparavano in aria colpi di arma da fuoco. È davvero un miracolo che alla fine nessuno sia affogato o sia rimasto ferito».

Corriere 25.5.17
«Noi imam denunciamo gli estremisti E siamo orgogliosi di questa scelta»
di Goffredo Buccini

Qualche mese fa l’aveva detto proprio al «Corriere»: il terrorismo jihadista sta nell’«album di famiglia» degli islamici. Ora, dopo l’ennesima strage di innocenti, non è forse tempo di strappare quelle pagine dell’album?
«Sì, e lo stiamo facendo», dice Izzedin Elzir, imam di Firenze e capo dell’Ucoii, l’Unione delle comunità islamiche italiane, la più forte e ramificata organizzazione musulmana sul nostro territorio.
Mi spieghi come.
«Noi imam siamo orgogliosi di scomunicare gli atti di questi criminali».
Gli atti, non le persone?
«Nella nostra religione non c’è bisogno d’una mia benedizione per entrare o restare. Ma chi pensa di guadagnarsi il paradiso con simili crimini andrà dritto all’inferno, dico io».
Perché non emettere una fatwa?
«La nostra fatwa l’abbiamo già emessa nel 2006, nel documento dei musulmani d’Italia contro il terrorismo».
Non in molti se ne sono accorti, ammettiamolo... Comunque in Italia siete un milione e 800 mila: possibile che non riusciamo mai a vedere centomila musulmani in corteo contro i terroristi?
«Noi siamo italiani. E manifestiamo con i nostri concittadini italiani. Io non voglio fare una manifestazione di un solo colore religioso, la trappola dei terroristi è separarci, metterci in un ghetto».
L’imam della moschea frequentata da Salman Abedi, l’assassino di Manchester, racconta che un giorno, facendo un sermone anti Isis a duemila fedeli, notò che il «gruppetto» di Salman era in disaccordo. Quanto pesano da voi questi «gruppetti»?
«Non pesano niente. Lo prova il coraggio con cui da noi parlano quasi, voglio dire quasi, tutti gli imam. Noi dobbiamo fare rete con le forze dell’ordine e i giudici».
Lei ha sterzato parecchio verso l’integrazione la linea dell’Ucoii in sette anni. Mai avuto problemi?
( ride ) «Eeeeehh... grazie a Dio, no. Certo, non tutti accettano la mia linea, ma siamo maggioranza. Poi qualcuno mi guarda male, ma fa parte delle...differenze culturali della nostra fede».
Se lei è sincero, e non lo metto in dubbio, si pone come bersaglio, lo sa?
«Lo so. Ma bisogna vivere con la testa in su. E nella paura non c’è vita».
Mai minacciato?
«Beh, qualche lettera... ma non da musulmani».
Lei ha più volte invitato a denunciare gli estremisti. Ma è mai successo davvero?
«Certo, e può vederlo nei blitz antiterrorismo che da Nord a Sud d’Italia vanno a segno anche grazie agli imam».
Come quello di Venezia contro la cellula che voleva far saltare il Ponte di Rialto?
( esita a lungo ) «Non posso citare casi, per rispetto della sicurezza nazionale... e anche dei nostri imam. Beh, un caso sì, è già noto: l’imam di Lecco ha fatto arrestare un estremista che voleva coinvolgerlo in un progetto violento. In generale le assicuro che c’è sul territorio molta collaborazione con lo Stato e ne siamo fieri».
Avete fatto un censimento?
«Sì, ci abbiamo messo un anno: abbiamo censito più di 1.200 luoghi di culto islamici in Italia. Sei moschee con tutte le caratteristiche architettoniche e poi garage, capannoni, cantine. Abbiamo mandato copia al nostro ministro».
Il... vostro ministro?
«Minniti, il ministro degli Interni».
Quale scenario di radicalizzazione preoccupa di più?
«Il web. Ma lì purtroppo possiamo poco. Poi le carceri. E lì facciamo molto».
Come?
«Il Dap, l’amministrazione penitenziaria, ci segnala le carceri più a rischio e noi mandiamo i nostri imam a predicare. Dal 1° febbraio ne abbiamo mandati quindici, in sei carceri, da Milano a Firenze. E ci chiedono di aumentare il numero di interventi».
Però ci sono sacche pericolose nelle periferie. Tante famiglie islamiche tolgono da scuola le figlie, impongono loro il velo con la forza...
«Noi chiediamo ai presidi di mettersi in contatto coi nostri imam dove ci sono questi problemi. Gli imam spiegheranno alle famiglie che la religione non chiede questo, che questa è ignoranza».
Qual è per lei il confine tra l’accettazione dei valori e l’obbedienza alla legge?
«Alle leggi si obbedisce e basta. Quanto ai valori, beh, il nostro valore è la Costituzione italiana: noi siamo italiani. Quando poi cominciamo a parlare di... vestiti e cibo, entriamo in un minestrone che non aiuta nessuno. Del resto, un cattolico non ha forse valori diversi da un comunista?».
La lettura del Corano si può riformare?
«Noi, europei e italiani di fede islamica, abbiamo proprio questo compito, di riprendere il riformismo interno, perché qui possiamo discutere in libertà e democrazia».
Lei ha firmato con convinzione il patto nazionale di cittadinanza...
«E sta in piedi bene. Venerdì scorso ho verificato che una ventina di nostri imam, trasmettendo il sermone su Facebook, usavano sia l’arabo che l’italiano: questa, vede, è trasparenza, uno dei pilastri del patto. Le nostre moschee sono aperte. Ora servono un’intesa e una legge».
Il riconoscimento della vostra religione, eh?
«L’ultimo passo dello Stato, sì» .

Il Fatto 25.5.17
Abraham Yehoshua
Lo scrittore israeliano dopo la strage: “Altro che lotta al terrore”
“E Trump li chiama ‘sfigati’ ma vende armi a chi foraggia l’Isis”
intervista di Roberta Zunini

“Non è un caso che nel commentare l’orribile strage di Manchester, Trump abbia definito i membri dell’Isis con l’aggettivo loser, che significa ‘perdenti’ o ‘sfigati’, termini che usano gli squali di Wall Street, gli speculatori, gli affaristi e i conduttori dei diseducativi talent show, quale è rimasto Trump”.
Abraham Yehoshua comincia così, partendo dalla strage del concerto di Ariana Grande, i suoi ragionamenti sull’attualità internazionale. E sono proprio il nuovo inquilino della Casa Bianca e la politica estera degli Usa il filo conduttore delle sue parole. Con una prima critica netta: “L’accordo raggiunto tra Usa e Arabia Saudita non ha nulla a che vedere con il tentativo di sradicare i terroristi islamici e la lotta al jihad. E nemmeno è finalizzato a migliorare i rapporti tra il mondo arabo sunnita e noi ebrei israeliani. Si tratta esclusivamente di un accordo commerciale basato sulla vendita di armi, che ancora, purtroppo, è il motore dell’economia. Invece di incoraggiare e apprezzare la scelta fatta dagli iraniani votando il moderato Rouhani, Trump non si è fatto scrupolo a vendere armi a una nazione che ha sostenuto e foraggiato proprio al Qaeda e l’Isis”.
Questa volta, la sua voce trasferisce toni mai sentiti durante le precedenti interviste. Non appena gli chiediamo della visita del presidente Trump in Israele risponde con insofferenza.
Perché?
Voglio essere chiaro: il signor Trump non ha il profilo morale, l’intelligenza, la cultura, la sensibilità per risolvere alcunché, tantomeno una questione tremendamente complessa come quella israelo-palestinese. Questo signore conosce solo il linguaggio volgare e arrogante dei soldi e della peggior tv. Come ha fatto, appunto, parlando di Manchester.
Però Trump è stato accolto dal premier Netanyahu come una sorta di Messia e nonostante i servizi israeliani lo ritengano ormai inaffidabile dopo la rivelazione ai russi di alcune informazioni fornite alla Casa Bianca proprio dal Mossad. Qual è la spiegazione di questa pomposa e inedita accoglienza?
Che Trump non è interessato alla pace tra israeliani e palestinesi, come non è interessato il suo amico di famiglia Netanyahu. Entrambi vogliono mantenere lo status quo, quello che dicono e fanno in pubblico è solo una farsa. La verità è che entrambi non vogliono la nascita di uno Stato palestinese mentre vogliono continuare la politica rovinosa dell’appoggio alle colonie nei Territori palestinesi occupati. Non è un caso che Trump nell’incontro con Abu Mazen (presidente dell’Autorità nazionale palestinese, ndr) non abbia minimamente fatto riferimento alla soluzione dei due Stati.
Abu Mazen ha fatto troppo buon viso?
Il presidente dell’Anp è stato troppo passivo, troppo cauto. La situazione richiede una posizione più decisa.
Si riferisce al fatto che non ha sottolineato a sufficienza le conseguenze di 50 anni di occupazione israeliana?
Prima di risponderle sul punto voglio sottolineare che la Guerra dei Sei giorni, scoppiata il 5 giugno 1967, è stata giusta perché Israele stava per essere attaccato. Detto questo condannerò senza mai stancarmi l’occupazione dei territori palestinesi che ne è scaturita. A causa della violenza dei coloni ebrei, a causa dell’espansione delle colonie e alla nascita di nuove, a causa delle privazioni a cui i palestinesi che vivono nei Territori sono sottoposti quotidianamente da mezzo secolo, questa situazione non può reggere.
Mesi fa lei si è attirato critiche per aver detto che l’unico modo per rendere decente la vita dei palestinesi che vivono nei Territori Occupati sotto il controllo totale dell’esercito, ndr) e a Gerusalemme Est, è riconoscere loro la cittadinanza israeliana. La accusano di pensarla come il potente ministro Naftali Bennet, leader del partito dei coloni. Pensa essere stato mal interpretato?
Non ho mai condiviso l’annessione dei Territori palestinesi occupati, né di Gerusalemme est, che è la visione di Bennet. Ho invece asserito l’opposto: nell’attesa che nasca uno Stato palestinese vero e proprio, con la continuità territoriale che uno Stato deve avere per essere davvero tale, bisogna dare ai palestinesi una speranza per credere ancora nella pace. La cittadinanza permetterebbe loro di avere una vita più decorosa. Ripeto: non significa però che non credo più all’ipotesi della nascita di uno Stato palestinese, l’unica vera soluzione. Sono solo realista.
Intanto dal 17 aprile continua lo sciopero della fame di 1300 carcerati palestinesi. L’ispiratore è Marwan Barghouti, in carcere da 15 anni per il suo ruolo nella seconda intifada. Cosa ne pensa?
Che i detenuti palestinesi hanno ragione a scioperare perché sono discriminati e chiedono di poter godere degli stessi diritti di tutti gli altri carcerati, che sono peraltro i diritti sanciti da tutte le Convenzioni per i diritti umani. Israele, se vuole ancora definirsi una democrazia, glieli deve dare. È loro diritto.

Il Fatto 25.5.17
La peste della memoria inutile
Identità perdute - Come nel romanzo di Camus, gli europei accettano passivi la distruzione dei propri valori, dalla giustizia sociale al paesaggio, alla democrazia. Se non riconosciamo le rovine, la rinascita sarà impossibile
di Salvatore Settis

“Essi provavano la sofferenza profonda di tutti i prigionieri e di tutti gli esiliati: quella di vivere con una memoria che non serve a niente”.

In queste parole taglienti Albert Camus ha condensato non solo il dolore, ma la trama quotidiana della città appestata (Orano) che aveva scelto come osservatorio del mondo. Da Tucidide in poi, la narrazione della peste che affligge una città e la isola dal mondo è stata un esercizio letterario ricorrente, ma La peste di Camus ha una forza speciale, perché la descrizione e il decorso del morbo vi sono concepiti come una potente allegoria politica, che legittima la narrazione proprio mentre svuota l’apparente verità del racconto. Come lo stesso autore ha scritto pochi anni dopo, “il contenuto evidente del libro è la lotta della resistenza europea contro il nazismo”: in questa luce, personaggi e fatti del romanzo agiscono come gli atomi o come le sillabe di un’unica, estesa metafora che corre per tutte le pagine del libro. Abitanti e autorità di Orano dapprima non vogliono neppur vedere gli indizi del flagello che li decimerà, poi esitano a dargli un nome, e quando osano pronunciare la parola “peste” hanno già piegato la testa, imparando a convivere con essa.
La rimuovono due volte, prima perché rifiutano di prenderne coscienza, poi perché la ritengono ineluttabile e vi si rassegnano. Se la crisi dei valori che viviamo è come una peste che sta serpeggiando e che non vogliamo riconoscere; se non sappiamo vedere la vastità e la natura di un tracollo dei valori culturali che si nasconde così bene dietro indici di Borsa e invocazioni al “realismo” e al “pragmatismo”; se accettiamo a testa china una politica che devasta città e paesaggi, condanna i nuovi poveri, relega al margine le istituzioni culturali, crea “generazioni perdute” di giovani senza lavoro, esilia la giustizia e l’equità; se tutto questo è vero, e se è solo l’inizio di un processo destinato a radicarsi e a crescere, proviamo a rileggere in questa luce la diagnosi di Camus. Sarà ormai, la nostra, “una memoria che non serve a niente”? Ma che cosa è la memoria culturale di una società come la nostra, in cui gli esseri umani e le loro culture si mescolano con ritmo disordinato ma incalzante?
In questo nuovo orizzonte, che troppo spesso rimuoviamo dalla coscienza, quella che rischia davvero di non servire più a niente è prima di tutto la memoria degli immigrati, che dalle profondità del loro esilio non vedono più intorno a sé i punti di riferimento che fino a ieri erano familiari e rassicuranti. La loro, nei termini di Camus, è la “memoria degli esuli”. Ma accanto agli esuli, e condividendo nel lungo periodo il loro destino, ci siamo anche “noi”, prigionieri di una crisi senza fine e senza nome. E anche la “me moria dei prigionieri” finirà col non servire a niente se accantoniamo senza nemmeno accorgercene le nostre coordinate più familiari: la forma della città e dei paesaggi, la cura della dignità umana, la priorità del bene comune, la giustizia sociale, l’eguaglianza, il diritto al lavoro, la democrazia.
Sotto il cupo ombrello della crisi, prigionieri ed esuli si somigliano e si affratellano senza saperlo: gli uni e gli altri inseguono briciole di benessere (che coincidono coi rituali del consumo), e intanto perdono il loro tesoro più prezioso, la memoria. O meglio la conservano, ma come un arnese desueto da riporre in soffitta. “Vivere con una memoria che non serve a niente” comporta una sofferenza profonda (questa la parola di Camus), ma non sempre acuta: perciò al basso continuo di questa deprivazione incessante ci abituiamo, ci facciamo il callo. E la peste si diffonde, seminando quella morte morale che si chiama rassegnazione, indifferenza, cinismo. La nave all’orizzonte (minacciosa e invisibile), le rovine, la peste: metafore che nascono da una preoccupazione, ma sono alimentate dalla speranza. Una speranza che esige una memoria che serva a qualche cos , e dalla quale qualche cosa si possa ricostruire, qualche cosa di nuovo si possa creare. In un itinerario che corre fra rovina e rinascita, la cultura e la bellezza, il pensiero analitico e la consapevolezza storica sono ingredienti essenziali. Ma quale memoria ci soccorrerà su questo cammino? L’idea di rinascita dalle rovine, a cui abbiamo fatto appello, non è forse per sua natura squisitamente eurocentrica? Richiamarsi a essa non equivale a immaginare una “fortezza Europa”, entro la quale “noi” (i prigionieri) possiamo sperare in una qualche salvezza, a cui “gli altri” (gli esuli) debbano restare estranei? Evocare una tradizione fatta di decadenze e di rinascite, secondo un ritmo così tipicamente europeo, non rischia di alzare una barriera fra i prigionieri e gli esuli? Il Rinascimento europeo è stato condannato senza appello, in anni recenti, da una tendenza politically correct che lo ha considerato una millanteria auto-celebratoria, colorata di arrogante eurocentrismo (o anche di nazionalismo, quando se ne rivendichi l’origine italiana). A questo “rinascimento trionfante”, che comporterebbe l’esclusione degli illetterati e dei colonizzati, si è voluta opporre l’immagine di una non triumphant Renaissance caratterizzata a partire dalle periferie e dal basso, o meglio ancora ridotta a pura etichetta cronologica (spesso sostituita da Early Modern, come se Renaissance fosse ormai un termine imbarazzante). “Rinascimento” è in tal modo diventato sinonimo di “alta cultura” o di elitismo, una sorta di preteso monopolio europeo da respingere a ogni costo. È anche per questo che si è intensificato l’uso del termine per definire periodi di particolare fioritura delle civiltà più varie, dall’epoca Song in Cina (960-1279) alla Harlem Renaissance in America (negli anni Venti del Novecento). Ma questo slittamento lessicale ha due gravi svantaggi: da un lato, oscura e consegna all’oblio la potente metafora di una nuova nascita, da cui Rinascimento ebbe origine; dall’altro lato, ricicla la parola riducendola a un’etichetta con particolari connotazioni di prestigio, e per questo da applicarsi tal quale anche fuori d’Europa.
Torna qui, sotto altra forma, il modello storiografico che considera il Rinascimento come nascita della modernità, e cercare altri rinascimenti in altre culture corrisponde al desiderio di metterle al passo con gli orizzonti culturali europei; di rivendicare la loro presenza, accanto all’Europa, intorno alla culla del capitalismo, tacitamente considerato come il modello vincente.

La Stampa 25.5.17
Trump e Francesco assieme per sostenerela libertà religiosa
Bergoglio inizia l’incontro senza sorrisi ma la Casa Bianca fa sapere: “C’è forte intesa sulla difesa dei diritti umani”
di Andrea Tornielli

Più che i contenuti del colloquio era importante che il Papa e Donald Trump si incontrassero e si ascoltassero a vicenda. In questo senso il faccia a faccia di mezz’ora che si è svolta ieri mattina in Vaticano, con inizio all’orario inconsueto delle 8,30 per non turbare l’udienza generale del mercoledì («Prima la gente» ama ripetere Francesco in queste occasioni), è stato tutto sommato positivo. Il primo contatto diretto con il nuovo inquilino della Casa Bianca.
Oltre al «compiacimento» per le buone relazioni tra la Santa Sede e gli Stati Uniti, i punti d’incontro sono «il comune impegno a favore della vita e della libertà religiosa e di coscienza». Poi, informa il comunicato vaticano, «si è auspicata una serena collaborazione tra lo Stato e la Chiesa cattolica negli Stati Uniti, impegnata a servizio delle popolazioni nei campi della salute, dell’educazione e dell’assistenza agli immigrati». Segno che su questo ci sono tensioni: la Chiesa statunitense ha criticato le decisioni della nuova amministrazione in materia di immigrazione.
La nota della Santa Sede continua citando lo «scambio di vedute» su alcuni temi di attualità internazionale e sulla «promozione della pace nel mondo tramite il negoziato politico e il dialogo interreligioso, con particolare riferimento alla situazione in Medio Oriente e alla tutela delle comunità cristiane». Nel colloquio con il Pontefice si è parlato di pace e del moltiplicarsi di focolai che la minacciano. È noto come Francesco ripeta da tempo di considerare iniziata la «terza guerra mondiale a pezzi». Nel successivo dialogo di Trump con il cardinale Pietro Parolin e il «ministro degli Esteri» vaticano Richard Gallagher il presidente ha insistito sul dialogo interreligioso. Parolin, ha rivelato il suo omologo americano, il Segretario di Stato Rex Tillerson, ha chiesto al presidente di non abbandonare gli impegni presi dagli Usa all’incontro sul clima di Parigi. Trump non si è impegnato e «non ha preso una decisione».
La Casa Bianca informa che il presidente ha parlato dell’impegno comune per combattere il terrorismo: «Gli Usa e la Santa Sede condividono molti valori fondamentali e cercano di impegnarsi globalmente per promuovere i diritti umani, combattere le sofferenze umane e proteggere la libertà religiosa». Trump ha anche rinnovato l’impegno degli Usa nel combattere la fame nel mondo, con uno stanziamento di oltre 300 milioni di dollari per le crisi in Yemen, Sudan, Somalia e Nigeria.
L’udienza ha avuto inizio alle 8,31, dopo che il presidente e la First Lady avevano attraversato le stanze rinascimentali del Palazzo apostolico alzando gli occhi verso i soffitti affrescati. La moglie Melania e la figlia Ivanka erano vestite di nero con il velo, secondo un protocollo sempre meno usato. Fuori dalla Biblioteca il Papa e Trump si sono stretti la mano per la prima volta. C’era tensione sui volti di entrambi. «Benvenuto», ha detto Francesco. «È davvero un grande onore», ha risposto Trump. All’interno dello studio, i due leader si sono sottoposti alle foto di rito. Trump ha sorriso, Bergoglio un po’ meno. «È il protocollo», ha sussurrato il Papa all’ospite, quasi a volersi scusare. «I speak spanish» , ha avvertito Francesco dopo essersi seduto alla scrivania. Concluso l’incontro è stata introdotta nella Biblioteca la delegazione americana. Melania ha chiesto al Pontefice di benedire un rosario. Francesco scherzando le ha chiesto se avesse fatto mangiare al marito «la potizza», un dolce tradizionale sloveno alle noci. La First Lady però non ha compreso la domanda e ha risposto: «Sì, pizza. Delicious». Trump ha donato al Papa un cofanetto con le opere di Martin Luther King. Il Papa ha regalato al presidente un bassorilievo in bronzo che rappresenta un albero di ulivo che con i suoi rami tiene uniti due lembi di terra divisi. «C’è una frattura - ha detto - che significa la divisione della guerra. Questa immagine rappresenta il mio desiderio per la pace. Glielo dono perché lei sia strumento di pace». «We can use peace», abbiamo bisogno di pace ha replicato Trump. Francesco ha donato al presidente anche le sue encicliche, compresa la Laudato si’ dedicata alla cura del creato. Trump ha salutato il Papa così: «Good luck, buona fortuna. Non dimenticherò quello che lei ha detto». La famiglia Trump ha quindi visitato la Cappella Sistina e San Pietro. «Abbiamo avuto una riunione fantastica» è stato il commento finale del presidente.
Dopo l’incontro in Vaticano il presidente Trump, alle 11, ha raggiunto il Quirinale per una visita di cortesia al presidente Sergio Mattarella. Anche qui il faccia a faccia è durato circa mezz’ora e il tema principale è stato la lotta al terrorismo. Prima di partire per Bruxelles il leader Usa ha ricevuto il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, a Villa Taverna, residenza dell’ambasciatore americano, e l’ha ringraziato per l’impegno dell’Italia nella stabilizzazione della Libia e nella lotta allo Stato islamico.

il manifesto 25.5.17
Bassetti, il segno della nuova sintonia con Bergoglio
di Alessandro Santagata

Come era stato ipotizzato dopo l’uscita della terna ufficiale, papa Francesco ha scelto il cardinale Gualtiero Bassetti come nuovo presidente della Cei. Con 134 voti il nome dell’arcivescovo di Perugia è stato il più votato dall’assemblea: un’indicazione che può essere interpretata, in prima battuta, come la risposta di un episcopato che ha voluto conservare l’eccezionalità del sistema elettivo italiano e, nello stesso tempo, avanzare una candidatura gradita al pontefice. Ma chi è il card. Bassetti? Non si tratta di uno dei nomi più ricorrenti nelle cronache, anche se di lui si era parlato recentemente in occasione del caso «Fabiano Antoniani, dj Fabo». «Ogni volta che si pone termine a una vita siamo tutti sconfitti» aveva dichiarato il cardinale esortando a non fare confusione tra testamento biologico e eutanasia. Nella medesima intervista aveva richiamato come esempio positivo la decisione del cardinale Silvano Piovanelli di rifiutare le cure. A questa figura, espressione di un certo riformismo fiorentino del Novecento, Bassetti è legato almeno dagli anni Novanta, quando muoveva i suoi primi passi come vicario generale dell’arcidiocesi di Firenze.
Nel 1994 Giovanni Paolo II lo faceva vescovo di Massa Marittima-Piombino. Dal 1998 prendeva il via il ministero episcopale ad Arezzo, durato fino al 2009 quando era promosso arcivescovo di Perugia-Città della Pieve. Nella biografia pubblicata sul sito della diocesi, di questi anni si ricorda l’impegno pastorale a contatto con i giovani, i lavoratori e i migranti e, non senza una buona dose di retorica, lo si accosta alla figura di Leone XIII, il papa della Rerum novarum che fu vescovo di Perugia. È certo che la sua attenzione al mondo del lavoro si è concretizza in una presenza ricorrente nelle aziende minacciate dalla crisi e ha trovato una sistematizzazione nella Lettera pastorale del 1° maggio 2004: Nella crisi: la speranza oltre ogni paura. Nel 2014 papa Francesco gli ha assegnato a sorpresa la porpora rompendo la tradizione delle diocesi cardinalizie (a cui Perugia non appartiene) e nel 2016 lo ha inserito nella Congregazione vaticana dei vescovi al posto di Bagnasco. Infine, prima dell’assemblea generale, gli ha prorogato l’incarico di arcivescovo rifiutando le dimissioni per sopraggiunto limite d’età.
Sono proprio questi ultimi dati che lasciano intravedere abbastanza chiaramente una sintonia tra la maggioranza dei vescovi e il papa argentino attorno a un vescovo dal profilo «pastorale», che possiamo di considerare di «transizione», e che dovrebbe (ma il condizionale è d’obbligo) garantire una maggiore sintonia tra la Conferenza e la Santa Sede.
Nella sua prima dichiarazione da presidente Bassetti ha specificato di non avere «programmi preconfezionati da offrire, perché nella mia vita sono sempre stato abbastanza improvvisatore». C’è da credergli quando parla di voler ritrovare l’unità nell’episcopato, dal momento che stando ai rumors i mesi che hanno preceduto la sua nomina non sono stati privi di scontri e tensioni interne.
Il nuovo presidente è chiamato a fare i conti con un passato piuttosto turbolento che ha visto spesso la Cei e il papa esprimersi spesso in modo diverso, per quanto sia difficile capire in che misura sia stato talvolta un gioco delle parti o semplicemente un effetto della decisione di Bergoglio di rispettare l’autonomia della Chiesa italiana.
Se prendiamo per esempio la vicenda dello scontro sulle unioni civili è evidente la lontananza tra le aperture pastorali del papa, che pur ribadendo il No all’equiparazione giuridica tra famiglia tradizionale e coppie omosessuali, non ha alzato barricate e le numerose esternazioni del cardinale Bagnasco contro la Cirinnà, sostanzialmente in continuità con le entrate a gamba tesa al tempo della presidenza del card. Ruini. Sappiamo che Bassetti si è associato all’opposizione alla Step-Child adoption, poi stralciata nella formulazione finale della legge, ha fatto sue le istanze del Family Day, ma ha sposato apertamente la linea del dialogo.
È ancora aperto invece il fronte del testamento biologico – nella sua ultima prolusione Bagnasco ha ricordato di aver «preso le distanze dal disegno di legge» – sul quale sarà possibile farsi un’idea più precisa di questa nuova presidenza dal punto di vista politico.

La Stampa 25.5.17

Leadership italiana per la Libia
Nato nella coalizione anti-Isis
Nell’incontro con Mattarella riconosciuto il ruolo del nostro Paese Al pranzo con Gentiloni discusso di migrazioni, clima e commercio
di Paolo Mastrolilli

Gli Stati Uniti riconoscono il ruolo di leadership dell’Italia in Libia, sollecitano gli europei ad adottare un fronte comune per stabilizzare il Paese, e oggi chiederanno formalmente alla Nato di aderire alla coalizione anti Isis. Sono gli elementi fondamentali che emergono dalla visita del presidente Trump a Roma, frutto di mesi di lavoro, ma anche dell’accelerazione provocata dall’attentato di Manchester.
Una fonte autorevole della Casa Bianca conferma: «La Libia è emersa in tutti gli incontri di ieri. In particolare in quello con il presidente Mattarella, che il nostro presidente ha ringraziato molto per tutto quanto l’Italia sta facendo». La traduzione dal gergo diplomatico di questo ringraziamento è che Trump ha riconosciuto la sensibilità e la competenza di Roma sul tema, avallando quindi la nostra leadership nella gestione della crisi. L’Italia in realtà premeva da tempo affinché la situazione in Libia venisse considerata come una minaccia per la sicurezza di tutti gli alleati, e quindi ricevesse la stessa attenzione riservata alla lotta contro il califfato in Iraq e Siria. L’attentato di Manchester però, con il suo filo rosso che porta direttamente a Tripoli, ha aggiunto urgenza al problema. Washington naturalmente resta molto coinvolta nei due Paesi dove l’Isis è nata, e dove si sta svolgendo l’offensiva decisiva per annientarla, ed impedire che i suoi militanti sconfitti tornino in Europa e America per colpirle. Nello stesso tempo però, pur chiedendo all’Italia di guidare le iniziative di stabilizzazione, gli Usa restano impegnati a fornire supporto politico e militare. Sul primo punto, c’è convergenza sulla necessità di continuare a lavorare con il governo Sarraj, pur includendo il generale Haftar, le tribù, e le altre componenti della società libica. In questo quadro, Mattarella ha sollecitato un rafforzamento dell’azione mediatrice dell’Onu. Sul secondo punto, invece, la strategia americana è ancora in fase di revisione. Quando invece la delegazione americana ha segnalato al Quirinale la mancanza in certe occasioni di un’azione congiunta europea, si riferiva soprattutto alle incertezze generate dalla Francia, a volte impegnata a perseguire obiettivi in Libia che sembrano dettati dall’interesse nazionale, più che da quello comune. Questo equivoco però dovrebbe essere superato ora, con l’investitura che Trump ha dato a Roma, e verrà ribadita al G7 di Taormina.
La lotta al terrorismo era stata già al centro del colloquio con papa Francesco, ma il presidente l’ha presentata come «tema prioritario» anche al Quirinale, perché questo «è il pericolo principale per l’umanità». Il capo della Casa Bianca ha detto di essere rimasto molto scosso dal vedere «giovani dilaniati nel nome di una ideologia», sottolineando come l’attacco in Gran Bretagna sia stato «un’atrocità più sofisticata delle precedenti».
Nel vertice di oggi a Bruxelles, quindi, gli Usa chiederanno alla Nato di entrare formalmente nella coalizione anti Isis, come ha anticipato il segretario di Stato Tillerson. Il capo della diplomazia Usa ha detto che ci sono ancora resistenze da parte di alcuni membri, ma l’attentato di Manchester dovrebbe superarle definitivamente.
Durante il pranzo a Villa Taverna col premier Gentiloni, che la First Lady Melania ha salutato parlando l’italiano imparato quando viveva a Milano, la Libia ha occupato uno spazio meno preminente, perché i due leader ne avevano già discusso a Washington durante l’incontro del 20 aprile. Quindi si sono concentrati sui tre temi principali dell’agenda del G7: la «human mobility», cioè le migrazioni, il clima, e i commerci.
Sul primo punto, il vertice riconoscerà che gli spostamenti delle popolazioni sono un’emergenza globale che richiede una risposta strategica coordinata, non solo per i soccorsi, ma anche per lo sviluppo dei Paesi d’origine. Sul riscaldamento globale, così come aveva fatto il segretario di Stato Vaticano Parolin, Gentiloni ha ribadito l’importanza di tenere in vita gli accordi di Parigi, ma Trump ha risposto solo di non aver ancora preso una decisione. Il G7 finirà per riconoscere l’esistenza di posizioni diverse, senza però esasperarle. Sui commerci invece si è insistito sul tema della reciprocità e dell’equità, per evitare di scivolare nella trappola del protezionismo.

La Stampa 25.5.17
Renzi pronto a vedere Berlusconi
Legge elettorale, il segretario Pd disponibile a incontrare anche Grillo: “Ora o mai più” Accelerazione sul modello tedesco e sul voto a fine settembre, ma Alfano punta i piedi
di Carlo Bertini Ugo Magri

Non di nascosto ma alla luce del sole, Matteo Renzi è pronto a incontrare tutti gli altri leader. Tutti: compreso Silvio Berlusconi e, perché no, Beppe Grillo (se i Cinquestelle volessero farsi guidare da lui nella trattativa). Per parlare di legge elettorale e, qualora si delineasse una vasta intesa sul modello proporzionale «alla tedesca», del modo più rapido per concludere questa sfortunata legislatura. Gli incontri si susseguiranno fino a lunedì perché il giorno seguente Matteo vuole andare nella direzione del suo partito, tirare le somme e zittire gli eventuali malpancisti. C’è il clima tipico delle grandi vigilie e delle svolte ineluttabili.
Tutti ci credono
Ufficialmente il Pd tiene ancora vivo il «Rosatellum», mezzo maggioritario e mezzo proporzionale, con Renzi che chiederà ai suoi interlocutori cosa ne pensano. Ma conosce già la risposta: tutto il peggio possibile. Per cui passerà subito alla sostanza, cioè quel «tedesco» che ha sempre più ammiratori perché, come segnala la vecchia volpe Franceschini, «è l’unico treno capace di arrivare alla meta». Oltre a Pd , Forza Italia e Mdp, per un motivo o per l’altro non sono ostili M5S e Lega. Unico irriducibile rimane Alfano, che vede nella soglia del 5 per cento un sopruso ai suoi danni. Potrà da solo rappresentare il classico granello che blocca l’ingranaggio? In casa Renzi qualche ansia si coglie, perché l’alleato di governo non può essere preso a pedate. E poi, i tempi sono terribilmente stretti. Per votare il 24 settembre, insieme con la Germania, le Camere andrebbero sciolte entro luglio. Per quella data ci vorrebbe una legge elettorale già in «Gazzetta Ufficiale» e con i collegi ridisegnati: impresa da Guinness. Al momento la discussione si svolge in commissione alla Camera. Ben che vada, la legge arriverà in aula il 10 giugno. Poi passerà in Senato. Per rispettare la tempistica, l’intesa dovrebbe essere non solo blindata, ma fatta rispettare con la precisione di un cronografo elvetico. Il rischio che salti tutto è presente allo stesso Matteo: «Se a luglio dovesse essere bocciata la riforma, non se ne farebbe più nulla». Toccherebbe andare alle urne con le due leggi amputate dalla Consulta, previo un mini-decreto correttivo delle parti più inconciliabili. A Renzi tutto sommato non dispiacerebbe, perché con i «consultelli» il Pd ci guadagna. Ma è proprio questo che tiene sulle spine il Cav.
I dubbi di Silvio
Berlusconi ha due timori. Il primo è che Salvini e Meloni lo prendano di mira accusandolo di «inciucio» coi «comunisti». Per questo già mette le mani avanti e nega Patti del Narareno (Renzi, con più ironia, si scrolla i sospetti citando «Cara ti amo» di Elio e le Storie Tese: qualunque cosa lui dica, agli altri non sta mai bene). Berlusconi poi sospetta che l’altro tenti nuovamente di buggerarlo: questa volta sfruttando l’esca del sistema tedesco (che a Forza Italia fa gola) per andare al voto con l’altro sistema. Nonostante questi fantasmi, il clima tra i due eserciti è cameratesco. Rosato (capogruppo Pd) procede a braccetto con l’ex nemico Brunetta, il testo della legge lo stanno limando insieme. E casomai non si dovesse fare in tempo a votare il 24 settembre, già spunta un'altra data: il 22 ottobre. Il Colle teme che non ci sarebbe più tempo per approvare la Finanziaria entro l’anno, scatenando l’ira di Bruxelles. Per Renzi, è un problema che non esiste: pure Germania e Austria votano in autunno, ma con loro nessuno ha da ridire...

il manifesto 25.5.17
Renzi e Berlusconi scoprono l’accordo
Legge elettorale. Le difficoltà aumentano e così si girano le carte. Il leader Pd: senza convergenze non abbiamo i voti al senato. Il Cavaliere: sistema tedesco poi si può votare subito. Ma il Quirinale non vuole azzardi sulla legge di bilancio. L'avvocato Besostri presenta gli emendamenti che possono trasformare il testo Fiano "incostituzionale" in un proporzionale vero
di Andrea Fabozzi

Prima Renzi e poi Berlusconi si fanno più espliciti. Espongono i contorni dello scambio che stanno apparecchiando: legge elettorale proporzionale contro elezioni anticipate. Segno che il loro piano incontra più di una difficoltà. Soprattutto al Quirinale, dove già l’anno scorso si pretese lo slittamento della data del referendum costituzionale per evitare ricadute sulla sessione parlamentare di bilancio. Che comincia a metà ottobre. Sul Colle non hanno mai escluso l’ipotesi dello scioglimento anticipato. Condizionandola però all’entrata in vigore di un sistema elettorale coerente per le due camere. Votare comunque, anche senza aver risolto il problema del sistema di voto, e anche con la legge di bilancio aperta, è tutto un altro discorso.
Renzi dice: «Il Rosatellum (il testo Fiano che da 48 ore è il testo base a Montecitorio, ndr) ha i voti alla camera. Bisogna che gli altri partiti ci dicano se li ha anche al senato. Noi stiamo facendo le cose sul serio per accogliere l’invito del presidente della Repubblica». L’omaggio al Quirinale conferma le tensioni, la domanda è evidentemente retorica. Risponde in serata Berlusconi: «Senza Forza Italia al senato non ci sono i numeri per approvare nessuna legge». Il testo Fiano così com’è piace solo a Pd, Lega e verdiniani. Potrebbe cambiare. Berlusconi traccia l’identikit del sistema tedesco, sul quale – dichiara – gli risultano segnali di disponibilità: «Serve una legge che garantisca corrispondenza tra voto dei cittadini e rappresentanza parlamentare, occorre garantire un corretto rapporto tra elettore ed eletto con collegi uninominali o listini proporzionali di dimensioni ragionevoli». Ma soprattutto il Cavaliere rassicura Renzi sul fatto che «occorre votare il prima possibile, dopo quattro governi non scelti dal popolo». Non è un nuovo patto del Nazareno, garantisce. Anche su questo Berlusconi ha interessi convergenti con il Pd: andare troppo d’accordo prima del voto scopre il gioco delle larghe intese dopo.
Votare a fine settembre o ai primi di ottobre, dunque. Per farlo è indispensabile approvare la legge elettorale entro luglio, cioè in due mesi da oggi partendo da zero. Sembra fantascienza. L’Italicum, legge elettorale poi rinnegata, ha avuto bisogno di un anno e mezzo. Aveva alle spalle un governo determinato al punto di mettere la fiducia. E non c’erano le elezioni dietro l’angolo, con tutto il carico degli interessi divergenti dei partiti grandi e piccoli. Non solo, per immaginare il voto prima della sessione di bilancio i renziani devono disegnare scenari di tutto comodo, tipo il governo Gentiloni che si muove come una bad company, presenta la legge di bilancio lacrime e sangue che tutti aspettano e poi si fa da parte. Prima che il Pd debba votarla, almeno di fronte agli elettori. Così facendo si rischia l’esercizio provvisorio, il commissariamento dell’Italia? Ma quando mai, è la voce renziana. Anche in Germania votano in settembre e nessuno si pone il problema, dicono. Tralasciando che sono i tedeschi a fare l’esame a noi e non il contrario.
Entro domani pomeriggio i partiti dovranno presentare gli emendamenti al testo Fiano, che è un falso Mattarellum congegnato per avere un effetto solo maggioritario. Ma può trasformarsi in qualcosa di molto simile al sistema tedesco, a patto però di sacrificare la garanzia del seggio per tutti i vincitori nei collegi uninominali: Roma non è Berlino e la camera non può aumentare i suoi componenti come fa il Bundestag: bisognerebbe cambiare la Costituzione. Un sistema l’ha già messo nero su bianco il gruppo di avvocati che hanno battuto l’Italicum portandolo alla Consulta. Prevede la riduzione dei collegi uninominali (da 303 a 242), il doppio voto – anche disgiunto – tra uninominale e proporzionale, e tante altre modifiche a quello che l’avvocato Felice Besostri chiama il Fianum e considera «assolutamente incostituzionale, perché il voto non è uguale e nemmeno libero e personale, come richiede l’articolo 48 della Costituzione, e neppure diretto come richiedono l’articolo 56 per la camera e il 58 per il senato».
Secondo Besostri è possibile «salvare» il testo riportandolo all’impostazione proporzionale, «scorporando i collegi uninominali quando superano la percentuale ottenuta dalla lista collegata». Gli emendamenti che vengono offerti ai partiti che si dichiarano favorevoli al sistema tedesco prevedono anche altre novità. Come il voto negativo, che tenta di salvare il potere di scelta dell’elettore di fronte alla lista bloccata: cancellando il nome di uno dei candidati del listino si può farlo retrocedere di uno o più posti nella graduatoria di assegnazione del seggio.

Il Fatto 25.5.17
Da “delinquente naturale” ad alleato abituale del Pd: ricordate chi è Berlusconi?
Amnesie - Il Caimano torna sulla scena come interlocutore dell’ex rottamatore per fare la legge elettorale e da argine al “populismo”. Ma il suo passato è tutto una macchia
di Gianni Barbacetto

Silvio torna. Sì, Berlusconi si prepara a essere di nuovo al centro della vita politica italiana. Come leader del suo schieramento, che non ha trovato un “federatore”. Ma anche come interlocutore privilegiato, anzi unico, del centrosinistra di Matteo Renzi, per fare la legge elettorale. Intendiamoci: nel centrosinistra per vent’anni hanno ripetuto che non bisognava demonizzarlo. Ma allora almeno qualcuno c’era a ricordare ogni giorno i conflitti d’interessi, le amicizie pericolose, le indagini penali. Del resto, occupava la scena politica e parlare con lui, se non trattare con lui, poteva apparire scelta obbligata. Oggi invece il sistema politico di cui Berlusconi era diventato il perno è saltato, la scena è cambiata, le sue forze si sono ridotte, le sue schiere sfrangiate, il bipolarismo non c’è più. Eppure c’è chi cerca un nuovo patto del Nazareno. Il leone è invecchiato, ha incassato sonore sconfitte, si è indebolito politicamente, è stato sostituito da nuovi narcisismi a Palazzo Chigi. Ma tutto questo sembra valergli una sanatoria generale, una amnistia della memoria. Il Caimano è dimenticato, oggi Silvio è un partner strategico con cui Renzi può fare argine al male assoluto: il “populismo”. Forse vale però la pena di fare un esercizio di memoria e di ricordare chi è Silvio Berlusconi, il politico unfit all’estero, pregiudicato in Italia.
La sentenza che lo butta fuori dalla scena politica (per ora) è del 1 agosto 2013: la Corte di cassazione conferma 4 anni di pena per frode fiscale. Perché ritiene provato al di là di ogni ragionevole dubbio che Berlusconi, quando già era in politica e formalmente non più alla guida delle sue società, abbia nascosto cifre imponenti al fisco italiano e agli altri azionisti di Mediaset. La condanna riguarda “solo” 7,3 milioni di euro, occultati negli anni 2002 e 2003. Altri 6,6 milioni (del 2001) sono stati cancellati dalla prescrizione. Ma in totale, scrivono i giudici, “le maggiorazioni di costo realizzate negli anni” sono di ben “368 milioni di dollari”. Nella sentenza di primo grado, i giudici scrivono che l’imputato ha una “una naturale capacità a delinquere”. Può essere richiamato in scena, come alleato politico, un personaggio che ha nascosto al fisco 368 milioni di dollari?
Ma è lunga la storia imprenditoriale e politica di Berlusconi, che spesso coincide con la sua storia giudiziaria: 35 procedimenti penali, sette prescrizioni, una amnistia, due proscioglimenti per leggi modificate su misura in corso d’opera, quattro processi ancora in corso. Tra questi, il Ruby 3, per aver pagato testimoni affinché mentissero al processo Ruby 1 (per concussione e prostituzione minorile, nel quale è stato assolto anche grazie al cambiamento della legge sulla concussione).
Certo è stata ormai dimenticata la sentenza che condanna il suo vecchio avvocato, Cesare Previti, per aver comprato la sentenza che ha fatto diventare proprietà di Berlusconi la Mondadori, la più grande casa editrice italiana. Per lui è arrivata la prescrizione, grazie alle attenuanti generiche: ma che la sentenza sia stata comprata da Previti, per Berlusconi e con i soldi di Berlusconi, è provato, al di là di ogni ragionevole dubbio.
Per non andare troppo indietro nel tempo, della Prima Repubblica possiamo qui ricordare solo una delle mazzette che hanno fatto la storia di Tangentopoli: ma è la mazzetta più grande pagata a un singolo uomo politico, 23 miliardi di lire a Bettino Craxi, segretario del Psi e gran protettore del Silvio Berlusconi diventato padrone unico delle tv private italiane. Il processo All Iberian si è concluso con un’ennesima prescrizione (grazie alla generosità del giudice che gli ha concesso le attenuanti generiche, dimezzando così i termini), ma il finanziamento illecito dei 23 miliardi è stato riconosciuto provato. Delicato il capitolo palermitano della irresistibile ascesa dell’imprenditore diventato politico.
È in carcere per mafia Marcello Dell’Utri, braccio destro di Berlusconi e ideatore di Forza Italia, condannato nel 2014 a 7 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa, per aver fatto da mediatore tra Silvio Berlusconi e Cosa Nostra, a cui giungevano finanziamenti da Arcore. Ma già una sentenza irrevocabile del 1997 stabiliva, condannando per associazione mafiosa l’uomo d’onore Pierino Di Napoli, che certamente la Fininvest di Silvio Berlusconi versava ogni anno 200 milioni di lire a Cosa Nostra per la “protezione delle antenne tv in Sicilia”. I soldi passavano da Dell’Utri al suo amico Gaetano Cinà, che poi li consegnava a Pierino Di Napoli, il quale andava dal boss Raffaele Ganci con un sacchetto di plastica e gli diceva: “Raffaele, questi i soldi delle antenne”. Poi – dice la sentenza – Ganci si presentava da Totò Riina e gli consegnava il pacchetto: “Zu’ Totuccio, vedi che Pierino ha portato i soldi delle antenne”. (Particolare temporale: i versamenti sono continuati anche dopo il 1992, anno della strage in cui è morto Giovanni Falcone, di cui ora Berlusconi si dice tifoso. Tanto tifoso da continuare a versare 200 milioni ai suoi assassini).
Una volta arrivato ai cieli della politica, Silvio ha anche comprato un paio di senatori, nel 2008, per far cadere Romano Prodi e tornare al governo. Una lunga carriera, quella di Silvio, ieri “delinquente naturale”, oggi naturale alleato. Matteo Renzi intanto se la cava con una battuta: “Andrei a cena con Berlusconi, Salvini e D’Alema? Certo avrei delle cose da chiedere a tutti e tre, a Berlusconi del Patto del Nazareno… Ma sono a dieta”.

Repubblica 25.5.17
Il saluto romano del “cappellano dei camerati”
Il gesto-shock di don Amendola durante la commemorazione al cimitero di un rapinatore squadrista
di Paolo Berizzi

MILANO E il prete fece il saluto romano per commemorare il rapinatore squadrista. «Per il camerata Umberto Vivirito… presente! Per il camerata Umberto Vivirito… presente!». Scandito due volte. Con il sacerdote che allunga il braccio destro accanto alle tombe e alla bandiera di Avanguardia Nazionale. Cimitero Maggiore di Milano, sabato 20 maggio. Lo stesso luogo dove il 29 aprile scorso mille camerati hanno sfidato (e beffato) il divieto della Prefettura mettendo in piedi una parata in stile paramilitare in ricordo dei caduti della Rsi. Questa volta la cerimonia è ristretta: si celebra il quarantennale della morte di Salvatore Umberto Vivirito, ex militante neofascista di Avanguardia Nazionale, morto il 21 maggio 1977, a soli 22 anni, a seguito di una ferita da arma da fuoco rimediata nel corso di una rapina, due giorni prima, a una gioielleria di piazza Udine, a Milano. Vivirito assassinò, crivellandolo con sei colpi di pistola, il titolare del negozio, Ernesto Bernini (anche la moglie di quest’ultimo rimase gravemente ferita). L’assalto doveva servire — stando agli avanguardisti — per finanziare un non precisato gruppo eversivo di estrema destra di cui lo squadrista, assieme ad altri “sanbabilini”, faceva parte dopo lo scioglimento di Avanguardia.
Torniamo a sabato scorso: la cerimonia per Vivirito — vi partecipano parenti e amici — è celebrata da don Orlando Amendola, cappellano del Campo X del cimitero Maggiore (dove sono sepolti appunto i caduti della Rsi). Nella sua orazione il sacerdote ricorda il camerata rapinatore sottolineandone le qualità di “eroe della solidarietà”, il “coraggio di combattente”, l’ostinazione nel “battersi quando vedeva l’ideale umano oltraggiato”. Passaggi paradossali ai quali seguono le testimonianze di altri due camerati: uno tiene in mano la bandiera con il simbolo di Avanguardia Nazionale (la formazione neofascista nata nel 1960, dichiarata fuorilegge dal Ministero dell’Interno nel 1976 e rinata l’anno scorso con a capo ancora il leader Stefano Delle Chiaie). La commemorazione di Vivirito si chiude con il rito fascista del “presente”. Eseguito da tutti, prete compreso. Il video è stato postato su Youtube e sul sito di “Fascinazione” (lo ha notato l’Osservatorio sulle nuove destre).
La cosa che colpisce di più è il saluto romano di don Amendola (il gesto è vietato dalla legge italiana). Ma chi lo conosce sa che il sacerdote non è nuovo a esibizioni “politiche” a sostegno dell’estrema destra. Un anno fa si fece fotografare a un gazebo elettorale con il candidato Stefano Pavesi (della formazione neonazista Lealtà Azione) eletto con la Lega Nord. Il “cappellano dei camerati”: lo chiamano così, don Amendola. Ogni anno è presente alla cerimonia in ricordo dei caduti della Rsi nel “suo” Campo X. Una cerimonia che i camerati facevano cadere provocatoriamente il 25 aprile, giorno della Liberazione dal nazifascismo. Quest’anno la Prefettura l’ha vietata. I militanti “neri” hanno “rimediato” quattro giorni dopo, il 29 aprile. Con la benedizione del loro amato prete.

Corriere 25.5.17
Scuola, il responso del blog di Grillo: freno ai finanziamenti alle paritarie

Alla fine i militanti Cinque Stelle non tendono la mano alle scuole paritarie. Ieri sul blog si è votato il programma scuola pentastellato. Con quasi 18 mila voti su poco più di 19 mila votanti, gli iscritti al M5S hanno votato per destinare in via prioritaria i finanziamenti alle scuole pubbliche. Non solo. Il Movimento modificherà «la legge 62 del 2000 che ha istituito la parità scolastica per le scuole private». Gli attivisti 5 Stelle hanno deciso anche di «smantellare» la Buona Scuola del governo Renzi (18.261 voti), dando come preferenza prioritaria l’obbligatorietà e la retribuzione delle ore di formazione dei docenti, cancellando la «card» da 500 euro (10.847 voti).

il manifesto 25.5.17
Beni Culturali, la protesta: “Il lavoro va pagato, no allo sfruttamento dei volontari”
Da Milano a Catania, da Cagliari a Trieste, la mobilitazione della campagna "Mi riconosci? Sono un professionista dei beni culturali". La protesta contro i bandi del Mibact per il servizio civile e il lavoro sottopagato dei volontari che suppliscono al blocco del turn over
di Ro. Ci.

Dalla Soprintendenza di Firenze ai beni terremotati delle marche, dall’Università del Salento ai ponti romani in abbandono di Padova fino ai Musei Civici di Rimini, ieri i precari dei beni culturali sfruttati hanno dato vita a una protesta nazionale contro il lavoro gratuito e il volontariato usati nella P.A. per supplire al blocco del turn over e all’allungamento dell’età pensionabile della legge Fornero. La partecipazione è stata fisica, ai presidi di Lecce, Ravenna, Treviso, Padova, Milano, e stamattina Roma, e virtuale con centinaia di foto con cartelli, striscioni e slogan contro lo sfruttamento nei beni culturali pubblicate sulla pagina facebook «Mi riconosci? Sono un professionista dei beni culturali». Alla protesta si sono uniti esperti e funzionari del settore come Rita Paris, direttrice del Parco dell’Appia Antica, Andrea Camilli, presidente di Assotecnici, Tomaso Monanari, Paolo Liverani, e gli archeologi del pubblico impiego, il personale delle soprintendenze e dei musei, i partiti Sinistra Italiana, Possibile e Rifondazione comunista.
Le richieste sono: investimenti al pari degli altri paesi europei; eliminare il blocco del turnover; assumere 3 mila funzionari; istituire regole per le professioni dei beni culturali contro l’uso del volontariato e del lavoro sotto-pagato che l’amministrazione fa ai danni dei professionisti e degli stessi volontari. «Mentre Franceschini si vanta di numeri dovuti a un trend internazionale – sostiene Andrea Incorvaia, attivista della campagna Mi Riconosci? – il patrimonio marchigiano versa in stato d’abbandono totale dopo il terremoto, le Soprintendenze tengono aperto solo grazie al tempo regalato dai funzionari, che lavorano ben oltre l’orario». «Vogliono forzare a lavorare gratis, con leggi infami come quella che permette ai musei e alle biblioteche di “assumere” volontari per ruoli vitali e professionalizzanti» denuncia Daniela Pietrangelo (Mi Riconosci?).

il manifesto 25.5.16

La Nazionale insiste: bando per nuovi «scontrinisti»
La Biblioteca di Roma. Cacciati i vecchi lavoratori si continua comunque con il sistema dei rimborsi. Ma il ministro Franceschini minimizza: "Per il futuro puntiamo sugli assunti per concorso e sui volontari del servizio civile"
di Antonio Sciotto

La Biblioteca nazionale di Roma ha una passione sfrenata per la pratica della raccolta scontrini: messi alla porta – con un sms – i vecchi precari con anzianità più che decennale, il direttore Andrea De Pasquale ha pubblicato un bando per assumere dall’1 luglio una nuova associazione di «volontari» a rimborso. L’annuncio campeggia sulla home dell’istituto, e prevede che 18 nuovi arrivati lavorino alle stesse condizioni dei 22 appena cestinati (400 euro mensili per 20 ore a settimana, presentando le ricevute della spesa), ma con la novità del turn over ogni sei mesi: così che non possano accampare pretese di stabilizzazione.
Nel bando, tra i requisiti indicati per la selezione, si indica «l’esperienza almeno triennale nel settore», quindi si potrebbe tranquillamente ripresentare l’associazione Avaca di Gaetano Rastelli, sgravata però dei 22 ingombranti «volontari» che hanno prestato servizio fino a lunedì scorso.
Ma non dovevano arrivare i volontari del servizio civile? Una circolare del ministero dei Beni culturali, inviata a tutti gli uffici il 20 aprile scorso, aveva annunciato una infornata di 1.050 addetti per tutta Italia, tra l’altro già selezionati e specializzati. Il testo però, a leggerlo meglio, non indicava l’obbligo a servirsi esclusivamente dei nuovi arrivati: «Il supporto offerto da tale personale dovrà imporre, almeno per la durata dei progetti – si legge – un’attenta valutazione in merito alla opportunità e alla sostenibilità economica del rinnovo delle convenzioni in scadenza con le associazioni di volontariato». In soldoni, i direttori con gestione autonoma di bilancio e adeguate risorse (come è alla Nazionale) potranno continuare a rivolgersi alle associazioni di volontari.
I ventidue messi alla porta, in un recente incontro con il direttore della Biblioteca, avevano chiesto di essere passati a contratto – attraverso una cooperativa, o ad esempio la società in house dello stesso ministero, l’Ales – e magari nei prossimi sei mesi – in via transitoria – si sarebbero potuti tenere dentro grazie al nuovo bando.
«La direzione ci ha risposto no su tutti i fronti – spiega il delegato Cgil Luigi De Angelis, dipendente interno della biblioteca – Niente spazio per i vecchi addetti, e no anche alla richiesta di fornire un’attestazione scritta della conclusione della collaborazione».
Il direttore De Pasquale ha accettato di incontrare i volontari dopo mesi di richieste andate a vuoto, inviate anche al ministro Dario Franceschini, e il faccia a faccia è stato molto teso: «È stato rimproverato ai ragazzi, che io accompagnavo – spiega il delegato Cgil – il fatto che la vicenda fosse finita sui giornali. E poi sono stati congedati senza neanche un grazie: alcuni prestano servizio in biblioteca da 17 anni. Neanche un comunicato di saluto».
Oggi i «volontari» manifesteranno -a partire dalle 10 – davanti alla Biblioteca nazionale: il loro movimento, «Scontrinisti», ha raccolto la simpatia dei social, e in piazza saranno presenti – oltre a Cgil Usb – i gruppi di Sinistra Italiana, Rifondazione e Possibile.
La vicenda è stata oggetto di una interrogazione parlamentare di Sinistra Italiana, a cui ha risposto il ministro Franceschini. Il titolare dei Beni culturali ha spiegato che la convenzione con Avaca è stata sospesa proprio in forza di una ispezione che il ministero ha aperto dopo gli articoli di stampa. Ha annunciato l’«arrivo di 54 funzionari assunti per concorso nelle biblioteche italiane» e l’utilizzo dei «volontari del servizio civile». In più, ha dichiarato che «si avvieranno procedure pubbliche per la selezione di associazioni di volontariato». Alla Nazionale il bando c’è già, dal 16 maggio, e si aspetta soltanto l’arrivo di 18 «scontrinisti» freschi freschi.

Corriere 25.5.16

Big Sur
Strade interrotte e turisti scomparsi, la costa ritorna alle origini
Viaggio nella California dei santuari della Beat Generation
di Massimo Gaggi

BIG SUR (California) I capricci del «Niño», un inverno di piogge torrenziali dopo quattro anni di siccità, cascate di fango, qualche ponte crollato: Big Sur torna ad essere quella di poco meno di un secolo fa, prima della costruzione, negli anni Trenta, della Highway 1, l’unica strada che attraversa questa costa impervia di canyon a montagne a picco sul mare. Quarantacinque miglia di costa, compresi i santuari della «beat generation» come l’Esalen Institute, il Ventana, e luoghi celebri della letteratura e della controcultura americana degli anni Cinquanta e Sessanta, privi di collegamenti da mesi. Semidistrutti i bungalow di legno in stile norvegese del Deetjen’s nei quali alloggiarono pittori, scultori e poeti: da Robinson Jeffers a Lawrence Ferlinghetti.
«Chi è venuto a vivere qui — siamo solo un migliaio spasi in un territorio vasto — ama la quiete, la meditazione. Ora stiamo un po’ tornando alle origini: senza il rumore del turismo riscopriamo suoni dimenticati, la natura torna padrona» mi dice Tom Birmingham, un fotografo, lunghi capelli grigi, che vive al «Nepenthe»: un sperone di roccia proteso sull’oceano, il ritrovo più celebre della costa.
Mi ha fatto avere un permesso dei «ranger» per salire a Big Sur percorrendo il sentiero riservato ai residenti che è stato aperto dalle guardie forestali in un bosco di altissimi «redwood».
Più in basso, nel parco Pfeiffer, gli operai sono al lavoro per ricostruire il ponte crollato a febbraio, ma quello nuovo non sarà pronto fino a ottobre. «Sentiamo di nuovo gli animali, il rumore dell’acqua. È tornata la natura selvatica: linci e volpi ovunque» dice Tom mentre saliamo. «Vedi quella lassù? È un’aquila. C’erano anche prima, ma non si facevano vedere quasi mai« aggiunge ansimando perché mentre io salgo con uno zainetto, lui ha sulle spalle un grosso «backpack» da campo pieno di provviste. Nessun trasporto via terra? «No, per le emergenze ci sono gli elicotteri. E, poi, una specie di trattore usato per portare i bimbi di Big Sur attraverso il bosco, fino al ponte crollato dove viene a prenderli l’autobus scolastico. Ma per le provviste, salvo casi rari, ci arrangiamo da soli. È un bell’esercizio mentale. Impari a comprare solo l’essenziale».
Il Nepenthe fa uno strana impressione: mentre tutto sulla costa è chiuso, anche l’ufficio postale, qui bar e ristorante sono aperti, ma viene solo quale residente. Deserta la pedana a scacchi dei balli notturni scatenati, resa celebre da Liz Taylor e Richard Burton che qui nei primi anni Sessanta girarono «The Sandpiper« («Castelli di Sabbia»). Sopra al ristorante c’è la «log cabin», la baita di tronchi d’albero comprata da Orson Wells nel 1944, poco dopo aver sposato Rita Hayworth. Doveva essere il loro nido d’amore, lontano da Hollywood. Ma lei scappò quasi subito: divorziarono dopo due anni. Poi in questa capanna venne a vivere Henry Miller, già celebre e controverso per il «Tropico del Cancro» e il «Tropico del Capricorno».
«Qui scrisse “Big Sur e le arance di Hieronymus Bosch”, ma in queste stanze sono passati tanti altri artisti, anche Jack Kerouac» racconta Erin Gafill, che mi fa visitare la baita nella quale vive. Fa anche lei parte del clan del Fassett, la famiglia che nel 1947 acquistò questa proprietà dal grande attore e regista. I suoi cognati gestiscono il ristorante, lei dipinge.
«Per me» racconta, «è una stagione da sogno. Giorni fa ero qui con la mia tela. Mi sembra di sentire un battito d’ali. Mi giro e vedo sul tetto un condor che mi fissa, tranquillo e incuriosito. Sono emozioni uniche. Ma capisco che per chi vive di turismo tutto questo è una vera disgrazia. Il Nepenthe aveva 115 dipendenti: ne sono rimasti 15».
Per Erin qualche mese di isolamento non è un problema: «Dialoghiamo coi social network, io vendo i miei quadri online. E poi, come ogni anno, sto organizzando un viaggio in Italia con un gruppo di artisti. Roma e Toscana. Torno sempre a Roma: vado sulla tomba della mia bisnonna, anche lei pittrice. Visse a Capri ed è sepolta dal 1944 nel cimitero degli acattolici, vicino alla Piramide Cestia».
Le poche persone che incontri sembrano rilassate. L’isolamento comincia a pesare, ma più per il lavoro perduto che altro. In fondo qui l’elettricità è arrivata negli anni Cinquanta e la televisione negli anni Ottanta.
Vorrei salire ancora, fino al monte più alto della costa dove vive l’unica colonia di condor del Nord America e dove sorge il Camaldoli Hermitage. Ma non è possibile: i monaci camaldolesi dell’eremo che intervistai anni fa per il Corriere sono isolati. È franata anche la stradina che sale al monastero. Pure qui ci si affida a Internet: i frati organizzano una colletta digitale per riparare il sentiero che è privato.
Storie di un luogo che per un anno è tornato a meritarsi il suo nome: furono gli spagnoli, che avevano aperto le loro missioni sulla costa pianeggiante più a nord, a fermarsi davanti a queste regione impervia, rispettosamente battezzata Big Sur: un Grande Sud aspro, impenetrabile, misterioso.

il manifesto 25.5.17

Numero chiuso
Il sapere ridotto a residuo
di Marco Bascetta

Il numero chiuso è un’infamia in qualunque branca del sapere. Il voto del senato accademico milanese che lo ha esteso alle facoltà umanistiche che, fino ad oggi, non vi dovevano sottostare (storia, filosofia, geografia, beni culturali), la porta ora a compimento.
Con il che la formazione culturale entra ufficialmente a far parte dei generi voluttuari, dei diritti di serie B. Immaginiamo la stessa logica applicata alla sanità: più di tanti non ne curiamo; o alla giustizia: più di tanti non ne processiamo. Nei fatti accade proprio così, ma a nessuno verrebbe in mente di farne un principio o una norma. La contraddizione tra il diritto garantito e la sua effettività rimane almeno aperta, un problema da risolvere.
Nell’università, invece, la servile accettazione di una costante e vergognosa riduzione delle risorse si esprime nella moltiplicazione delle barriere all’ingresso, non di rado tramite test progettati sotto l’effetto dell’acido lisergico. Non dovrebbe sfuggire a nessuno il fatto che il numero chiuso legittima, normalizza o addirittura trasforma in una qualità etica il taglio delle risorse, preparando il terreno per ulteriori riduzioni della spesa. Come è accaduto alla statale di Milano il corpo accademico, nel quale certo non abbondano grandi maestri dalle lezioni imperdibili (il che dovrebbe aiutare a ridurre la calca), tende a dividersi. La maggioranza ragiona così: intanto chi sta dentro rimane dentro, dunque perché affannarsi a trovare soluzioni tampone o battersi affinché la politica cambi rotta?
Assai più semplice ridurre forzosamente il numero (già in forte declino) degli studenti e la pressione su di noi. Con la promessa di una qualità dell’istruzione del tutto fantasmagorica in una accademia nella quale la compilazione dei moduli e gli adempimenti burocratici hanno reso lo studio «un miserabile residuo». Questa posizione corrisponde a un corporativismo non si sa se più sclerotico o furbastro.
La minoranza capisce, invece, che la catena dei tagli non avrà fine e che il numero chiuso non è altro che una scelta suicida la quale, prima o poi, condurrà alla soppressione pura e semplice di un certo numero di insegnamenti. E allora nessuno sarà più al sicuro. L’ eterno mantra sull’adeguamento della formazione alle richieste del mondo del lavoro (dopo innumerevoli fallimenti ancora caparbiamente inconsapevole della sua impossibilità logica) per le facoltà umanistiche non può che significare l’estinzione.
Questa consapevolezza richiederebbe, tuttavia, una mobilitazione permanente di studenti e docenti e un sabotaggio attivo dei dispositivi di controllo e di esclusione. Infine, una battaglia di ampio respiro contro la concezione lavorista dell’istruzione ed economicista della cultura che domina incontrastata da decenni.
Vi sono, però, istituzioni culturali che uno stato sviluppato non può permettersi di chiudere. Per esempio una Biblioteca nazionale, per esempio sedi museali importanti anche se meno frequentate. Così provvede al loro funzionamento il ricorso al lavoro semigratuito (e a volte del tutto gratuito) di presunti «volontari» presi per il collo dalla mancanza di alternative e forse, nel futuro, costretti alla corvée del servizio civile obbligatorio proposto dalla ministra della difesa Pinotti.
La vicenda dei cosiddetti «scontrinisti» della Biblioteca nazionale romana conferma ancora una volta come gran parte delle istituzioni culturali italiane (comprese le università del numero chiuso) sarebbero destinate alla paralisi senza il ricorso al lavoro gratuito o vergognosamente sottopagato, mascherato da passione volontaria, da formazione permanente o da altro ancora. Non si tratta di una emergenza, di una situazione transitoria, bensì di un elemento sistemico imprescindibile e consolidato. Resta da chiedersi perché, limitando l’accesso alle facoltà umanistiche si voglia ridurre il bacino che alimenta questo processo di sostituzione del lavoro equamente retribuito con il finto volontariato. Forse perché le diverse corporazioni si premurano di proteggere il solo segmento che le riguarda. Ma forse anche perché le maggiori aspettative suscitate da un livello di istruzione generale più elevato, politicizzandosi, potrebbero fare esplodere gli scellerati equilibri, i ricatti e le vessazioni che dietro l’insopportabile retorica sull’unicità del patrimonio culturale italiano ne costituiscono l’effettiva gestione.

il manifesto 25.5.17
Università Statale, numero chiuso anche per storia e filosofia
Milano. Dopo un mese di mobilitazione di studenti e professori, il Senato accademico di via Festa del Perdono ha imposto lo sbarramento anche per i corsi umanistici. Dura protesta della Flc-Cgil: "Si tratta di una scelta irresponsabile e sbagliata". La ministra dell'Istruzione Valeria Fedeli non apprezza ma lascia fare, "bisognerebbe allargare e non chiudere ma rispetto la decisione, hanno l'autonomia per farlo"
di Luca Fazio

MILANO A proposito di muri e lotta di classe al contrario, ecco una soluzione esemplare che rende meno accessibile e più costoso il bene comune forse più prezioso. L’istruzione. Il Senato accademico dell’Università statale di Milano, dopo un mese di proteste che hanno coinvolto studenti e docenti, ha imposto il numero chiuso anche ai corsi umanistici.
A niente sono serviti i sit-in organizzati dagli studenti e le lezioni in piazza dei prof “ribelli”, tra cui Alessandro Zucchi, direttore del dipartimento di Filosofia e filosofo del linguaggio, Gianfranco Mormonio, docente di Etica e Raffaella Colombo, ricercatrice di Storia della filosofia. Chiedono finanziamenti e non tagli, “limitare gli accessi per mancanza di risorse è il fallimento dell’università”.
Da settembre saranno previsti test d’ingresso anche per storia e filosofia. Rispetto a quest’anno, verranno respinti 600 studenti. Con 18 voti a favore, 11 contrari e 6 astenuti, l’ha spuntata il rettore Gianluca Vago spaccando il Senato accademico. “La questione delle risorse riguarda tutta l’università – spiega il sostenitore dello sbarramento – e il test di autovalutazione non è sufficiente, serve il numero programmato per aumentare la qualità. Nei corsi dell’area umanistica ci sono troppi abbandoni e fuori corso”.
I posti disponibili per il prossimo anno accademico subiscono un taglio del 20 per cento: erano 739 a filosofia e diventeranno 530, a lettere erano 545 e saranno 550, per Beni culturali erano 646 e diventeranno 500. A Geografia potranno iscriversi in 230 contro i 283 di quest’anno, infine Storia accoglierà 480 iscritti invece che 651. Su 79 corsi, solo matematica, fisica, giurisprudenza e filosofia non prevedono una prova di selezione per l’accesso.
La ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli non apprezza la svolta del rettore Vago ma ne rispetta la scelta in nome dell’autonomia. E comunque non sembra intenzionata a dare battaglia sui finanziamenti all’università. “Quando si parla di numeri chiusi – ha ammesso – soprattutto per alcune facoltà, si dovrebbe ragionare con la capacità di allargare e non di chiudere, dobbiamo puntare su un numero maggiore di laureati”. In ogni caso, Fedeli alza le mani, è un problema che “devono affrontare loro, visto che hanno autonomia”. L’Italia, in effetti, è penultima nell’Unione europea per numero di laureati, appena davanti alla Romania (tra i 30 e i 34 anni appena il 26,2% contro una media Ue del 39,1%). Inoltre, in Italia, solo il 53% dei nuovi “dottori” trova un lavoro a tre anni dalla laurea.
Non stupiscono le dichiarazioni del segretario generale della Flc-Cgil Francesco Sinpoli che definisce “irresponsabile” la decisione della Statale. “Non solo – spiega – l’università pone uno sbarramento di censo alzando vistosamente le tasse, senza tutelare il diritto allo studio, ma lo estende sulla base di un frainteso senso della meritocrazia, termine ideologico, di moda ma quanto mai sbagliato e pericoloso. A nulla è servita la vigorosa protesta di studenti, docenti e personale. A nulla è servito l’appello di decine di intellettuali, forze politiche, sociali e sindacali, a evitare una decisione che non ha alcun tipo di ragionevole giustificazione”. Sinopoli parla di “pericoloso precedente” e si appella alla ministra “perché trasformare l’università in una specie di azienda pubblica, dove un rettore è il manager unico e chiude le porte agli studenti, è in palese contraddizione con gli obiettivi di aumentare i laureati”.
Il numero chiuso alla Statale e più in generale il tema del diritto allo studio non appassiona il cosiddetto “mondo” della politica e della cultura. Beppe Sala almeno ne ha parlato con il rettore Vago, ma non si sbilancia. “E’ difficile dire cosa è giusto e cosa no – ha detto il sindaco – da un lato è vero che c’è il diritto allo studio e che spesso a 19 anni non si ha sempre la certezza di quello che si vuole fare nella vita. Ma capisco anche il problema delle università perché lo studio deve servire anche a creare opportunità di lavoro”.
Sinistra Italiana Milano, invece, si mette a disposizione di tutte le associazioni e movimenti disponibili per continuare a lottare, “il numero chiuso è dannoso e controproducente, auspichiamo una marcia indietro su questa decisione”.

il manifesto 25.5.17
Si scrive bellezza e si legge responsabilità
«Architettura e democrazia», di Salvatore Settis per Einaudi
Volgere lo sguardo su saperi diversi, è essenziale in una visione interdisciplinare
di Andrea Ranieri

Salvatore Settis, nell’iniziare le sue lezioni all’Accademia di Architettura dell’ Università della Svizzera Italiana di Mendrisio, ora raccolte nel volume einaudiano Architettura e democrazia (pp. 166, euro 12), sente il dovere di giustificare di fronte ai giovani architetti il fatto che uno specialista, un grande specialista di archeologia e di storia dell’arte, tenga un corso che si propone di affrontare temi che vanno molto oltre la propria competenza disciplinare, e che riguardano la storia, la filosofia, l’architettura l’urbanistica, il diritto.
Di solito nell’Università l’interdisciplinarietà si fa mettendo uno accanto all’altro in seminari improbabili i diversi specialismi, dando luogo il più delle volta a un defatigante «dialogo fra sordi».
SETTIS DECIDE di lanciare il cuore oltre l’ostacolo accostando lo sguardo su saperi diversi, cercando di fornire ai giovani architetti, e a chi legge, una visione complessiva dei dilemmi e dei problemi che si presentano quando si tratta di progettare un edificio, di pensare uno spazio, di dare forma alla città.
Ciò che rende possibile l’attraversamento di saperi diversi è per Settis la politica, nel suo senso più alto, come discussione libera e aperta sulla forma e il senso della polis, e dentro la politica la scelta valoriale di mettere al primo posto il punto di vista di chi soffre della divisioni, dei ghetti, delle separatezze, che segnano la città contemporanea. L’architetto per far questo deve pensarsi prima di tutto come cittadino, e dare il suo contributo per costruire, assieme a tutti quelli la cui vita è impoverita dalla crescita deregolata e dalla crisi delle città, lo spazio pubblico da cui opporsi alle derive del presente, e innestare le «azioni popolari» che oggi sembrano le uniche in grado di prospettare uno sviluppo diverso.
VIENE IN MENTE a questo proposito l’invito che Edward Said rivolgeva agli intellettuali di farsi «dilettanti» di più saperi. Di pensare e agire cioè «per amore di un disegno di più vasto respiro, che stimola un interesse inesauribile, non ultimo quello di superare confini e barriere, rifiutandosi di rimanere reclusi entro una competenza, e battendosi per idee e valori che trascendono i limiti di una professione». Cercando sempre «di dire la verità», che «in una società come la nostra ha soprattutto lo scopo di configurare una situazione migliore, più aderente ad alcuni principi etici- pace, riconciliazione. alleviamento della sofferenza- da applicare a realtà conosciute».
QUESTA CAPACITÀ di integrare saperi e competenze si scontra con la separatezza con cui questi problemi sono affrontati dalla politica istituzionale. Paesaggio, territorio, beni culturali, ambiente, suoli agricoli sono trattati e normati separatamente. Ma non si dovrebbe mai dimenticare che «questi termini definiscono di fatto uno stesso spazio di vita delle comunità umane, e che pertanto ogni separata regolazione deve essere esplicitamente e accortamente raccordata con le altre». Altrimenti nella schizofrenia delle norme e nei conflitti fra le autorità pubbliche che dovrebbero tutelarle «l’interesse privato dei singoli facilmente prevale sul bene comune».
Salvatore Settis propone a noi e ai giovani architetti uno sguardo che abbraccia l’insieme dei problemi, tenuti insieme dalla storia, come capacità di leggere i modi in cui questi temi sono emersi, e per indagare come ambiente, suolo agricolo, paesaggio, architettura, abbiano trovato sintesi nella forma delle diverse città e nel loro rapporto col territorio. Cosa più che mai necessaria oggi, quando «la tendenza globalizzante impone a tutto il pianeta un unico modello di sviluppo urbano, le cui componenti inseparabili sono la verticalizzazione delle architetture, la megalopoli e la segmentazione interna delle città, con le nuove forme di apartheid sociale».
La conservazione dei beni culturali e del paesaggio e il concetto stesso di «patrimonio» sono un elemento fondamentale per resistere a questa tendenza. Ma Settis ci propone di invertire le priorità rispetto al modo con cui questo concetto si è formato e ha dato vita alla legislazione in merito.
Si è partiti infatti dai beni artistici e architettonici, per passare poi al paesaggio come bellezza naturale, con una concezione prevalentemente estetica del bene naturale o culturale da preservare.
LE URGENZE del nostro tempo, che Settis ricava in gran parte dall’enciclica Laudato sii di papa Francesco, ci impongono di mettere al primo posto nella scala della tutela l’ambiente, e poi la campagna senza cui la città si slabbra e deperisce, e poi le periferie, delle città e del mondo, in cui vivono i poveri della terra.
È in questo quadro e con questo orizzonte di priorità che le bellezze artistiche, la densità storica dei centri delle nostre città assumono un valore per tutti, diventano parte dell’impegno complessivo per costruire un mondo più degno e vivibile. Si tratta insomma di compiere una vera e propria «socializzazione del paesaggio», mettendosi dal punto di vista di chi la città globalizzata mette ai margini. «Perché – ed è questo il messaggio più importante che ci viene da Salvatore Settis – non c’è bellezza senza responsabilità e senza storia».

Il Sole 25.5.17
Musei, il Tar Lazio boccia le nomine di Franceschini. «No a stranieri»
La sentenza del Tar
"Occorre che durante le prove orali sia assicurato il libero ingresso al locale”
di Antonello Cherchi

Il Tar del Lazio ha inferto un duro colpo alla riforma dei musei voluta dal ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini. Con due sentenze depositate ieri, i giudici hanno bocciato la nomina di cinque dei venti direttori dei super-musei. È, però, l’intero meccanismo a vacillare, perché il Tar ha ritenuto che non ci fossero le condizioni per aprire le selezioni a candidati internazionali e sette dei direttori sono stranieri, tra i quali quelli del parco archeologico di Paestum e del Palazzo Ducale di Mantova, interessati direttamente dal verdetto del Tar.
La palla passerà al Consiglio di Stato
La riforma Franceschini ha, tra l’altro, assegnato a una serie di musei - venti in prima battuta, ai quali se ne sono poi aggiunti altri dodici - la piena autonomia organizzativa, scientifica, finanziaria e contabile e ha indetto una selezione internazionale per scegliere i direttori. I primi venti istituti hanno iniziato a funzionare con la nuova veste da dicembre 2015 e i risultati del nuovo corso si possono già apprezzare in termini di numero di visitatori e di iniziative. Si tratterà ora di vedere se le censure del Tar resisteranno al vaglio del Consiglio di Stato, poiché è presumibile che il ministero ricorrerà in appello presso Palazzo Spada. Se così fosse, la riforma Franceschini dovrà riportare le lancette indietro e rimettere mano a tutte le nomine.
I ricorsi
Secondo i giudici della sezione seconda-quater del Tar, infatti, le procedure di selezione sono viziate in più punti, come è stato evidenziato nella disamina dei due ricorsi, uno presentato da una candidata alla direzione di Palazzo Ducale e della Galleria Estense di Modena e l’altro di un candidato al ruolo di direttore di Paestum e dei musei archeologici di Taranto, Napoli e Reggio Calabria. Si poteva, infatti, correre per più posizioni.
Nella prima e più articolata sentenza (n. 6171/2017) i magistrati hanno puntato il dito contro i criteri di valutazione dei candidati ammessi, dopo la selezione dei titoli, al colloquio, dal quale è scaturita, per ciascun museo, una terna sulla base della quale il ministro e il direttore generale dei musei hanno poi scelto il direttore. Criteri dalla natura «magmatica», che non consentono, hanno scritto i giudici, di «comprendere il reale punteggio attribuito a ciascun candidato». Censura riproposta anche nell’altra decisione (la n. 6170).
«No a cittadini stranieri»
Ci sono, però, altri due motivi proposti dalla prima ricorrente e ritenuti fondati dal Tar. Intanto, il fatto che il colloquio sia avvenuto a porte chiuse (alcuni candidati sono stati sentiti, senza la presenza di uditori estranei, via skype perché in Australia o negli Stati Uniti). Invece, ha sottolineato il Tar,«occorre che durante le prove orali sia assicurato il libero ingresso al locale». Infine, il bando «non poteva ammettere la partecipazione al concorso di cittadini non italiani», perché nessuna norma derogatoria consente al ministero di reclutare dirigenti pubblici Oltralpe. La conseguenza è che le selezioni dei cinque musei interessati sono annullate, con «inevitabile travolgimento “di riflesso"» degli atti di nomina degli attuali direttori.

Repubblica 25.5.17

Rosi & il Che
Esce il diario inedito del regista che andò a Cuba per realizzare un film su Guevara, bloccato da Castro
di Claudia Morgoglione

Parafrasando il titolo di un suo film, tratto dall’omonimo romanzo di Gabriel García Márquez, l’avventura cubana di Francesco Rosi è la cronaca di una morte (cinematografica) annunciata. Un progetto che il grande regista, scomparso nel 2015, coltivò con tenacia – girare una pellicola sulle gesta del Che, appena dopo il suo assassinio – ma destinato al fallimento: l’autore di capolavori come Salvatore Giuliano e Le mani sulla città, uomo di sinistra e artista con la passione per la libertà, era scomodo sia per il regime di Castro, a cui chiese collaborazione senza ottenerla mai fino in fondo, che per i finanziatori italiani, forse turbati dall’aura rivoluzionaria del protagonista. E così il viaggio di fine 1967 sulle tracce del guerrigliero più celebre del Novecento, che portò Rosi sull’isola caraibica e poi in Bolivia, non diede frutti.
Almeno finora. Perché adesso – grazie alla figlia Carolina – l’affresco su Guevara, perduto per il grande schermo, rinasce in libreria. I 199 giorni del Che, edito da Rizzoli, contiene infatti il diario di quei mesi, scritto di suo pugno dal cineasta: la partenza per L’Avana del 31 ottobre, appena 22 giorni dopo la morte dell’eroe; la tappa boliviana; il ritorno a Cuba; le lunghe settimane trascorse al rientro a Roma, nel tentativo vano di fare il film. Corredano il volume il soggetto originale della pellicola mai nata, una prefazione della curatrice Maria Procino, un apparato fotografico, una cronologia e uno straordinario racconto sulla trasferta a Cuba scritto da Rosi molti anni più tardi, nel 2012, dopo aver ripreso in mano in mano i diari. E di cui pubblichiamo qui un estratto.
Un libro che è tanti libri. Un romanzo on the road, un documento cinematografico, una ricostruzione d’epoca, un’inchiesta sulla morte del Che (il regista nel suo viaggio parlò con i testimoni diretti). Ma su tutto c’è lo sguardo di un vero artista: «Questo film – scrive – senza la presenza dolorosa e angosciosa dell’America del Sud sarebbe poca cosa. Quegli indios muti, fermi nel passare dei secoli. Il battesimo di quell’esserino nudo tra le braccia di una madre più impaurita per la sorte che gli toccherà che felice. E quei cimiteri di fango, tumuli senza nome. E le Ande coperte di neve nella solitudine di un mare di terra non coltivata». Poche righe, un continente.

Bugiardo e geniale, Fidel è il sosia barbuto di Fellini
Francesco Rosi
Nell’ottobre del 1967 mi rompevo la testa per far quadrare un’idea che mi agitava da qualche tempo: mi affascinava il personaggio di Bruto, l’uccisore di Cesare. Il fanatico amore della giustizia e della virtù che lo aveva spinto al tirannicidio, e l’incapacità di gestire le conseguenze del suo gesto se non con la forza della logica ma non con quella della conoscenza dell’animo della plebe sorda al linguaggio degli astratti ideali, mi sembravano elementi da riproporre emblematicamente in un confronto con l’attualità; e mi muovevo infatti alla ricerca di una struttura che facesse di un regista di cinema un investigatore nella coscienza e nel comportamento tra un intellettuale di ieri e uno di oggi. Richard Burton mi aveva dato serie speranze di voler correre l’avventura con me.
Poi, una volta, volli leggere di seguito le pagine di Svetonio, di Plutarco e, infine, la tragedia di Shakespeare; e mi fu chiaro che stavo perdendo tempo: il drammaturgo si era servito del cronista e dello storico come sceneggiatori e aveva aggiunto i dialoghi, cioè la poesia. E c’era tutto quello che io avrei voluto dire; ma non mi sentivo di misurarmi al cinema con Shakespeare, con attori che avrebbero dovuto recitare in inglese. Mi aggiravo quindi tra le pietre dei Fori sconsolato e rabbioso di non riuscire a trovare una soluzione, quando fui raggiunto dalla notizia della morte di Che Guevara. Fu un’illuminazione improvvisa: sarebbe stato lui il mio Bruto. Corsi dai miei amici e collaboratori Tonino Guerra e Raffaele La Capria: furono d’accordo sulle mie riflessioni, ma rimasero sbalorditi quando dissi loro che sarei partito subito, senza perdere tempo, per Cuba.
[A L’Avana] mi tennero a bagnomaria: mi facevano incontrare gli studenti, i cineasti, mi portavano in giro, vedevo film dell’America Latina, spettacoli, sentivo jazz che era proibito, andavo a vedere lotte di galli, anche quelle proibite, ma non si entrava mai nell’argomento che a me interessava: il film. Il Che era morto da appena una ventina di giorni e La Habana era tappezzata di suoi ritratti listati a lutto; si parlava solo di quello, ovviamente. E posso capire che un pazzo che si era precipitato lì per voler fare un film sul personaggio più scottante allora nel mondo, potesse costituire un problema quasi insolubile in una società a struttura comunista. Ma io, ingenuo, fino a un certo punto però, avevo voluto agire come mi ero comportato con la struttura della società mafiosa, quando avevo fatto Salvatore Giuliano: disarmarli provocandoli con un comportamento chiaro e controllabile alla luce del sole. Ma gli ostacoli erano tanti. Prima di tutto essere sicuri di come io la pensavo veramente. E di qua, la necessità di «consegnarmi in caserma », l’hotel Habana Libre. Il pretesto della lunga consegna era l’appuntamento con Fidel che non arrivava mai.
Erano passati ormai venti giorni: m’ero stufato, volevo andar via. Quando arriva Tutino (Saverio Tutino, corrispondente dell’Unità, ndr) e mi dice misterioso: «Scendi! C’è il ministro della Cultura che ti aspetta ». Il ministro arriva in Giulietta (le auto le avevano solo i dirigenti). Carica me e Saverio. Comincia a correre per La Habana in un itinerario tortuoso come per una gimcana: capisco che fa così per far perdere le tracce a un eventuale inseguitore; arriviamo finalmente a casa sua.
Un momento di silenzio, poi « Olà, Rosi! » ed entra… Federico Fellini. Fidel è come Federico con la barba, è alto come lui, ha la stessa corpulenza, la stessa voce; la stessa voglia di piacerti e di inchiodarti al suo “charme”; è bugiardo come lui, e come lui geniale, parlatore irresistibile, canaglia e disarmato allo stesso tempo. Qualsiasi cosa si pensi di Castro, è impossibile non restare affascinati dall’uomo. È il patriarca di Márquez, l’ultimo dittatore dell’America Latina, e allo stesso tempo il capo di una leggendaria rivoluzione che, al tempo, aveva fatto sperare che il socialismo democratico e liberale potesse essere realizzato anche nei Paesi a conduzione comunista.
Fidel parlò di agricoltura, di vacche da latte, di caffè, di zucchero, tutti problemi fondamentali sui quali aveva puntato per lo sviluppo del Paese; di economia, di Sartre, di Hemingway, di baseball, e poi mi disse: «Se la moglie è d’accordo, tu il film sul Che lo puoi fare». Ci lasciammo demandando la decisione ultima al Comitato politico che si occupava di tutte le attività che riguardavano la persona del Che. E intanto avrei visto Aleida, la seconda moglie del Che. L’incontro andò bene, ma anche Aleida si rimetteva alle decisioni del Comitato e di Fidel.
La scommessa era quasi impossibile, ma ero riuscito a girare nei luoghi della verità impenetrabile di Salvatore Giuliano, sotto gli occhi della mafia, perché non avrei dovuto riuscirci qui? Sbagliavo non nei calcoli, ma nel giudizio: di fronte ai politici la mafia è uno scherzo.

La Stampa 25.5.17
Se Moody’s declassa la Cina
di Mario Deaglio

Non succedeva dagli albori della globalizzazione finanziaria, ossia da ventotto anni, che venisse espresso un giudizio autorevole e pesantemente negativo sulla tenuta dell’economia cinese - e, per conseguenza, sui suoi titoli di debito - accompagnato da un abbassamento («downgrade») della valutazione dei titoli stessi.
A dare questo giudizio e a effettuare questo abbassamento è Moody’s, una delle maggiori agenzie di valutazione finanziaria del mondo. Dopo aver aspettato ventotto anni, Moody’s ha deciso di rendere pubblico questo giudizio pochi giorni prima della riunione del G7 di Taormina, nella quale i capi di Stato e di governo dei maggiori Paesi occidentali non potranno fare a meno di (pre)occuparsi anche delle prospettive economiche di Pechino, negli ultimi anni il più importante «motore» della crescita economica mondiale.
Non va del resto dimenticato che una decina di giorni fa è stata lanciata dalla Cina una delle maggiori iniziative industriali di sempre, ossia un enorme programma investimenti in una nuova «Via della Seta» in grado di collegare la Cina con l’Europa e con il resto dell’Asia. Quest’iniziativa è stata definita da Fox News, una rete televisiva americana vicina al partito repubblicano, come una «minaccia alla leadership degli Stati Uniti».
Nella «terra di nessuno» tra economia e politica globale, occorre domandarsi quanto ci sia di vero nella prospettiva di un indebolimento economico cinese nei prossimi anni. La risposta è che qualcosa di vero certamente c’è ma anche che, nel panorama finanziario mondiale pressoché tutti i Paesi, con l’eccezione della Germania, si sono in vario modo indeboliti. Il rallentamento della crescita cinese va quindi collocato nel più vasto quadro di un possibile peggioramento delle prospettive mondiali, con la sola Europa che cerca timidamente di andare controcorrente.
Se Moody’s utilizzasse per gli Stati Uniti gli stessi criteri usati per la Cina, anche il debito pubblico americano dovrebbe essere valutato meno favorevolmente, specie dopo il progetto di bilancio che il presidente Trump ha inviato al Congresso prima di partire per il suo attuale viaggio internazionale. Tale progetto prevede un forte aumento del deficit pubblico e sta già provocando un certo indebolimento del dollaro.
Le riserve valutarie cinesi hanno toccato il massimo nel 2014 e da allora hanno cominciato a scendere moderatamente, anche a seguito dei numerosi prestiti e programmi di investimento all’estero lanciati da Pechino. Con quest’uso «dinamico» delle proprie riserve, Pechino propone un mondo nuovo, la cui moneta base non sarebbe più rappresentata dal dollaro, ma dai Dsp (Diritti Speciali di Prelievo, una moneta artificiale come era l’Ecu per l’Europa). Washington, al contrario, vuol mantenere indefinitamente la supremazia e il «potere di indirizzo» della sua moneta.
Alla crisi economico-finanziaria mondiale sta così subentrando uno scenario dominato dall’incertezza, anche perché, dietro all’ardito progetto della Via della Seta, l’economia cinese non è solida come si vorrebbe: non preoccupa tanto la finanza pubblica quanto quella delle grandi imprese, pubbliche e private, il cui debito è aumentato fortemente. Va considerata anche la crescente posizione debitoria delle famiglie cinesi che stanno scoprendo, oltre all’interesse per il calcio, anche quello gli strumenti finanziari del capitalismo che consentono loro un indebitamento per acquistare l’abitazione o anche solo per speculare in Borsa.
Per conseguenza, nello stato attuale dell’economia mondiale non prevale un’astratta razionalità. L’incertezza (non misurabile) ha soppiantato il rischio (misurabile) e richiede scelte di campo che vanno al di là dell’economia, così come l’Europa del dopoguerra scelse l’«Occidente» anziché il «comunismo» non tanto o non solo per un tornaconto economico di breve periodo, come succede per la finanza attuale, ma anche per motivi ideali.
Tutto ciò chiama in causa anche l’Italia, i cui legami con la Cina sono cresciuti sia in termini di commercio estero, sia per l’interesse cinese a investimenti in Italia che vanno dalle squadre di calcio alle autostrade e ai porti (elementi non trascurabili della futura «Via della Seta»). A questo punto occorre formulare una domanda che nessun politico e pochi imprenditori o banchieri sembrano volersi porre davvero: in che tipo di mondo vogliamo vivere tra 10-20 anni?

Il Sole 25.5.17

Moody’s declassa la Cina
Primo taglio del rating del debito sovrano da quasi trent’anni
di Rita Fatiguso

PECHINO È dai tempi di Piazza Tian Anmen che Moody’s non tagliava il rating sulla Cina, ma ieri l’agenzia internazionale ha impugnato senza pietà la matita rossa declassando l’economia cinese da Aa3 ad A1, mentre l’outlook passa da negativo a stabile.
La stizza di Pechino non si è fatta attendere. Il ministero delle Finanze, che sta gestendo come può l’eredità scomoda dell’ex ministro riformista Lou Jiwei passato a dirigere il fondo pensioni cinese, ha definito la mossa di Moody’s «basata su un approccio pro-ciclico dei giudizi non appropriato, che sovrastimano le difficoltà dell’economia cinese e sottostimano le capacità della Cina di rafforzare le riforme strutturali sul lato dell’offerta e di espandere la domanda nel suo complesso».
Una sorta di palese excusatio non petita, anche se il giudizio di Moody’s è legato a elementi oggettivi e ben noti, come il rallentamento della crescita economica e l’aumento del debito pubblico. Quello del solo governo centrale nel 2018 dovrebbe toccare il 40% del Pil.
Anche la National development and reform commission, braccio armato del Partito comunista per le riforme è scesa in campo ieri, sostenendo che «i rischi del debito sono di norma controllabili dal momento che le misure per tenere sotto controllo il debito corporate hanno raggiunto i primi risultati e che i rischi sistemici del debito sono relativamente bassi».
La mossa di Mooody’s complica le cose per la leadership cinese a metà del guado tra la necessità di sostenere la crescita con l’intervento pubblico e il tentativo di evitare un rialzo del debito, è ancora ben evidente la mole di problemi a cascata che hanno contraddistinto le misure di stimolo che nel 2008 rappresentarono la risposta alla crisi finanziaria globale. Tuttavia Moody’s si aspetta che l’ampio indebitamento nell’economia cresca ulteriormente nei prossimi anni. Il pianificato programma di riforme è probabile che rallenti ma che non scongiuri la risalita del debito. Le politiche di stimolo per mantenere il livello di crescita devono essere sostenibili. Stimoli che comunque innalzeranno il debito nell’economia nel suo insieme.
La crescita, nelle previsioni, resterà relativamente alta, con quella potenziale in caduta nei prossimi anni. Per Moody’s il deficit del budget del governo s’è mantenuto nel 2016 al passo moderato del 3% del Pil, contro aspettative del debito governativo destinato a portarsi verso il 40% del Pil entro il 2018 e al 45% per la fine del decennio. Stesso trend, al rialzo, è atteso per forme di indebitamento come prestiti bancari e bond emessi dai governi locali e le imprese a controllo statale, senza tralasciare le famiglie e società non finanziarie.
Insomma, la pagella è negativa su tutti i fronti e bisognerà vedere se anche Standard & Poor’s (che l’anno scorso non era stata affatto tenera con Pechino) e Fitch seguiranno l’esempio di Moody’s. Ricordiamo anche una curiosità: il primo accordo economico dei 100 giorni tra Trump e Xi ha prodotto una serie di impegni ad aprire il mercato cinese, tra questi c’è anche il via libera in Cina all’operatività delle agenzie di rating straniere.

Il Fatto 25.5.17
Dopo lo sciopero
L’Unità ritorna. I giornalisti: la guerra non è finita

“L’Unità torna in edicola. Eravamo entrati in sciopero a oltranza per difendere i nostri diritti e la nostra dignità professionale. Ci siamo battuti per respingere due ricatti: quello salariale e il ricatto dei licenziamenti collettivi”. È quanto scrive il comitato di redazione (cdr) dell’Unità. “Per questo abbiamo scioperato per 7 giorni – prosegue il cdr -. Perché l’Unità, il giornale dei lavoratori, non divenisse l’apripista per lo stravolgimento, nel campo dell’editoria, di diritti contrattuali e costituzionali. Abbiamo rigettato l’odioso baratto tra salari e diritti. La determinazione e la compattezza della redazione ha ottenuto due primi, importanti risultati: il pagamento delle retribuzioni e l’impegno del rientrante direttore Sergio Staino a non firmare lettere di licenziamento. Per questo torniamo al lavoro e il giornale in edicola da domani (oggi, ndr)”. “La nostra lotta non è finita – proseguono i giornalisti –. Chiediamo che si riapra un tavolo per discutere con la proprietà e la direzione giornalistica un piano industriale ed editoriale finalizzato al rilancio del giornale, sia sul cartaceo che online”.