martedì 23 maggio 2017

La Repubblica, 22.5.2017
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TORINO, IL SEGRETO PER VINCERE IL DERBY DEL LIBRO
Di Paolo di Paolo


Dal Salone del Libro a fabbrica dell'entusiasmo. Prima ancora che dei numeri, sarebbe più giusto parlare di un clima, di un'atmosfera: la trentesima edizione dell'evento editoriale di Torino, che si chiude oggi, è stata — non trovo un altro aggettivo — straordinaria. E dire che nell'autunno scorso sembrava quasi una partita persa: i guai finanziari, la scissione fra grandi e piccoli editori, il lancio della nuova fiera di Milano. Il gruppo di lavoro guidato da Nicola Lagioia, l'incredibile calore dei lettori, l'orgoglio dei torinesi, l'allegria degli addetti ai lavori, perfino dei più apatici, hanno fatto la differenza. Senza dubbio, lo stesso derby fra le due capitali del libro ha dato al vecchio Salone la spinta e il pretesto per rinnovarsi, per non lasciare inserito il pilota automatico. La più rodata partecipazione degli studenti non basta comunque a spiegare le code viste già nel giorno di apertura; né il consolidato rapporto con il territorio motiva da solo un'affluenza tanto decisa e ampia. C'è piuttosto da tenere in conto quel sovrappiù di determinazione, di convinzione in un'impresa collettiva che in questi anni, da noi, è mancato quasi sempre. Cause? La nebbiolina insopportabile del disincanto. Il cinismo ironico di chi tiene le braccia conserte. L'aria spavalda di quelli che la sanno lunga da subito. Al Lingotto, mi pare, si è puntato sull'esatto contrario. Ormai trentenne, il Salone ha ricominciato daccapo senza ricominciare da zero. Ha così dimostrato che una comunità non si improvvisa — e che per tenerla viva, per allargarla, ci vuole un patto trasparente, onesto. Nessuno, credo, ha sentito la mancanza dei grandi gruppi editoriali assenti, gli scissionisti sdegnosi, ma è comunque opportuno che tornino l'anno prossimo, e soprattutto che riacquistino lucidità. Inventarsi una seconda fiera a centocinquanta chilometri e tre settimane dall'altra — ora risulta indiscutibile — non aveva senso. Ciò non toglie nulla al buon lavoro fatto dai curatori della fiera a Rho, Tempo di Libri, ma rende tangibile l'errore di chi l'ha ideata. E non è nemmeno vero — come molti ripetono, fingendo di non conoscere i dati reali — che basta moltiplicare indiscriminatamente i saloni, gli eventi, per moltiplicare i lettori. La cosiddetta promozione della lettura è una strada più impervia di quella degli slogan retorici, dei campanili, delle prove di forza aziendali. Un Salone del Libro, un evento culturale in genere sta in piedi per ogni singolo cittadino a cui si rivolge, non per fare da specchio al potere di un marchio o di un'associazione di categoria. A Milano, adesso, basterebbe ripartire dalle esperienze già esistenti di Bookcity e di Bookpride; a Torino conviene proseguire su questa strada, non far di nuovo lievitare i prezzi degli stand e rinnovare ancora. Può contare su un ottimo bilancio, un bilancio direi "emotivo" prima ancora che economico. Non c'entra il conteggio dei biglietti, o non solo. C'entra però la coppia che ha preso un treno da Lecce, come ogni anno per trent'anni. C'entra un signore che si è avvicinato a uno scrittore, per dirgli: «Io non so nemmeno chi lei sia, ma volevo dirle che è stato bello ascoltarla» (ero a pochi centimetri, l'ho sentito con le mie orecchie, e non voleva l'autografo: l'alternativa al culto delle star esiste). C'entra la ragazza, meno che ventenne, che allo stand dell'usato cercava Furore di Steinbeck per arrivare pronta al reading che ne avrebbe fatto Alessandro Baricco. C'entra la signora che, alla fine di un incontro, mi ha detto che sì, aveva ragione la scrittrice, la gentilezza è una forma di resistenza, ed è una grande stupidaggine pensare che i buoni soccombono sempre. C'entra chiunque abbia deciso di passare qualche ora a sentire parlare di libri, a comprarli, a farsi qualche domanda in più. C'entra anche il bambino che venerdì mattina mi ha chiesto: «Ma qui fate tutti gli scrittori? Non vi piacerebbe fare i giardinieri? ». Confesso che non ho saputo cosa rispondere, ma una domanda così vale molti Saloni fatti e da fare. ©RIPRODUZIONE RISERVATA