Repubblica 27.5.17
Tutti sulla giostra dell’ipocrisia
di Michele Ainis
LE
LEGGI elettorali dovrebbero servire per scegliere il nuovo Parlamento;
in Italia, viceversa, servono a sciogliere il vecchio Parlamento.
Accadde già con il Mattarellum, sta per succedere di nuovo. All’epoca
(16 gennaio 1994), Scalfaro scrisse una lettera ai presidenti delle
Camere, motivando lo scioglimento anticipato attraverso l’esigenza che
quella riforma elettorale fosse «in concreto applicata ». E adesso? Va
in onda la fiera delle ipocrisie. Sicché quanti vogliono stirare la
legislatura fino alla sua scadenza naturale — per intascare il vitalizio
o per altre nobili ragioni — traccheggiano sulle nuove regole del voto,
pongono ostacoli, sollevano obiezioni; gli altri, o meglio l’altro
(Renzi), un giorno sbuffano, il giorno dopo abbozzano, ma sempre con il
retropensiero opposto.
Dissimulare è virtù di re e di cameriera,
diceva Voltaire. In questo caso la simulazione inizia dal nome della
rosa, pardon, del Rosatellum. È l’ultimo latinetto usato per etichettare
la riforma dell’Italicum, dopo il Provincellum, il Legalicum, il
Verdinellum. Diciamolo: non se ne può più. Questo virus nomenclatore
offende la memoria di Giovanni Sartori (cui si deve il copyright del
Mattarellum), si traduce in un esercizio ormai stucchevole, infine
contribuisce a rendere più astrusa una materia che già di suo farebbe
impazzire un astrofisico. A meno che non sia esattamente questa
l’intenzione di lorsignori: affumicare gli italiani con un fumus
semantico, per impedirgli d’osservare la pietanza che sta cuocendo in
forno.
Peccato, giacché deve trattarsi d’una ricetta prelibata, a
giudicare dai tempi di cottura. Quattro mesi, ma a quanto pare il cibo è
ancora crudo. La Consulta dichiarò la bocciatura dell’Italicum alla
fine di gennaio; il 9 febbraio ne rese note le motivazioni; a quel punto
tutti i partiti presentarono progetti di riforma, ingolfando la
commissione Affari costituzionali della Camera; la maggioranza di
governo s’impegnò a timbrare un testo da portare in aula il 27 marzo;
c’era però da attendere il congresso del Pd, sicché scattò un rinvio;
poi fu rinviato anche il rinvio, fissando la data improrogabile del 29
maggio; infine il termine è slittato di un’altra settimana, fino al 5
giugno: la proroga al quadrato. Nel frattempo cambia il relatore (da
Mazziotti a Fiano). Girano le alleanze (ora Renzi ha trovato una sponda
nella Lega). E soprattutto cambia il menù, insieme ai commensali.
L’ultima
versione consiste in un sistema anfibio, che non esiste da nessuna
parte al mondo. Né maggioritario, né proporzionale, o meglio tutt’e due:
un maggiorzionale. L’evoluzione della specie rispetto al Mattarellum,
che s’iscriveva pur sempre in una logica maggioritaria, benché temperata
dal 25% dei seggi assegnati in proporzione ai voti. Stavolta, invece,
il proporzionale genera il 50% dei parlamentari, mentre l’altra metà
sbuca da collegi uninominali. È il verdetto di re Salomone, che ordinò
di tagliare in due il bambino conteso da due madri. Ed è inoltre la
decisione perfetta, forse l’unica possibile, per un Paese incapace di
decidere: non per nulla, il primo presidente della Repubblica italiana
fu un monarchico (Enrico De Nicola). Ma a quale prezzo? Con un sistema
elettorale fondato sull’ossimoro, c’è il rischio di sommare i difetti
del proporzionale (scarsa governabilità) agli svantaggi del
maggioritario (scarsa rappresentatività).
Sennonché non è certo la
coerenza a guidare le scelte dei partiti. La vera posta in gioco sta
nelle alleanze che scaturiranno dalla nuova legge elettorale, sta nella
speranza di far rivivere l’Ulivo o di riesumare il Pdl, sta
nell’opportunità di coalizioni variabili da una contrada all’altra, come
per l’appunto consente il Rosatellum. È questo il secondo fine da cui
muove ciascuna trattativa, anche se ovviamente non viene mai
manifestato, come d’altronde il nesso fra l’approvazione della legge e
la durata della legislatura. Tuttavia le alleanze, i rapporti di
consanguineità fra i vari partiti, non possono dipendere da un
marchingegno elettorale. Costituiscono l’essenza dell’agire politico, la
sua visione programmatica. Se quest’ultima s’immiserisce in calcoli
puramente strumentali, magari può accadere che alla fine della giostra
vinca chi si coalizza soltanto con se stesso: i 5 Stelle. Dai secondi
fini all’eterogenesi dei fini.